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18 ottobre 2024

Luca Fornaci, pittore abruzzese di Chieti del ‘500.

 Luca Fornaci, Resurrezione di Cristo, Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, Ortona.

Luca Fornaci, pittore abruzzese di Chieti del ‘500

di Angelo Iocco

Un recente studio del Prof. Marco Vaccaro dell’Università di Chieti, apparso in Chieti – Scritti di Storia e di Arte dal Medioevo all’Ottocento, Chieti, Assoc. Sacro e Profano, 2021, fornisce più lumi su questo pittore, di cui si erano occupati in maniera sparuta Cesare de Laurentiis, Vincenzo Balzano e Francesco Verlengia, senza fornire particolari note critiche sulla sua carriera. Grazie anche alla pubblicazione di atti notarili dall’Archivio di Stato di Chieti a cura di Van Verrocchio in Theate Regia Metropolis, è possibile ricostruire in parte la carriera del pittore. Nacque a Chieti e visse e operò nella seconda metà del ‘500, e agli inizi del ‘600. Visse in un periodo di fervore culturale a Chieti e in Abruzzo, dove pittori della Maniera del Vasari, si cimentavano nella realizzazione di tele e affreschi per parrocchie e conventi. Rimanendo in ambito chietino, furono attivi artisti del calibro di Leonzio Compassino da Penne, Giovan Battistista Ragazzini da Ravenna con suo fratello Francesco (sue opere si trovano a Castelli, Penne e qualche paese dell’area vestina), Felice Ciccarelli, Tommaso Alessandrino e altri.

Luca Fornaci, Terzo ordine Francescano, dalla chiesa di Sant’Andrea di Chieti, ora in San Domenico di Chieti, foto Oscar D’Angelo.


Di Fornaci si conosce che fu attivo tra il 1585 e il 1592 con le sue opere principali a Chieti e nei dintorni. Nella Città di Achille, egli dipinse una tela ritraente il Trionfo dell’Ordine Francescano, proveniente dall’ex convento di Sant’Andrea degli Zoccolanti, oggi ex ospedale militare alla villa comunale e conservato, stando a quanto scrivono Vincenzo Zecca e Cesare de Laurentiis, dapprima nella Pinacoteca civica del palazzo comunale, e di recente nell’oratorio della chiesa di San Domenico al Corso, insieme ad altre opere d’arte sacra di Chieti e provincia. La grande tela mostra diverse parti danneggiate, con caduta di colore, al centro vi è l’Albero dell’Ordine di San Francesco, in basso a sinistra il Cristo benedicente, a destra Sant’Andrea, al centro San Francesco, dal cui corpo si erge l’Albero, sul primo ramo vi sono i Santi Francescani: San Bonaventura, Sant’Antonio di Padova, San Bernardino, San Giovanni di Capestrano; sul secondo ramo vi sono le Sante Clarisse: Santa Chiara, Santa Rita e altre; al terzo San Ludovico di Francia, Santa Elisabetta d’Ungheria patroni del Terzo Ordine. Nel cielo, attorniati dagli Angeli in gloria, vi sono Dio Padre, la Colomba dello Spirito Santo, e Cristo che indica l’Albero. Vi sono notevoli affinità con un’altra tela dell’Ordine Francescano presente nel convento di Sant’Antonio di Padova di Lanciano, nella Cappella del Santo, risalente al XVI secolo, ma restaurata, pare, di recente da padre Giovanni Lerario che dipinse le parti cadute. L’iscrizione dedicatoria recita: OPERA FATTA FARE DA GIOVAN MARINO TOMASO E GIOVAN IACOVO COLA FERRO.

Luca Fornaci, Terzo ordine Francescano, dalla chiesa di Sant’Andrea di Chieti, ora in San Domenico di Chieti (particolare)

Albero Francescano, chiesa di Sant’Antonio di Padova, Lanciano (XVI-XVII sec.)


Altre  opere realizzate dal Fornaci sono nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli di Ortona: Cristo risorto tra gli Apostoli, alla sinistra della scena il Salvatore appare in Maestà, nell’atto di benedire, alla destra gli Apostoli confusi, e in alto la scena della Casa di Pietro, realizzata come un sontuoso tempio, in alto al centro gli Angeli sopra una nuvola assistono meravigliati al prodigio. La firma di Fornaci si trova presso un cartiglio retto da un  Apostolo.

