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29 maggio 2024

Luigi Murolo, Sul porto di Histonium.

fig.1

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fig.6
 
SUL PORTO DI HISTONIUM

Di che cosa “parlano” quei resti archeologici sommersi localizzati a Vasto Marina nelle adiacenze del «Monumento alla bagnante»? E ancora. Perché si continuano a ignorare gli incredibili effetti prodotti dalla frana del 1816 che, interrompendo il fenomeno di subsidenza dell’area, ha consentito per alcuni l’emersione dal fondo marino [fig. 1] e, per altri, il successivo ripristino in una sommersione molto leggera [figg. 2-3]. Di conseguenza, duecento anni dopo, grazie alle prospezioni archeologiche di Marco Rapino e Davide Aquilano, ciò che un tempo è stato il «porto di Histonium», proprio perché sommerso in bassissimi fondali, è diventato oggi un luogo pubblico visitabile in estate (con una semplice maschera subacquea) tramite la guida della sezione di “Italia Nostra del Vastese”.
Va detto, inoltre, che, talvolta, stupiti bagnanti potrebbero rinvenire addirittura un rocchio di colonna spiaggiato sulla riva del mare com’è capitato il 17 giugno 2019 – cinque anni fa –. E, quasi non bastasse, quegli stessi scopritori avranno potuto aver la sorpresa di ritrovarlo esposto nel Museo Civico di Vasto. Ma c’è di più per l’osservatore attento. La possibilità di misurarsi con la documentazione dei cinque frammenti di epigrafi funerarie rinvenute lungo il tratto di costa compreso tra le località Casarza e Trave, già pubblicate nel 1865 da Theodor Mommsen nel IX volume del «Corpus Inscriptionum latinarum» con le numerazioni CIL IX, 2921, 2925 a, 2925 b, 2934, 2942. Con una sequenza di tal fatta, il novello investigatore si potrà rendere conto della testimonianza di una necropoli al servizio di un abitato nelle prossimità del porto. A confermare, dunque, un’attività economico-commerciale di cui purtroppo nulla conosciamo in modo diretto. Ma, indiretto, probabilmente sì. Tutto muove dal rinvenimento casuale in località «Scaramurza» di una «scriptio» lapidea avvenuta nel 1911, conservata sempre nel Museo Civico il cui luogo è riportato dal settimanale «Istonio». Si tratta di un’epigrafe funeraria, databile alla prima metà del I sec. d.C., che testualmente recita: «C(aio) Hosi[dio] / Geta / ur(bano) Cer(iali» (fig. 4) che vuol dire «All’ex sacerdote di Cerere Caio Osidio Geta».
Intanto, la foto recentissima di questa iscrizione sottolinea la polverizzazione del pezzo avvenuta all’interno della struttura museale in meno di mezzo secolo (fig. 5) – e ciò si coglie dalla comparazione di questa con quella scattata nel 1976. –. Ma perché la conoscenza del sito di ritrovamento è fondamentale? Per la semplice ragione che nel toponimo «Scaramurza» si nasconde una sopravvivenza di lingua osca. In effetti, foneticamente esso rinvia alla formula sannitica «S[a]karam hůrz» con il significato di “giardino sacro”. E ciò coincide perfettamente con la funzione di sacerdote del culto di Cerere testimoniata dall’iscrizione su Hosidius Geta.
Mi limito a queste brevi considerazioni che, di fatto, anticipano un saggio più articolato che cercherà di ricomporre in un discorso unitario i singoli temi qui appena accennati che in qualche modo danno l’idea della complessa macchina urbanistica che si intreccia con l’antica struttura portuale. Qualcosa, cioè, che cerca di offrire una possibile risposta alla domanda sull’organizzazione del litorale abruzzese tra la fine della Guerra sociale – tenendo conto di ciò Strabone dice intorno all’indipendenza etnico-politica del nomen frentano rispetto ai Sanniti – e gli inizi della formazione dei «municipia» romani.
Un percorso di indagine - aggiungo - ricco di sollecitazioni.

