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8 ottobre 2025

“Dessèchement du Lac Fucino.” Il prosciugamento del Fucino in un articolo del 1863.

Riportiamo la traduzione dal francese dell’articolo pubblicato il 21 febbraio 1863 sulla rivista parigina “L’Illustration: journal universel” dal titolo: Dessechèment du Lac Fucino. Inauguration de l’émissaire de Claude, reconstruit par le Prince Alexandre Torlonia.

PROSCIUGAMENTO DEL LAGO FUCINO. INAUGURAZIONE DELL’EMISSARIO DI CLAUDIO, RICOSTRUITO DAL PRINCIPE ALESSANDRO TORLONIA.

L’Illustration annunciava per prima, dieci anni fa, che il re di Napoli Ferdinando II aveva concesso a una compagnia il prosciugamento del lago Fucino, a condizione che essa restaurasse il celebre emissario di Claudio.
Da quell’epoca, i lavori sono stati proseguiti senza interruzione, in mezzo alle maggiori difficoltà, e il 9 agosto 1862 si inaugurava, con una brillante cerimonia sulle rive del lago, l’apertura del nuovo canale sotterraneo, o emissario che sostituisce quello costruito dall’imperatore Claudio, e destinato, come il canale romano, a gettare le acque del Fucino nel fiume Liri, che nel suo corso inferiore prende il nome di Garigliano e si getta nel Mediterraneo, presso Gaeta.
Quest’impresa è una delle più notevoli del nostro tempo e la più antica fra tutte quelle in corso di esecuzione; il suo inizio risale all’anno 42 della nostra era; spesso interrotta, ma non interamente abbandonata, almeno in principio, soltanto dopo millottocentoventi anni ha visto compiersi la prima, la più difficile e la più dispendiosa parte delle sue operazioni, grazie alla nobile e coraggiosa iniziativa del principe Alessandro Torlonia, che non ha indietreggiato davanti a diciotto secoli di tentativi infruttuosi e ha voluto assumere da solo tutti gli immensi oneri, i rischi e la responsabilità di quest’opera colossale.
Il Fucino è uno dei più grandi laghi d’Italia. La sua superficie è di circa 16.000 ettari; è il più vasto bacino mediterraneo che sia mai stato prosciugato dalla mano dell’uomo.
Situato negli Abruzzi, su uno degli altipiani più elevati degli Appennini meridionali, si trova proprio al centro della Penisola.
La particolare conformazione del suo bacino, interamente circondato da alte montagne, produce su questo lago un fenomeno che, fin dall’antichità più remota, gli ha valso una reputazione di meraviglioso che non ha completamente perduto neppure ai nostri giorni.
È soggetto a piene che talvolta durano venti, trenta, quaranta anni e più; i suoi periodi di ritiro sono altrettanto lunghi.
Questi straordinari movimenti non hanno limiti né nella durata, né nelle altezze che il lago può raggiungere; essi risultano dalla configurazione del territorio, che, chiuso da ogni lato dalle montagne, non lascia alle acque alcun passaggio per raggiungere le valli vicine.
L’evaporazione è l’unica causa che modera il volume del lago e, il più delle volte, è insufficiente a eliminare tutta l’acqua che si raccoglie nel bacino.

Durante le sue lunghe inondazioni, il Fucino ricopre vaste estensioni di terreni molto fertili e riduce a profonda miseria un gran numero di famiglie che vivono sulle sue rive; fece così scomparire, nell’antichità, tre città popolate, Archippe, Penne e Marruvio, delle quali si ritrovano ancora alcune rovine.

Gli abitanti delle rive, continuamente esposti a questo flagello, non hanno mai cessato, in ogni epoca, di implorare i governi di liberarli dal loro temibile vicino.
Giulio Cesare, per primo, volle dare sbocco al Fucino; la morte arrestò il suo progetto, e fu Claudio a tentare la realizzazione di questa idea. Bisognava costruire un canale sotterraneo che portasse le acque del lago nel Liri,
che scorrono in fondo a una stretta valle chiamata Valle Roveto.