Archi (CH), Madonna del Rosario e Misteri, chiesa di Santa Maria dell’Olmo 



Filetto (CH), Luca Fornaci, Madonna del Rosario, chiesa di Santa Maria ad Nives (XVI sec.)

Presso la chiesa parrocchiale di Santa Maria ad Nives di Filetto si trova sulla destra una tela della Madonna del Rosario: la Vergine col Bambino è al centro, e nei riquadri della cornice sono raffigurati i Misteri del Santo Rosario. La Madonna porge un Rosario con la destra a San Domenico e ai seguaci, mentre il Bambino sulla mano sinistra della Vergine, si sporge a dare la benedizione a Santa Rosa da Lima e suore seguaci, mentre due donne, probabilmente le committenti dell’opera, appaiono a mezzo busto in basso a destra, nell’atto di adorare la scena. la stanza dove la Madonna siede in trono è abbellita da tende, e da un pavimento a lacunari disposti in ordine simmetrico, con figure geometriche di cerchi e rombi; schiere di devoti si trovano disposte dietro San Domenico e Santa Rosa, compreso Papa Pio V, vittorioso nella battaglia di Lepanto. Il quadro si trovava nella chiesa di Santa Maria di Filetto, nella parte antica del paese, andata distrutta nella seconda guerra mondiale. L’opera è di fattura mediocre, ma denuncia uno stile di rappresentazione abbastanza convenzionale nell’Abruzzo della fine del XVI secolo della Madonna del Rosario, culto diffusosi dopo il 1571; notevoli affinità si riscontrano in un quadro di autore seguace di Pompeo Cesura, conservato nella cappella del Rosario della chiesa parrocchiale di Santa Maria dell’Olmo in Archi in val di Sangro. La resa è decisamente migliore: la Vergine col Bambino è seduta, avvolta in un mantello a fogliame dorato, simile alle tele presenti nella chiesa di Costantinopoli in Ortona, e la schiera dei santi domenicani e dei dignitari papali è più movimentata, ed alcuni volti, come quello di Santa Rita, sembra denunciare tratti addirittura giorgioneschi, mentre la scena del Mistero dell’Incontro tra Maria ed Elisabetta denuncia echi della celebre tela di Raffaello realizzata per i Bedeschini nella chiesa di San Silvestro di Aquila.

Orsogna, convento francescano dell’Annunziata del Poggio

Nel convento del Ritiro dell’Annunziata di Orsogna si conserva una tela della Crocifissione: come da tradizione iconografica, il Cristo è al centro, due angeli accorrono ai lati delle braccia, per raccogliere in calici il sangue che sgorga dalle ferite delle mani, la Maddalena abbraccia il legno piangente; il Fornaci probabilmente per ragioni di committenza, non inserì gli Apostoli, ma San Francesco e altri francescani attorno la Croce, in atto di dolore, mentre sulla destra si staglia in posa solenne e mesta, la Madonna, con in basso il Serpente del Peccato originale. Opera più originale della tela di Filetto, che risente degli echi del dipinto di Ortona.

25 novembre 2023

Yuri Moretti: San Mercurio Statopedarca di Cesarea o Protoconfessore della Terra D'Archi?


SAN MERCURIO STATOPEDARCA DI CESAREA O PROTOCONFESSORE DELLA TERRA D’ARCHI?
di Yuri Moretti

(Rielaborato da “Vergini, soldati e protoconfessori: indagini su alcuni culti palecristiani a cavallo di Monte Pallano” di Yuri Moretti)

Attorno alla figura di San Mercurio, la cui memoria è radicata ad Archi da secoli, sono andate via via stratificandosi storie ed interpretazioni. Cercare di ricostruirle, studiare le vicende che ne accompagnano le reliquie ed il culto, significa innanzi tutto indagare l’origine della penetrazione del Cristianesimo in Val di Sangro.


