Dante e l'Arte n.11.2024: Dante e il Preraffaelismo. La famiglia Rossetti e il culto di Dante.
31 gennaio 2025
Dante e l'Arte n.11.2024: Dante e il Preraffaelismo. La famiglia Rossetti e il culto di Dante.
Dante e l'Arte n.11.2024: Dante e il Preraffaelismo. La famiglia Rossetti e il culto di Dante.
24 gennaio 2025
Elena Sangro (Vasto, 5 settembre 1897 – Roma, 26 gennaio 1969). L'attrice italiana dagli occhi fascinatori.
In I grandi artisti del cinema, n. 29, Milano, Gloriosa, 1926.
Elena Sangro
Maria Antonietta Bartoli Avveduti nasce a Vasto, in provincia di Chieti, il 5 settembre 1897, da una famiglia della borghesia locale, figlia dell’amministratore del duca Quarto di Belgioioso. Intraprende studi classici, ma li abbandona presto per difficoltà familiari. Tenta allora la carriera teatrale a Santa Cecilia, a Roma, dove frequenta i corsi di Virginia Marini, interpretando vari ruoli, tra cui Elisabetta ne La cena delle beffe e Raffaella in Patria di Sardou.
Nel 1917 viene segnalata al regista Guazzoni, ed esordisce nel cinema, giovanissima, protagonista di Fabiola (1918), e subito dopo nel personaggio di Erminia ne La Gerusalemme liberata (1918). Dopo queste esperienze, le scritture si susseguono ininterrottamente per un decennio, durante il quale interpreta una quarantina di film, con diverse case di produzione, dalla Cines alla Tiber Film, alla Fert. Nel 1922 ha un ruolo di spicco, anche di produttrice, con la Sangro Film, in Non c’è resurrezione senza morte, film patriottico realizzato grazie al Comitato pro-Montenegro presieduto da Gabriele D’Annunzio, basato sulle memorie del patriota montenegrino Vladimir Popovic. Nel 1924 è Poppea nel kolossal Quo vadis? di Georg Jacoby e Gabriellino D’Annunzio, poi interpreta i tre film della serie Maciste, diretti da Guido Brignone: Maciste imperatore (1924), Maciste all’inferno (1925) e Maciste nella gabbia dei leoni (1926). Nel 1927 è la protagonista di Addio Giovinezza di Augusto Genina, nel 1928 è in Boccaccesca di Alfredo De Antoni. Nel 1928 interpreta il suo ultimo film muto, Villa Falconieri di Richard Oswald, una produzione italo-tedesca.
D’Annunzio è un suo ammiratore e lei ne diventa musa e amante, con il nomignolo di “Ornella” ed è probabile che anche lo pseudonimo di Elena Sangro sia un conio del poeta. Il primo incontro avviene a Roma nel 1919, ma la relazione divampa nel 1927, quando, in occasione di un soggiorno di Elena al Vittoriale, il poeta compone il poemetto erotico Carmen Votivum, dedicandolo “Alla piacente”. Quest’opera, che avrebbe dovuto rimanere confidenziale, viene invece diffusa da D’Annunzio, provocando la reazione indignata dell’attrice e la rottura della relazione.
L’avvento del sonoro segna una cesura nella carriera dell’attrice, che cambia il nome in Lilia Flores, si ritira dal cinema e passa ad esibirsi come soprano in concerti e in trasmissioni radio. Sporadicamente continua a interpretare piccoli ruoli in film come Il re burlone (E. Guazzoni, 1936), L’abito nero da sposa (L. Zampa, 1945) ed Enrico Caruso. Leggenda di una voce (G. Gentilomo, 1951), fino a un cameo in 8 e 1/2 di Federico Fellini, il quale, in varie interviste, la ricorda in Maciste all’inferno, uno dei primi film visti da bambino.
Nell’immediato dopoguerra fonda una propria casa di produzione, la Stella d’Oro Film: tra il 1947 e il 1950, con lo pseudonimo maschile di Anton Bià, produce e dirige diversi documentari d’arte, tra cui Sogno d’amore (1947), Villa Adriana (1948) e Le Madonne di Raffaello (1950). In questa fase torna ad essere suo compagno di lavoro l’anziano Enrico Guazzoni (morirà nel 1949), per la cui regia la Stella d’Oro Film produce il documentario Villa d’Este (1947), il primo film interpretato da Gina Lollobrigida.
Nei primi anni ’60 alcune testimonianze la ricordano attiva nell’Associazione dei Pionieri del Cinema, di cui per un periodo è anche presidente.
Muore a Roma il 26 gennaio 1969.
