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13 dicembre 2023

Marino Valentini, Avvistamenti degli Ufo in Abruzzo.


Avvistamenti degli Ufo in Abruzzo
di Marino Valentini


Esattamente 45 anni fa Chieti e l'Abruzzo vennero visitati dagli alieni.
Verso la fine degli anni ’70 il mondo trattò, parodiando il famoso Triangolo delle Bermude , il fenomeno del triangolo italiano extraterrestre che si trovava nella nostra regione ed anche Chieti fu interessata da questo inspiegabile caso.
Il triangolo si estendeva dalle coste meridionali delle Marche fino a quelle dell'Abruzzo chietino, avendo come vertice il Gran Sasso. Strani episodi si registrarono a cadenza giornaliera, avvistamenti nel cielo e nel mare di globi luminosi, di colonne colorate d'acqua che si alzavano per venti metri, addirittura pure la morte di due esperti marinai affondati al largo di Martinsicuro col loro peschereccio, il cui decesso non venne mai chiarito per quali cause, certamente non per annegamento, fenomeni magnetici inspiegabili con radar oscurati, bussole impazzite strane interferenze sulle tv e sugli apparecchi radio, non solo quelli civili ma anche quelli ad uso delle forze dell'ordine, insomma fatti inspiegabili si registrarono un po' in tutta la Regione, Chieti compresa: era il 1978 e fu l'anno degli Ufo in Abruzzo.
Gli episodi furono tantissimi e forse è il caso di ricordare quelli che riguardarono la nostra città, soprattutto negli ultimi mesi dell'anno, tenendo presente che i fenomeni poi si arrestarono di colpo ma gli "alieni" torneranno negli anni successivi, anche nel secolo attuale, a visitare la città di Achille.
Intanto è importante la testimonianza di José Maria Alegre, un giornalista spagnolo di un giornale catalano che il suo redattore di Barcellona mandò in Abruzzo per scoprire cosa accadeva in questa parte d'Italia, al centro dell'attenzione mondiale sugli avvistamenti di Ufo.
Alegre stabilì la propria base operativa proprio a Chieti, dove un nostro concittadino lo ospitò; il giornalista era uno scettico ed arrivò in Abruzzo per fare un reportage pensando trattarsi di fenomeni naturali che solo l'autosuggestione e una voglia di protagonismo accreditavano come di derivazione aliena, ma sarà a ricredersi. Il reporter spagnolo cominciò ad interrogare le persone e i pescatori e venne colpito da una caratteristica comune in tutti gli intervistati: la paura nel narrare quei fatti.
A fine novembre Alegre si trovava sul balcone di un condominio di Chieti perché il suo amico gli aveva assicurato che da diverse sere assisteva ad avvistamenti di luci in movimento nel cielo di Chieti e forse gli stessi fenomeni avrebbero potuto replicarsi anche in quella sera.
Infatti arrivarono puntuali i viaggiatori dello spazio e Alegre, armato di macchina fotografica, teleobiettivo e attrezzatura capace di scattare anche foto ad infrarossi, fotografò gli ufo di Chieti, foto che poi vennero pubblicate sul Catalunya Expres di Barcellona. Il giornalista, nonostante l’iniziale suo scetticismo, si dichiarò impressionato dagli avvenimenti abruzzesi e dall'avvistamento avvenuto davanti al suo teleobiettivo; ecco la sua testimonianza pubblicata sul giornale: «Mi trovavo a casa di un amico di Chieti (Abruzzo) che mi aveva invitato per farmi assistere al fenomeno poiché lui lo aveva già osservato con un binocolo. Oltre al padrone di casa e a sua moglie vi erano altre quattro persone in casa. Non erano stelle. Lo posso dire con certezza perché nel luogo dove mi trovavo potevo osservare chiaramente dei movimenti molto lenti ma evidenti. Erano due oggetti luminosi ad una distanza considerevole e che mi fu possibile fotografare con il teleobiettivo. Al principio erano di un colore chiaro e di intensità variabile, a volte notevole. Entrambi presentavano dei riflessi rossi e verdi ugualmente intensi ma l'alternanza di questa mutazione dei colori non era regolare».
Di seguito si riportano le testimonianze di avvistamenti avvenuti nel cielo di Chieti: alle 22:30 del 13/11/78, il centralino del 113 di Chieti cominciò a registrare numerose chiamate di cittadini che segnalavano avvistamenti di oggetti volanti non identificati. Il maresciallo di PS Formichetti e l'appuntato Chiola, in servizio notturno presso la sala operativa, nel palazzo della Prefettura di Chieti, si recarono nella stanza più alta e panoramica. Notarono qualcosa di luminoso nel cielo, sospeso in lontananza in direzione nord-est, approssimativamente sulla perpendicolare di Silvi Marina, che emetteva fasci di luce di differenti colori, alternativamente: sembrarono segnali dettati, tipo linguaggio Morse. I colori di questi fasci mutarono dal blu al viola, al rosso e al giallo.
Contemporaneamente notarono un altro oggetto in direzione Gran Sasso, molto più visibile dell'altro, che emetteva fasci molto intensi di luce tra il giallo chiaro ed il bianco. Nel frattempo l'oggetto sul mare cominciò a muoversi verso sud est. Tali avvistamenti continuarono ad essere avvertiti dalla popolazione di Chieti per tre/quattro notti di seguito e tantissimi testimoniarono i fatti, tra i quali il Dott. Verdenelli, corrispondente de Il Messaggero che scattò alcune foto in bianco e nero pubblicate sul suo quotidiano; lo stesso oggetto venne osservato anche dal giornalista Maurizio Pervenegri dello stesso giornale, che curò un altro articolo a sua firma.
Ma è dicembre il mese degli avvistamenti su Chieti, sin dal primo giorno quando venne avvistata una coppia di corpi celesti che cambiarono colore, spostandosi lentamente in direzione di Venere, il 5 notte alcuni giovani, che si trovavano lungo una strada della periferia di Chieti, avvistarono un disco luminoso che atterrò a poca distanza da loro per poi ripartire velocemente.
Il 12 dicembre il prof. Antonio Campana (da me conosciuto personalmente, per il quale posso mettere le mani sul fuoco sulla sua assoluta onestà e serietà), alle ore 10 avvistò a Chieti per parecchio tempo una sfera luminosa che emetteva fasci di luce intensa. Nella notte dello stesso giorno il giornalista Massimo Pirozzi avvistò a Chieti un oggetto luminoso in direzione est (mare) che si spostava rapidamente verso sud, per poi scomparire di colpo subito dopo aver virato verso est.
Nella stessa notte alcuni testimoni osservarono a Chieti un gigantesco oggetto che descrissero come un "palazzo illuminato" che si sollevò in cielo verso il Gran Sasso. Tra le 6 e le 6:30 del 13 dicembre il corrispondente de Il Tempo Giampiero Perrotti osservò e fotografò un oggetto luminoso in lento movimento da Sud est a Nord Ovest. Nella notte tra il 17 e il 18 dicembre un ragazzo di 14 anni di Chieti (Mauro Pettinelli) avvistò e fotografò da casa sua un corpo luminoso avente l'aspetto di una grossa macchia ad ellisse emanante luci colorate.
Il 18 dicembre da Chieti diversi cittadini notarono un corpo luminoso sferico in cielo circondato da un alone, in quel momento il direttore della sede Rai di Pescara, Edoardo Tiboni, assistette allo stesso fenomeno notando che l'oggetto si era nel frattempo posizionato sulla verticale delle antenne Rai di San Silvestro.
Dopo dicembre gli avvistamenti cessarono ma gli ufo fecero ritorno nell'estate successiva, quando il 7 agosto del 79 alle 11:30 un paio di pattuglie della squadra mobile di Chieti, avvisate dalla centrale operativa che aveva ricevuto numerose telefonate dai cittadini, avvistarono sulla verticale di Chieti Scalo un oggetto luminoso che sprigionava scintille: il fenomeno durò circa mezzora.
Gli altri avvistamenti: 4/9/85, verso mezzogiorno due studenti fotografarono un oggetto discoidale con cupola che si spostava rapidamente sul cielo di Chieti. 2/8/87, alle ore 1:15 a Chieti due giovani, che si trovavano all'aperto, di notte guardarono in cielo, vedendo passare un oggetto sferico giallo con scia rossa che si diresse veloce verso il mare, rimanendo visibile per almeno mezzo minuto.
27 gennaio 93, ore 22, diversi cittadini di Chieti videro sul versante chietino della Majella un lampo luminoso, poi una scia luminosa che si alzava in cielo, come un razzo di segnalazione, alzandosi ed abbassandosi per alcuni secondi prima di scomparire. La stessa scena venne testimoniata da cittadini di Guardiagrele, Rapino e Pennapiedimonte e perfino da chi in quel momento percorreva l'autostrada; c'è chi adombrò il sospetto che si sia trattato di un "lampo sismico", un fenomeno naturale simile all'aurora boreale ma certamente più raro di un avvistamento di ufo.
15/9/95, ore 11:30, un commerciante di Chieti Scalo e un suo cliente osservarono stupiti in cielo dalla vetrata del negozio una luce discoidale intensissima, di un bianco accecante, che dopo aver cambiato forma diventando una specie di palla, aveva compiuto alcuni movimenti, allontanandosi in meno di un minuto.

