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31 gennaio 2025

Dante e l'Arte n.11.2024: Dante e il Preraffaelismo. La famiglia Rossetti e il culto di Dante.


Dante e l'Arte n.11.2024: Dante e il Preraffaelismo. La famiglia Rossetti e il culto di Dante.

Il dossier del presente numero 11 (2024) di Dante e l’Arte è dedicato allo studio del legame fra il Preraffaellismo e l’opera dantesca. L’ intreccio quasi indissolubile tra arte e letteratura materializzatosi nell’interesse per Dante da parte della Pre-Raphaelite Brotherhood viene qui esplorato grazie a diversi contributi, tutti caratterizzati da un uguale approccio multidisciplinare, mai circoscritto a un unico ambito geografico, orientato piuttosto verso tutti gli ambiti: letterario, artistico, teorico-poetico e storico-culturale.
Il focus è posto sul ruolo, centralissimo, che Dante ha avuto nella produzione artistica di Dante Gabriel Rossetti, ma anche nelle sue vicende personali e familiari. L’articolo di Gianni Oliva ci informa appunto di quanto fosse fondante questo legame per tutta la famiglia Rossetti. Inoltre, ci propone una rassegna degli studi più recenti prodotti dal «Centro europeo di studi rossettiani» operativo a Vasto fin dal 2008. Il tema della centralità di Dante viene ripreso e sviluppato da Deirdre O’Grady, la quale, riesaminando le celebri raffigurazioni Rossettiane di due personaggi danteschi femminili, Francesca da Rimini e Pia dei Tolomei, ne fa una lettura in chiave di innovazione: la purezza poetica dantesca confluisce nel simbolismo decadente nel quale si muove Rossetti. Il contributo di Paolo De Ventura ci ricorda come il rapporto diretto Dante-Rossetti vada oltre la dimensione del traduttore e sia piuttosto ascrivibile a una sorta di appropriazione di stili e di motivi ispiratori, e al rispecchiarsi di Rossetti in un paradigma biografico romanticamente rivissuto. Dall’analisi di due sonetti, uno che è traduzione di un sonetto dantesco l’altro originale rossettiano, emerge la continuità tra traduttore e poeta e viene dipanato il filo che dalla traduzione porta inaspettatamente alla composizione originale.
I successivi articoli prendono in considerazione anche altri aspetti e personaggi. Anne-Florence Gillard-Estrada mette a fuoco le diverse rappresentazioni di Paolo e Francesca nell’ambito dei movimenti preraffaelliti ed “estetici”.
Quella di Rossetti costituirebbe una svolta decisiva in quanto trascende il riserbo femminile con cui la scena era solitamente trattata, per metterne in rilievo, con l’abbraccio dei due amanti, la forte carica sensuale. La scena fu ripresa da diversi pittori estetici che però ne annullarono la dimensione passionale a vantaggio del puro sentimentalismo. Alle opere pittoriche di Marie Spartali Stillman che si ispirano a Dante è dedicato invece il saggio di Emilia Di Rocco, nel quale viene delineata la personalità di Spartali Stillman attraverso le sue opere che oltre a testimoniare l’influenza esercitata dai preraffaeliti rispetto a Dante, entrano a pieno titolo nel canone di un’iconografia che fino a quel momento era stata prevalentemente al maschile. La pratica artistica diventa anche un tentativo di ricerca di un proprio stile, di emancipazione dai “padri” e di riconoscimento come artista e come donna nell’Inghilterra vittoriana. Stefania Arcara nel suo contributo, parte dalle peculiarità della figura di Beatrice tale come appare nell’opera poetica e pittorica di Dante Gabriel Rossetti per passare ad esaminare alcuni esempi della produzione poetica di Elizabeth Siddal e di Christina Rossetti. Li mette poi a confronto secondo un’inedita prospettiva protofemminista, con la figura della donna amata quale musa ispiratrice del genio artistico maschile. La donna oggetto d’amore della tradizione maschile diventa in questo modo soggetto della lirica amorosa. In questo modo la visione cristiana che ispira la lirica di Christina le permetterebbe di essere più fedele allo spirito dantesco del fratello, Dante Gabriel, e della sua estetizzante Beatrice preraffaellita.
Chiudono il dossier tre testi che esplorano altri aspetti dell’influsso esercitato dal dantismo preraffaellita. Fabio Cammilletti fa riferimento al ruolo di medium che l’Ottocento attribuisce a Dante, in quanto ascrivibile a una certa visione del poeta propria del movimento preraffaellita. In effetti la mediazione dei Preraffaelliti rispetto all’appropriazione di Dante da parte del movimento spiritista fa pensare al fatto che Rossetti abbia promosso non tanto un dantismo ‘spiritico’ quanto un vero e proprio spiritismo ‘dantesco’.D’altra parte, le vicende che legano le opere di Rossetti a Dante forniscono già di per sé spunti interessanti per alcuni quadri che fanno parte di questo ambito. Yannick Le Pappe che ha studiato le collezioni, sia private che pubbliche in larga misura britanniche o nordamericane sostiene che le opere che racchiudono riflettono sia l'immaginario vittoriano sia i cambiamenti del mercato dell'arte nella seconda metà dell'Ottocento. L’ultimo testo del monografico, infine, esplora il dantismo di James Joyce in chiave rossettiana. Tra il 1912 e il 1915 l’autore irlandese aveva acquisito una copia della prestigiosa ristampa della Vita Nuova con i quadri di Rossetti come illustrazioni. Valentina Mele sonda l’influenza che la cosiddetta edizione “preraffaellita” del libello di Dante ha avuto nell’immaginario Joyciano, attraverso l’analisi della complessa figura di Gerty, la Nausicaa che Bloom incontra sulla spiaggia di Sandymount. A riprova che il dantismo preraffaellita, ha avuto un ruolo fondamentale e di massima rilevanza storica nei processi di ricezione e di riappropriazione di Dante sia per la cultura dell’epoca che per quella successiva e nei più svariati ambiti artistici.
Ringraziamo i colleghi Nicola Di Nino e Veronica Pesce che hanno dato l’avvio ai lavori di questo dossier.
Centro Europeo di Studi Rossettiani & Universidad Autonoma de Barcelona

