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17 novembre 2024

Baltimora 1943: Le visite ai prigionieri di guerra italiani (tra cui molti abruzzesi).


 Baltimora 1943: LE VISITE AI PRIGIONIERI DI GUERRA ITALIANI

Molti i cognomi vastesi citati nell'articolo (lasciati tutti come scritti nell'originale)

di Suzanna Rosa Molino traduzione di Nicola D'Adamo

 
Durante la Seconda Guerra Mondiale, i prigionieri di guerra italiani ricevettero privilegi speciali rispetto ai giapponesi e ai tedeschi, come la possibilità di ricevere visite al Camp Meade (ora Fort Meade) dalla comunità italiana di Baltimora la domenica pomeriggio. Di seguito un capitolo su questo argomento tratto da "Baltimore's Little Italy: History and Heritage of The Neighborhood".

Durante la Seconda Guerra Mondiale (1941–1945), l'esercito degli Stati Uniti catturò quasi 500.000 prigionieri di guerra italiani, tedeschi e giapponesi, che furono poi trasportati negli Stati Uniti e ospitati in 650 campi distribuiti nei quarantotto stati.

Il Camp Meade (ora Fort Meade) nel Maryland, situato tra Washington D.C. e Baltimora, era sia un centro di addestramento sia il quartier generale dell'Enemy Prisoner of War Information Bureau. Ospitò i primi prigionieri di guerra nel settembre 1943: 1.632 italiani e 58 tedeschi. Il campo mantenne i registri di tutti i prigionieri di guerra negli Stati Uniti.

I prigionieri lavoravano localmente, costruendo ponti in pietra all'interno del campo e svolgendo lavori nelle fattorie della zona. Poiché l'Italia si era arresa agli Alleati, i prigionieri italiani ricevettero privilegi e un trattamento migliore rispetto ai tedeschi, come la possibilità di fare acquisti al post exchange e di uscire dal campo con i visitatori.

"Fummo trattati meglio rispetto a quando eravamo soldati nell'esercito italiano," disse Lelio Tomasina in un articolo del Baltimore Sun del 1993. "Era come se fossimo una famiglia." Arrivato su una nave all'età di ventidue anni, si chinò e baciò il suolo americano. "Era incredibilmente magnifico. Ero sicuro che gli americani fossero solo gentili prima di giustiziarci tutti."

Da bambino, Johnny Manna ricordava di aver visitato i soldati italiani con la sua famiglia. Alcuni provenivano dagli stessi villaggi in Italia dei residenti di Baltimora. Questo lasciò una forte impressione su di lui, allora otto anni: "La prima cosa che vedevo quando ci avvicinavamo al campo," disse, "erano i soldati americani nelle torri di guardia con armi automatiche, le recinzioni di filo spinato e le grandi lettere rosse 'PW' stampate sul retro delle uniformi dei prigionieri."

La sua famiglia - i genitori Mary e Pasqual “Patsy” Manna, la nonna Consiglia Tana, la zia Jean Tana, lo zio Luigi e la zia Annina Molino - preparava cibo da picnic per i soldati. Cucinavono pasti a cui i prigionieri erano abituati: cotolette di vitello, pollo arrosto con peperoni, pasta, patate, insalate, verdure, dolci e vino fatto in casa.

"Visitavamo la domenica," disse Johnny. "La mia famiglia conosceva alcuni dei prigionieri." Ricordava altre famiglie di Little Italy che visitavano Camp Meade: Altieri, D’Adamo, Ippolito, Fabi, LaCanale, Lamberti, Muratore, Montefarante, Suriani e Campanoli.

Non erano solo i residenti di Little Italy a interagire con i prigionieri. Anche altri membri della comunità italiana di Baltimora lo facevano. I defunti Olga e John Bianchi ospitavano piccoli gruppi di prigionieri italiani nella loro casa su Baltimore Avenue a Dundalk. "Apprezzavano essere invitati nelle nostre case," disse Mike Pirisino, fratello di John Bianchi.