Da: Ilcinemamuto.it
Da: Vasto Gallery21 gennaio 2025
AA.VV. Feudalità laica e feudalità ecclesiastica nell'Italia meridionale.
19 dicembre 2024
2 dicembre 2024
Costantino Felice, Le stragi di Pietransieri e Sant'Agata, da "Terra di nessuno" a "Terra bruciata".
12 novembre 2024
Quaderni di Archeologia d'Abruzzo, 2-2010.
17 settembre 2024
Sandro Galantini, Beautiful Atri, mon amour, da Tesori d'Abruzzo.
Beautiful Atri, mon amour
Ecco come hanno celebrato e descritto la «Città vetusta» scrittori, poeti e viaggiatori di fama, italiani e stranieri, tra Otto e Novecento
Testo di Sandro Galantini
Vaga e solarina, la ginestra si estenua in trama di sussurro appigliandosi sopra il precipizio che serba nelle sue rughe storie di vento e di pioggia. Gli spettacolari calanchi di Atri, che fanno dirupare lo sguardo su una landa asprigna in cui pare arda il cuore della terra, sono immoti eppure sembrano non avere quiete. Difficile immaginare come queste bolge audaci e magre, su cui volteggiano i falchi pecchiaioli, preludano l’incontro con una città di remotissime origini, intima e fascinosa al contempo, che aduna straordinari tesori d’arte e monumenti dalla bellezza disarmante.
Calanchi di Atri (ph. Giancarlo Malandra)
La naturale propensione alla seduzione di Atri, irresistibile nella tessitura delle ore diurne allorché – come ricordava lo scrittore Michele Prisco ne Il cuore della vita del 1995 – rifulge «d’uno splendore nitidissimo e animato», diviene addirittura sortilegio con la morbidezza felina della sera. Ed allora quando vie, piazze e stradine vengono addomesticate dai bagliori struggenti dei lampioni, questa città «alta, nobilissima» ed estranea agli «adescamenti marini», ancor di più «coinvolge, stupisce, dà emozioni sapientemente articolate», scrive con efficacia ustionante Giorgio Manganelli ne La favola pitagorica, l’intrigante libro uscito per Adelphi nel 2005 che raccoglie i suoi reportage dal 1971 al 1989. Sicché non appare un cedimento all’iperbole quella tripletta di sintetiche definizioni – «perla della collina abruzzese», «limpido esempio di fusione tra architettura e natura», «stupendo centro per i cultori dell’arte e della bellezza» – che il senese Luigi Volpicelli, pedagogista di fama internazionale, aveva riservato in un suo articolo su Atri pubblicato nel 1969 nella rivista del Touring Club Italiano “Le vie d’Italia e del mondo”.
Veduta di Atri (ph. Giancarlo Malandra)
Torniamo però a Manganelli, coriféo del viaggio come immersione passionale e totalizzante nei luoghi. Secondo lo scrittore e giornalista milanese, Atri, la cui cattedrale giudicata splendida da Guido Piovene nel 1956 e citata da Paolo Volponi nel suo romanzo Il palazzo ducale del ’75 gli appare «una mole di indimenticabile potenza geometrica», è decisamente «una città più che antica, arcaica».
Accanto e in aggiunta al paesaggio ed alle emergenze architettoniche, è dunque la storia, in questo caso plurimillenaria, a costituire un elemento ulteriore di attrattività urbana.
Veduta di Atri, 1792
La pensava così anche uno dei protagonisti del Grand Tour, il globetrotter Edward Lear, che il 29 settembre 1843 guada tre fiumi e affronta la faticosa salita per Atri spinto dalla fama dell’«antica Hadria», quella stessa precedentemente osservata da lontano, e descritta sul piano storico, dal connazionale Keppel Richard Craven. Una vetusta città che – annota il viaggiatore londinese – per quanto «decaduta» pure è in grado di calamitare l’attenzione per alcuni «ruderi ciclopici» e per le «mura pittoresche», oltre che per la spettacolare veduta sull’Adriatico e sul retroterra. Ma a stordire e meravigliare Lear, come fosse un balenio fosforico, è la cattedrale, «uno degli edifici in stile gotico italiano più perfetti» tra quelli da egli visitati in Abruzzo e della quale pertanto non lesina inchiostro nella descrizione che consegnerà al suo volume Illustrated Excursions in Italy, pubblicato nel 1846.
Carta dell’Abruzzo (da E. Lear, Illustrated Excursions in Italy, 1846).
