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26 gennaio 2024

Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa.

Ludovico Teodoro, San Leucio nelle vesti di vescovo, con ai piedi il Dragone, Duomo di Atessa

Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa

Prima Puntata

di Angelo Iocco

Poco si conosce di questo artista, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti[1], uno dei migliori che fu attivo nell’Abruzzo chietino e nel Molise, ma anche nell’area di San Benedetto del Tronto e del teramano (dipinse il soffitto della Collegiata di Campli), dagli anni ’30 agli anni ’50 del ‘700. Per vent’anni dominò la scena con altri colleghi spesso napoletani, come Ludovico De Majo, Francesco Solimena, Giovan Battista Spinelli. Fu sepolto a Chieti nella chiesa di San Domenico, andata demolita nel 1914 per costruire il palazzo della Provincia di Chieti. La lezione del Teodoro pare essere stata recepita anche in Atessa, benché non siano attestate sue opere nelle chiese. Un esempio è l’affresco della volta della sala grande del palazzo De Marco-Giannico, ex casa di riposo, in Largo Castello, la cui scena illustra al primo piano Ercole che combatte l’Idra di Lerna, e al centro il Giudizio di Paride con Giunone, Minerva e Venere con l’Amorino, e attorno nelle nuvole dell’Olimpo, figure femminili e Grazie. La scena, ripresa anche dalle stampe che circolavano in quei tempi, ricorda per la divisione in due scomparti,. Le due tele del Teodoro di Chieti (chiesa di Santa Maria della  Civitella) e Guardiagrele (chiesa di Santa Chiara) con il tema della Cacciata del Demonio e degli Angeli ribelli dal Paradiso.

Dal volume A. e D. Jovacchini, Per una storia di Atessa, Cassa di Risparmio, Atessa, 1993

Ludovico figlio di Donato, attivo nella seconda metà del Settecento, fu ugualmente pittore, e non dimenticò l’insegnamento paterno, apprezzava le grandi scene corali, spesso rintracciabili nei dipinti di Luca Giordano a Napoli, dove andò a formarsi, come fece suo padre; e non mancava sicuramente di avere una personale collezione di stampe, da cui traeva ispirazione per i suoi affreschi di ampio respiro. Al momento, pienamente attribuibile a Ludovico, sono la tela di San Leucio vescovo col dragone, presente nell’altare maggiore del Duomo di Atessa, firmato e datato 1779. Benché non firmate, mi sento di attribuirli anche le due tele laterali del coro dei Canonici, che ritraggono la Natività con la Sacra Famiglia, e l’Adorazione dei Pastori. Opere  un di gusto teodoriano per la ben costruita scenografia, anche se con le immancabili grossolane superfetazioni del Bravo, e i fondi oscuri tipici dell’ultimo Donato, di chiara derivazione tardo caravaggesca[2].

Anonimo, Annunciazione, chiesa della Santissima Annunziata, Civitaluparella, 1790.

il ciclo di pitture sulla volta centrale della stessa chiesa collegiata di Atessa, con scene bibliche del Vecchio Testamento. Purtroppo a causa di danneggiamenti, le pitture sono state rifatte in più punti di scadenti restauratori, rovinando completamente l’opera ad esempio nella prima scena:“Battaglia e Giuditta con la testa di Oloferne”, dove si vedono i pesanti ritocchi del Bravo. I tondi laterali la controfacciata con i Santi Principi Pietro e Paolo, pure sono di Ludovico Teodoro.

Il secondo riquadro: “David accoglie Saul vincitore contro Golia” è molto simile al quadro dipinto dal padre Donato che mostra la scena di “Davide con la testa di Golia davanti a Saul”, oggi conservata nel palazzo Martinetti-Bianchi di Chieti, oppure allo stesso soggetto per la volta della chiesa madre di Colledimezzo. La composizione del soggetto ha la stessa matrice, ma il risultato di Ludovico è più scadente. In parte è dovuto ai restauri di Ennio Bravo, che ha cambiato alcuni volti, in parte alla stanca ripetizione dei modelli, come il barbuto Saul sul trono che è impaurito dalla scena macabra, e il giovane David, che con la sua smorfia di sofferenza esprime quel mansuetismo, quasi senso di colpa per i propri trionfi, che accomuna diverse opere di Donato che abbiano questa peculiarità del Trionfo del Bene sul Male, quasi uno strizzare l’occhio al Davide con la testa di Golia del Caravaggio. Ma appunto, ciò non riguarda tutte le opere del Donato, basta riferirsi ai volti trionfanti di Giuditta con la testa di Oloferne nella chiesa di Sant’Agata di Chieti, o ad altri soggetti simili, come lo stesso tema nella cupoletta del santuario dell’Assunta di Castelfrentano, et similia.

Donato Teodoro, Incontro tra Salomone e la Regina di Saba, Museo d’arte “C. Barbella”, Chieti, foto M. Vaccaro per gentile concessione

La scena “Saul placato dall’arpa di David e l’Arca dell’Alleanza” si divide in tre momenti, sulla sinistra il coro di cantatrici con strumenti musicali, al centro Saul che suona l’arpa, a destra i sacerdoti e l’Arca.

Navata del Duomo di Atessa


Osserviamo le fotografie delle pitture della volta del Duomo.

1° dipinto: L. Teodoro, Giuditta e Oloferne, particolare

2° dipinto, Saul e David con la testa di Golia, particolare di David

3° dipinto: David suona l’arpa con l’Arca dell’Alleanza, veduta d’insieme e particolare


4° dipinto: Salomone e la Regina di Saba.