Qui, l’iconografia e la memoria storica del Santo sono tradizionalmente legate alla figura di San Mercurio martire di Cesarea, annoverato tra i cosiddetti “Santi militari”. Della sua vita sappiamo solo che fu soldato della compagnia dei Martenses, stanziata in Armenia nel periodo delle persecuzioni dei cristiani di Decio e Valeriano (249-260). Dopo il martirio, il suo culto si diffuse assai precocemente in Occidente, se è vero che già all’epoca di Costantino il Grande la sua immagine fu dipinta in molti luoghi della città di Roma. Nella “Traslatio Sancti Mercurii”, attribuita a Paolo Diacono, si racconta che fu l’imperatore bizantino Costante II a trasportare il corpo di San Mercurio da Cesarea in Italia (a Quintodecimo, oggi Quindici) affinchè lo proteggesse nella guerra contro i Longobardi del Ducato di Benevento. Sarà poi a sua volta il duca Arechi II, nel 768, a traslare queste reliquie da Quintodecimo a Benevento, nella chiesa di Santa Sofia, da lui pensata come una sorta di santuario del popolo longobardo. Secondo Borgia, il principe offrì al Santo le chiavi di tutte le porte della città, dichiarandolo suo patrono speciale.
Ad Aeclanum, antico sacello delle reliquie, tuttavia, già dal IV secolo era venerato un santo martire Mercurio e, legato allo stesso, esiste una tradizione agiografica occidentale. Nella Traslatio quindi riscontriamo una tipica sovrapposizione cultuale: il martire locale viene confuso con quello di Cesarea di Cappadocia e si attribuisce all’imperatore Costante II una immaginaria traslazione dell’oriente. Questo aspetto non può essere letto come un semplice errore interpretativo ma va contestualizzato nel tentativo di proporre un’immagine militante e militare di santità adatta alla situazione politica e sociale della Longobardia Minor di allora, nel quadro più ampio di una ridefinizione ideologica del potere. Dietro alle numerose traslazioni di corpi dei santi effettuate da Arechi sembrano nascondersi proprio dei tentativi di legittimazione celesti alle politiche e al potere longobardo.
E’ probabile che una dinamica simile abbia avuto luogo anche ad Archi. Non è chiaro infatti se la dominazione longobarda in questa terra costituì un momento fondativo per la venerazione verso San Mercurio o se sarebbe meglio parlare di una “rifondazione” di un culto preesistente.


A questa seconda ipotesi afferiscono per esempio gli scritti di Girolamo Nicolino che nella sua “Historia della Città di Chieti” del 1657 fa menzione di un antico calendario della Chiesa Teatina che assegnava al 25 Novembre la memoria di un San Mercurio, non indicato però con il titolo di martire. Oltre a lui, l’autore di una storia dell’arcidiocesi chietina, contenuta nell’opera di Giuseppe Cappelletti sull’origine delle chiese particolari italiane, risalente al 1870, affianca figure locali di santità come Cetteo, Aldemario Abate, Nicola greco, Valentino e Damiano duo diacono, a quella di San Mercurio di Archi, sostenendo, di fatto, l’autoctonia del culto.
In realtà, la prima menzione di una chiesa in zona dedicata a San Mercurio risale all’829. In questo documento, contenuto nel Chronicon Farfense, essa risulta di pertinenza del Monastero di Santo Stefano di Lucana, situato nei pressi dell’attuale contrada Torricchio di Tornareccio, che venne aggregato dagli imperatori Ludovico il Pio e Lotario all’Abbazia di santa Maria di Farfa in Sabina. La larga dotazione (che comprende peraltro centri come San Martino in Valle a Fara San Martino, San Pancrazio a Roccascalegna…) sembra configurarsi come una ampia terra fiscale longobarda. Secondo Sciarretta, la chiesa di San Mercurio, assieme a quelle di San Silvestro e di San Pietro in Oliveto, sono da collocare nel territorio di Archi, poiché le stesse si ritrovano nelle decime del 1324 redatte da Sella. Se questa ipotesi venisse confermata, ciò costituirebbe non solo la prima menzione in assoluto del culto ad Archi, ma lo collocherebbe in una compagine cultuale di fondazione longobarda, alla quale apparteneva anche il castellum de Attissa, anch’esso bene del monastero di Santo Stefano. Anche ad Atessa, come ad Archi, la prima cristianizzazione del territorio appare legata al un santo longobardo e beneventano, San Leucio di Brindisi, le cui reliquie, assieme a quelle del martire di Cesarea, si conservavano proprio nel santuario Santa Sofia a Benevento. Il culto di San Leucio per Atessa e di San Mercurio per Archi sono quindi da ricollegare alla penetrazione dell’ideologia longobarda nel nostro territorio, che fu, come abbiamo visto, accompagnata da una politica cultuale che aveva avuto il suo centro di irradiazione nella Benevento di Arechi II.