Dalla pagina FB dell'autore

8 dicembre 2023

Marino Valentini, 8 Dicembre, l'Immacolata Concezione.




L'8 dicembre 1854 papa Pio IX proclamò al mondo intero il dogma dell'Immacolata Concezione, ossia il principio cattolico secondo cui Maria, futura Madre di Gesù, fosse stata concepita e poi nata senza il peccato originale. Ma come nacque il convincimento del pontefice a proclamare la bolla Ineffabilis Deus, quale verità incontrovertibile della Chiesa? A Napoli sono tuttora convinti che il dogma partì dalla città partenopea ed infatti è vero che quando il pontefice si recò nella capitale borbonica nel settembre del 1849 a pregare nel santuario del Gesù Vecchio, al cospetto della prodigiosa immagine dell'Immacolata che era ritenuta miracolosa, come lo è ancora oggi, dopo alcuni giorni il clero napoletano consegnò nelle mani del pontefice una sorta di petizione con la quale si chiedeva una accelerazione della proclamazione del concepimento immacolato della mamma del Salvatore. Molti però ignorano che l'istanza per convincere il Papa a proclamare il dogma partì invece da Chieti, circa cinque mesi prima, quando l'arcivescovo teatino Mons. Saggese inviò il voto a Pio IX, affinché si potessero manifestare "i lumi celesti per definire dogmaticamente la Concezione Immacolata dal primo istante della gloriosissima Madre di Dio". Il Votum del presule teatino pro B.M.V Conceptione dogmatice immaculata definienda as Pium IX P.O.M. era un ricco opuscolo composto da un'introduzione e sei capitoli che elencavano le dotte questioni sulla necessità di elevare a dogma la prerogativa mariana. Il documento, che in calce recava la firma del presule teatino con luogo e data Teate die quintamaji 1849, ebbe il privilegio di girare in tutto l'episcopato italiano per essere condiviso dai vescovi dell'intera penisola che diedero la loro formale adesione, prima che l'istanza, con le erudite motivazioni teologiche della definizione dogmatica, potesse giungere tra le mani del pontefice.
Mons. Saggese ben sapeva di aprire il cuore del papa all'accoglimento di tale supplica, conscio delle preghiere che lo stesso Pio IX aveva speso per chiedere l'intercessione della Vergine Immacolata per un suo pronto rientro a Roma, durante l'esilio forzato di Gaeta, al tempo della mazziniana Repubblica romana.


Nella foto, la statua dell'Immacolata nella chiesa di San Giovanni Teatino, riprodotta nella apocalittica visione di San Giovanni Evangelista.

12 maggio 2023

Il processo dei Templari in Abruzzo contro frate Cecco Nicola da Lanciano e frate Andrea da Monteodorisio, 1305.

Il processo dei Templari in Abruzzo contro frate Cecco Nicola da Lanciano e frate Andrea da Monteodorisio, 1305

di Angelo Iocco e Marino Valentini

Nell’immaginario collettivo il venerdì 13, per gli scaramantici, è il giorno da evitare per l’assunzione di decisioni rilevanti e per fare qualsiasi cosa d’importante, perché è il giorno iellato per eccellenza. Molti ritengono che questo giorno maledetto sia da legare all'infausto venerdì 13 ottobre 1307, quando Filippo IV “il Bello” di Francia diede l’ordine di arrestare tutti i templari presenti nel suo regno. Ma come si arrivò a tale decisione e perché?