24 gennaio 2025

Elena Sangro (Vasto, 5 settembre 1897 – Roma, 26 gennaio 1969). L'attrice italiana dagli occhi fascinatori.


Elena Sangro

Maria Antonietta Bartoli Avveduti nasce a Vasto, in provincia di Chieti, il 5 settembre 1897, da una famiglia della borghesia locale, figlia dell’amministratore del duca Quarto di Belgioioso. Intraprende studi classici, ma li abbandona presto per difficoltà familiari. Tenta allora la carriera teatrale a Santa Cecilia, a Roma, dove frequenta i corsi di Virginia Marini, interpretando vari ruoli, tra cui Elisabetta ne La cena delle beffe e Raffaella in Patria di Sardou.

Nel 1917 viene segnalata al regista Guazzoni, ed esordisce nel cinema, giovanissima, protagonista di Fabiola (1918), e subito dopo nel personaggio di Erminia ne La Gerusalemme liberata (1918). Dopo queste esperienze, le scritture si susseguono ininterrottamente per un decennio, durante il quale interpreta una quarantina di film, con diverse case di produzione, dalla Cines alla Tiber Film, alla Fert. Nel 1922 ha un ruolo di spicco, anche di produttrice, con la Sangro Film, in Non c’è resurrezione senza morte, film patriottico realizzato grazie al Comitato pro-Montenegro presieduto da Gabriele D’Annunzio, basato sulle memorie del patriota montenegrino Vladimir Popovic. Nel 1924 è Poppea nel kolossal Quo vadis? di Georg Jacoby e Gabriellino D’Annunzio, poi interpreta i tre film della serie Maciste, diretti da Guido Brignone: Maciste imperatore (1924), Maciste all’inferno (1925) e Maciste nella gabbia dei leoni (1926). Nel 1927 è la protagonista di Addio Giovinezza di Augusto Genina, nel 1928 è in Boccaccesca di Alfredo De Antoni. Nel 1928 interpreta il suo ultimo film muto, Villa Falconieri di Richard Oswald, una produzione italo-tedesca.

D’Annunzio è un suo ammiratore e lei ne diventa musa e amante, con il nomignolo di “Ornella” ed è probabile che anche lo pseudonimo di Elena Sangro sia un conio del poeta. Il primo incontro avviene a Roma nel 1919, ma la relazione divampa nel 1927, quando, in occasione di un soggiorno di Elena al Vittoriale, il poeta compone il poemetto erotico Carmen Votivum, dedicandolo “Alla piacente”. Quest’opera, che avrebbe dovuto rimanere confidenziale, viene invece diffusa da D’Annunzio, provocando la reazione indignata dell’attrice e la rottura della relazione.