Questo canale doveva avere 5.680 metri di lunghezza, attraversare la base di una montagna di calcare molto duro, procedere costantemente a 100 metri al di sotto del suolo, in mezzo ai terreni così vari e sconvolti della formazione appenninica.
Era, come si comprende, un lavoro di un’audacia inaudita per i Romani, privi dei potenti mezzi di cui disponiamo solo da poco tempo per eseguire simili opere.
Nulla, tuttavia, fermò Claudio; fece scavare trentaquattro pozzi profondi, e un numero ancora maggiore di gallerie inclinate, chiamate Cunicoli, per permettere agli operai un accesso più facile ai diversi punti della galleria sotterranea che essi perforavano nella roccia con piccone e scalpello, e che rivestivano di muratura nelle argille e nelle sabbie.
« Era un lavoro, dice l’eloquente Plinio, che l’aveva visto, che superava l’immaginazione e che nessuna espressione potrebbe rendere. »
« Claudio vi impiegò undici anni, trentamila uomini e somme talmente considerevoli che il tesoro pubblico ne risultò gravemente oberato.
Nell’anno 53, l’imperatore volle inaugurare l’emissario con grande pompa, e offrì sul lago la più grande naumachia dell’antichità. Diciannovemila combattenti, scelti tra gladiatori e criminali, montavano due flotte composte di vascelli a tre e quattro ordini di remi: l’una rappresentava l’esercito dei Rodii, l’altra quello dei Siciliani.»

Claudio assisteva a questo spettacolo indossando il grande costume dei Cesari; Agrippina era vestita con una clamide d’oro.
Tutta Roma era presente a queste feste, che non avevano ancora avuto eguali.
Un tritone d’argento, emergendo dal seno delle acque, suonò la sua tromba per dare il segnale del combattimento; ma i tristi attori, interpretando il saluto con cui Claudio aveva risposto al terribile « Ave Cesare » come una grazia concessa alla loro vita, rifiutarono di combattere.
Le preghiere, le minacce e soprattutto le disposizioni prese sulla riva per impedire loro di fuggire finirono per vincere la resistenza di quegli sventurati.
Furono costretti a venire alle mani e, quando si furono scannati tra loro, per la grande gioia degli innumerevoli spettatori, si tolsero le paratoie che trattenevano le acque.
Queste si precipitarono con violenza estrema nell’emissario, trascinando tutto con sé, ma rifluirono ben presto con non minore forza; la tribuna imperiale ne fu profondamente scossa e rischiò di scomparire nel baratro.

L’emissario non aveva dato passaggio alle acque. La causa di questo incidente rimase ignota; Tacito, a torto, credeva che fosse dovuta a errori di livello del canale.
Fu solo negli ultimi lavori, dopo diciotto secoli, che si vide che quell’incidente era stato prodotto da una frana avvenuta proprio al momento dell’immissione delle acque.
Quella frana era il risultato della cattiva qualità delle costruzioni realizzate da Narciso, direttore dell’impresa.
Il ministro infedele, per realizzare immensi e illeciti profitti, aveva alterato i piani dell’emissario, trascurato l’esecuzione delle murature e causato, con la sua cupidigia, la rovina prematura di un’opera che aveva richiesto tante fatiche e sacrifici.
Agrippina, a detta di Tacito, approfittò dello spavento di Claudio per rimproverare a Narciso le sue dilapidazioni; ma il ministro era più potente della sposa.

Claudio morì avvelenato poco tempo dopo questo avvenimento, e l’emissario, distrutto appena nato, fu abbandonato dai suoi primi successori.
Traiano e Adriano vi fecero delle riparazioni, la cui durata fu effimera.
Federico II, nel Medioevo; più tardi Alfonso I d’Aragona, e, all’inizio del XVII secolo, il connestabile Lorenzo Colonna tentarono anch’essi, ma inutilmente, di riaprire il canale di Claudio.
Questi tentativi, rinnovati senza successo, fecero dubitare più di uno studioso della possibilità del prosciugamento del Fucino, e il popolo credette che vi fosse una “jettatura” su quest’impresa.