Intanto va detto che l’Ordine dei cavalieri templari, in circa due secoli dalla sua costituzione, aveva accumulato così tante ricchezze, da diventare un innegabile strumento di potere economico e politico in Europa. Allo stesso tempo il re di Francia si trovava a fronteggiare una pesante situazione finanziaria, ereditata dal predecessore, fortemente incisa da un indebitamento tale da far svalutare la moneta del Paese. Di fronte a siffatta situazione, il sovrano pensò bene di risolvere il problema delle finanze e risanare le casse di Stato, guardando nell’orto dei templari, verso i quali si trovava in uno stato di preoccupante indebitamento, a causa di prestiti contratti anche da chi lo aveva preceduto.

Bisognava trovare però un pretesto per incastrare l’ordine monastico e lo stesso venne offerto da un cavaliere pentito (sic!) che avallò le voci e le dicerie che da tempo circolavano sulle strane usanze dei templari. Filippo diede credito al fuoriuscito dall’Ordine e vennero pronunciate le prime tre formali accuse:

1) IL RINNEGAMENTO DI CRISTO E GLI SPUTI SULLA CROCE (ERESIA);

2) L’OMOSESSUALITÀ E LA SODOMIA (SODOMIA);

3) L’ADORAZIONE DI IDOLI (IDOLATRIA).

 

La caduta dei Templari sotto Clemente V

Con la perdita di San Giovanni d'Acri, i cristiani furono costretti a lasciare la Terra Santa. Nemmeno gli ordini religiosi poterono evitare tale esodo e i Templari scelsero di ripiegare verso Cipro dove insediarono la loro sede centrale. Tuttavia, una volta che questi ebbero abbandonato la Terrasanta, con pochissime probabilità di poterla un giorno riconquistare, in occidente sorse la questione dell'utilità dell'Ordine del Tempio il cui scopo originario per cui erano stati fondati, difendere i pellegrini diretti a Gerusalemme sulla tomba di Cristo, si era oramai reso irrealizzabile.

Per diversi decenni, il popolo aveva percepito i cavalieri anche come signori orgogliosi e avidi, che conducevano una vita disordinata (le espressioni popolari "bevi come un templare" o "giura come un templare" sono rivelatrici a questi sintomi), tanto che dal 1274 al concilio di Lione II i più alti dignitari dell'ordine dovettero produrre un libro di memorie per giustificare la loro esistenza. Abitualmente si parlava dei Templari come di un covo di eretici e di viziosi; voci probabilmente alimentate dal fatto che molti peccatori erano in effetti approdati all'Ordine per riceverne protezione a fronte di un, non sempre sincero, pentimento.

Papa Clemente V

7 ottobre 2022

Accadde oggi: 7 ottobre 1571, la battaglia di Lepanto.