Dopo aver saputo dei privilegi dei prigionieri, il conduttore radiofonico WCBM Guy Sardella, originario di Little Italy, tramite le sue trasmissioni invitò gli ascoltatori a visitarli. Poco dopo, lunghe file di automobili con centinaia di persone raggiungevano Camp Meade ogni settimana, cariche di cibo da picnic, allegria e la lingua madre dei prigionieri.

Sardella divenne un intermediario. Organizzò una banda musicale tra i prigionieri, li presentò agli italiani locali, organizzò messe cattoliche nella cappella all'aperto, creò una squadra di calcio e portò il sindaco di Baltimora Thomas D’Alesandro nelle caserme per pronunciare un discorso in italiano. "Ricevette lettere furiose da uomini locali che si lamentavano perché le loro mogli trascorrevano ogni domenica pomeriggio socializzando con i prigionieri," scrisse Rafael Alvarez nel 1993 in un ricordo sul Baltimore Sun.

Questo il ricordo di Guy Sardella: “Quella è stata la parte migliore della mia vita. Siamo stati trattati come re lì, ma che cosa non ho fatto per i prigionieri di guerra! Ciò che apprezzo di più è una grande targa che mi hanno dato con le parole: Non dimenticheremo mai quello che hai fatto per noi”.

Rosalia Scalia, residente di Little Italy, ricordava come Tomasina, arrivato come prigioniero di guerra, pensasse di essere in paradiso per la quantità di uova, pompelmi e arance viste nel campo.

Tomasina, come circa altri trenta prigionieri, sposò una ragazza di Little Italy - Sue Gentile - e divenne cittadino americano. Lo stesso fece Bruno Brotto di Padova, che nel 1946 sposò Gabriella Fabi; suo padre, Jimmy Fabi, possedeva un negozio di barbiere su Eden e Gough Streets. Rolando Giacomelli, di Prato, sposò Anna Giro sei mesi dopo essersi conosciuti a un ballo organizzato dalla comunità italiana per i soldati. Si trasferirono in una casa su Gough Street, a due porte dai genitori di lei, Rosa Meo di Riposto, in Sicilia, e Nicola Giro di Vasto.

Francis Tarasco, nato nel 1912 a Vicocanavese, in Italia, sposò Elsa Impaciatore, nata negli Stati Uniti. In un’intervista del 1979 disse di essere arrivato negli Stati Uniti sulla Queen Mary come prigioniero dopo essere stato catturato nel 1944. Era entrato nell’esercito italiano perché “era obbligatorio sotto Mussolini.”

Di giorno lavorava al Campo Meade tenendo l’inventario del negozio dell’esercito; di notte lavorava all’FBI di Washington D.C. su compiti non strategici legati alla corrispondenza dei soldati americani. "La comunità italiana di Baltimora ci intratteneva, ci visitava e chiedeva notizie di parenti,” disse.

Fu un periodo memorabile, ma tutti i prigionieri del Campo Meade furono rimpatriati dopo la guerra. Nel cimitero del campo, segnate da semplici lapidi bianche, riposano 33 prigionieri tedeschi e due italiani: Agostine Maffeis e Pasquino Savigini.

13 novembre 2024

La Guerra degli Antò (1999), di Riccardo Milani. Film girato a Montesilvano.


La guerra degli Antò è un film del 1999 diretto da Riccardo Milani.

Il film, tratto dal romanzo omonimo di Silvia Ballestra, è ambientato tra la fine del 1990 e l'estate successiva e racconta delle vicende d'un gruppo di quattro giovani punk abruzzesi originari di Montesilvano in provincia di Pescara.