Durante il secolo scorso, il Fucino rimase pressappoco stazionario e entro limiti ristretti; fu solo verso il 1780 che riprese un periodo ascendente, ma allora si innalzò rapidamente e gettò di nuovo il terrore tra gli abitanti delle rive.
Ferdinando IV fece eseguire studi e preparativi di lavori che furono presto interrotti dagli avvenimenti politici.
Il lago continuò la sua piena fino al 1816, e raggiunse, in quell’epoca, la sua maggiore altezza conosciuta nei tempi moderni (aveva 23 metri di profondità).
Subito dopo cominciò un movimento di ritiro che durò fino al 1835; allora non aveva più che 10 metri, e questo fu il minimo registrato.
Il governo approfittò di questa decrescita per far sgomberare l’emissario, che era quasi interamente colmato dalle sue rovine.
Il lavoro fu lungo e penoso; cominciato nel 1826, fu terminato solo nel 1835.
Il commendatore Afan de Rivera, che lo aveva diretto, presentò poi un progetto incompleto di restauro, che fu respinto, e Ferdinando II, istruito dalla storia di Narciso, volle lasciare all’industria privata il compito di tentare di nuovo il prosciugamento.
Le offerte si fecero attendere a lungo; infine, nel 1853, una compagnia, di cui il principe Torlonia era il principale interessato, ottenne la concessione.
Il principe, spinto dall’idea di rifare uno dei monumenti più celebri dell’antica Italia, di restituire a una contrada popolata il benessere che le era stato tolto dalle inondazioni del lago, divenne unico proprietario dell’impresa, alla quale da dieci anni non cessava di dedicare le sue cure più attive.

I lavori moderni non dovevano cedere in nulla agli antichi per le difficoltà da superare, e li avrebbero superati di molto per la grandiosità delle loro proporzioni.
Non si trattava della restaurazione di un’opera mal riuscita fin dalla sua origine che il principe intendeva realizzare, ma di una costruzione completamente nuova, che prese posto al primo rango tra i lavori più grandiosi della nostra epoca.
Il celebre e per sempre compianto costruttore del canale della Durance a Marsiglia, l’ingegnere F. de Montricher, fu incaricato dal principe dell’esecuzione della sua grande idea.
Fin dall’inizio fu deciso che il canale romano, che anche restaurato non avrebbe mai potuto prosciugare il lago interamente, sarebbe stato sostituito da un tunnel più che doppio; l’antico aveva nove metri quadrati di apertura, il nuovo doveva averne venti.
I Romani non avevano avuto l’intenzione che di restringere e mantenere il lago entro limiti fissi; il progetto moderno invece doveva sostituirlo con un fiume, le cui acque sarebbero state una nuova fonte di ricchezze per la regione.

Per operare questa trasformazione, occorreva, invece di un emissario che, nelle migliori condizioni, non poteva far passare più di dodici o quindici metri cubi d’acqua al secondo, costruirne uno che potesse farne scorrere sessantotto nella stessa unità di tempo.
Le condizioni in cui si eseguirono questi lavori furono senza dubbio tra le più difficili che si possano incontrare.
L’emissario, sostenuto da armature provvisorie durante lo sgombero del 1835, crollava da ogni parte nel 1853.
Frane considerevoli lo avevano spezzato in più tronconi; i resti delle murature romane, staccati dalle acque sotterranee che affluivano nel canale, lo ingombravano per quasi tutta la sua lunghezza e crollavano ad ogni istante sotto l’enorme pressione di cento metri di terra.
Infine, lo stesso lago sembrava voler lottare contro l’impresa. Dal 1835 non aveva smesso di innalzarsi e, dal solo inizio dei lavori, era cresciuto di quasi sei metri.
Tutta la parte superiore del canale era invasa, e le acque, trattenute da una frana che bisognava attraversare, esercitavano un’enorme pressione equivalente a ventidue metri di colonna, contro la quale occorreva resistere e avanzare.
Tutti questi ostacoli furono tuttavia vinti, grazie all’abilità e alla perseveranza degli ingegneri Bermont e Brisse, che, come direttore e vicedirettore dei lavori, continuarono l’opera dell’infelice de Montricher, strappato improvvisamente alla sua brillante carriera.
Ma, superate queste difficoltà, l’abbondanza delle acque ne creava di nuove man mano che i lavori si avvicinavano al lago.
4.300 metri della nuova costruzione erano completamente ultimati; diventava impossibile completare i 4.400 che restavano senza dare al lago un deflusso che, abbassandone il livello, ne ritraesse le sponde.
Ma per poter ottenere questo primo deflusso, quanti grandi lavori bisognava ancora eseguire! Scavare un canale, aprire una galleria, restaurare la parte dell’emissario che non si poteva completare.
Eppure tutto fu fatto, ed è l’apertura di questo canale provvisorio che costituiva l’oggetto dell’inaugurazione del 9 agosto, rappresentata dalla nostra incisione.
Non si potrebbe precisare il tempo necessario al completo prosciugamento del Fucino; quando il livello del lago sarà abbassato di alcuni metri, occorrerà riprendere i 1.400 metri di galleria incompiuti e dar loro le stesse proporzioni dei 4.300 già terminati; poi, essendo la durata del prosciugamento subordinata alle stagioni più o meno piovose, si stima che occorreranno in media dai sei agli otto anni per vedere questo bacino trasformato in una vasta pianura la cui fertilità, soprattutto nei primi anni, sarà davvero fenomenale.
I lavori eseguiti fino a oggi possono, con alcune cifre, dare meglio delle parole un’idea della grandezza di questa impresa.