Accadde oggi: 7 ottobre 1571, la battaglia di Lepanto
di Marino Valentini

Il 7 ottobre è una data memorabile perché è la ricorrenza della battaglia di Lepanto, significativa anche per Chieti e le popolazioni della costa abruzzese che negli anni precedenti lo scontro navale erano state bersagliate dalle orde saracene che arrivarono fin nell'entroterra chietino. 
Questi i fatti.
Estate 1571, termina l'assedio di Famagosta che cede al culmine di 12 lunghissimi mesi di privazioni, con gli ottomani che occupano l'isola di Cipro dopo essersi abbandonati a crudeltà gratuite sulla popolazione dell'allora possedimento veneziano. 
Nel frattempo diverse potenze cristiane, dopo aver preso contezza delle atrocità perpetrate a Cipro, decidono una buona volta di allearsi contro la preoccupante minaccia dell’avanzata dell’impero ottomano e dell’Islam in generale e così, sotto il nome di Lega Santa, 210 navi salpano dai rispettivi porti per incontrarsi il 24 agosto 1571 nei pressi di Messina, per poi muovere il 16 settembre verso oriente nel Mar Ionio davanti alla Grecia.
In soccorso di Venezia viene armato uno scafo tutto teatino, al comando dei capitani Giuseppe Persiani e Pietro Gasbarri. 
La nave, una galea veneziana, è composta da duecento cittadini di Chieti e trecento della sua provincia (Abruzzo Citeriore), tutti volontari. 
Va precisato che i teatini, non vantando attitudini marinare, sembrano penalizzati dall’imminente scontro, ma così non sarà e non pochi volontari sono famigliari congiunti di quei cittadini che cinque anni prima erano stati barbaramente uccisi o catturati sulle coste abruzzesi nell’incursione saracena dell’estate del 1566. 
Gli uomini che salgono sullo scafo chietino sono animati da spirito di rivalsa verso i nemici, nondimeno il resto dell’equipaggio nutre un particolare senso di solidarietà nei confronti delle vicine popolazioni, colpite dalle orde musulmane. 
Di questo equipaggio avrebbe dovuto far parte anche il poco più che ventenne Camillo de Lellis, all’epoca soldato al servizio di Venezia, prima che indossasse il saio, ma una grave infermità lo aveva costretto in un letto d’ospedale a Corfù.
Il sei ottobre 1571 la flotta della Lega Santa si trova riunita davanti al Golfo di Patrasso per intercettare l’armata turca che, salpata dai diversi porti dell’impero, sta facendo rotta verso il piccolo porto di Lepanto, nello stesso golfo, ma non rimane lì preferendo scontrarsi in mare aperto: tale mossa si rivelerà fatale per i turchi. 
Ci si accorge subito che la flotta turca supera quella cristiana per numero di uomini e imbarcazioni, ma il numero di cannoni e la loro qualità sono decisamente a favore della Lega Santa e questo particolare farà poi la differenza.
Va ancora rilevato che gli armamenti individuali dei due schieramenti sono del tutto diversi: all’equipaggiamento leggero dell’ottomano, armato di spada, arco con frecce, balestra e mazza ferrata, fa da contraltare l’armamento del combattente cristiano che, difeso da corazza metallica, dispone di archibugio; pertanto i turchi sembrano avvantaggiati solo in caso di combattimento ravvicinato, ancor meglio nel corpo a corpo, circostanza che non avverrà, se non di rado, data l’impossibilità di abbordare le pesanti e alte galeazze, disposte nel conflitto a breve distanza di tiro proprio al centro della flotta turca. 
Quello delle galeazze, vere e proprie fortezze acquatiche che possono sparare da ogni lato, al contrario delle più piccole galee la cui artiglieria è posta solo a poppa e a prua, rappresenta un'assoluta novità per tutti, alleati e nemici, visto che il tipo di nave è stato da poco varato in gran segreto nell’arsenale veneziano.
É un escamotage per spostare l’attenzione del grosso delle imbarcazioni turche contro queste sei navi più grandi, mentre le altre galee cristiane possono aver vita facile nel cannoneggiare i musulmani.
La galea teatina non arriva alla lunghezza di cinquanta metri, dotata di un centinaio di remi a ognuno dei quali vengono impiegati 3 o 4 uomini, una ventina dei quali sono galeotti (derivato dal nome dell'imbarcazione) prelevati dal carcere teatino, è equipaggiata con cannoni di piccolo/medio calibro posti nella parte anteriore e in quella posteriore dello scafo. 
La nave comandata da Persiani, battendosi con impeto travolgente, si distingue a supporto della parte sinistra della battaglia dove prende le redini dello scontro l’ammiraglio veneziano Agostino Barbarigo. 
Ciascuno degli archibugieri teatini, nel ferire mortalmente un ottomano grida ad alta voce il nome di un conterraneo catturato o ucciso nell’estate del ’66. 
Ciò dà sprone all’equipaggio chietino che trova accresciuto stimolo e forza nel morale per il prosieguo dello scontro.
Sono ormai le quattro pomeridiane del 7 ottobre 1571, la sanguinosa battaglia navale con oltre quarantacinquemila uomini, tra morti e feriti, ha da poco avuto termine e l’epilogo arride alla flotta cristiana. 
Il comandante in capo della Lega Santa, il giovane don Giovanni d’Austria, innalza sull’albero maestro della sua ammiraglia lo stendardo della vittoria della cristianità sull’Islam, ossia un drappo rosso damascato, su cui è dipinto il Redentore crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo. 
Dalle galee vincenti si alza un’unanime invocazione divina rivolta alla Cristiana Vittoria al grido di Viva Maria! 
Anche dall’imbarcazione teatina, a voce alta, si leva la medesima esclamazione, intervallata dal grido Viva Giustino, a ricordo dell’assedio turco alla città di Chieti avvenuto più di 500 anni prima, risoltosi con l’affermazione chietina, grazie all’intercessione miracolosa di San Giustino. 
Tutte le galee della flotta vincitrice issano sui propri alberi i loro vessilli d’appartenenza; tra i tanti, di colore rosso, giallo e bianco, se ne distingue uno di colore azzurro che garrisce al vento della tempesta in arrivo, stagliandosi nell’orizzonte vittorioso delle nubi di Lepanto: esso reca l’immagine di Achille a cavallo.

Tratto da "Romanzo bigotto" di Marino Valentini.

25 settembre 2022

Marino Valentini, Pescara - Chieti derby anni ‘50.