Luigi Murolo

Le foto seguono l’ordine indicato nel testo
1. Muratura in “opus caementicium” con paramento laterizio rotato di 90°
2. Muratura in “opus caementicium” con paramento di “lateres” (mattoni) triangolari
3. Muratura in “opus reticulatum”
4. Rocchio di colonna
5. Iscrizione di Hosidius Geta (foto anno 1976)
6. Iscrizione di Hosidius Geta (foto anno 2023)

13 agosto 2023

«PUNTO DI STELLE»: QUELL’ ANTICO AVVISO AI NAVIGANTI, del prof. Luigi Murolo.

Incipit Cap. II,4, Statuti comunali Vasto (prima metà sec. XVI). "De festiuitatibus celebrandis".
«PUNTO DI STELLE»: QUELL’ ANTICO AVVISO AI NAVIGANTI
di Luigi Murolo

Il giorno di festa è sempre «punto di stelle». Giorno nefasto, «periculosum maxime». È l’avviso del Cielo in primo luogo ai naviganti, ma anche agli altri lavoratori, di restare a casa, in famiglia, tra gli amici. Non si lavora nel giorno comandato dalla Chiesa. Sono settantadue i giorni prescritti dagli “Statuti cinquecenteschi di Vasto” domeniche incluse (Cap. II, IV). 1/5 dell’anno solare. Vale a dire: Ogne Santo, Natiuità de lo Signore, Resurrectione e dui altri dì sequenti, Festiuità de la Vergene Maria (Natiuità, Conceptione, Purificatione, Annuntiatione, Visitatione, Assumptione), Pascha, Ascentione, Pentecoste, Corpus Domini, Assumptione de la Madonna. Inoltre nei giorni di Sancto Honofrio, de Sancto Rocho, de Sancto Sibastiano, Sancto Tomasi de Aquino, Sancto Nicola de Tollentino, del Patriarca San Ioseph, Sancto Antonio de Padua et Sancto Francesco.
Chi lavora nel giorno vietato è considerato “dilinguente”. Non solo vietato dalla legge degli uomini. Ma anche dal Cielo che rende il lavoro pieno di rischi mortali.
«Uomo avvisato è mezzo salvato» dicono le stelle. A quell’avviso si può solo obbedire. Il «punto di stelle» è un giorno nefasto, pericoloso per l’uomo trasgressore di quel dettato.
Da leggere l’antica sestina di ottonari piani ABAB:

Ni’ ‘nd méuvə da lu Huåśtə
‘gió ‘nghə vvàrəchə ‘n gavàllə
A lu quënəćə d’Ahåśtə
Tə nə vi’ a ccapabbàllə.
‘Ca ni n’drùvə cchÎ lu Muåśtrə
Ma sólə séulə pùndə śtållə!

Nella foto: Incipit Cap. II,4, Statuti comunali Vasto (prima metà sec. XVI). "De festiuitatibus celebrandis".

Da: https://www.facebook.com/photo/?fbid=737740691395899&set=a.313924103777562

15 giugno 2023

Luigi Murolo, (Vasto) Santa Lucia: da villa delle delizie, a orto botanico, a rudere.