Per quanto riguarda i secoli successivi, la presenza di un luogo di culto dedicato al Santo compare nella numerazione dei fuochi di Archi, del 1447, riportata da Faraglia. In essa è menzionata per la prima volta la Parrocchia di San Mercurio, retta da don Giacomo Borrelli. In una apprezzo della Terra d’Archi del 1649, redatto in Atessa, in casa di Francesco Cardone, si nomina una parrocchia “sotto titolo di Santa Maria dell’Olmo … e vi è il corpo intiero di Santo Vitale Martire, un altra sotto titolo di Santo Mercurio dove siede il glorioso Corpo di detto Santo similmente Parrocchia”. Della fine del secolo è quella che può essere considerata una ricognizione canonica del corpo santo: il 19 aprile del 1690 il vicario foraneo Don Antonio Grello visita, nella Chiesa del Rosario (o di San Mercurio), l’altare in cui erano custodite le reliquie del Santo in uno stipo protetto da una cancellata di ferro, le cui chiavi erano detenute dal Barone della terra e dal curato della Parrocchia. Il vicario si dilunga in una descrizione minuziosa delle parti del corpo santo, conservate in una cassetta di cipresso, intagliata e mosaicata: la ricognizione avviene alla presenza dello scriba Francesco Cieri e del testimone Don Francesco Persiani.


La bellissima tela della Madonna del Rosario con Santi, oggi conservata nella Parrocchiale di Santa Maria dell’Olmo, risale proprio all’epoca e mostra in basso a destra un santo in paludamenti militari, che potremmo identificare con il martire di Cesarea, che condivise con la Vergine, di fatto, dal 500, il patronato sulla antica Parrocchia del Rione Castello.
Per concludere, risulta chiaro come nella Traslatio beneventana, al culto per un martire locale omonimo, di Aeclanum del IV secolo, si sovrapponga quello di Mercurio di Cesarea di Cappadocia: tutto questo risponde al tentativo di Arechi II di diffondere un culto guerresco, reinterpretazione in chiave cristiana del dio della guerra longobardo Wotan. Per favorire una legittimazione politica del potere, Arechi e i suoi successori diffondono il culto del santo soldato in tutto il Ducato di Benevento, di cui Archi faceva parte. Qui, dove esso sembrerebbe attestato già dal IX secolo, potrebbero essere giunte parte delle reliquie da Benevento. L’evento potrebbe aver innescato una dinamica simile a quella testimoniata della Traslatio: ad un precedente culto per un santo omonimo locale, potrebbe essersi sovrapposta quello del santo militare longobardo. Rimane, comunque, allo stato attuale della ricerca, una ipotesi ragionevole e suggestiva.
In ogni caso, dalla Benevento di Arechi alla Archi dei Cardone il Santo statopedarca e clavigero fu sempre invocato come difensore delle mura: a lui il duca beneventano offri tutte le chiavi delle porte della città e una delle chiavi del suo venerato sacello di Archi erano, nel 600, custodite gelosamente dal Barone di quella Terra.

16 ottobre 2022

Le pitture dei Bravo di Atessa.