L’avvento del sonoro segna una cesura nella carriera dell’attrice, che cambia il nome in Lilia Flores, si ritira dal cinema e passa ad esibirsi come soprano in concerti e in trasmissioni radio. Sporadicamente continua a interpretare piccoli ruoli in film come Il re burlone (E. Guazzoni, 1936), L’abito nero da sposa (L. Zampa, 1945) ed Enrico Caruso. Leggenda di una voce (G. Gentilomo, 1951), fino a un cameo in 8 e 1/2 di Federico Fellini, il quale, in varie interviste, la ricorda in Maciste all’inferno, uno dei primi film visti da bambino.

Nell’immediato dopoguerra fonda una propria casa di produzione, la Stella d’Oro Film: tra il 1947 e il 1950, con lo pseudonimo maschile di Anton Bià, produce e dirige diversi documentari d’arte, tra cui Sogno d’amore (1947), Villa Adriana (1948) e Le Madonne di Raffaello (1950). In questa fase torna ad essere suo compagno di lavoro l’anziano Enrico Guazzoni (morirà nel 1949), per la cui regia la Stella d’Oro Film produce il documentario Villa d’Este (1947), il primo film interpretato da Gina Lollobrigida.

Nei primi anni ’60 alcune testimonianze la ricordano attiva nell’Associazione dei Pionieri del Cinema, di cui per un periodo è anche presidente.

Muore a Roma il 26 gennaio 1969.

Da: Ilcinemamuto.it

Da: Vasto Gallery

17 settembre 2024

Sandro Galantini, Beautiful Atri, mon amour, da Tesori d'Abruzzo.


 Beautiful Atri, mon amour

Ecco come hanno celebrato e descritto la «Città vetusta» scrittori, poeti e viaggiatori di fama, italiani e stranieri, tra Otto e Novecento

Testo di Sandro Galantini

Vaga e solarina, la ginestra si estenua in trama di sussurro appigliandosi sopra il precipizio che serba nelle sue rughe storie di vento e di pioggia. Gli spettacolari calanchi di Atri, che fanno dirupare lo sguardo su una landa asprigna in cui pare arda il cuore della terra, sono immoti eppure sembrano non avere quiete. Difficile immaginare come queste bolge audaci e magre, su cui volteggiano i falchi pecchiaioli, preludano l’incontro con una città di remotissime origini, intima e fascinosa al contempo, che aduna straordinari tesori d’arte e monumenti dalla bellezza disarmante.

Calanchi di Atri (ph. Giancarlo Malandra)

La naturale propensione alla seduzione di Atri, irresistibile nella tessitura delle ore diurne allorché – come ricordava lo scrittore Michele Prisco ne Il cuore della vita del 1995 – rifulge «d’uno splendore nitidissimo e animato», diviene addirittura sortilegio con la morbidezza felina della sera. Ed allora quando vie, piazze e stradine vengono addomesticate dai bagliori struggenti dei lampioni, questa città «alta, nobilissima» ed estranea agli «adescamenti marini», ancor di più «coinvolge, stupisce, dà emozioni sapientemente articolate», scrive con efficacia ustionante Giorgio Manganelli ne La favola pitagorica, l’intrigante libro uscito per Adelphi nel 2005 che raccoglie i suoi reportage dal 1971 al 1989. Sicché non appare un cedimento all’iperbole quella tripletta di sintetiche definizioni – «perla della collina abruzzese», «limpido esempio di fusione tra architettura e natura», «stupendo centro per i cultori dell’arte e della bellezza» – che il senese Luigi Volpicelli, pedagogista di fama internazionale, aveva riservato in un suo articolo su Atri pubblicato nel 1969 nella rivista del Touring Club Italiano “Le vie d’Italia e del mondo”.

Veduta di Atri (ph. Giancarlo Malandra)

Torniamo però a Manganelli, coriféo del viaggio come immersione passionale e totalizzante nei luoghi. Secondo lo scrittore e giornalista milanese, Atri, la cui cattedrale giudicata splendida da Guido Piovene nel 1956 e citata da Paolo Volponi nel suo romanzo Il palazzo ducale del ’75 gli appare «una mole di indimenticabile potenza geometrica», è decisamente «una città più che antica, arcaica».

Accanto e in aggiunta al paesaggio ed alle emergenze architettoniche, è dunque la storia, in questo caso plurimillenaria, a costituire un elemento ulteriore di attrattività urbana.