SANTA LUCIA: DA VILLA DELLE DELIZIE, A ORTO BOTANICO, A RUDERE
Uno dei tanti ruderi disseminati nella città. L’occhio ne è talmente abituato che nessuno se ne accorge. Al più percepisce un vuoto disdicevole che deprime la visione tra palazzi e teoria di villette sequenziate queste ultime l’una dall’altra. Malgrado la sua eroica Resistenza, il rudere è ormai prossimo alla caduta (fig. 1).
Si poteva pensare che tutto il crollato rendesse libera la terra da ogni impedimento. Che fosse sufficiente saper attendere. Ma quando un vincolo esiste con lo stesso occorre sempre fare i conti.
E che, dunque, il «Palazzetto d’Avalos» o, se si vuole, «Santa Lucia», veniva decretato dal Ministero per i Beni culturali e Ambientali «di intere interesse particolarmente importante» e sottoposto a tutte le disposizioni di tutela previste dalla legge 1° giugno 1939 n. 1089. Il Decreto Ministeriale datato 30 giugno 1986 veniva notificato al precedente proprietario il 30 ottobre dello stesso anno (figg. 2-3). E aggiungo, inoltre – come si evince dal testo –, che il documento comprende anche il vincolo per giardino annesso (la notifica viene pubblicata in questa sede cancellando il nome del destinatario). Il decreto ministeriale non spiega la ragione. Ma anche se ciò accade, il motivo si comprende benissimo dal fatto che risulta parte integrante – vero e proprio «luogo delle delizie» – dell’ex-complesso monumentale.
A tutta prima, la storia si presenta nel modo appena accennato. Ma questa è solo una parte. Perché l’altra, rimasta nascosta nella sua funzione, presenta notevole importanza sul versante dell’istruzione agraria (nel caso specifico, una scuola di mestiere). Da quest’ultimo punto di vista, la vicenda apre una diversa lettura della storia agraria dell’Abruzzo meridionale e della sua arretratezza denunziata dallo storico Luigi Marchesani, lamentando i precedenti fallimenti nell’istituzione di una scuola ad hoc: «Non so dolermi abbastanza del modo, onde l’agricoltura si esercita: […]. Ma tal è l’uso che i figli seguano immutabilmente le pratiche dei’ genitori, quasiché i nuovi lumi dell’agricoltura non esistessero: imperciò nel 1820 il Decurionato e ‘l Sindaco Quirino Majo cercarono stabilire in Vasto la cattedra di agricoltura». (Storia ecc., p. 162). Aggiungo, senza però riuscirvi. Ecco perché l’«orto botanico» di cui si sta parlando rispecchia proprio il modello professionalizzante del produttore in proprio di frutta camangiari; vale a dire, l’«ortolano». E ciò, secondo i criteri impartiti dalla Reale Istituzione Agronomica di Grignon (Savoia) fondata nel 1826, trasformata in Scuola Nazionale di Agronomia nel 1852. Vale a dire la stessa tipologia formativa adottata dal marchese Cosimo Ridolfi (cui è intitolato l’Istituto Agrario di Scerni) che, nel 1834, introduce presso la fattoria di Meleto Valdelsa (Firenze), la prima scuola di agraria in Italia indirizzata all’istruzione di fattori e direttori d’azienda. Va da sé che, in quelle istituzioni, decisiva risulta la presenza dell’orto botanico.
Mentre ciò accade, il medico vastese Francesco Romani (1785-1852) (fig. 4) lega gran parte del suo patrimonio (500 ducati) «in favore della sua Patria» per la realizzazione di «una scuola teorico-pratica di agricoltura». Nel testamento si legge che occorre «dimostrare col fatto la verità e utilità delle dottrine e delle pratiche che si insegnano […]. Perché, trattandosi di cose agrarie, il linguaggio più persuasivo che torna a generale profitto, ed è compreso da ogni classe di persone, è il fatto e l’esempio». Per realizzare tale programma, il dott. Romani prevedeva una Commissione di concorso per la nomina di uno studente da destinare ai corsi di Meleto Valdelsa e di Grignon. Si andava delineando, in tal modo, la concretizzazione del disegno romaniano. Nel 1855 avrebbe vinto il giovane Francesco Cerella di San Buono attraverso cui gli insegnamenti degli istituti francese e toscano si sarebbero innervati nella scuola vastese (a partire dal 1858). L’intreccio tra generale e particolare sarebbe così avvenuto un anno prima dell’Unità d’Italia.
Le vicende del «Legato Romani» avrebbero avuto una storia piuttosto complicata e ingarbugliata risoltasi solo nel 1902. In quegli anni i poderi sperimentali cambiano più volte sede: ex-Belvedere Romani, S. Onofrio, contrada Paradiso. Sicché, è a partire dal 1910 che, legando il patrimonio Romani alla Cattedra ambulante di Agricoltura, sarebbe stato istituito, insieme con Comune, Ministero dell’Agricoltura, Provincia di Chieti, il «Consorzio per la manutenzione della Cattedra Ambulante di Agricoltura del Circondario di Vasto». Da quel momento, sarà presa in affitto dai d’Avalos il complesso di Santa Lucia (fig. 6) (torre angolare della cinta muraria ora abbattuta), per iniziare l’attività didattica. La pianta che viene qui presentata è quella relativa all’«Orto Botanico» cantierato nel 1911. Da quel momento in poi, il Legato Romani avrebbe seguito il destino della Cattedra Ambulante di Agricoltura.
Di questa struttura fisica che ha garantito il funzionamento e l’organizzazione della coltura ortense nel territorio non esiste più nemmeno la polvere (fig. 7). Figuriamoci se si riesce a pensare al trasferimento della cultura internazionale di Grignon e Meleto Valdelsa in quel di Vasto! E perché no, anche a ricordare il galantomismo di un personaggio nato nell’ ancien règime ma che, con il suo patrimonio, ha pensato alla modernizzazione dell’agricoltura. Al contrario, malgrado la presenza della cappella di Santa Lucia, la cecità dei contemporanei sta procedendo a passi veloci per cancellare perfino la memoria toponomastica di Francesco Romani. «Così è se vi pare», potremmo dire con Pirandello, sottolineando l’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può offrire la propria interpretazione. Ho detto “potremmo” se si trattasse di un fatto tragico. Ma si tratta solo di una commedia eseguita, tra l’altro, piuttosto maluccio. Del resto la fine di villa d’Avalos (Santa Lucia) e dell’Orto botanico è solo l’ultimo atto compiuto di un «cupio dissolvi» in atto. C’è ancora un bel po’ da cancellare. Ma tra breve sarà tutto risolto. Con la «cancel culture» alle porte nulla resterà come prima.
Le foto seguono l'ordine indicato nel testo.