Trama:
Montesilvano, ottobre del 1990. Quattro amici condividono il nome proprio e l'appartenenza alla subcultura punk; per distinguerli tra di loro vengono soprannominati, aggiungendo al diminutivo dialettale "Antò", l'epiteto, rispettivamente, di "Lu Malatu" (infermiere presso una clinica del luogo), "Lu Zombi" (postino in un paese della provincia pescarese), "Lu Zorru" (giornalista freelance per il quotidiano abruzzese Il Centro) e "Lu Purk". I quattro ragazzi sono nauseati dalla vita di provincia e dal servilismo dei loro concittadini verso l'ingegnere Treves, potente speculatore edile della zona, in particolar modo Lu Purk che decide di trasferirsi come studente al DAMS dell'Università di Bologna. Inizia così a frequentare l'ambiente culturale alternativo locale, insieme alla compaesana Sballestrera, ma presto le sue aspettative sono deluse, a causa delle difficoltà riscontrate negli studi, ma soprattutto della dolorosa rottura di una breve relazione amorosa con una studentessa. Convinto ormai di essere stato amato in tutta la sua vita solo da sua nonna, da tempo defunta, per reazione decide di partire alla volta della tanto idealizzata Amsterdam, città di riferimento per il mondo punk; per finanziarsi il viaggio si fa assumere presso un cantiere edile del capoluogo emiliano ma un infortunio sul lavoro, e conseguente degenza ospedaliera, sembrerebbero inizialmente impedire la sua partenza. La prospettiva di essere costretto a tornare come pietoso storpio al paese, per vivere con la famiglia, è l'impulso decisivo che gli fa decidere di fuggire dall'Italia, grazie al supporto fornitogli dagli altri Antò e da Sballestrera. Poco tempo dopo Lu Zorru, datosi alla macchia per evitare il servizio di leva nella Marina Militare, conseguenza dello scoppio della guerra del Golfo (chiamata alle armi in realtà fittizia), raggiunge nella città olandese Lu Purk. I famigliari de Lu Purk, non avendo più sue notizie da diverso tempo, decidono di rivolgersi a Chi l'ha visto?, con la speranza di ottenere maggiori informazioni sulla sorte del giovane, durante cui si aggiungerà la notizia della scomparsa di Lu Zorru. Ai parenti dell'amico, si aggiungono come testimoni pure Lu Malatu e Lu Zombi, a conoscenza della vera identità degli autori dell'inganno subito da Lu Zorru: la loro partecipazione al programma, condotto da Donatella Raffai, si trasforma però in un atto di denuncia, urlato in diretta televisiva, nei confronti del sistema di potere che regge Montesilvano, e contro lo stile di vita dell'intera società occidentale, con conseguente allontanamento forzato da parte del servizio di sicurezza della trasmissione. Intanto tra i due fuggiaschi scoppia un diverbio, con esito disastroso quasi immediato, a causa del quale saranno rimpatriati coercitivamente dalla polizia olandese, finendo amaramente per ricongiungersi con gli altri Antò nel loro paese natale.
Da: Wikipedia

L’Abruzzo visto da Escher, l’artista dei mondi impossibili.

 

L’Abruzzo visto da Escher, l’artista dei mondi impossibili

A Roma, la più grande e completa mostra su Escher a Palazzo Bonaparte con più di 300 opere legate all'artista olandese. 

di Fausto D'Addario

A cento anni dalla sua prima visita a Roma, Maurits Cornelis Escher è tornato nella Capitale a Palazzo Bonaparte nella più grande e completa mostra interamente dedicata alla tecnica, alla bellezza, alle vorticose illusioni e disillusioni di uno dei più celebri artisti del Novecento. Amato dagli appassionati d’arte, matematica, scienze, design e grafica, Escher è stato capace di creare un linguaggio assolutamente unico e inconfondibile: le sue architetture fantastiche, le prospettive apparentemente semplici e chiare, ma geometricamente impossibili sono state riprodotte nei modi più diversi, fra copertine di libri e dischi e scenografie teatrali e cinematografiche. La mostra antologica, organizzata in otto sezioni per più di 300 opere, esplora passo dopo passo la produzione e l’evoluzione del celebre incisore olandese: dagli inizi, sotto l’influenza dell’Art Nouveau, al periodo italiano, tra i più belli e fecondi della sua vita, fino alle oniriche metamorfosi e agli infiniti paradossi, che producono un completo straniamento in chi guarda. C’è anche una ricostruzione dello studio che l’artista aveva a Baarn in Olanda, con gli strumenti originali, compreso il cavalletto che portava con sé nei suoi viaggi in Italia. 