Veduta di Atri, 1792

La pensava così anche uno dei protagonisti del Grand Tour, il globetrotter Edward Lear, che il 29 settembre 1843 guada tre fiumi e affronta la faticosa salita per Atri spinto dalla fama dell’«antica Hadria», quella stessa precedentemente osservata da lontano, e descritta sul piano storico, dal connazionale Keppel Richard Craven. Una vetusta città che – annota il viaggiatore londinese – per quanto «decaduta» pure è in grado di calamitare l’attenzione per alcuni «ruderi ciclopici» e per le «mura pittoresche», oltre che per la spettacolare veduta sull’Adriatico e sul retroterra. Ma a stordire e meravigliare Lear, come fosse un balenio fosforico, è la cattedrale, «uno degli edifici in stile gotico italiano più perfetti» tra quelli da egli visitati in Abruzzo e della quale pertanto non lesina inchiostro nella descrizione che consegnerà al suo volume Illustrated Excursions in Italy, pubblicato nel 1846.

Carta dell’Abruzzo (da E. Lear, Illustrated Excursions in Italy, 1846).

Quasi esemplate su quelle del Lear, sono le più sintetiche notazioni dello scrittore e poeta francese Charles-Emmanuel Nicolas Didier per l’Italie pittoresque del 1845. Vero è – lui dice, rievocando così la simile osservazione espressa già nel primo ‘400 dall’umanista Francesco Filelfo – che la fisionomia del borgo è quella ormai di una comune «bourgade campagnarde», appollaiata sulla cresta di una collina arida ed immemore della grandezza passata. E però secondo Didier visitare Atri è doveroso trattandosi di una delle «villes primitives de l’Italie», tanto da aver dato nome al mare Adriatico e i natali alla famiglia dell’imperatore Adriano.

Veduta di Atri (da Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato, 1858?)

Malioso polo-calamita in grado di coagulare, in virtù del suo passato onusto di gloria, ragguardevoli esponenti della cultura europea (come l’enciclopedico Aubin-Louis Millin, venuto in loco il 12 ottobre 1812 per incontrare Francesco Sorricchio, «persona ragguardevole» e collezionista di antiche monete atriane), la città pure continua ad arpeggiare l’anima di chi desidera farsi soggiogare tout court dalla straripante grazia della cattedrale e dei tanti monumenti presenti.

Cattedrale di Atri (ph. Giancarlo Malandra)

Se per lo scozzese Charles Mac Farlane, salito da Napoli negli Abruzzi nella torrida estate del 1848, l’acquaviviana Atri ancora stretta nelle sue mura è senza dubbio «la più antica, la più romantica e in ogni caso la più interessante» tra le località collinari che prueggiano a ridosso del tracciato litoraneo da Pescara verso nord, mezzo secolo dopo, in uno scenario sideralmente diverso, per il filosofo Augusto Conti è una meta imprescindibile trattandosi di una località storica notevole in cui «guide amorevoli e dotte» conducono il visitatore alla scoperta e alla migliore comprensione delle numerose opere d’arte presenti.

Teatro comunale di Atri, primo ‘900

Tra il 1848 di Mac Farlane e il 1897 del toscano Conti c’è stato intanto un vero profluvio di pubblicazioni d’indole varia che ha posto Atri in luce meridiana. Ai prodotti maggiormente significativi del viaggio borghese ottocentesco come le guide Bradshaw e, più ancora, i Murray Handbooks dalle iconiche copertine rosse coi caratteri dorati, si sono infatti affiancati sia i saggi di numismatica, sia gli studi e le robuste monografie a firma di illustri cultori delle arti: da Heinrich Wilhelm Schulz a Enrico Gennarelli; da Charles Callahan Perkins al duo Cavalcaselle-Crowe. È però grazie ad una novella apparsa nel 1872 se la città irrompe potentemente nello scenario internazionale. Si tratta di The bell of Atri (La campana di Atri) del famosissimo poeta statunitense Henry Wadsworth Longfellow, opera di tale fortuna non solo letteraria da approdare al cinema nel 1920 e da venire riproposta in numerose edizioni, l’ultima delle quali uscita nel gennaio 2024.