Quasi esemplate su quelle del Lear, sono le più sintetiche notazioni dello scrittore e poeta francese Charles-Emmanuel Nicolas Didier per l’Italie pittoresque del 1845. Vero è – lui dice, rievocando così la simile osservazione espressa già nel primo ‘400 dall’umanista Francesco Filelfo – che la fisionomia del borgo è quella ormai di una comune «bourgade campagnarde», appollaiata sulla cresta di una collina arida ed immemore della grandezza passata. E però secondo Didier visitare Atri è doveroso trattandosi di una delle «villes primitives de l’Italie», tanto da aver dato nome al mare Adriatico e i natali alla famiglia dell’imperatore Adriano.
Veduta di Atri (da Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato, 1858?)
Malioso polo-calamita in grado di coagulare, in virtù del suo passato onusto di gloria, ragguardevoli esponenti della cultura europea (come l’enciclopedico Aubin-Louis Millin, venuto in loco il 12 ottobre 1812 per incontrare Francesco Sorricchio, «persona ragguardevole» e collezionista di antiche monete atriane), la città pure continua ad arpeggiare l’anima di chi desidera farsi soggiogare tout court dalla straripante grazia della cattedrale e dei tanti monumenti presenti.
Cattedrale di Atri (ph. Giancarlo Malandra)
Se per lo scozzese Charles Mac Farlane, salito da Napoli negli Abruzzi nella torrida estate del 1848, l’acquaviviana Atri ancora stretta nelle sue mura è senza dubbio «la più antica, la più romantica e in ogni caso la più interessante» tra le località collinari che prueggiano a ridosso del tracciato litoraneo da Pescara verso nord, mezzo secolo dopo, in uno scenario sideralmente diverso, per il filosofo Augusto Conti è una meta imprescindibile trattandosi di una località storica notevole in cui «guide amorevoli e dotte» conducono il visitatore alla scoperta e alla migliore comprensione delle numerose opere d’arte presenti.
Teatro comunale di Atri, primo ‘900
Tra il 1848 di Mac Farlane e il 1897 del toscano Conti c’è stato intanto un vero profluvio di pubblicazioni d’indole varia che ha posto Atri in luce meridiana. Ai prodotti maggiormente significativi del viaggio borghese ottocentesco come le guide Bradshaw e, più ancora, i Murray Handbooks dalle iconiche copertine rosse coi caratteri dorati, si sono infatti affiancati sia i saggi di numismatica, sia gli studi e le robuste monografie a firma di illustri cultori delle arti: da Heinrich Wilhelm Schulz a Enrico Gennarelli; da Charles Callahan Perkins al duo Cavalcaselle-Crowe. È però grazie ad una novella apparsa nel 1872 se la città irrompe potentemente nello scenario internazionale. Si tratta di The bell of Atri (La campana di Atri) del famosissimo poeta statunitense Henry Wadsworth Longfellow, opera di tale fortuna non solo letteraria da approdare al cinema nel 1920 e da venire riproposta in numerose edizioni, l’ultima delle quali uscita nel gennaio 2024.
Cattedrale di Atri, primo ‘900
Storia ed arte continuano ad essere l’endiadi di Atri anche quando il viaggio cambia pelle e si modernizza, divenendo predace con l’automobile. Ce lo dimostrano icasticamente i resoconti nel 1907 di Ugo Ojetti e di Carlo Placci nell’anno seguente. Ammaliati entrambi dalla cattedrale e dai superbi affreschi al suo interno, i viaggiatori-automobilisti Ojetti e Placci ci consegnano infatti descrizioni che pur nitide, tuttavia sono parsimoniose di parole e si direbbe impazienti, come d’altronde impongono i tempi nuovi. Ed epigrafico, nonostante sia uno storico di vaglia, sarà pure Gustave Schlumberger riferendo della sua visita ad Atri ed alla cattedrale cittadina, «uno dei più bei monumenti religiosi dell’Abruzzo», nei suoi Voyage dans les Abruzzes et les Pouilles del 1916. Ai tornanti della dialettica non aveva rinunciato invece il conte e critico d’arte Arturo Jahn Rusconi, spesosi largamente in dotte dissertazioni sul più importante edificio sacro atriano, e sui pregevoli interni, in un ampio articolo diremmo a metà strada tra divulgazione dotta e saggio scientifico pubblicato da “Emporium” nel gennaio 1905 con ricco corredo di foto.