Ennio Bravo, Incredulità di San Tommaso, chiesa madre di Perano
 
Le pitture dei Bravo di Atessa

di Angelo Iocco

Dopo il periodo glorioso dei Falcucci, scultori di statue per le chiese e congreghe attivi tra ‘800 e primo decennio del ‘900, Atessa ebbe un’altra bottega, certamente minore, e forse anche in vari aspetti scadente, ma che ebbe successo presso le parrocchie dei piccoli paesi del chietino. 
Il capostipite fu Pasquale Bravo, attivo tra fine ‘800 e primi anni del ‘900, restauratore di statue, e costruttore di nuovi simulacri per devozione popolare, e per commissione. Come artigiano è riconoscibile per il suo gusto kitch, per usare un eufemismo; nell’area tra le contrade di Atessa, Paglieta, Casalanguida, vediamo statuette di San Vincenzo Ferrere e Sant’Antonio abate realizzate per devozione popolare, datate tra il 1910 e il 1911. C’è veramente poco da dire sulla realizzazione plastica, sul volto rotondo come una palla da ping pong, sugli occhietti appena accennati, oscuri e anonimi come le oscure sfere dei buchi oculari di un pescecane! Il problema di Pasquale Bravo senior, come è stato rilevato, fu che venne chiamato a ristrutturare delle statue antiche, oltre a costruirne di nuove, e alcune le rovinò irrimediabilmente, come nel caso delle statue della chiesetta dei Santi Vincenzo e Silvestro in contrada Montemarcone di Atessa. Restaurò anche delle belle statue dei Falcucci, grattandone via il colore, oppure massacrando con del beverone di stucco la statua della Beata Vergine Maria della Selva nel santuario dell’Assunta di Castel Frentano, risalente al XIV sec. Statua fortunatamente restaurata di recente. 
Ennio Bravo, cugino di Gennaro, figlio di Pasquale, continuò l’attività, dedicandosi soprattutto alla pittura per le chiese, a realizzare quadri o pitture murali, o anche nell’ultima fase, negli anni ’80, statue intagliate da Gennaro. 
Pasquale Bravo, se è considerato bocciato nella scultura, nell’ultima fase della vita, quando dipinse negli anni ’30 e ’40, raggiunse un livello almeno mediocre. I suoi soggetti erano ispirati al gusto neoclassico, ma un neoclassicismo esageratamente illuminato, tipicamente tardo ottocentesco, delle stampe devozionali che andavano girando per i santuari. I dettagli non sono molto precisi, le figure sembrano statiche e senza tridimensionalità, gli occhi noiosamente rivolti sempre verso l’alto in contemplazione, senza originalità. Non c’è chiesa di Atessa che non abbia qualche suo quadro, la chiesa dell’Addolorata, il Duomo, secondo altare di sinistra nella terza navata, frutto dell’ampliamento ottocentesco dell’impianto, la chiesa di Santa Croce, la chiesa della Madonna della Cintura, la chiesa di San Rocco, con una brutta copia del quadro seicentesco di Felice Ciccarelli atessano, della Beata Vergine del Carmelo. E anche nei dintorni di Atessa Pasquale dipinse, ora a Perano per la chiesa madre, producendo altre due tele devozionali per i lati dell’altare maggiore, ad Archi, a Montazzoli, a Tornareccio, e si spinse anche in qualche altro paese della media valle del Sangro, come Bomba o Villa Santa Maria. 
I figli Pasquale ed Ennio Bravo, attivi negli anni ’20 e ’50, continuarono l’attività paterna, estendendo il campo alla pittura murale, a volte riempiendo letteralmente la chiesa di loro opere. Non si scostarono molto dal soggetto di scene bibliche corali, dalle tinte molto chiare, di quell’inconfondibile gusto roseo, quasi da chiesa Mormonista, ossia uno stile falso-antico, che in Abruzzo continuava ad essere riproposto anche in epoca di trasformazioni artistiche nel secondo dopoguerra (si vedano i cantieri religiosi di Pescara, si vedano le pitture di Peppe Candeloro a Lanciano, in cui lui “trasponeva il classico nel contemporaneo” sulla base del modello di Michelangelo), e che verrà spazzato via qualche decennio dopo. I fratelli Bravo furono attivi in quelle chiese che o erano prive di arredi sacri a causa della povertà, o che erano state appena ricostruite dopo le distruzioni belliche. La loro opera più interessante è il cantiere della chiesa madre di San Nicola di Orsogna, appena rinata dalle ceneri della furia devastatrice dei cannoni e dei mortai. La chiesa è un tipico esempio di ricostruzione ex novo del Genio Civile di Chieti, un falso antico, completata nel 1952, come recita una iscrizione appena entrati, a monito e memoria. 

Orsogna, chiesa di S.Nicola, catino absidale con dipinti dei Fratelli Bravo, 1952 c.

I Bravo furono chiamati a indorare il catino absidale, mostrando la scena dell’Agnus Dei, di Cristo che è l’Alfa e l’Omega, con il Sacrificio dell’Agnello, e sullo sfondo la città di Gerusalemme. Anche la seconda delle due cupole della navata unica, fu dipinta dai Bravo, con scene bibliche dell’Antico e Nuovo Testamento, e ai quattro pennacchi, il solito Tetramorfo degli Evangelisti; un lavoro però realizzato abbastanza bene, che verrà ricordato. 
Ennio Bravo, che lavorò in proprio, è il migliore della famiglia nel disegno, è l’unico che fa assumere espressione e gravità ai suoi soggetti, tra i più belli, il San Tommaso della chiesa matrice di Perano. 
Gennaro continuò l’attività dei Bravo, scolpendo e dipingendo statue, di fattura appena sufficiente, e sarà lui il maestro del pittore di Atessa che attualmente la rappresenta, il prof. Gaetano Minale di Agnone.