Cattedrale di Atri, primo ‘900

Storia ed arte continuano ad essere l’endiadi di Atri anche quando il viaggio cambia pelle e si modernizza, divenendo predace con l’automobile. Ce lo dimostrano icasticamente i resoconti nel 1907 di Ugo Ojetti e di Carlo Placci nell’anno seguente. Ammaliati entrambi dalla cattedrale e dai superbi affreschi al suo interno, i viaggiatori-automobilisti Ojetti e Placci ci consegnano infatti descrizioni che pur nitide, tuttavia sono parsimoniose di parole e si direbbe impazienti, come d’altronde impongono i tempi nuovi. Ed epigrafico, nonostante sia uno storico di vaglia, sarà pure Gustave Schlumberger riferendo della sua visita ad Atri ed alla cattedrale cittadina, «uno dei più bei monumenti religiosi dell’Abruzzo», nei suoi Voyage dans les Abruzzes et les Pouilles del 1916. Ai tornanti della dialettica non aveva rinunciato invece il conte e critico d’arte Arturo Jahn Rusconi, spesosi largamente in dotte dissertazioni sul più importante edificio sacro atriano, e sui pregevoli interni, in un ampio articolo diremmo a metà strada tra divulgazione dotta e saggio scientifico pubblicato da “Emporium” nel gennaio 1905 con ricco corredo di foto.

Cattedrale di Atri, interno (ph. Alessandro Antonelli)

Per quanto le pagine novecentesche ridisegnino ottiche e rimodulino tempi d’approccio, in ogni caso Atri continua ancora a sorprendere. Sarà forse per la sua «aria segreta, ritrosa quasi» e per la promessa mantenuta del suo «spettacolo di bellezza», come afferma convintamente lo scrittore Mario Pomilio. Sarà – ancora – perché la città sembra desiderosa di restituire racconti in timida trasparenza a chi le si accosta con rispetto e discrezione. Oppure sarà per le sue chiese, per le residenze gentilizie, per le case minute che possiedono, tutte, un loro cuore, una perfezione leggera accentuata dal filo dei tramonti e dai fiori dell’aurora. Sarà come sarà, l’aristocratica Atri è un ritaglio d’anima che ha segreti specchi e sa donare, ieri come oggi, un giro pieno di emozioni.

Da: Tesori d'Abruzzo

18 dicembre 2023

Raffaele Mattioli, Il banchiere della modernità - La formazione dei giovani talenti: una vera missione. "Il Sole 24 Ore" 17.12.2023.



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ECONOMIA E SOCIETA
Domenica
17 dicembre 2023

Raffaele Mattioli/1. Francesca Pino ricostruisce il percorso intellettuale dell’economista che ha trasformato la Comit da soggetto finanziario a infrastruttura culturale dello sviluppo italiano

Paolo Bricco

Esistono libri che sono aspettati con ansia dalla comunità italiana interessata al Novecento, ai suoi snodi e alle sue personalità. Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale è uno di questi. Francesca Pino, a lungo responsabile degli archivi storici di Intesa Sanpaolo, è stata dagli anni 80 l’appassionata depositaria della memoria di Mattioli e ha scritto, prima di questo tanto atteso opus magnum di una vita, non pochi articoli scientifici sul banchiere umanista.

Pino dichiara subito il suo metodo e la sua linea interpretativa. Mattioli è considerato soprattutto nel suo pensiero e nella sua influenza appunto intellettuale, che è stata così vasta e profonda da trasformare la banca – la “sua” Banca Commerciale – da un soggetto finanziario in una specie di infrastruttura culturale e sociale dello sviluppo italiano nel Secondo dopoguerra. Evidenzia l’autrice: «Anche se denso di fatti e avvenimenti, questo mio lavoro non risponde ai canoni della storia d’impresa e della banca, pur indicando alcuni tratti dell’imprenditorialità che sono ben riconoscibili in Mattioli. Ho limitato l’uso di modelli, schemi e comparazioni, e l’attualizzazione con rimandi a problematiche dei nostri giorni, cercando piuttosto di illuminare gli aspetti che permettono di collocare Raffaele Mattioli tra i “classici” cui si è tanto dedicato, e di dare alle nuove generazioni la possibilità di scoprirne il pensiero e il temperamento».

Questa biografia osserva il canone della narrazione temporale lineare. L’incipit apre uno squarcio sulle origini di Mattioli, che appartiene a una generazione di giovani provinciali arrivati da adulti a Milano: «Il ramo paterno della famiglia di Raffaele Mattioli era ben radicato a Vasto: il nonno Francesco Paolo è descritto come “negoziante” di pelli grezze e “pizzicagnolo” in un Indicatore generale del commercio del 1881».

Sui primi anni in Abruzzo, lo scrittore Alberto Vigevani riporterà così le confidenze ricevute da Mattioli: «A volte, con abbandono, mi raccontava memorie della propria infanzia, ricordi della giovinezza. L’inverno a Vasto faceva un gran freddo, Mattioli bambino usciva a spasso col nonno che portava un pesante mantello di panno nero. Quando nevicava, lo prendeva sotto l’ala del mantello e il bambino, con la mano, ne sollevava appena una falda: in quello spiraglio, quasi fosse praticato nel sipario di un palcoscenico, s’incantava allo spettacolo delle strade, delle case, del mercato con le sue bancarelle, della chiesa illuminata».