Pescara-Chieti derby anni ‘50
di Marino Valentini

Tra il Pescara ed il Chieti c’è stata, fin dagli albori del calcio abruzzese, una grande rivalità calcistica e territoriale e già agli inizi degli anni ’50 questo antagonismo era diventato una guerra santa, dovuta certamente alla vicinanza tra le due città. Tale circostanza determinava derby accesissimi ed intensi sfottò che potevano durare mesi, tra un confronto e l’altro.
Nella storia del derby d’Abruzzo merita di essere citato, per fatti che sfiorano solo marginalmente il calcio giocato, quello disputato in quarta serie il 13 marzo 1955 al vecchio stadio Rampigna di Pescara, per i singolarissimi fatti che precedettero il match e che tennero col fiato sospeso i tifosi di ambo le fazioni.
L’11 marzo un giornalista RAI del Gazzettino dell’Abruzzo e Molise delle ore 12,10 (quello che aveva come spot d’apertura il cinguettìo di una ciacciacòla) comunicò questa notizia prima di tutte le altre: “Nella mattinata il giocatore Mario Tontodonati, capitano del Pescara è stato preso in ostaggio da un gruppo di persone tuttora sconosciute.”
Lo stesso corrispondente alla fine del giornale radio locale, nello spazio delle notizie sportive, diede altri particolari dell’accaduto: “Il giocatore Mario Tontodonati rischia di non scendere in campo per disputare il derby col Chieti che si giocherà domenica prossima al campo Rampigna. Pare che sia stato sequestrato da alcuni sconosciuti, con una scusa, mentre usciva dalla sua tipografia in via Trento. Non ci sono altri particolari”.
Era venerdì, quindi mancavano solo due giorni alla partita.
La prima cosa che pensarono i pescaresi era che domenica senza Tontodonati non si sarebbe potuto vincere, dato che il centravanti biancazzurro originario di Scafa era il leader dell’undici dannunziano e icona calcistica dei suoi tifosi, visti i suoi trascorsi in serie A con le maglie della Roma, del Torino e del Bari.
Negli ambienti della città costiera la gente non parlava altro che di questo episodio. Chi sosteneva che era uno scherzo, chi diceva che non era vero niente. “Chi sarà stato? Perché l’avranno fatto?” queste erano le domande più ricorrenti che la gente si faceva. Così come i titoli degli organi di stampa del sabato, a grandi lettere, nelle pagine di cronaca locale. I tifosi pescaresi, saputo quanto accaduto, già dal mattino di sabato si erano riuniti, alcuni davanti al Bar Tempera, angolo corso Umberto I, altri davanti al Bar D’Alessandro, per discutere di questo grave fatto e pensare cosa e come fare per risolvere la non piacevole situazione.
Si brancolava nel buio.
Il giorno dopo, sabato 12, il giornalista RAI del Gazzettino regionale, comunicando le notizie alla radio, ipotizzò che il sequestro di Tontodonati fosse stato opera di alcuni studenti universitari di Chieti.
Nel pomeriggio, forse per una soffiata, ci fu la conferma che l’operazione sequestro era stata portata a termine da un gruppo di studenti di Chieti che avevano attirato il centravanti con un tranello e poi l’avevano legato, imbavagliato e portato a Chieti, recluso in una “prigione d’oro” con tutte le attenzioni e cure che si riservano ai nemici di riguardo.
Il commando di ignoti studenti teatini fece sapere con un volantino che avrebbero liberato l’ostaggio solo dopo la partita tra il Pescara ed il Chieti. Nel frattempo un gruppo di loro colleghi pescaresi escogitarono una contromossa per indurre i teatini a liberare Tontodonati prima della partita.
Nella tarda serata si recarono alla nostra Villa Comunale e, senza essere notati, s’impadronirono di una gabbia metallica contenente la grossa aquila reale, autentico vanto della nostra città, alla quale i nostri concittadini tenevano tanto. In altri tempi, molto remoti, un simile affronto avrebbe causato una guerra, come quella tra bolognesi e modenesi per una secchia di legno trafugata ma fortunatamente tra pescaresi e teatini si giunse solo alla goliardata.
Tornati a Pescara, con l’ambito pennuto trofeo, fecero sapere ai loro colleghi teatini le condizioni per la riconsegna della gabbia con annesso il rapace.
Esse recitavano: “Rilasciate il nostro capitano Tontodonati prima della partita e noi vi riconsegneremo la vostra gabbia con l’aquila”.
Ci fu un incontro notturno fra le due tifoserie e dopo tante discussioni, vertenti anche su garanzie del tipo Convenzione di Ginevra, si addivenne a un accordo che forzatamente accettarono entrambe.
Lo scambio degli ostaggi doveva avvenire prima della partita e quando già le squadre erano schierate a centrocampo. Il Pescara era sceso in campo con soli dieci giocatori e prima del fischio d’inizio dell’arbitro si videro spuntare dagli spogliatoi del Rampigna le due delegazioni degli universitari formate da 4-5 persone ciascuna.
In quella di Chieti s’intravedeva capitan Tontodonati, già in divisa da calciatore, e tra quella di Pescara si notava l’aquila nella sua gabbia agganciata ad un tubo di ferro che veniva portato a spalla da due studenti.
A centrocampo avvenne lo scambio dei due ostaggi, tra lo sguardo esterrefatto della terna arbitrale e le risa contagiose degli spettatori di ambo le bandiere.
Dopo lo scambio dei gagliardetti e i saluti, con un lungo applauso del pubblico, l’aquila fu portata ai bordi del campo e la partita, tra biancazzurri e neroverdi poté avere inizio. Senza ombra di dubbio e per la prima volta un’aquila poté assistere ad una partita di calcio da bordo campo, con ben 55 anni d’anticipo rispetto all’Olympia della odierna squadra di Lotito.
Il Pescara al termine della contesa, dopo un’accanita gara con rovesciamenti di fronte, si aggiudicò l’intera posta vincendo per 1 a 0 proprio con un gol di capitan Tontodonati, “il sequestrato”. I tifosi pescaresi lasciarono il campo soddisfatti e contenti, mentre i nostri supporter delusi, e con qualche mugugno, presero la Tiburtina per tornarsene a casa. Anche la gabbia e l’aquila, con le ali, la testa abbassate e qualche spiumazzo di troppo per lo stress, presero la via del ritorno per essere di nuovo riposizionate nella Villa Comunale.
Fu una vera iattura perché la compagine neroverde, vincendo quella partita, avrebbe avuto la possibilità di issarsi come capo classifica e invece scese dal secondo al terzo, mentre a fine campionato il Milan del Sud, complice un girone di ritorno non all’altezza di quello d’andata, chiuderà al quinto posto superato anche dai rivali cugini che arriveranno invece terzi.

14 settembre 2022

ACCADDE OGGI: Il 14 settembre del 1524 viene fondato l’ordine monastico dei Teatini.