La diga che separa la testa del canale e il lago ha richiesto 90.000 metri cubi di riporto e 21.000 di roccia per proteggerla dall’azione delle onde del lago.
Gli scavi effettuati nella galleria principale, nei pozzi, nel canale provvisorio, ammontano a 154.000 metri cubi di materiali diversi.
Le murature, quasi tutte in pietra squadrata, ammontano a 21.000 metri cubi, e tuttavia, come abbiamo detto, l’emissario non è ancora terminato che per tre quarti della sua lunghezza.
Si può facilmente immaginare cosa abbiano dovuto essere i lavori accessori, soprattutto in questo paese lontano da tutti i grandi centri, dove è stato necessario far fabbricare sotto i propri occhi fino ai minimi dettagli di questa immensa impresa.
Da quanto abbiamo detto, si vede che non a torto abbiamo annunciato che il prosciugamento del Fucino era destinato a fare epoca nella storia industriale d’Italia, e che l’opera del principe Torlonia è, fino a oggi, unica nel suo genere, tanto per la grandezza del fine che si propone quanto per quella della sua esecuzione.
È bello vedere un uomo ricco consacrare così le sue cure e una parte della sua fortuna a un’impresa tanto grandiosa quanto utile, di fronte alla quale la potenza di tre Cesari e diciotto secoli di sforzi erano falliti.

Pierre Paget

Da: PicccolaBibliotecaMarsicana

12 luglio 2025

Francesco Ippoliti (1865 - 1938), medico degli ultimi, anarchico e antifascista abruzzese.


Francesco Ippoliti nacque il 12 febbraio 1865 a San Benedetto dei Marsi, provincia dell’Aquila, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri.
Dopo aver completato gli studi superiori, si trasferì a Napoli, dove si laureò in Medicina e Chirurgia. 
Proprio nell’ambiente universitario partenopeo entrò in contatto con l’anarchismo, maturando una coscienza politica che avrebbe segnato tutta la sua vita. 
Tornato nel suo paese natale scelse invece di praticare la medicina come strumento di giustizia sociale. 
Curava gratuitamente i poveri, comprava i medicinali per chi non poteva permetterseli e si spostava in tutte le zone più isolate. 
Oltre all’attività medica, Ippoliti lottava contro il dominio dei grandi latifondisti, in particolare la potente dinastia Torlonia, che aveva trasformato la Marsica in una terra di sfruttamento intensivo dopo l’essiccazione del lago Fucino. 
Denunciava le condizioni di semi-schiavitù dei contadini e cercava di costruire un’alleanza tra lavoratori attraverso l’istruzione popolare e la solidarietà. 
La sua notorietà e il suo attivismo lo resero bersaglio delle autorità fin dal regime liberale, che lo sottopose a perquisizioni e denunce. 
Con l’avvento del fascismo, la repressione e le violenze divennero sistematiche, tanto più che Ippoliti era il punto di riferimento di diversi militanti attivi nella zona. 
Nel 1926 fu arrestato e mandato al confino politico prima a Pantelleria e poi a Lipari, dove scrisse diari in cui descrisse le dure condizioni dei reclusi e la pervasiva sorveglianza del regime. 
Anche in esilio continuò a curare i compagni detenuti e ad agire come figura di riferimento morale. 
Tornato in Abruzzo nel 1928, visse sorvegliato e poverissimo, costretto a smettere di esercitare la professione. 
Rifiutò sempre ogni compromesso con il fascismo, conducendo una vita austera e solitaria.
Negli anni Trenta, sempre più isolato e debilitato, fu assistito solo da pochi compagni fidati, in particolare Francesco De Rubeis e Pasqualina Martino. 
Morì il 7 gennaio 1938 nel suo paese natale, dove fu sepolto in forma anonima. 
La sua memoria, per decenni silenziata, è stata riscoperta solo di recente grazie a testimonianze familiari e studi storici.

