Pagine

Visualizzazione post con etichetta Campli. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Campli. Mostra tutti i post

26 gennaio 2023

17 novembre 2022

Amelio Pezzetta: La Chiesa e la vita religiosa in Abruzzo durante Il Viceregno Spagnolo (1503-1707).

1.      Stato, Chiesa e vita religiosa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il dominio spagnolo dell’Italia Meridionale iniziò nel 1503 con Ferdinando il Cattolico e si concluse il 7 luglio 1707 quando le truppe austriache entrarono a Napoli e il Regno passò agli asburgici.

Durante i due secoli di dominio, i monarchi spagnoli delegarono l’amministrazione del Regno a un viceré, non favorirono lo sviluppo del paese, lo appesantirono con un’esosa pressione fiscale e conservarono la sua natura di stato feudale. Nell’epoca in considerazione i baroni vecchi e nuovi conservarono l’ampio potere amministrativo-giudiziario di cui godevano e ampliarono i possedimenti feudali; la chiesa rafforzò il suo potere e prestigio morale e politico; i rappresentanti della borghesia iniziarono la loro ascesa acquisendo prestigio nell’amministrazione civica, l’economia e le libere professioni; i ceti più umili continuarono a vivere in generalizzate condizioni di asservimento e d’indigenza.

Il Regno di Napoli era uno stato vassallo della Chiesa che il papa assegnava a chi assecondava i suoi piani di potere temporale e le sue finalità spirituali. Al momento dell'investitura Ferdinando il Cattolico riconobbe lo stato di vassallaggio con tutte le condizioni a esso connesse tra cui il versamento al pontefice del censo annuale di 8000 once d’oro e l’omaggio della chinea. Ai fini di conservazione del potere, per gli spagnoli l'alleanza con la Chiesa era indispensabile nonostante la condizione di asservimento e il suo alto costo in termini economici.

Nel Regno di Napoli gli spagnoli assunsero nei confronti della Chiesa due atteggiamenti: da un lato se ne servirono per rafforzare il potere; dall'altro pur riconoscendole privilegi e diritti, non assecondarono tutte le sue pretese e talvolta anziché respingerle frontalmente, le attaccarono di fianco. In particolare gli spagnoli non si opposero alle pretese della Chiesa quando erano enunciate nei concili o con le bolle, ma ostacolavano la loro attuazione se contrastavano con gli interessi dello Stato. Un esempio in tal senso è costituito dall'atteggiamento che assunsero nel 1568 con la pubblicazione della bolla "In coena Domini" con cui il papa Pio V voleva riaffermare il primato della chiesa e far presente che le ingiuste imposizioni fiscali erano moralmente perseguibili. In realtà per i suoi particolari contenuti era un chiaro tentativo di violazione dei diritti sovrani di uno Stato laico e fu utilizzata per la difesa dei privilegi e interessi clericali dalle autorità civili. Infatti, la bolla consentiva alle autorità clericali di ricorrere all’arma della scomunica anche nei confronti degli amministratori zelanti che volendo far applicare le norme statali in materia tributaria minacciavano il patrimonio ecclesiastico. In particolare essa minacciava di scomunica coloro che: appoggiavano gli eretici; sostenevano la superiorità dei concili rispetto al sommo pontefice; imponevano nuove tasse al clero o aumentavano quelle già esistenti senza l'approvazione della Camera apostolica; violavano le immunità ecclesiastiche sulla base del principio  che non si fondavano sul diritto divino; impedivano agli ecclesiastici l'esercizio della loro giurisdizione anche contro i laici, l'esecuzione dei rescritti di Roma e l'esazione delle tasse della Chiesa. Il governo spagnolo, nel rispetto dell’atteggiamento politico verso la chiesa precedentemente delineato, quando la bolla fu promulgata non si oppose, ma in seguito cercò di ostacolarne la diffusione e conoscenza.