Dal novembre del 1923, sulla scia del Grand Tour, Escher si trasferì nella nostra penisola risiedendo stabilmente a Roma, ma ogni anno intraprendeva un viaggio attraverso l’Italia per catturarne i magnifici paesaggi. La sua predilezione andava alle regioni centro-meridionali, dalla Costiera amalfitana alla Calabria, dall’Abruzzo alla Toscana, dalla Sicilia alla Corsica. Lasciò definitivamente l’Italia solo nel 1935 a causa della crescente oppressione del movimento fascista, ma l’Italia e l’Abruzzo rimasero nel suo cuore. Prima di partire, l’Istituto Storico Olandese gli dedicò un’ultima mostra, recensita con queste parole dall’Osservatore romano: 

A vero dire Escher è una vecchia conoscenza per chi frequenta il mondo artistico romano. Chi non conosce quell’alto biondo pittore olandese, che beve il sole con gli occhi […]. A forza di vivere in Italia non è più l’olandese fantastico e pur analitico di quando illustrava libri di leggende nordiche”.

Escher si recò tre volte in Abruzzo tra il 1928 e il 1935, vagabondando a piedi, con vettura postale, a cavalcioni sui muli, insomma, con ogni mezzo allora disponibile. Il primo viaggio, che fu quello che lo stregò, avvenne nell’aprile del 1928, quando scoprì questa terra selvaggia, “tra le aree più inospitali dell’Italia“, come ebbe ad ammettere; il secondo avvenne nei mesi di maggio e giugno del 1929 nelle zone interne della Regione, con l’intenzione di realizzare un libro illustrato sull’Abruzzo; il terzo ed ultimo nel febbraio del 1935. Per un artista che veniva dalla geografia orizzontale dei Paesi Bassi, il paesaggio abruzzese gli appariva così imprevedibile con i suoi dirupi, le gole e le valli scoscese, per i contrasti nettissimi tra luci e ombre, impensabili nelle atmosfere olandesi. Ed era una continua emozione. In una lettera al suo amico Bas Kist, Escher scriveva: 

Mi sono abituato a fare questo tipo di viaggi ogni primavera, mi restituiscono vigore nel corpo e nell’anima e poi raccolgo del materiale per i mesi successivi. Non conosco altra gioia che vagabondare per le colline e attraverso le valli, da paese a paese, sentire gli effetti della natura incontaminata“. 


Lo scopo era prendere appunti, scattare foto, abbozzare schizzi e preparare i disegni: anche se il volume sperato non vide mai la luce, le sue incursioni abruzzesi produssero un risultato meraviglioso, con le stampe di paesi come Goriano SicoliScannoAnversa degli AbruzziCastrovalvaFara San Martino, Pettorano sul Gizio, Alfedena, Opi e Cerro al Volturno, per la maggior parte nell’aquilano e nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. La composizione dei paesaggi è sempre filtrata dalla sua interiorità: 

«Nelle mie incisioni cerco di provare che noi viviamo in un mondo bello e ordinato e non in un caos senza norme, anche se talvolta sembra sia così. I miei soggetti sono spesso giocosi: sento forte il bisogno di dimostrare l’assurdità di alcune certezze che noi consideriamo irrefutabili. È, per esempio, un piacere combinare volutamente oggetti di due e di tre dimensioni, rapporti di superficie e di spazio, e farsi gioco delle leggi di gravità». 

Nella sognante veduta di Fara San Martino Escher indugia sulle sue abitazioni arroccate l’una sull’altra, adagiate sulla collina che va verso il quartiere di San Pietro. Si vede anche il ruscello che scorreva in superficie, con i vari ponticelli; a destra si il quartiere di Terra Vecchia che si arrampica su una ripida altura. La montagna invece è rappresentata da un disegno molto particolare, che riproduce astrattamente le scanalature della roccia. Il tutto sospeso in una dimensione fra la realtà e l’immaginazione. 