Da: https://www.facebook.com/share/p/16bx9jsVh4/

Per approfondimenti:

https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13234-ippoliti-francesco

5 giugno 2025

Augustus John Cuthbert Hare, Days Near Rome, Volumi 1-2 , 1875.


Augustus John Cuthbert Hare, Days Near Rome, Voll. 1-2
Da: Google



Da Roma all’Aquila e ritorno lungo la Claudia Valeria per Sulmona e la Marsica nella primavera del 1874 - 1874

Il Castello Orsini

Augustus John Culthbert Hare nacque a Roma nel 1834 e morì a Holmhurst, nella contea del Sussex, in Inghilterra il 22 gennaio 1903. Di famiglia aristocratica inglese trascorse un’infanzia crudele ma seppe superarla fino a scrivere in sei volumi la storia autobiografica “the history of My Life”. Ebbe gravi problemi economici ma grazie alla sua passione ed amore per la scrittura, si affermò nel campo letterario definito dai contemporanei “osservatore attentissimo e la sua prosa è brillante e piacevole”. Il suo strumento principale era la penna ma nei suoi viaggi era come un menestrello girovago e grande uomo di spirito. Augustus è un viaggiatore inglese che, trovandosi a Roma nel 1870, è testimone delle “breccia di porta Pia”.
Negli anni 70 intraprese un viaggio nella penisola e nel 1874 ebbe modo di visitare e apprezzare l’Abruzzo. L’escursione nella regione, una delle pochissime parti d’Italia “non ancora rovinata dall’assalto dei turisti inglesi e americani” e presentava un vantaggio di essere ancora economica essendo rimasta la “vecchia scala dei prezzi”. In realtà, le pagine di Hare sull’Abruzzo non rappresentano un documento di conoscenza profonda. L’autore, nel suo diario, si mostra attento e interessato ad integrare la citazione colta con l’impressione artistica, la notizia logistica e geografica con la notazione, erudita o ironica, di costumi. Un reportage della realtà della nostra terra negli anni immediatamente seguenti all’Unità Nazionale, dal punto di vista politico-sociale e semplicemente sociologico- culturale.


Da: Regione Abruzzo

26 settembre 2022

Gli acquerelli nella Marsica di Consalvo Carelli.

color by F.Marino


Una galleria dei bozzetti dal vero realizzati da Consalvo (o Gonsalvo) Carelli (1880 - 1889) su diretta commissione di Vincenzo Bindi per illustrare il volume Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi. I disegni sono attualmente conservati nella Pinacoteca Bindi di Giulianova.

Il castello dei Colonna di Avezzano (AQ) con i suoi enormi torrioni circolari. Dietro di esso si intravede il campanile della chiesa di San Bartolomeo. Sullo spiazzo davanti sono disegnati vari contadini, con forconi, covoni e un carro.

Una scena disegnata dal vero, dove un gruppo di persone è seduto sui gradini di una scalinata. Sullo sfondo si erge il Palazzo Ducale di Tagliacozzo (AQ).

La facciata esterna del Castello di Celano (AQ). Fuori, davanti ad esso, sono rappresentati gruppi di contadini, alcuni buoi e un cane.

La chiesa di San Cesidio a Trasacco (AQ). Sullo spiazzo una contadina in costume con la brocca e una bimba, accanto un altro gruppo di figure con asino e covoni.

La chiesa di Santa Sabina in Marruvium a San Benedetto dei Marsi (AQ). Da un lato della facciata, decorata in stile romanico, si intravede uno stagno. Sulla strada sono rappresentate alcune figure in costumi tipici, sedute. Più in la alcuni uomini caricano del fieno su un carro.

Il borgo medievale di Albe e le sue mura ciclopiche.