L’ultima scena “La Regina di Saba” ha moltissime somiglianze con il dipinto di Giacinto Diano che realizzerà nel 1788 ca. nella Basilica cattedrale di Lanciano, la matrice della stampa da cui i due pittori hanno attinto è la stessa. Anche qui notiamo l’esasperazione dei volti, l’abbruttimento dei tratto somatici dei sacerdoti e delle cariche ebraiche, nonché i lunghi nasi, gli occhi strabuzzati, i pizzetti appuntiti, i turbanti delle figure di religione islamica contro cui si scontrano gli ebrei. Le pennellate sono molto chiare, seppur Ludovico non riesca a eguagliare la grandezza paterna. Osservando queste pitture, ci viene in mente il primo Donato Teodoro, non ancora trentenne, che fu attivo nel cantiere del santuario dell’Assunta di Castel Frentano, con la controfacciata della “Cacciata dei mercanti dal Tempio”; le pennellate simili, i colori leggermente sbiaditi, l’affresco orale di personaggi che si intrecciano in un turbinio di azioni, di giravolte, di scene concitate che inducono al movimento, a riguardare più volte la scena per adocchiarne i particolari.

Ludovico nel Duomo dipinse anche i tondi laterali con le figure degli Apostoli, e delle tele applicate ai pilastri della navata maggiore del Duomo, con le scene della Via Crucis.

 

Altre opere d’arte a San Leucio

Nel Duomo. Il pulpito in legno è della bottega Mascio di Atessa.

NAVATA DI SINISTRA, altare di San Michele che sconfigge Lucifero, è brutta copia di Francesco De Benedictis[3] del quadro di Guido Reni (sia De Benedictis che il suo predecessore Giuliano Crognale di Castelfrentano ne sfornarono di queste orride copie del quadro di Guido Reni per le chiese del chietino!), che però forse avrà copiato dal suo maestro Nicola Ranieri, per il san Michele presente nell’altare maggiore della chiesa di sant’Antonio di Lanciano, o da una stampa del quadro di Reni che circolava molto facilmente tra i disegnatori dei suoi tempi.

2° altare: Santa Lucia martire, quadro moderno di Ennio Bravo[4]

A seguire. Statua di san Pietro seduto, del XVI secolo, in pietra, dall’atteggiamento meditativo.

3° altare di San Giuseppe in cammino col Bambino, dell’800, autore locale, della scuola di Giacomo Falcucci

4° altare di San Bartolomeo martirizzato, opera dello stesso autore del precedente San Giuseppe col Bambino

CAPOALTARE NAVATA SINISTRA A CAPPELLA:  nicchie con statue del Sacro Cuore, San Donato e Madonna Immacolata, bottega locale. Il soffitto è stato rifatto da Bravo con i soliti cassettoni e fioroni.

Nella nicchia di controfacciata della seconda navata di sinistra, c’è il busto di San Leucio in argento di scuola napoletana datato 1857, e la costola del drago.

Ritratto del Prevosto Giandomenico Maccafani, presso la Sagrestia

NAVATA DESTRA: a muro in controfacciata, tela dell’Ultima Cena, autore ignoto, ma forse Giacomo Falcucci o di un suo seguace.

Altari laterali:

1° altare di Sant’Anna con Maria Bambina, tela di F. De Benedictis, di poco interesse.

2° altare con Martirio di San Sebastiano, con ex voto, forse di Giacomo Falcucci[5], è classificato come di anonimo dell’800.

3° altare di San Martino in gloria, con i putti che reggono le spighe. Ignoto, forse questo è un altro dipinto ignoto di Ludovico Teodoro; la postura è identica alla tela di san Leucio nell’altare maggiore. Il Santo con il braccio destro benedice, con l’altro regge il Vangelo e il pastorale. Accanto due angeli che reggono fasci di spighe. Quasi sempre Martino vescovo ha in mano un grappolo d’uva e un fascio di spighe di grano, per ricordare il suo protettorato sulle messi. A san Martino si rivolgevano preghiere per un raccolto prospero di grano, uva ed altro. Questa iconografia è presente in diverse opere pittoriche e scultoree che ritraggono il Santo. I due angeli hanno i volti tipici delle figure di Donato Teodoro, che riutilizzò questi modelli per diverse altre sue pitture, specialmente quello dell’angelo di destra che è di profilo, riutilizzato nei servitori delle pitture di Castelfrentano, Lanciano, Chieti. Interessante è anche la veduta in prospettiva di Atessa, dietro il santo, dal lato di Vallaspra, sulla destra vediamo il Duomo, con parte della facciata antica, privata nel 1935 delle volute laterali baroccheggianti, un restauro che forse ha restituito un aspetto troppo “razionalista” all’antica facciata gotica, a giudicare il periodo storico in cui venne recuperata. Sulla sinistra vediamo le mura di Porta Sant’Antonio, con il chiostro dell’antico convento dei Cappuccini e poi delle Clarisse di San Giacinto, demolito negli anni ’60, di cui resta una porzione con degli archi, e la torre massiccia della chiesa di Santa Croce.

 

Ludovico Teodoro (?), San Martino in gloria, con paesaggio, Duomo di Atessa

25 novembre 2023

Yuri Moretti: San Mercurio Statopedarca di Cesarea o Protoconfessore della Terra D'Archi?


SAN MERCURIO STATOPEDARCA DI CESAREA O PROTOCONFESSORE DELLA TERRA D’ARCHI?
di Yuri Moretti

(Rielaborato da “Vergini, soldati e protoconfessori: indagini su alcuni culti palecristiani a cavallo di Monte Pallano” di Yuri Moretti)

Attorno alla figura di San Mercurio, la cui memoria è radicata ad Archi da secoli, sono andate via via stratificandosi storie ed interpretazioni. Cercare di ricostruirle, studiare le vicende che ne accompagnano le reliquie ed il culto, significa innanzi tutto indagare l’origine della penetrazione del Cristianesimo in Val di Sangro.