Cattedrale di Atri, interno (ph. Alessandro Antonelli)
Per quanto le pagine novecentesche ridisegnino ottiche e rimodulino tempi d’approccio, in ogni caso Atri continua ancora a sorprendere. Sarà forse per la sua «aria segreta, ritrosa quasi» e per la promessa mantenuta del suo «spettacolo di bellezza», come afferma convintamente lo scrittore Mario Pomilio. Sarà – ancora – perché la città sembra desiderosa di restituire racconti in timida trasparenza a chi le si accosta con rispetto e discrezione. Oppure sarà per le sue chiese, per le residenze gentilizie, per le case minute che possiedono, tutte, un loro cuore, una perfezione leggera accentuata dal filo dei tramonti e dai fiori dell’aurora. Sarà come sarà, l’aristocratica Atri è un ritaglio d’anima che ha segreti specchi e sa donare, ieri come oggi, un giro pieno di emozioni.
Da: Tesori d'Abruzzo
1 luglio 2024
12 giugno 2024
Marco Armiero, "Boschi ed economie nell'Abruzzo dell'Ottocento", da Rivista Meridiana , n.30, 1997.
7 aprile 2024
Annalisa D'Ascenzo, Dalle montagne al mare. Il confine come rifugio, alternativa economica, via di fuga e riscatto sociale, 2010.
26 marzo 2024
A.R. Staffa, Traffici, commerci, popolamento costiero in Abruzzo e Molise fra XI e XIII secolo, in Il Molise Medievale. Archeologia e Arte, 2010.
20 marzo 2024
A. R. Staffa, "La transumanza in Abruzzo tra Tarda Antichità e Medioevo", in PCA - Post Classical Archaeologies, 10 (2020), pp. 401-448.
13 febbraio 2024
Lucia Serafini, Alla periferia del Neoclassicismo. Nicola Maria Pietrocola architetto vastese (1794 - 1865).
Da: unich.it.
18 dicembre 2023
Raffaele Mattioli, Il banchiere della modernità - La formazione dei giovani talenti: una vera missione. "Il Sole 24 Ore" 17.12.2023.
Raffaele Mattioli è stato un economista capace di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia durante tutto il Novecento. È ricordato come il banchiere umanista nel libro edito dal Mulino e scritto da Francesca Pino, consigliere dell’International Council on Archives dell’UNESCO. Il suo ritratto nel nostro longform domenicale
Economista di formazione, Raffaele Mattioli resse dal 1933 al 1972 la Banca Commerciale Italiana, da lui salvata al tempo della Grande crisi e rilanciata verso una nuova espansione con criteri manageriali d’avanguardia. A partire da documenti, scritti e carteggi in gran parte inediti, Francesca Pino ne compone la biografia intellettuale, evidenziandone la grande capacità di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia, e di favorirne l’apertura internazionale. A emergere è il costante impegno sociale e culturale come un filo rosso che collega lo studente Raffaele Mattioli, attento a far propri gli insegnamenti di maestri quali Attilio Cabiati, Luigi Einaudi e Benedetto Croce, al convinto antifascista e promotore della vita economica e intellettuale del nostro paese. Un estratto (pp. 375 ss.) da Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale, Bologna, Il Mulino, 2023.
Mentre l’Italia andava migliorando la propria situazione economica, non era mutata nella diagnosi di Mattioli la valutazione del problema storico della carenza di uomini competenti e responsabili, per «la gestione degli affari del paese» nei vari campi. Il banchiere aveva allevato nuove leve non solo nella Banca Commerciale, ma anche nei campi del giornalismo e della politica, muovendosi nella prospettiva dell’alta formazione, con l’Istituto Croce in primis e con il sostegno dato ad altri centri di formazione come l’Ispi di Milano, la Sioi e vari istituti universitari. Un canale importante per l’educazione alla politica e alla democrazia fu quello delle riviste militanti da lui promosse («La Cultura», tra il 1929 e il 1934, «La Nuova Europa», 1944-1946, e «Lo Spettatore italiano», 1948-1956). Una chiara manifestazione del suo pensiero si trova espressa nel 1955, quando Mattioli si sentì tentato di rispondere a un’indagine della rivista fondata da Giulio Andreotti «Concretezza», sui problemi della pubblica amministrazione: pletorica e inefficiente, costituiva (e costituisce) un annoso problema. Preparò una bozza che probabilmente non venne spedita, nella quale di proposito non si soffermava sull’ipotesi di una razionalizzazione organizzativa (che pure, date le dimensioni della azienda-stato, avrebbe permesso «soluzioni più audaci, più drastiche e più economiche»), ma si concentrava piuttosto sugli aspetti politici della questione, mettendo in evidenza le motivazioni che lo Stato aveva per «creare dei posti di lavoro»: «nel suo interesse di amministratore per poter effettuare la selezione dei migliori su una massa più vasta, nel suo interesse di politica economica per ridurre la disoccupazione, e nell’interesse della stabilità sociale per assorbire, fissare ed imborghesire un certo numero di intellettuali più o meno mancati». Restando nel quadro dell’ideologia liberal-democratica, non mancavano «esempi flagranti di sprechi, di abusi, di ingerenze che sarebbero ridicoli se non si giustificassero con una finalità fiscale, con un residuo di mentalità poliziesca o con la necessità di far fare qualcosa a qualcuno». Era vano sperare di estirpare questi mali così radicati, senza una rigorosa riaffermazione degli ideali della nostra res publica, ossia senza una vera e propria riforma morale che riaccenda in tutti i cittadini la coscienza della loro solidarietà con lo stato. Finché c’è l’amministrazione da una parte e gli amministrati dall’altra, il fisco da un lato e dall’altro il contribuente, il governo e i governati, il tutore dell’ordine e della moralità e il minorenne da guidare e correggere, – le riforme dell’amministrazione resteranno benefici parziali o effimeri omaggi a questa o quella ideologia. (Archivio storico di Intesa Sanpaolo, patrimonio BCI, Carte Mattioli, cart. 218, fasc. Note, n. 35).