Ma il filo rosso più consistente e robusto che si dipana nel libro è, appunto, quello intellettuale.

Intellettuale nel senso della tecnica economica. E intellettuale nel senso della cultura umanistica. Sul primo versante – dopo l’esperienza esistenziale e politica, nel 1919, nella città occupata di Fiume, dove svolge la mansione di addetto stampa – Mattioli a Milano diventa caporedattore della «Rivista bancaria» e, nel 1920, scrive alla fidanzata Emilia: «La mia Rivista va sempre meglio. Mi è giunta oggi da Vilfredo Pareto una lettera che mi ha fatto molto piacere. Tu non sai chi è Vilfredo Pareto? È il più grande economista italiano, e senza dubbio uno dei più grandi del mondo».

La dimensione analitica permane nella costruzione di una idea di banca: sulla sua rivista compare assiduamente l’attività svolta a favore delle imprese dalle banche americane nel commercio estero, con lo studio dei mercati, della produzione e della distribuzione dei diversi settori.

Qui si coglie l’antica radice riflessiva da cui si genererà la Comit di Mattioli, capace di edificare il mito di sé stessa sul suo servizio studi e sulla sua funzione di bussola delle imprese italiane, dal boom economico, sui mercati internazionali.

Nella cultura umanistica, Mattioli è l’espressione della ricerca di una modernità nell’idealismo, nel senso di Benedetto Croce, e nel tentativo di contribuire alla sprovincializzazione della cultura italiana, resa senza respiro e senza visione da vent’anni di fascismo, attraverso l’organizzazione e la promozione culturale di istituti (per esempio l’Istituto Italiano per gli Studi Storici), di biblioteche, di gruppi di lavoro intellettuali.

L’elemento interessante – nella fusione di queste due accezioni di pulsione culturale – è il compromesso che il pensiero fa con la realtà e che, nella biografia di Mattioli, si traduce – già sotto il fascismo della recessione post crisi del 1929 e poi nella democrazia della ricostruzione – nella continua e assidua attività di elaborazione di strategie sistemiche a beneficio del Paese.

Nel suo dialogo serrato con l’establishment – di cui è una sorta di mago, di organizzatore e di incantatore – propone in una lettera del 28 maggio 1947 un manifesto di politica economica a Palmiro Togliatti, in risposta alla richiesta del capo carismatico e politico del Partito Comunista Italiano di avere un aiuto per capire la situazione monetaria e finanziaria.

Ricostruisce Pino: «L’invito del banchiere a Togliatti era quello di guardare ai fondamentali dell’economia del Paese, a “fare i conti” (come si continuava a dire e pensare nel suo entourage), e a non disinteressarsi della “sana finanza” che è un “interesse nazionale – di tutta la nazione – e se a qualcuno deve importare più che ad altri è proprio a quei ceti a cui più particolarmente il Suo partito si dirige”».

Pensiero e realtà, politica e finanza, tecnocrazia e umanesimo. Tutto nella vita del nipote del negoziante di pelle grezze di Vasto, Abruzzo, Italia.


Francesca Pino
Raffaele Mattioli.
Una biografia intellettuale
Il Mulino, pagg. 404, € 34

https://www.ilsole24ore.com/



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Raffaele Mattioli è stato un economista capace di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia durante tutto il Novecento. È ricordato come il banchiere umanista nel libro edito dal Mulino e scritto da Francesca Pino, consigliere dell’International Council on Archives dell’UNESCO. Il suo ritratto nel nostro longform domenicale


                di Francesca Pino, 10.12.2023

Economista di formazione, Raffaele Mattioli resse dal 1933 al 1972 la Banca Commerciale Italiana, da lui salvata al tempo della Grande crisi e rilanciata verso una nuova espansione con criteri manageriali d’avanguardia. A partire da documenti, scritti e carteggi in gran parte inediti, Francesca Pino ne compone la biografia intellettuale, evidenziandone la grande capacità di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia, e di favorirne l’apertura internazionale. A emergere è il costante impegno sociale e culturale come un filo rosso che collega lo studente Raffaele Mattioli, attento a far propri gli insegnamenti di maestri quali Attilio Cabiati, Luigi Einaudi e Benedetto Croce, al convinto antifascista e promotore della vita economica e intellettuale del nostro paese. Un estratto (pp. 375 ss.) da Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale, Bologna, Il Mulino, 2023.