Qui, l’iconografia e la memoria storica del Santo sono tradizionalmente legate alla figura di San Mercurio martire di Cesarea, annoverato tra i cosiddetti “Santi militari”. Della sua vita sappiamo solo che fu soldato della compagnia dei Martenses, stanziata in Armenia nel periodo delle persecuzioni dei cristiani di Decio e Valeriano (249-260). Dopo il martirio, il suo culto si diffuse assai precocemente in Occidente, se è vero che già all’epoca di Costantino il Grande la sua immagine fu dipinta in molti luoghi della città di Roma. Nella “Traslatio Sancti Mercurii”, attribuita a Paolo Diacono, si racconta che fu l’imperatore bizantino Costante II a trasportare il corpo di San Mercurio da Cesarea in Italia (a Quintodecimo, oggi Quindici) affinchè lo proteggesse nella guerra contro i Longobardi del Ducato di Benevento. Sarà poi a sua volta il duca Arechi II, nel 768, a traslare queste reliquie da Quintodecimo a Benevento, nella chiesa di Santa Sofia, da lui pensata come una sorta di santuario del popolo longobardo. Secondo Borgia, il principe offrì al Santo le chiavi di tutte le porte della città, dichiarandolo suo patrono speciale.
Ad Aeclanum, antico sacello delle reliquie, tuttavia, già dal IV secolo era venerato un santo martire Mercurio e, legato allo stesso, esiste una tradizione agiografica occidentale. Nella Traslatio quindi riscontriamo una tipica sovrapposizione cultuale: il martire locale viene confuso con quello di Cesarea di Cappadocia e si attribuisce all’imperatore Costante II una immaginaria traslazione dell’oriente. Questo aspetto non può essere letto come un semplice errore interpretativo ma va contestualizzato nel tentativo di proporre un’immagine militante e militare di santità adatta alla situazione politica e sociale della Longobardia Minor di allora, nel quadro più ampio di una ridefinizione ideologica del potere. Dietro alle numerose traslazioni di corpi dei santi effettuate da Arechi sembrano nascondersi proprio dei tentativi di legittimazione celesti alle politiche e al potere longobardo.
E’ probabile che una dinamica simile abbia avuto luogo anche ad Archi. Non è chiaro infatti se la dominazione longobarda in questa terra costituì un momento fondativo per la venerazione verso San Mercurio o se sarebbe meglio parlare di una “rifondazione” di un culto preesistente.


A questa seconda ipotesi afferiscono per esempio gli scritti di Girolamo Nicolino che nella sua “Historia della Città di Chieti” del 1657 fa menzione di un antico calendario della Chiesa Teatina che assegnava al 25 Novembre la memoria di un San Mercurio, non indicato però con il titolo di martire. Oltre a lui, l’autore di una storia dell’arcidiocesi chietina, contenuta nell’opera di Giuseppe Cappelletti sull’origine delle chiese particolari italiane, risalente al 1870, affianca figure locali di santità come Cetteo, Aldemario Abate, Nicola greco, Valentino e Damiano duo diacono, a quella di San Mercurio di Archi, sostenendo, di fatto, l’autoctonia del culto.
In realtà, la prima menzione di una chiesa in zona dedicata a San Mercurio risale all’829. In questo documento, contenuto nel Chronicon Farfense, essa risulta di pertinenza del Monastero di Santo Stefano di Lucana, situato nei pressi dell’attuale contrada Torricchio di Tornareccio, che venne aggregato dagli imperatori Ludovico il Pio e Lotario all’Abbazia di santa Maria di Farfa in Sabina. La larga dotazione (che comprende peraltro centri come San Martino in Valle a Fara San Martino, San Pancrazio a Roccascalegna…) sembra configurarsi come una ampia terra fiscale longobarda. Secondo Sciarretta, la chiesa di San Mercurio, assieme a quelle di San Silvestro e di San Pietro in Oliveto, sono da collocare nel territorio di Archi, poiché le stesse si ritrovano nelle decime del 1324 redatte da Sella. Se questa ipotesi venisse confermata, ciò costituirebbe non solo la prima menzione in assoluto del culto ad Archi, ma lo collocherebbe in una compagine cultuale di fondazione longobarda, alla quale apparteneva anche il castellum de Attissa, anch’esso bene del monastero di Santo Stefano. Anche ad Atessa, come ad Archi, la prima cristianizzazione del territorio appare legata al un santo longobardo e beneventano, San Leucio di Brindisi, le cui reliquie, assieme a quelle del martire di Cesarea, si conservavano proprio nel santuario Santa Sofia a Benevento. Il culto di San Leucio per Atessa e di San Mercurio per Archi sono quindi da ricollegare alla penetrazione dell’ideologia longobarda nel nostro territorio, che fu, come abbiamo visto, accompagnata da una politica cultuale che aveva avuto il suo centro di irradiazione nella Benevento di Arechi II.