ACCADDE OGGI
di Marino Valentini

Il 14 settembre del 1524 (tra due anni si festeggerà il mezzo millennio!) viene fondato un ordine monastico da Gaetano da Thiene e dal vescovo di Chieti Gian Pietro Carafa, poi divenuto papa col nome di Paolo IV; oggi l'ordine assume, nell'accezione comune, il nome di Teatini, anche se, in realtà, l'ordine è quello dei Chierici Regolari. 
Ci furono poi altri ordini che assunsero la denominazione di Chierici Regolari e a quel punto fu necessario posporre l'aggiunta "Teatini". Ma pochi sanno che inizialmente non erano chiamati Teatini, bensì Chietini, sempre per il fatto che uno dei co-fondatori aveva retto l'episcopio della nostra città. 
I seguaci di tale ordine erano veramente devoti e osservanti delle ferree regole che si erano imposti, quasi all'esasperazione, tant'è che, come ricorda in un volume di diversi secoli fa l'Accademia della Crusca (che nacque più o meno nello stesso periodo dell'ordine religioso), il nome di Chietino venne dato per dispregio non solo a costoro (i religiosi) ma in generale anche a bacchettoni, bigotti, spigolistri, ipocriti, stropiccioni e chi più ne ha ne metta. 
Quando poi la parola Chietino era divenuta, nel comune parlare, oggetto di derisione, i chierici mutarono la loro "denominazione abbreviata" in Teatini, così come li conosciamo oggi. 
I linguisti poi non si preoccuparono di modificare nei loro vocabolari il termine, rimanendo così anche nei dizionari odierni, dove le parole chietino e chietineria sono tuttora sinonimi rispettivamente di ipocrita e di quell'atteggiamento bigotto, tipico dei chietini (sempre i religiosi), inteso in senso negativo. 
C'è di più, il gran cancelliere dell’imperatore Carlo V, in una lettera indirizzata a Erasmo da Rotterdam nel 1526, distingueva tre partiti all’interno della cristianità: "quelli che, senza voler vedere né sentire nulla, giuravano sul pontefice romano, indifferenti al fatto che governasse bene o male (con evidente riferimento agli irriducibili Teatini), e quelli che prendevano con altrettanta ostinatezza le parti di Lutero: gli uni e gli altri mancavano di discernimento proprio, le loro lodi erano vergognose e onorevoli erano le ingiurie a loro carico. Il terzo gruppo non cercava che la gloria di Dio e il bene dello Stato, e certo sfuggiva tanto più difficilmente alla calunnia; esso ammirava fedelmente Erasmo". 
Vent'anni dopo, con Erasmo morto e sepolto già da un pezzo, il letterato Pietro Aretino, fine ammiratore del teologo di Rotterdam, alludendo all’ipocrita intransigenza dei teatini di Gaetano da Thiene e dell'arcivescovo di Chieti che era a capo dell’Inquisizione romana sin dalla sua nascita nel 1542, pronuncerà le seguenti parole: <Né Chietino mi sento, né Luterano>, dimostrando di non voler accettare gli estremismi opposti della cristianità di allora ma di aderire al partito di centro, quello erasmiano. 
Sempre l'Aretino, nel 1545, in una delle sue lettere, parlando del capo dell'Inquisizione romana, non fa espressamente il suo nome ma lo dipinge con l'epiteto di "Superbo inventore della Chietina setta".
Un ulteriore indizio sul fatto che i chierici si chiamassero inizialmente Chietini è fornito da una lettera al cardinale Gonzaga scritta nel 1541 dal suo segretario Sernini: <I reverendissimi Chietini sono i primi che dicono che gli ignudi in questo luogo non stanno bene a mostrar le cose loro...>. 
Ci si riferisce nientepopodimeno che al michelangiolesco Giudizio Universale che il maestro aveva appena terminato di affrescare sulla volta della Cappella Sistina. 
Michelangelo non aveva lesinato di dipingere santi e sante completamente nudi e ciò non stava bene ai Chietini, col cardinale Carafa in testa, ma nessuno aveva il coraggio di dire all'artista di censurare le "oscenità", ragion per cui si attese la morte del grande maestro, onde non urtare la sua suscettibilità, per coprire le pudenda dei personaggi ritratti nel Giudizio, opera che venne affidata a un allievo di Michelangelo che si preoccupò di mettere le "mutande" ai santi, nell'aspetto che oggi possiamo osservare.
C'è un'ulteriore particolarità che riguarda il cardinal Carafa che veniva chiamato con altro nome dai suoi coevi, quando si trattava di parlar male di lui: Non era più il Carafa ma semplicemente il "Chieti", perché nessuno aveva il coraggio di criticare il capo dell'Inquisizione pronunciandone il suo vero nome. All'epoca, se si voleva evidenziare l'estremo bigottismo di una persona, bastava dirgli: <Sei più Chietino del Chieti!>
Quindi se ancora oggi i chierici seguaci di San Gaetano da Thiene si chiamano Teatini e non Chietini, lo dobbiamo a intellettuali, filosofi e scrittori del calibro di Torquato Tasso, Pietro l'Aretino, Giordano Bruno e Annibal Caro che si divertivano a prendere per i fondelli questi religiosi. In ogni caso la nostra città e i suoi abitanti, allora come oggi, ne pagano lo scotto di una terminologia non proprio decorosa. Anche la lingua francese è con noi impietosa; guardate l'equivalente transalpino di tale terminologia: noi non saremmo altro che dei Cagots e lo siamo da circa mezzo millenio!

27 luglio 2022

Marino Valentini: Nel chietino furono gettate le basi per l’invenzione della TV.


Nel chietino furono gettate le basi per l’invenzione della TV
di Marino Valentini.

Quasi un secolo fa, nell’ottobre del 1925 per l’esattezza, nasceva un’invenzione che avrebbe cambiato il mondo: la televisione.
In quell’autunno l’ingegnere scozzese John Logie Baird riusciva a realizzare la prima trasmissione televisiva dal suo laboratorio alla stanza a fianco. L’immagine trasmessa era il viso di un ignaro fattorino del laboratorio dello scienziato britannico. Tre mesi dopo, nel gennaio del 1926, Baird trasmetteva da una stanza all’altra il viso della sua socia in affari, stavolta alla presenza di studiosi e della stampa: la TV era ufficialmente nata!
Ciò che invece molti ignorano è che se non si fosse combattuta la Prima guerra mondiale, probabilmente l’invenzione sarebbe stata un vanto dell’Italia e del chietino in particolare.
Prima di parlare di questa storia, occorre fare un salto indietro nel tempo fino al 1892, quando dalla famiglia dei baroni Franceschelli di Montazzoli, in provincia di Chieti, nacque Tommaso che sin da giovanissimo si dedicò agli studi di elettronica, perfezionandosi presso il Politecnico di Napoli e nel 1915 lo stesso pubblicò su una rivista nazionale di elettronica le sue importanti ricerche, sotto il nome di teleidografo con e senza fili, un dispositivo in grado di realizzare la trasmissione radiotelegrafica delle immagini che, in concreto, rappresentava un prototipo di TV, ben dieci anni prima che la stessa venisse battezzata.
L’errore del giovane barone Franceschelli, per non aver tutelato da brevetto il dispositivo, ma sarebbe più opportuno parlare di sfortuna, si lega alla quasi contemporanea entrata in guerra del nostro Paese nel conflitto che indusse l’abruzzese, già allievo dell’Accademia navale di Livorno, ad arruolarsi volontario nella Regia Marina e a partire subito per il fronte della guerra marittima in Adriatico, mettendo le sue importanti ricerche al servizio della Patria.
Ad appena due mesi di distanza dall’entrata in guerra dell’Italia, con la flotta italiana impegnata a occupare alcune isole della Dalmazia meridionale e a creare uno sbarramento nel canale d’Otranto, per impedire il passaggio delle navi della Kriegsmarine austro-ungarica, il barone Tommaso Franceschelli, forte delle sue preziose conoscenze, si trovava a Brindisi, poiché adibito al servizio semaforico marittimo: in pratica una stazione di vedetta e segnalazione della marina militare, posta in alto e ben visibile dal mare, munita di apparecchiature radiotelegrafiche, che costituiva il collegamento fra le navi e la terra, per dare e ricevere segnali, informazioni e ordini.
Il 29 luglio 1915 nella stazione di segnalazione semaforica brindisina della Regia Marina, Franceschelli stava perfezionando un dispositivo in grado di inviare immagini via radio telegrafo, in pratica una sorta di odierno fax, ma la torre all’interno della quale stava lavorando, venne bombardata da una nave della flotta austriaca e, mentre la guarnigione italiana stava abbandonando l’edificio, il giovane barone abruzzese, ricordandosi di essere pure tiratore scelto, non esitò a raggiungere la cima del fabbricato per avere una visione migliore al tiro di precisione del suo fucile, ma un paio di granate lanciate dai nemici gli caddero accanto, ferendolo mortalmente al capo e al petto.
Per dirla tutta, Franceschelli aveva effettivamente depositato, contemporaneamente all’entrata in guerra dell’Italia, un regolare attestato di privativa industriale della durata di un anno, che scadeva a fine marzo del 1916, otto mesi dopo la sua morte.
L’Italia e l’Abruzzo perdevano così un valoroso soldato ma soprattutto un geniale inventore e, qualora il barone di Montazzoli fosse sopravvissuto alla Grande Guerra, quasi certamente il mondo avrebbe parlato dell’invenzione della televisione a opera di un figlio della nostra terra d’Abruzzo.