Mentre l’Italia andava migliorando la propria situazione economica, non era mutata nella diagnosi di Mattioli la valutazione del problema storico della carenza di uomini competenti e responsabili, per «la gestione degli affari del paese» nei vari campi. Il banchiere aveva allevato nuove leve non solo nella Banca Commerciale, ma anche nei campi del giornalismo e della politica, muovendosi nella prospettiva dell’alta formazione, con l’Istituto Croce in primis e con il sostegno dato ad altri centri di formazione come l’Ispi di Milano, la Sioi e vari istituti universitari. Un canale importante per l’educazione alla politica e alla democrazia fu quello delle riviste militanti da lui promosse («La Cultura», tra il 1929 e il 1934, «La Nuova Europa», 1944-1946, e «Lo Spettatore italiano», 1948-1956). Una chiara manifestazione del suo pensiero si trova espressa nel 1955, quando Mattioli si sentì tentato di rispondere a un’indagine della rivista fondata da Giulio Andreotti «Concretezza», sui problemi della pubblica amministrazione: pletorica e inefficiente, costituiva (e costituisce) un annoso problema. Preparò una bozza che probabilmente non venne spedita, nella quale di proposito non si soffermava sull’ipotesi di una razionalizzazione organizzativa (che pure, date le dimensioni della azienda-stato, avrebbe permesso «soluzioni più audaci, più drastiche e più economiche»), ma si concentrava piuttosto sugli aspetti politici della questione, mettendo in evidenza le motivazioni che lo Stato aveva per «creare dei posti di lavoro»: «nel suo interesse di amministratore per poter effettuare la selezione dei migliori su una massa più vasta, nel suo interesse di politica economica per ridurre la disoccupazione, e nell’interesse della stabilità sociale per assorbire, fissare ed imborghesire un certo numero di intellettuali più o meno mancati». Restando nel quadro dell’ideologia liberal-democratica, non mancavano «esempi flagranti di sprechi, di abusi, di ingerenze che sarebbero ridicoli se non si giustificassero con una finalità fiscale, con un residuo di mentalità poliziesca o con la necessità di far fare qualcosa a qualcuno». Era vano sperare di estirpare questi mali così radicati, senza una rigorosa riaffermazione degli ideali della nostra res publica, ossia senza una vera e propria riforma morale che riaccenda in tutti i cittadini la coscienza della loro solidarietà con lo stato. Finché c’è l’amministrazione da una parte e gli amministrati dall’altra, il fisco da un lato e dall’altro il contribuente, il governo e i governati, il tutore dell’ordine e della moralità e il minorenne da guidare e correggere, – le riforme dell’amministrazione resteranno benefici parziali o effimeri omaggi a questa o quella ideologia. (Archivio storico di Intesa Sanpaolo, patrimonio BCI, Carte Mattioli, cart. 218, fasc. Note, n. 35).

Raffaele Mattioli.  Ritratto realizzato in studio fotografico a New York durante la missione economica italiana negli Stati Uniti, novembre 1944 – marzo 1945.

Come ideologie, aveva passato rapidamente in rassegna l’estremo liberalismo, il comunismo assoluto e l’ideologia liberal-democratica. […] Un passo dalle relazioni annuali di bilancio della Banca Commerciale Italiana sintetizza le sue preoccupazioni per l’immobilismo del paese: Che cosa è dunque successo in Italia dopo il 1962-63? A nostro parere è successo qualcosa di più serio e di meno nocivo che la fase negativa di uno dei soliti cicli economici. Lo slancio produttivo degli anni antecedenti ha urtato contro un complesso di strutture e di infrastrutture antiquate e rigide: le norme tributarie, gli ordinamenti amministrativi, l’organizzazione previdenziale, l’apparato scolastico, tutta l’armatura delle comunicazioni, la rete distributiva, le tecniche dell’agricoltura, gran parte del sistema giuridico e la mentalità stessa di molti imprenditori, son rimasti quel che erano cinquanta e più anni fa, e impacciano l’impeto di rinnovamento e di progresso economico che in tanti settori già si è affermato e tenta di farsi luce (Banca Commerciale Italiana, Raccolta delle relazioni di bilancio 1945-1965, esercizio 1965, pp. 334-335).