Per quanto riguarda i secoli successivi, la presenza di un luogo di culto dedicato al Santo compare nella numerazione dei fuochi di Archi, del 1447, riportata da Faraglia. In essa è menzionata per la prima volta la Parrocchia di San Mercurio, retta da don Giacomo Borrelli. In una apprezzo della Terra d’Archi del 1649, redatto in Atessa, in casa di Francesco Cardone, si nomina una parrocchia “sotto titolo di Santa Maria dell’Olmo … e vi è il corpo intiero di Santo Vitale Martire, un altra sotto titolo di Santo Mercurio dove siede il glorioso Corpo di detto Santo similmente Parrocchia”. Della fine del secolo è quella che può essere considerata una ricognizione canonica del corpo santo: il 19 aprile del 1690 il vicario foraneo Don Antonio Grello visita, nella Chiesa del Rosario (o di San Mercurio), l’altare in cui erano custodite le reliquie del Santo in uno stipo protetto da una cancellata di ferro, le cui chiavi erano detenute dal Barone della terra e dal curato della Parrocchia. Il vicario si dilunga in una descrizione minuziosa delle parti del corpo santo, conservate in una cassetta di cipresso, intagliata e mosaicata: la ricognizione avviene alla presenza dello scriba Francesco Cieri e del testimone Don Francesco Persiani.


La bellissima tela della Madonna del Rosario con Santi, oggi conservata nella Parrocchiale di Santa Maria dell’Olmo, risale proprio all’epoca e mostra in basso a destra un santo in paludamenti militari, che potremmo identificare con il martire di Cesarea, che condivise con la Vergine, di fatto, dal 500, il patronato sulla antica Parrocchia del Rione Castello.
Per concludere, risulta chiaro come nella Traslatio beneventana, al culto per un martire locale omonimo, di Aeclanum del IV secolo, si sovrapponga quello di Mercurio di Cesarea di Cappadocia: tutto questo risponde al tentativo di Arechi II di diffondere un culto guerresco, reinterpretazione in chiave cristiana del dio della guerra longobardo Wotan. Per favorire una legittimazione politica del potere, Arechi e i suoi successori diffondono il culto del santo soldato in tutto il Ducato di Benevento, di cui Archi faceva parte. Qui, dove esso sembrerebbe attestato già dal IX secolo, potrebbero essere giunte parte delle reliquie da Benevento. L’evento potrebbe aver innescato una dinamica simile a quella testimoniata della Traslatio: ad un precedente culto per un santo omonimo locale, potrebbe essersi sovrapposta quello del santo militare longobardo. Rimane, comunque, allo stato attuale della ricerca, una ipotesi ragionevole e suggestiva.
In ogni caso, dalla Benevento di Arechi alla Archi dei Cardone il Santo statopedarca e clavigero fu sempre invocato come difensore delle mura: a lui il duca beneventano offri tutte le chiavi delle porte della città e una delle chiavi del suo venerato sacello di Archi erano, nel 600, custodite gelosamente dal Barone di quella Terra.

31 ottobre 2022

Capetiempe. A capo del tempo, dove tutto ricomincia.

Foto particolare tela della Madonna con anime purganti nella chiesa del Carmine di Guardiagrele.

Capetiempe. A capo del tempo, dove tutto ricomincia.

"Capetiempe"  dal 31 ottobre, vigilia di Ognissanti, all’11 novembre è il tempo dove tutto si conclude e tutto ricomincia.

E' il periodo di congiunzione tra antico e moderno, passato, presente e futuro, in cui vita e morte si tendono la mano. Si banchetta, consumando il frutto degli orti autunnali, festeggiando l'arrivo del vino novello e la conclusione del ciclo agricolo. Si mangiano le zucche, poi si vuotano per farne candele per la notte del passaggio.

Ha inizio la notte del 31 ottobre quando lumi e candele esposti sui davanzali accolgono i defunti in casa, dove li attende del buon cibo, del buon vino e, a volte, anche qualche abito che hanno richiesto nei sogni dei loro cari. Al mattino saranno scomparsi, senza dimenticare di lasciare timide tracce del loro passaggio. Sarà allora che la luce del sole spegnerà gli ultimi piccoli fuochi per lasciare posto alla vita che ricomincia. Il cibo rimasto sarà offerto ai poveri, segno di pace, di riconciliazione, di solidarietà. E' questa la tradizione antica di Ognissanti che si celebra nei borghi abruzzesi che richiama la più nota All Hallows’ Eve, ossia la "Notte di tutti i Santi Spiriti”.

La festa celtica di Samhain (fine dell'estate) che indica l'avvicendarsi delle stagioni e la leggenda irlandese di Jack o lantern, che vaga come fuoco fatuo dentro una zucca, non sono dissimili dalle leggende, i racconti, i riti praticati sin dalla preistoria nel territorio abruzzese. Un tempo, i bimbi lasciavano le calze vuote appese sul camino che nonni e bisnonni defunti avrebbero riempito di dolciumi. La richiesta del "dolcetto o scherzetto" ricorda il passaggio dei poveri che chiedevano l'elemosina  “pe’ll  alme de le muorte” in cambio di benedizioni ricevendo il cibo sacro lasciato per i defunti. Fin dal mattino, nelle botteghe e nelle strade dei borghi erano in mostra le candele, acquistate per accenderle nella notte sui davanzali e presso le tombe, le campane suonavano fino a notte avanzata.