Tratto dal saggio: Romanzo bigotto, di Marino Valentini.

26 luglio 2022

Marino Valentini: L’antiquario Filippo Rega di Chieti.

Head of Jupiter, early 19thcentury, onyx. New York: The Metropolitan Museum, the Milton Weil Collection, 1940. Photo credit: The Metropolitan Museum.

L’antiquario Filippo Rega di Chieti

di Marino Valentini

Forse non sapete che tra il 18esimo e il 19esimo secolo c'era un artista teatino a cui si rivolsero capi di stato e famiglie reali per commissionargli opere d'arte, molte delle quali tuttora sono conservate nei musei di tutto il mondo: il British Museum di Londra, il Pennsylvania Museum di Filadelfia, l'Art Museum di Baltimora, il Metropolitan Museum di New York, il Badisches Landesmuseum di Karlsruhe e tanti altri ancora. Il nostro concittadino si chiamava Filippo Rega, figlio di un commerciante di anticaglie a Chieti che fu costretto a emigrare a Napoli, quando il negozio di famiglia chiuse i battenti a causa di errati investimenti che provocarono la bancarotta. 

Head of a nereid, early 19thcentury, beryl. London:
The British Museum. Photo credit: The British Museum.

Suo padre riconobbe nel giovanissimo Filippo un'evidente inclinazione verso il disegno e perciò decise di mandarlo in una scuola d'arte romana gestita da un amico di famiglia, Giovanni Pichler che all'epoca era accreditato come il più importante incisore in pietre dure in Europa. Filippo passò una dozzina d'anni a imparare l'arte glittica nel laboratorio romano di Pichler, arrivando a superare per bravura anche il maestro, al punto che lo stesso papa Pio VI gli commissionò alcune opere da destinare al da poco nato Museo Pio Clementino. Dopo dodici anni di soggiorno romano, la famiglia Rega tornò a Napoli dove aprì un nuovo negozio di antichità, mentre Filippo continuava abilmente a intagliare le pietre dure, specializzandosi nella realizzazione di cammei di notevole pregio. Se ne accorse la casa reale borbonica che gli commissionò diverse opere e l'eco della sua bravura risuonò oltre Manica, dove la casa reale britannica e importanti personalità come Horatio Nelson, gli chiesero di realizzare ritratti su cammei. Quando poi i Borboni vennero scacciati da Napoli dagli usurpatori francesi, il neo re napoletano Gioacchino Murat chiese a Rega di realizzare per sé e per la moglie Carolina, sorella di Napoleone Bonaparte, i rispettivi ritratti su pietra dura. Caduto in disgrazia Murat, i Borboni tornarono in possesso del trono napoletano e nominarono il Rega incisore di corte e direttore della zecca napoletana. C'è poi un curioso episodio che riguarda gli ultimi momenti di vita di Murat. Quando il deposto re fu portato davanti al plotone d'esecuzione a Pizzo Calabro, lo stesso chiese all'ufficiale che comandava i militari incaricati di fucilarlo: <Mirate al petto, risparmiatemi il viso!> Nell'invocare tale richiesta, Murat tirò fuori dalla tasca il cammeo di Rega con l'immagine di Carolina per portarla alle labbra e baciarla, mentre i soldati lo colpivano a morte.

Portrait of Lady Emma Hamilton, early 19th century, vitreous paste cameo. London: National Maritime Museum. Photo credit: National Maritime Museum.

Sono di Filippo Rega le teste incise sulle monete napoletane, tanto di Murat, quanto di Ferdinando IV. Il nostro concittadino poi si distinse nella realizzazione di medaglie celebrative nel periodo borbonico. Tra le sue opere più importanti vi sono: il Ritratto di Ottaviano Augusto, il Ritratto di Pio VII, il Ritratto di Sua Altezza Reale Ferdinando I, il Ritratto di Sua Altezza Reale Francesco di Borbone, il Ritratto della duchessa d’Austria Maria Clementina, il Ritratto di Sua Altezza Reale Ferdinando IV, il Ritratto di Giuseppe Bonaparte (1806), il Ritratto del gran maresciallo Lamusse in lapislazzuli, il Ritratto di Gioacchino Murat, il Ritratto di Maria Carolina (moglie di Murat), il Ritratto del principe Augusto (figlio di re Giorgio III d’Inghilterra), la Principessa di Pietrapersia, la Principessa di Scilla, il Principe di Butera, il Ritratto di lord William Hamilton, il Ritratto di Lady Emma Lyon Hamilton, il Duca di Sussex e la testa di Giove che vedete in foto, tuttora conservata al Metropolitan di New York. Morì all'età di 72 anni per un colpo apoplettico a Napoli dove vennero celebrate delle solenni esequie. Notevoli sono le incisioni mitologiche, che riproducevano in miniatura le antiche sculture elleniche che riusciva a replicare su gemme e pietre dure. Di solito firmava tali opere in lettere greche, completando così l'illusione dell'antichità creata dal suo stile e dalla sua tecnica. A Chieti, sua città natale, è purtroppo semisconosciuto.

 

Ferdinand IV’s 120 grana coin, 1805, silver.