Tenuto conto degli aspetti generali enunciati, il presente saggio prosegue con l’esposizione sintetica di alcuni significativi aspetti del rapporto Stato-Chiesa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il 29 giugno 1529 il papa Clemente VII e il re Carlo V firmarono il trattato di Barcellona in cui al sovrano spagnolo fu concesso il diritto di presentare i vescovi di 24 diocesi di regio patronato del viceregno napoletano. L’accordo prevedeva che nell’Italia Meridionale l’amministrazione diocesana potesse essere affidata anche a presuli non indigeni e di conseguenza alcune di esse iniziarono a essere rette da prelati d’origine spagnola.

Nel 1541 un decreto della Regia Camera della Sommaria[1] deliberò che i chierici avevano diritto alle esenzioni fiscali sui seguenti beni stabili e di consumo: 1) i territori ecclesiastici e gli animali utilizzati nel lavoro agricolo o come cavalcatura dai chierici e i loro famigliari; 2) l'acquisto di generi alimentari e capi d'abbigliamento. Nello stesso anno, un altro decreto fissò le quantità massime di merci che i chierici potevano acquistare in franchigia: un rotolo di carne giornaliero (circa 0,9 kg), 2,5 tomoli di grano l'anno (1250 kg), 30 rotoli di formaggio l'anno (circa 27 kg), 3 staia d'olio annui (circa 30,2 litri), due botti di vino annui (circa 1047 litri e 40 rotoli di carne da salare annui (circa 36 kg)[2]. Le immunità fiscali furono elargite anche ai coloni delle chiese e agli oblati che donavano beni ai monasteri, non ne riservavano per loro stessi e vi andavano a vivere. Siccome i sacerdoti non pagavano le tasse, i vescovi che favorivano le ordinazioni al di sopra delle necessità delle diocesi che governavano, furono ritenuti dei benefattori. Molti ecclesiastici nel corso del secolo grazie ai privilegi accumulati, incentivarono l'evasione fiscale e cercarono di coinvolgere anche i laici nelle esenzioni da loro godute. Un esempio in tal senso è rappresentato dalle donazioni fittizie di beni immobiliari che i laici facevano agli ecclesiastici allo scopo di non pagare le tasse sul patrimonio. Conseguenza dei fatti accennati è che aumentarono a dismisura gli ecclesiastici nel Regno di Napoli, mentre si contrassero i beni passibili di tassazione e le rendite dello Stato. Contro questo stato di cose le autorità civili cercarono di limitare il numero delle ordinazioni, gli amministratori locali presero numerose iniziative e inoltrarono numerosissimi ricorsi alle autorità centrali affinché prendessero opportuni provvedimenti tendenti a limitare il fenomeno. Purtroppo tutti i tentativi per porre rimedi alla situazione non portarono ai risultati sperati, poiché l'azione del governo non fu molto decisa e di conseguenza gli abusi continuarono a essere perpetrati.

Nel XVI secolo i chierici del Regno di Napoli percepivano rendite molto diverse: la congrua, i diritti di stola, le decime e i redditi censuari da terreni, da fabbricati, beneficiali, da messe, ecc. Nonostante questi benefici e vari provvedimenti favorevoli, molti chierici delle campagne dell’Italia Meridionale non avevano un adeguato benessere economico e talvolta coltivavano i terreni in loro possesso.

La religione nel secolo è un aspetto importantissimo dell'attività statale e amministrativa. I re di Spagna si considerarono ardui difensori del cattolicesimo e in tutti le istituzioni statali dei loro domini fecero obbligarono i funzionari a esercitarsi in pratiche di culto. Infatti, gli ufficiali pubblici intervenivano in forza alle funzioni sacre, i giudici prima di entrare in seduta ascoltavano la messa, i reggimenti avevano i loro cappellani, nelle carceri dovevano esercitarsi pratiche di culto, la bestemmia era considerata un reato e lo Stato ordinava che si facessero pubbliche preghiere. A livello locale le Università[3] possedevano il diritto di patronato di cappelle laicali e chiese, fornivano alle chiese stesse indumenti sacri, cera ed ostie e pagavano al clero le messe celebrate pro populo.

Con una prammatica del 5 gennaio 1571 il viceré De Rivera ordinò ai parroci di registrare tutti i battezzati in un libro e la parrocchia iniziò ad assolvere anche a funzioni d'anagrafe civile[4].