La “pietas” verso i defunti da tempi antichissimi ha dato vita in Abruzzo a innumerevoli leggende e rituali, alcuni ancora perpetuati, alcuni dimenticati che conservano il fascino dell'abbraccio eterno tra vita e morte:

  • Serramonacesca (Pe) i bambini, si vestono da "trapassati" con zucche intagliate a forma di testa ,le “Cocce de morte” (teste di morto) e bussano di casa in casa in cerca di dolciumi rispondendo al  “Chi è?” con la frase "L'aneme de le Morte”, nome della manifestazione che si tiene ogni anno nel borgo, una grande festa accompagnata dalla Sagra dalla Zucca, vino cotto e castagne.
  •  A Pratola (Aq) è usanza antica apparecchiare la tavola, poggiando una conca piena di acqua sul tavolo, lasciando l'uscio aperto. Nella sera di Ognissanti, i ragazzi con il volto imbiancato di farina bussano alle porte delle case; 
  • Pettorano sul Gizio (Aq) i ragazzi si dipingono il viso con cenere e farina e i giovani contadini cantano di casa in casa  “la canzone dei questuandi”: "Ogg' é la fèste di tutte le sande : Facéte bbén' a 'st' aneme penande. Ogg' é la fèste de li sande 'n gj'iele; Facète bbén' a 'st' angele Grabbijéle. Se vvoi bbéne de core me le facéte, 'n quell'aldre monde le retrovaréte", ricevendone in cambio cibo e ospitalità. 
  • Introdacqua (Aq) si accendono lumi sui davanzali per celebrare la Scornacchiera, una processione di anime con le candele accese tra le mani che si muove la notte di Ognissanti in paese cantando “tiri tiri tera e mo’ passa la scornacchiera". Vi partecipano i nati morti che si muovono all'inizio della processione come soffi di vento, seguono i piccoli battezzati, i ragazzi, gli adulti e gli anziani. Sembra che per vedere la processione occorra portare un setaccio.
  • Pacentro (Aq) vengono celebrate messe in tutte le chiese fino alla domenica successiva a Ognissanti. Le famiglie più ricche del paese preparavano lauti banchetti per ospitare il passaggio dei defunti che donavano poi ai bisognosi del Paese;
  • Roccapia (Aq) la leggenda afferma che si celebrasse di notte la messa degli spiriti dei defunti.
  • Sulmona (Aq) la popolazione un tempo seguiva “la rossa processione” fino al cimitero dove si celebrava la messa e poi “chiasso e bicchieri” per celebrare la vita che si rinnovava;  i ragazzi, usavano, con pallottole di calce fresca o con secchio di calce stemperata e con pennello, scarabocchiare di bianco tutte le porte di casa;
  • Nell’Alto Vastese, si prepara una bacinella d’acqua con un telo perché i defunti arrivati in casa dopo un lungo viaggio possano lavarsi;
  • Cappadocia (Aq), i bambini girano per le strade del paese con lo “scampanaccio di San Martino" e il borgo si anima con la Sagra della panuntella, fette di pane con braciolette di maiale, canti e balli popolari.
  • Villa Sant’Angelo (Aq) si festeggia con l'evento "Zucche infuocate", gara di mangiatori di peperoncino.
  • Calascio, a Carapelle, a Castel vecchio CarapelleGioia dei Màrsi, in provincia dell'Aquila, si distribuisce una minestra di legumi e granturco, detta “ju granate”  ai poveri e ai vicini.
  • Gessopalena (Ch) le case vengono preparate per accogliere i defunti che, malinconici, vanno a visitarle;
  • Campli (Te), sulle tombe le candele si mettono dalla sera, affinché i morti, che nella notte lasciano il loro sepolcro, possano arrivare a casa;
  • Francavilla al Mare (Ch) nelle case si fa ardere per tutta la notte qualche lume perché ogni morto va a bere nella sua casa;
  • Vasto (Ch) si mettono le conche con dentro il ramaiolo con una candela accesa sul tavolo;
  • Chieti, si poggiano pane acqua sul tavolo, vicino ad un lume, che sarà donato ai poveri al mattino successivo. Si racconta che per vedere i defunti, occorra posizionarsi presso un crocicchio, col mento appoggiato a una forca. I ragazzi usavano i picchiare i portoni, portando zucche vuote con fori a mo' di teschio;
  • Fara Filiorum Petri (Ch) si racconta che per vedere la processione dei morti, si deve stare sotto il recipiente dell'acqua santa, con una forca a due punte sotto il mento, tenendo in mano un gatto oppure guardando in un bacino d'acqua, messo sulla finestra, con un lume vicino.  Sia a Fara che a Campli sui davanzali si mettono piatti di minestra, affinché ne mangino i morti che vanno in processione;
  • A Ortona (Ch) è usanza non lasciare la camicia sulla sedia, ma metterla sotto il guanciale, perché i morti potrebbero rovinarla per vendicarsi d'essere stati sepolti senza i dovuti onori.
    Roccaraso (Aq) si racconta che i morti lasciano i luoghi in cui penano ed hanno libertà di tornare nelle proprie case, dove possono restare fino al giorno dell'Epifania recitando spesso "Tutte le fèste vade vije ; ne' vvenga maje la 'Pifanije" e dal 2 di novembre la sera, fino all'Epifania, si bada a non far oscillare la catena del camino, per non svegliare i morti che dormono in casa;
  • A Pescina (Aq) gli anziani raccontano di una fornaia che andava ad accendere il forno e, nel passare avanti a una chiesa, entrò. La chiesa era illuminata e piena di gente. Inginocchiatasi una sua comare già morta, le si avvicina e dice : "Comare, qui non stai bene; va via. Siamo tutti morti, e questa è 
    la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti". La comare ringraziò, e andò via subito, ma per lo spavento perdette la voce;
  • Lanciano (Ch) gli sposi mandano il giorno dei morti in regalo alle spose la pizza (stiacciata) con le sardelle e nelle famiglie se ne mangia come cibo di rito;
  • Cugnoli (Pe), come in molti borghi d'Abruzzo, si ha cura di non lasciare nessun carbone acceso, nessuna scintilla perché quella notte non c'è vita.
  • A Perano (Ch) e nel pescarese grida e burle animavano la processione verso il camposanto per esorcizzare la paura; le anziane peranesi ponevano su un tavolinetto due candele accese e un bacino con l'acqua, prendevano una forca di legno, puntando per terra il manico e mettendo il collo sull'inforcatura per guardare i defunti che apparivano nell'acqua.
  • Gioia dei Marsi (Aq) si crede che chi giunge prima in chiesa, libera un'anima dal purgatorio
  • Ad Altino (Ch) Atessa (Ch), Casalbordino (Ch), Fara San Martino (Ch), Perano (Ch), Pratola Peligna (Aq) la catena del camino non si può toccare perchè così si scuoterebbe la testa dei morti disturbandoli nella loro quiete;
  • Santo Stefano di Sessanio (Aq) da qualche anno la notte del 31 ottobre ha luogo la “Festa delle Lumère” ispirata alla tradizione di costruire figure e maschere con le sembianze di teschi per esorcizzare l’idea della morte nei giorni in cui il mondo dei vivi entrava in contatto con quello dei defunti;
  • A Spoltore (Pe) ogni anno si rinnova “La Tavola dei Morti’ che riporta alla luce una tradizione importante diffusa in tutto il meridione sino agli anni ’50 e che purtroppo si è andata perdendo, ossia le pratiche devozionali per onorare i defunti che tornano nelle loro case per un breve attimo nella notte di Ognissanti. Con la sola luce delle candele ci si incammina, seguendo un percorso delimitato dai lumini, con alcune pause, ciascuna delle quali è caratterizzata da un racconto, come "la storia delle ‘ossa a la vutate de lo lope’, ossia del ritrovamento di ossa umane a seguito dell’impianto di vigne e oliveti, o il rinvenimento di un’antica sepoltura facendo attenzione a non incappare nei dispetti de Lu Mazzamurille, uno spiritello con un berretto rosso in testa che si diverte a infastidire i vivi con scherzi di ogni sorta. La “Processione dei frati morti”, in silenzio e con i ceri accesi, segue i presenti scortati dalle anime dei cavalieri. All’esterno di ogni abitazione ci sono dei simboli, come il sacchetto di grano o la scopa rovesciata e, ogni volta, ne viene narrato il significato.  Le tavole sono imbandite per accogliere le anime che passano la notte da quella cucina e che potranno ritrovare i piatti tanto amati in vita. Particolare è l’allestimento dell’altare delle Anime Pezzentelle, le anime del purgatorio in cerca di grazia con la possibilità di ascoltare il racconto di una devozione tutta abruzzese e meridionale. Al termine dell’evento, a tutti i partecipanti viene offerto gratuitamente il ‘cibo penitenziale’, anch’esso rigorosamente rispettoso della tradizione, ovvero ‘il grano dei morti’, ossia grano bollito con noci, melograno e mosto cotto, fave lesse, ceci abbrustoliti, zucca e patate con vino rosso