Da: Luigi Murolo FB

31 dicembre 2021

Prof. Luigi Murolo, … Con l'antico gergo dei muratori di Vasto: «Smaldesco».

 

 … CON L’ANTICO GERGO DEI MURATORI (di Vasto)

di Luigi Murolo

L’unica lingua al mondo che ha un certificato di morte è il Dalmatico settentrionale. Scompare insieme con il suo ultimo locutore nel 1898: il minatore Tuone Udaina della citta di Veglia ucciso da un’esplosione nel luogo di lavoro. 
Dello «smaldesco», il gergo dei muratori di Vasto, nessuno ha più notizie. Scompare semplicemente perché nessuno lo parla più. 
Come tutte le lingue al mondo che vivono fin quando c’è qualcuno che comunica con un proprio simile. 
Nel caso di Vasto non è in gioco la struttura sintattico-grammaticale. Ma solo il lessico. Che, importato in città nel sec. XVI dalle maestranze lombardo-ticinesi qui emigrate, viene adeguato alla fonetica del luogo. Il passaggio si manifesta soprattutto quando la feudalità d’Avalos raggiunge il vertice con il governatorato di Milano nel periodo spagnolo. Al punto che in città viene istituito un consolato milanese per regolare il flusso migratorio. Non vastesi a Milano, ma milanesi a Vasto. Tutto ciò confermato dalla documentazione notarile dei tabellioni locali.
I migranti sono soprattutto muratori. Muratori che, nel gergo, vogliono mantenere una propria identità comunitaria. Perdendo via via la connotazione originaria, il gergo diventa di mestiere. Una sorta di linguaggio cifrato che viene variamente denominato. 
Nella “Storia di Vasto” Luigi Marchesani parla di «furbesco». 
Nel suo «Vocabolario», Luigi Anelli utilizza un quasi-sinonimo: «furfantino». Senza queste due testimonianze ottocentesche difficilmente avremmo avuto la possibilità di individuare la specificità di questa sopravvivenza linguistica. I pochi termini raccolti dai due studiosi costituiscono il nucleo del patrimonio culturale. 
Le mie ricerche fondate sull’oralità aggiungono qualche elemento: ma non tali da consentire un discorso articolato. L’ultima testimonianza raccolta un po’ tempo fa è quella di Franco Cipollone, l’attuale titolare del Bar Martone. Dalla sua voce si potrà ascoltare la pronuncia giunta fino a noi.
Nell’ultimo giorno dell’anno 2021, ho tentato di profilare un piccolo componimento che qui presento senza fornire la traduzione. Perché il «furbesco» deve ancora mantenere il suo segreto (preciso che «Avåśtǝ», «basta» non appartiene al gergo).
Domani sarà, Capodanno. Auguri a tutti.

N’arcójjǝ cchî cubbuìllǝ.
Lu ccruójjǝ à sballåtǝ.
Tîttǝ à sbascétǝ foralbe.
Lu chiuóspǝ? … la chióspǝ? …
Cubbuìllǝ!
Artarînnǝ a lu ccruójjǝ? …
Cubbuìllǝ! …
La chióspa mà? …
Aèllǝ! A ‘mmaravållǝ!
Lu ruffualdǝ s’armòrtǝ…
Avåśtǝ! Avåśtǝ!
‘Ni vvùjjǝ gnammå’ cchî …


Dalla pagina Facebook del prof. Luigi Murolo

25 novembre 2021

"Il silenzio e la memoria", visita guidata al Cimitero ottocentesco di Vasto, a cura del prof. Luigi Murolo.