Per approfondimenti:

https://www.italianartsociety.org/2015/08/gem-engraver-and-medalist-filippo-rega-was-born-on-26-august-1761-in-chieti-a-central-italian-town-then-in-the-bourbon-kingdom-of-naples/

https://www.rmg.co.uk/collections/objects/rmgc-object-36489

https://www.metmuseum.org/art/collection/search/198584?rpp=30&pg=1&ft=filippo+rega&who=Filippo+Rega%24Filippo+Rega&pos=1

https://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Rega#/media/File:Piastra_1805.jpg

27 aprile 2022

Silvino Olivieri patriota di Chieti nel Risorgimento.

Silvino Olivieri patriota di Chieti nel Risorgimento

di Marino Valentini

Una delle strade più note di Chieti è via Silvino Olivieri ma pochi sanno in città chi mai fosse costui. Innanzitutto va detto che la famiglia Olivieri proveniva dal nord Italia, come tante altre che si trasferirono nella città teatina, dal Piemonte per l'esattezza, stabilendosi a Chieti sin dal '700. 
La famiglia, ormai teatina d'adozione, negli anni seguenti fece diversi investimenti rilevando proprietà, soprattutto a Caramanico dove nella cittadina, all'epoca in provincia di Chieti, nacque nel 1828 Silvino Olivieri (altre fonti parlano erroneamente del 1827 o del 1829). 
I primi studi Olivieri li compì nel Real Collegio di Chieti per poi proseguirli a Napoli presso la prestigiosa scuola militare della Nunziatella, da cui uscì col grado di sottotenente. 
Gli ideali di chiara ispirazione liberale ereditati dal padre lo faranno però diventare antiborbonico e infatti, nel giorno del suo ventesimo compleanno, a Chieti giunse la notizia che il re di Napoli si accingeva ad accordare la Costituzione e Olivieri, insieme ai suoi fratelli, si mise alla testa di un corteo di cittadini, sbandierando il tricolore e inneggiando all'Italia e alla libertà. 
Ma Silvino era un tipo sanguigno che preferiva non restarsene inoperoso nella tranquilla Chieti ed è così che, insieme al fratello Fileno, raggiunse la Lombardia partecipando, al fianco di Luciano Manara, alle cinque giornate di Milano e prendendo parte attiva, come volontario, alla prima guerra d'indipendenza contro il nemico austriaco. 
Finita la guerra, ma non certo la voglia di combattere di Silvino, questi, saputo che re Ferdinando si preparava a riconquistare in armi la Sicilia, dopo che il parlamento dell'isola aveva autonomamente dichiarato decaduto dal trono il re napoletano, ripartì nuovamente da Chieti per raggiungere la Sicilia e dar man forte agli insorti entrando col grado di capitano nella formazione militare comandata dal generale francese Trobriand. 
Il tentativo siciliano di ottenere l'indipendenza naufragò in seguito alla riconquista dell'isola da parte dell'esercito borbonico e alla promessa del re di concedere uno statuto per la Sicilia e l'amnistia per i rivoltosi. 
Dalla grazia però venivano esclusi 43 patrioti e tra questi figurava Silvino Olivieri che, ricercato dalla polizia borbonica, riuscì a fuggire imbarcandosi su una nave che lo condusse a Marsiglia. 

17 marzo 2021

Marino Valentini, Il naufragio dell'Utopia. Il Titanic degli abruzzesi dimenticati, 17 marzo 1891.


Oggi ricorre il 130° anniversario di una sciagura che ha visto,  tra le 563 vittime, diverse decine provenienti dall'Abruzzo chietino, molte delle quali da Fraine.

Il libro percorre un viaggio temporale di tre decenni dall'Unità d'Italia fino ad arrivare esattamente dopo trent'anni al 17 marzo 1891, narrando lo sventurato viaggio della nave Utopia e del suo naufragio avvenuto nel porto di Gibilterra, dove 563 vite furono spezzate, inghiottite dai flutti del mare.
Dopo 130 anni viene finalmente riconosciuto il merito del ricordo del sacrificio di questi poveri emigranti che non avevano certo il rango degli illustri passeggeri del Titanic e, abbandonati dalla loro Patria in vita, vergognosamente lo sono stati anche da morti.

16 marzo 2021

Marino Valentini, Strage di Bologna: Ritorsione per una sentenza del tribunale di Chieti?

Strage di Bologna: Ritorsione per una sentenza del tribunale di Chieti?

di Marino Valentini

Il due agosto da circa quarant’anni ricorre l’anniversario del più grave attentato terroristico compiuto in Italia dal dopoguerra in poi, ossia la strage di Bologna, bollata, forse fin troppo frettolosamente fascista, visto, come si disse all’epoca, che l’eccidio stragista avvenuto nella rossa Bologna non poteva che essere di matrice nera.
A parere di chi scrive, come riportato nel proprio libro “Il patto tradito[1], la matrice neofascista o più in generale politica, è probabilmente stata l’opportuna copertura per celare qualcosa di terrificante che trovò nella città di Bologna il capro espiatorio di un avvertimento dato all’Italia per rispettare in pieno un accordo segretissimo tra Italia ed autorità palestinesi.
Non tutti sanno infatti che, ad accendere la miccia, potrebbe essere stata una sentenza giudiziaria assunta a Chieti, quando, in occasione del procedimento penale contro un agente palestinese, si ruppero quei sottilissimi equilibri che negli anni ’70 e successivamente negli anni ’80 erano stati concordati con un accordo segreto siglato dal governo italiano col Fronte Popolare per la liberazione della Palestina[2] (il cosiddetto lodo Moro).
Dopo circa mezzo secolo, sull’esistenza di tale accordo, non ci sono ormai dubbi, fugati anche da Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione Stragi dal 1994 al 2001: «Quel patto venne stipulato nell’autunno del 1973 durante la Guerra del Kippur, tra il Ministero degli Esteri italiano (Aldo Moro) e l’OLP di Yasser Arafat. Il Patto prevedeva che l’OLP non avrebbe compiuto attentati sul suolo nazionale e noi avremmo consentito la liberazione di guerriglieri palestinesi che venivano catturati sul suolo nazionale».
L’esistenza di tale lodo, nel corso degli anni successivi, verrà ulteriormente confermata attraverso testimonianze di politici e funzionari dell’intelligence italiana.