  • Schiavi di Abruzzo (Ch), dopo circa 60 anni, è tornata l'antica tradizione de "Le casette degli Angeli" : i bambini, con l'aiuto delle mamme, costruiscono casette in miniatura con materiale riciclato ponendo all'interno un piccolo lume dedicato ai defunti, che una volta benedette, vengono sistemate sulla scalinata centrale del paese.

  • Al Castello di Palmoli (Ch) si celebra "La notte dei mazz’marill", che, nascosti tra gli arbusti, attendono i visitatori, per portare notizie dal mondo ultraterreno.  Lungo il viale d'ingresso ci sono i lumini accesi creano un'atmosfera suggestiva. Protagonisti leggende, tradizioni popolari e le anime dei defunti, narrate nelle stanze dell'antico maniero.

La notte di Ognissanti non è animata solo dalle care anime dei defunti, ma anche da spiriti malevoli, streghe e folletti dispettosi e su tutte regna nell'immaginario collettivo abruzzese la figura della "pantafica", dagli occhi spettrali, bianca  e minuta, che si materializza nel letto del malcapitato durante il sonno, paralizzandolo e impedendogli di proferire parola. Il rimedio contro le sue apparizioni è semplice: lasciarle un po' di vino da bere, poiché ne va pazza, lasciare dietro l'uscio una scopa di saggina o una consistente treccia d'aglio.

Laura Toppeta

Da: Abruzzoturismo.it

https://lifeinabruzzo.com/capetiempe-new-year-abruzzo/

16 ottobre 2022

Le pitture dei Bravo di Atessa.