Non solo luogo della memoria, ma anche  Bene Culturale primario. Questo il senso più compiuto del Cimitero ottocentesco di Vasto. Il culto dei

maggiori che si coniuga con la rappresentazione pubblica dell’altare di famiglia che accoglie le donne e gli uomini alla dimora dell’eternità.

Qui vegliano i “dii manes”. Le antiche divinità che rendevano numinoso l’inviolabile spazio della città dei morti. Solo al tempo era concesso di cancellare la memoria.

«Quisquis hoc sustulerit aut iusserit, ultimus suorum moriatur.

Qusiquis hoc sustulerit aut lauserit, ultimus suorum moriatur»

Ammonivano le antiche iscrizioni sepolcrali latine. E cioè:

“Chiunque solleverà questa pietra o la farà rimuovere, muoia l’ultimo dei suoi.

Chiunque solleverà questa pietra o la danneggerà, muoia l’ultimo dei suoi”

Terribile maledizione. È il Bene Culturale che consente di poter dire al visitatore.

«Hospes uiue uale, in sumptum superet tibi semper,

qua non spreuisti hunc lapidem […]»

Che vuol dire:

“Tu che passi, vivi sano; resti sempre a tuo credito il non aver commesso

atti in ispregio di questa lapide”.

Il senso di questa visita è tutto qui. Nel rammentare l’altissima considerazione

che gli antichi avevano dei Mani, protettori delle tombe.

Il Silenzio e la Memoria vuole solo testimoniare il significato profondo del

Cimitero ottocentesco di Vasto.

Perché non si possa più dire

«Terra tenet corpus, nomen lapis atque animam aër.

«Quam melius fuer at non tetigisse solum»

Cioè

“la terra tiene il corpo, un sasso, il nome, l’anima l’aëre.

Sarebbe stato meglio non aver mai toccato il suolo”.

Luigi Murolo

3 novembre 2021

Luigi Murolo, Il silenzio e la memoria - Visita alle tombe antiche del cimitero di Vasto.


La tomba di Gabriele Rossetti presso Highgate Cemetery, Londra




A proposito di una visita guidata al Cimitero di Vasto
di Luigi Murolo

Sintetizzo alcuni aspetti da me trattati nel corso della visita al Cimitero di Vasto del 3 novembre 2021. Muovo da un dato di fatto. Completata nelle sue linee essenziali nel 1840, la necropoli viene inaugurata il giorno delle Ceneri del 1844 (vale a dire, il mercoledì 21 febbraio) dopo numerose vertenze intercorse tra Decurionato (e progettista Nicolamaria Pietrocola) contro l’appaltatore Michele Lattanzio (l’ultimo pagamento di 30 ducati è contenuto nella delibera n. 149 del 18 febbraio 1844). Ho già pubblicato in altra sede il testo dell’allocuzione in latino pronunciata in quella data dall’economo curato capitolare don Giuseppe De Benedictis dal titolo «Monitum posteris relinquendum» (cioè, «Monito tramandato ai Posteri»)

Una cosa va precisata. Per cimitero si intende la parte posta lungo il perimetro interno destinato alla tumulazione. Per camposanto le quattro aree interne destinate all’inumazione.

In base al divieto di tumulare cadaveri nelle chiese prima di quella data esisteva un camposanto posto nell’area della cappella di S. Nicola funzionante dal 16 novembre 1837 al 19 febbraio 1844 (il documento è conservato presso l’Archivio del Capitolo). Risulta un totale di 1753 cadaveri inumati, non tumulati. Il primo nominativo è quello di Rosa Lucia Falcone (16/11/1837) l’ultimo quello di Macedonia Valentini (19/2/1844).

La prima sepoltura nell’attuale Cimitero è quella relativa all’inumazione in Camposanto di Teodoro Giangrande del 23 febbraio 1844. Per le tumulazioni, al contrario, conosciamo solo la data delle concessioni per la costruzione delle tombe in materiali lapidei. La prima in assoluto è quella destinata all’arciprete capitolare mons. Donatangelo Rossi in data 20 marzo 1844.