Mosè e il vitello d’oro, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna

Caino uccide Abele, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna



Il sogno di Giacobbe, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna



Mosè  e i 10 Comandamenti, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna


31 marzo 2022

Le opere della bottega di Giambattista Pellicciotta di Perano.


 
Le opere della bottega di Giambattista Pellicciotta di Perano.
a cura di Yuri Moretti.

Conosciamo Gioacchino Pellicciotta, figlio di Giambattista Pellicciotta, al quale sono attribuite, secondo Moretti, il paliotto monumentale dell'altare della parrocchia di Perano, in marmo, e le statue dell'Immacolata Concezione, di San Giuseppe e Sant'Emidio nella cappella dell'Addolorata, oltre al Crocifisso presso la chiesa di Santa Maria dell’'Olmo nel vicino paese di Archi.
I Pellicciotta si distinsero per la grazia e la sapiente modellazione della materia prima.
Maestoso è il paliotto che la Soprintendenza d’Abruzzo attribuisce a Gioacchino Pellicciotta, mentre Moretti a suo padre Giambattista; la decorazione di matrice baroccheggiante, mostra delle belle metope sinuose, presso il Santissimo Sacramento ai lati abbiamo i Principi San Pietro e Mosè, che sono i rappresentati dell’Antico e Nuovo Testamento. Il festone centrale ricco di cornucopie e frutti sono un’esplosione di gioia, le mele e le pere sono di colore vivido rispetto all’atmosfera scura del marmo; le mele di Piazzano, le pere di San Giovanni, sembra che i Pellicciotta abbiano voluto fare un omaggio alla loto terra del Sangro. Il tutto rappresenta la Fede che però viene intaccata nella sua bellezza dal Peccato, ovvero dai piccoli topi e uccellini neri che beccano la frutta; ai lati dell’altare abbiano anche dei fioroni di tradizione romanica, che ricordano gli amboni delle abbazie benedettine abruzzesi e su uno di questi fioroni abbiamo il motivo del Peccato che insidia la fede, ovvero il bruco che mangia la foglia.

25 novembre 2021

Angelo Iocco, Felice Ciccarelli dell’Atessa, pittore abruzzese del manierismo.

Madonna col Bambino, chiesa di San Rocco, Atessa
 
Felice Ciccarelli dell’Atessa, pittore abruzzese del manierismo
di Angelo Iocco

Di Felice Ciccarelli nato in Atessa in Abruzzo Citeriore, vissuto tra la seconda metà del '500 e la prima del '600, si conservano opere sempre datate e firmate, anche in latino, a Rapino, in Atessa, ad Archi, a Loreto Aprutino.
Pittore insigne del tardo manierismo, e originale nel territorio chietino, con sfondi molto vivaci e colorati. 

San Vitale, chiesa madre di Archi

Per Atessa realizzò in onore della Congrega del Santissimo Rosario presso la chiesa omonima, detta anche di san Rocco, la pala d'altare laterale della Madonna col Bambino con Dio Padre che la Benedice, firmata e datata 1601; a seguire per il vicino paese di Archi per la parrocchia di Santa Maria dell'Olmo realizzò la pala di San Vitale martire e patrono di Archi, infine per la chiesa madre di San Giovanni a Rapino, realizzò il quadro principale della Madonna col Bambino tra Angeli e San Giovanni con la pelle di peli di cammello e San Michele che schiaccia il Demonio, firmata e datata 1607. Vincenzo Bindi segnalava negli "Artisti abruzzesi" anche una pala della Madonna del Rosario nel convento di San Domenico di Atessa, perduta però già agli inizi dell'800.

Madonna col Bambino tra San Giovanni e San Michele che schiaccia il demonio,
chiesa madre di San Giovanni, Rapino

Non sappiamo di altre opere firmate da Felice Ciccarelli, fatto sta che insieme a Tommaso Alessandrino da Ortona e Polidoro da Lanciano fu uno dei principali rappresentati di questa fascia d'Abruzzo del tardo manierismo.

San Vitale, chiesa madre di Archi