Ennio Bravo, Incredulità di San Tommaso, chiesa madre di Perano
 
Le pitture dei Bravo di Atessa

di Angelo Iocco

Dopo il periodo glorioso dei Falcucci, scultori di statue per le chiese e congreghe attivi tra ‘800 e primo decennio del ‘900, Atessa ebbe un’altra bottega, certamente minore, e forse anche in vari aspetti scadente, ma che ebbe successo presso le parrocchie dei piccoli paesi del chietino. 
Il capostipite fu Pasquale Bravo, attivo tra fine ‘800 e primi anni del ‘900, restauratore di statue, e costruttore di nuovi simulacri per devozione popolare, e per commissione. Come artigiano è riconoscibile per il suo gusto kitch, per usare un eufemismo; nell’area tra le contrade di Atessa, Paglieta, Casalanguida, vediamo statuette di San Vincenzo Ferrere e Sant’Antonio abate realizzate per devozione popolare, datate tra il 1910 e il 1911. C’è veramente poco da dire sulla realizzazione plastica, sul volto rotondo come una palla da ping pong, sugli occhietti appena accennati, oscuri e anonimi come le oscure sfere dei buchi oculari di un pescecane! Il problema di Pasquale Bravo senior, come è stato rilevato, fu che venne chiamato a ristrutturare delle statue antiche, oltre a costruirne di nuove, e alcune le rovinò irrimediabilmente, come nel caso delle statue della chiesetta dei Santi Vincenzo e Silvestro in contrada Montemarcone di Atessa. Restaurò anche delle belle statue dei Falcucci, grattandone via il colore, oppure massacrando con del beverone di stucco la statua della Beata Vergine Maria della Selva nel santuario dell’Assunta di Castel Frentano, risalente al XIV sec. Statua fortunatamente restaurata di recente. 
Ennio Bravo, cugino di Gennaro, figlio di Pasquale, continuò l’attività, dedicandosi soprattutto alla pittura per le chiese, a realizzare quadri o pitture murali, o anche nell’ultima fase, negli anni ’80, statue intagliate da Gennaro. 
Pasquale Bravo, se è considerato bocciato nella scultura, nell’ultima fase della vita, quando dipinse negli anni ’30 e ’40, raggiunse un livello almeno mediocre. I suoi soggetti erano ispirati al gusto neoclassico, ma un neoclassicismo esageratamente illuminato, tipicamente tardo ottocentesco, delle stampe devozionali che andavano girando per i santuari. I dettagli non sono molto precisi, le figure sembrano statiche e senza tridimensionalità, gli occhi noiosamente rivolti sempre verso l’alto in contemplazione, senza originalità. Non c’è chiesa di Atessa che non abbia qualche suo quadro, la chiesa dell’Addolorata, il Duomo, secondo altare di sinistra nella terza navata, frutto dell’ampliamento ottocentesco dell’impianto, la chiesa di Santa Croce, la chiesa della Madonna della Cintura, la chiesa di San Rocco, con una brutta copia del quadro seicentesco di Felice Ciccarelli atessano, della Beata Vergine del Carmelo. E anche nei dintorni di Atessa Pasquale dipinse, ora a Perano per la chiesa madre, producendo altre due tele devozionali per i lati dell’altare maggiore, ad Archi, a Montazzoli, a Tornareccio, e si spinse anche in qualche altro paese della media valle del Sangro, come Bomba o Villa Santa Maria. 
I figli Pasquale ed Ennio Bravo, attivi negli anni ’20 e ’50, continuarono l’attività paterna, estendendo il campo alla pittura murale, a volte riempiendo letteralmente la chiesa di loro opere. Non si scostarono molto dal soggetto di scene bibliche corali, dalle tinte molto chiare, di quell’inconfondibile gusto roseo, quasi da chiesa Mormonista, ossia uno stile falso-antico, che in Abruzzo continuava ad essere riproposto anche in epoca di trasformazioni artistiche nel secondo dopoguerra (si vedano i cantieri religiosi di Pescara, si vedano le pitture di Peppe Candeloro a Lanciano, in cui lui “trasponeva il classico nel contemporaneo” sulla base del modello di Michelangelo), e che verrà spazzato via qualche decennio dopo. I fratelli Bravo furono attivi in quelle chiese che o erano prive di arredi sacri a causa della povertà, o che erano state appena ricostruite dopo le distruzioni belliche. La loro opera più interessante è il cantiere della chiesa madre di San Nicola di Orsogna, appena rinata dalle ceneri della furia devastatrice dei cannoni e dei mortai. La chiesa è un tipico esempio di ricostruzione ex novo del Genio Civile di Chieti, un falso antico, completata nel 1952, come recita una iscrizione appena entrati, a monito e memoria. 

Orsogna, chiesa di S.Nicola, catino absidale con dipinti dei Fratelli Bravo, 1952 c.

I Bravo furono chiamati a indorare il catino absidale, mostrando la scena dell’Agnus Dei, di Cristo che è l’Alfa e l’Omega, con il Sacrificio dell’Agnello, e sullo sfondo la città di Gerusalemme. Anche la seconda delle due cupole della navata unica, fu dipinta dai Bravo, con scene bibliche dell’Antico e Nuovo Testamento, e ai quattro pennacchi, il solito Tetramorfo degli Evangelisti; un lavoro però realizzato abbastanza bene, che verrà ricordato. 
Ennio Bravo, che lavorò in proprio, è il migliore della famiglia nel disegno, è l’unico che fa assumere espressione e gravità ai suoi soggetti, tra i più belli, il San Tommaso della chiesa matrice di Perano. 
Gennaro continuò l’attività dei Bravo, scolpendo e dipingendo statue, di fattura appena sufficiente, e sarà lui il maestro del pittore di Atessa che attualmente la rappresenta, il prof. Gaetano Minale di Agnone.

Mosè e il vitello d’oro, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna

Caino uccide Abele, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna



Il sogno di Giacobbe, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna



Mosè  e i 10 Comandamenti, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna


1 ottobre 2022

Raffaele Pellicciotta e la tradizione musicale di Perano.

Raffaele Pellicciotta e la tradizione musicale di Perano
di Angelo Iocco

Desideriamo ricordare la memoria del dott. Raffaele Pellicciotta di Perano, classe 1905. Compiuti gli studi liceali al Liceo ginnasio di Lanciano, si laureò in medicina a Napoli nel 1930; assistente di patologia medica, ottenne la libera docenza alle Malattie Tropicali e sub-tropicali nel 1943. 
Dunque, come dimostrano anche preziosi documenti e fotografie conservate dal figlio dott. Ermete Pellicciotta, ancora residente nel palazzo di famiglia a Perano, il nostro Raffaele andò in Africa e in Etiopia in particolare a curare le malattie. 
Fu ispettore sanitario capo superiore alle Ferrovia dello Stato dal 1934 al 1938 con un concorso vinto, ufficiale medico nella campagna italiana d’Etiopia nel 1934-38. 
Ha pubblicato diversi studi scientifici, poesie, letteratura varia, e postumo è uscito un lavoro sull’origine di alcuni toponimi di Perano, un breve saggio storico, a cura del figlio Ermete: “Perano – Note di toponomastica correlata a toponimi omofonici”, 1989, studio appunto sulla toponomastica territoriale, dei nomi, sulle probabili origini del nome Perano, e noterelle di storia locale.