Nei disegni successivi Escher si concentra sull’architettura della natura: ne capta gli elementi essenziali, si sofferma sui particolari e predilige vedute fortemente prospettiche. Ad Alfedena rimase colpito dai molti alberi potati in maniera strana, con un solo ciuffo di foglie sulla cima. Qui furono gli abitanti del paese ad essere i veri artisti: avevano appena raccolto le foglie per le capre, perché in inverno gli animali non potevano andare al pascolo con la neve, dando così al paese un aspetto surreale. Nella litografia di Scanno emerge il dato architettonico e realistico: Escher raffigura uno scorcio ancora oggi rimasto inalterato, Vico Ciorla, con una scalinata in discesa e il gioco di contrasti in salita delle gradinate di accesso alle case. Due figure femminili che lavorano al tombolo in abiti tradizionali e in lontananza un monte con degli alberi che si infittiscono coronano l’opera. Ancora oggi questo scorcio esiste sostanzialmente inalterato e una riproduzione dell’opera viene esposta su una parete del vico. Ad Opi Escher rimase incantato dalla fisionomia urbanistica: due filari di case in groppa sul dorso di un monte; il panorama quasi metafisico e le stradine che si allargano aprono l’orizzonte della stampa, anziché rinchiuderla in una sequenza claustrofobica di architetture e scalinate. L’artista olandese amava ripetere “Lo stupore è il sale della terra“.


Con il paesaggio lontano e sconfinato di Castrovalva, tra i borghi più inaccessibili della Regione, Escher realizza una delle sue migliori litografie, sintesi delle sue esperienze in Abruzzo. La natura appare fantastica e reale allo stesso tempo: la ripida pendenza su cui sorge l’abitato, i tornanti del sentiero di montagna, le nuvole, il perdersi dell’orizzonte e della valle, l’essenza dell’intera composizione coglie il mistero delle antiche origini dei severi scenari abruzzesi. A lui è intitolato l’ultimo tornante prima dell’ingresso nel paese, il Girone Escher, da dove è possibile ammirare Castrovalva dalla stessa angolazione e prospettiva raffigurata nella litografia. Ecco cosa ha scritto l’olandese nel suo diario ricordando quella giornata: “Ho trascorso quasi un giorno intero seduto a disegnare a lato di una stretta strada di montagna. Sopra di me c’era la scuola e mi divertivo a sentire le chiare voci dei bambini mentre cantavano le loro canzoni”. 

Accontentiamoci di questa breve carrellata: non possiamo purtroppo soffermarci su tutti i disegni. Escher lasciò l’Italia nel 1935, dopo un ultimo nostalgico viaggio in Abruzzo; da questo momento la sua arte e i suoi esperimenti evolvono verso le forme astratte, le composizioni geometriche e le architetture impossibili, che lo hanno reso celebre. Ma l’antico ricordo dell’Abruzzo, con la sua gente, i suoi scorci e la sua struggente bellezza dovette rimanergli impresso nel cuore. Già nella Natura morta con specchio, che segna una svolta nella sua maturazione artistica, si riconosce una delle stradine del borgo di Villalago nel vicolo rappresentato nello specchio. Ancora, nel 1958 le montagne sullo sfondo del labirintico Belvederedel 1958 sono una ripresa di quelle già raffigurate nel disegno di Pettorano sul Gizio.

La sua salute fu sempre cagionevole: l’ultima opera, Serpenti, è del 1969. Poi, sempre più malato, si limitò a ristampare le sue opere. Maurits Cornelis Escher morì il 27 marzo 1972 all’ospedale Diakonessenhuis di Hilversum, in Olanda. Fu un grande maestro, che visse in quattro nazioni diverse affrontando i tempi difficili delle due guerre, ma la sua ricerca artistica non ne venne scalfita e rimase un unicum. Escher ha trasfigurato il visibile, intrecciando ciò che vedeva con ciò che percepiva. Quell’alto biondo pittore olandese, che beveva il sole con gli occhi, ha espresso con semplicità e chiarezza la sua vocazione:

Vedere due mondi diversi nello stesso identico luogo e nello stesso tempo ci fa sentire come se fossimo in balìa di un incantesimo. Solo un artista ci può dare questa illusione e suscitare in noi una sensazione eccezionale, un’esperienza dei sensi del tutto inedita“.

Da: L'Aquilablog.it

9 ottobre 2024

Peppe Millanta, QuotaMille - Rubrica per il TGR Abruzzo. Alla scoperta dei borghi d'Abruzzo a più di mille metri d'altezza.


Un viaggio alla scoperta dei luoghi d'Abruzzo posti a più di mille metri d'altezza.


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