Raffaele Mattioli. Ritratto realizzato in studio fotografico a New York durante la missione economica italiana negli Stati Uniti, novembre 1944 – marzo 1945.
Lo statuto dell’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita
A casa tra i libri, primi anni Sessanta, (articolo di Antonello Gerbi, Una sedia vuota a Milano, in «Il Mondo», 18 luglio 1974, p. 29).
Lo spettro delle ricerche si configurava come molto ampio, perché nel termine di classe dirigente erano inclusi tutti coloro che, al governo o all’opposizione, nel parlamento o fuori di esso, muovendosi in una sfera ufficiale ovvero entro spazi propri ed autonomi o addirittura alternativi, abbiano svolto, svolgano, o si preparino a svolgere compiti che vanno al di là del puro esercizio d’un mestiere, d’una professione, d’una funzione, per contribuire invece, nelle forme e nei settori propri ad ognuno (politico, economico, amministrativo, militare, religioso, culturale, sindacale…) a quella che è, di periodo in periodo e ai diversi livelli, la «gestione degli affari del paese». Mattioli era interessato alla finalità «politica» del progetto, per studiare come incanalare verso riforme utili al paese le agitazioni innescate dal Sessantotto. Dopo la sua scomparsa, avvenuta il 27 luglio 1973, il progettò si arenò.
«Mattioli, il volto inatteso della banca ironicamente umana» Così Guido Piovene lo qualificò, congedandosi dalla tappa milanese del suo Viaggio in Italia: «Qui, nella rigorosa difesa dell’interesse e del lucro, le muse attorniano Mercurio». E a proposito della Banca Commerciale osservava: «se è in parte il prodotto dell’ambiente, in parte non minore questo ambiente è stato modellato e animato da lui». La Comit aveva contribuito a formare alcuni tra gli uomini politici più in vista, Malagodi, Merzagora, La Malfa, «egualmente nutriti di spiriti laici e progressistici, aperti alle idee e non pavidi dei fatti». La loro impronta comune era l’ultima eredità del Risorgimento. […] Non senza qualche accento, in taluni, di un radicalismo paradossale in una banca: la sempre risorgente querela contro le scarse capacità di riforma, in senso politico e religioso, della società italiana. Che però in Mattioli si vela di umanesimo e di ironia. Proprio quest’ultima caratteristica, l’ironia, contraddistingueva il banchiere: «un’irriverenza che ricorda Galiani (o, come egli preferisce dire, “di stampo galianeo”), tanto più esplicita quando travolge la sua stessa persona» (citazioni da G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1957, p. 79). […] È sorprendente – in un civil servant che sentiva profondamente il valore delle istituzioni – la presenza tanto spiccata di un côté iconoclasta, di un’ironia dionisiaca e carnale, molto abruzzese nel buon senso paesano, napoletana e meridionale nella fantasia, negli esorcismi e nella fedeltà alle radici. Il riserbo da banchiere che si tramutava nel suo contrario, l’impertinenza, era un espediente per sciogliere la tensione e per contenere una natura calda di affetti e di generosità, partecipe delle disgrazie civili della «patria» e orientata sempre alla difesa della parte sana della società: i lavoratori di ogni ordine e grado e, come si legge nella biografia appena edita dal Mulino, gli oppressi da ingiustizie e persecuzioni.
Da: startupitalia.eu