Quadro con gli attestati di partecipazione al Pellicciotta e al Coro di Perano alla Festa delle Canzoni di Lanciano del 1922. Per gentile concessione di Ermete Pellicciotta.




Raffaele Pellicciotta fu un self-made man, come lo chiama il figlio; era figlio di Ermete Pellicciotta falegname dal raffinato gusto dell’incisione. 
Nella casa Pugliesi-Pellicciotta si conserva anche un ritratto giovanile dipinto. 
I Pugliesi che vivevano nell’omonimo palazzo, il più grande e monumentale, alla fine del corso Duca degli Abruzzi di Perano,  erano costoro una delle famiglie più influenti del paese e con diverse proprietà. 
Quando gli ultimi eredi vendettero la casa, Ermete la acquistò e ci andò a vivere, sicché oggi il palazzo è noto come Palazzo Pugliesi-Pellicciotta, passando in seguito da Raffaele al figlio Ermete, anche se attualmente una porzione è stata venduta a privati. 
Il dott. Ermete, poeta e medico, ha curato la casa come un piccolo museo, tutto è rimasto come era, e continua a tramandare la memoria paterna e del nonno. 
A Raffaele Pellicciotta è dedicato un premio letterario che si svolge in estate con il vivo sostegno dell’amministrazione comunale.
Adesso veniamo al Raffaele Pellicciotta poeta e musicista, sconosciuto nel campo musicale abruzzese; egli nemmeno ventenne, aveva imparato da autodidatta a suonare il violino e si dilettava di poesia. 
Quando seppe che a Lanciano nel 1922 si bandì il Concorso delle Canzoni Abruzzesi del 18 e 19 aprile, immediatamente si dette da fare col parroco per formare un Coro locale, con dei costumi tipici (anche se in campo di studi si tratta di una reinvenzione normalizzante della grande varietà degli abiti storici abruzzesi), e partecipò a questa gara canora. 
Presentò la canzone “Cafunette”, con sue parole e sua la musica, oggi conservatasi manoscritta presso il figlio.
Somiglia questo componimento nel testo e nella descrizione della benna contadina in carne, alle liriche del De Titta del suo Canzoniere abruzzese, da cui molti hanno attinto per presentare le canzoni alle Maggiolate ortonesi in quegli anni d’oro della Canzone d’Abruzzo. 
La contadinella è paffuta, ha un pettuccio che fa perdere il senno per la bellezza, uno sconvolgimento interiore del poeta, che rimane senza fiato, e passa a descrivere nel ritornello il suo tormento:

“Oh l’amore cosa granne di Di! […]

Nghi nu vasce ciele e terre ti dà,

trième e ti fa sraggiunà!

Ti turmente e tutte quelle che fa

Chiù belle, e chiù male fa”






Quanti in questi versi dialettali riconosce i frammenti della potenza distruttiva e terribile del fascino di Eros nelle liriche del poeta calabrese Ibico da Reggio del V sec. a.C.? Raffaele era fine cultore della letteratura, e di certo fu attratto da questa lirica sicuramente appresa negli studi ginnasiali di Lanciano.
La canzone non vinse, sappiamo che Modesto Della Porta da Guardiagrele vinse coi suoi “Carufine”, suscitando polemiche tra i concorrenti. 
Ma il figlio Ermete conserva una bella foto ricordo, rilasciata dal comitato organizzatore della rassegna, con una medaglia di premio. 
Questa canzone fu presentata anche nel 1987 al festival della “Viuletta d’Oro” di Francavilla al mare, ed ebbe una nota di merito, con un attestato di premio e un omaggio di un piatto in ceramica dipinta.
Nel 1925 Pellicciotta organizzerà una Maggiolata Peranese, con una rassegna di canzoni quasi tutte scritte da lui, più qualcun’altra già eseguita alle Maggiolate ortonesi. 
Tra queste canzoni, bellissime sono “Vu nen valete…” e “Lu cingiare”, che è stato ripreso anche dal gruppo folk “Lu Cantastorie” di Lanciano, anche se con un andamento melodico diverso. 
Lu cingiare, il cenciaro, era quel tipo che con una carretta raccoglieva rottami, soprattutto cocci con cui rifabbricava piatti, attaccati alla meno peggio, andava per le strade gridando “cengiaroooo….cengiaroooo!”, e subito tutte le donne si presentavano, come oggi si fa, al mercatino dell’usato, in fila per valutare il materiale di riutilizzo per la casa.
Il Coro di Perano è rinato negli anni ’60, partecipando ad alcune rassegne. 
Negli anni ’90 è stato diretto dal M° Pasquale De Rosa di Fossacesia, intitolato al poeta Cesare de Titta, registrato delle audiocassette, e di recente ha avuto modo di farsi conoscere con partecipazioni a varie sagre di canzoni tra Lanciano e Ortona, magistralmente diretto dal M° Stefano Carbonetta, purtroppo scomparso qualche anno fa. 
Dalla sua scomparsa, attualmente il Coro di Perano è dormiente.
Chi farà riecheggiare le belle note della canzone “Perane me…nu paese tante belle?”

Il Coro di Perano negli anni ’50, foto Yuri Moretti