Lo statuto dell’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita

Nel tentativo di contrastare queste derive, Mattioli convocò nel 1970 un gruppo di storici contemporanei per formare l’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unitaallo scopo di raccogliere, vagliare e coordinare le ricerche – in corso e future – prodotte dalle diverse scuole «ideologiche» (cattolica, comunista ecc., che non dialogavano tra loro), e di pubblicare una rivista dal foscoliano titolo «Ipercalisse» (supremo nascondimento), affiancata da una collana di saggi. Fu scelto un motto in greco, Mantis aristos ostis eikazei kalos («È buon profeta chi congettura bene») che correva lungo un cerchio nel quale era riprodotto un ritratto di gusto ottocentesco e romantico del Foscolo. Il libello dell’Ipercalisse era stato composto nel 1815, con l’uso di chiavi e occultamenti di identità, per polemizzare contro l’arrendevolezza degli intellettuali nei confronti dei «Governanti». Alle riunioni domenicali, convocate in casa Mattioli e coordinate da Brunello Vigezzi insieme a Giorgio Rumi ed Enrico Decleva, furono invitati studiosi già affermati, giovani ricercatori e alcuni dei «consiglieri culturali» di Mattioli. Un Quaderno di ricerca promosso dalla Fondazione Rafaele Mattioli per la storia del pensiero economico (Sulla formazione della classe dirigente. L’ultimo progetto di Raffaele Mattioli, Torino, Aragno, 2023, a cura di chi scrive) ricostruisce in dettaglio la vicenda e il network degli studiosi partecipanti all’iniziativa.

A casa tra i libri, primi anni Sessanta, (articolo di Antonello Gerbi, Una sedia vuota a Milano, in «Il Mondo», 18 luglio 1974, p. 29).

Lo spettro delle ricerche si configurava come molto ampio, perché nel termine di classe dirigente erano inclusi tutti coloro che, al governo o all’opposizione, nel parlamento o fuori di esso, muovendosi in una sfera ufficiale ovvero entro spazi propri ed autonomi o addirittura alternativi, abbiano svolto, svolgano, o si preparino a svolgere compiti che vanno al di là del puro esercizio d’un mestiere, d’una professione, d’una funzione, per contribuire invece, nelle forme e nei settori propri ad ognuno (politico, economico, amministrativo, militare, religioso, culturale, sindacale…) a quella che è, di periodo in periodo e ai diversi livelli, la «gestione degli affari del paese». Mattioli era interessato alla finalità «politica» del progetto, per studiare come incanalare verso riforme utili al paese le agitazioni innescate dal Sessantotto. Dopo la sua scomparsa, avvenuta il 27 luglio 1973, il progettò si arenò.

«Mattioli, il volto inatteso della banca ironicamente umana» Così Guido Piovene lo qualificò, congedandosi dalla tappa milanese del suo Viaggio in Italia: «Qui, nella rigorosa difesa dell’interesse e del lucro, le muse attorniano Mercurio». E a proposito della Banca Commerciale osservava: «se è in parte il prodotto dell’ambiente, in parte non minore questo ambiente è stato modellato e animato da lui». La Comit aveva contribuito a formare alcuni tra gli uomini politici più in vista, Malagodi, Merzagora, La Malfa, «egualmente nutriti di spiriti laici e progressistici, aperti alle idee e non pavidi dei fatti». La loro impronta comune era l’ultima eredità del Risorgimento. […] Non senza qualche accento, in taluni, di un radicalismo paradossale in una banca: la sempre risorgente querela contro le scarse capacità di riforma, in senso politico e religioso, della società italiana. Che però in Mattioli si vela di umanesimo e di ironia. Proprio quest’ultima caratteristica, l’ironia, contraddistingueva il banchiere: «un’irriverenza che ricorda Galiani (o, come egli preferisce dire, “di stampo galianeo”), tanto più esplicita quando travolge la sua stessa persona» (citazioni da G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1957, p. 79). […] È sorprendente – in un civil servant che sentiva profondamente il valore delle istituzioni – la presenza tanto spiccata di un côté iconoclasta, di un’ironia dionisiaca e carnale, molto abruzzese nel buon senso paesano, napoletana e meridionale nella fantasia, negli esorcismi e nella fedeltà alle radici. Il riserbo da banchiere che si tramutava nel suo contrario, l’impertinenza, era un espediente per sciogliere la tensione e per contenere una natura calda di affetti e di generosità, partecipe delle disgrazie civili della «patria» e orientata sempre alla difesa della parte sana della società: i lavoratori di ogni ordine e grado e, come si legge nella biografia appena edita dal Mulino, gli oppressi da ingiustizie e persecuzioni.

Da: startupitalia.eu