Gabriele Smargiassi, Il golfo di Pozzuoli da Baia, 1841, olio su tela, cm 96,8 x 129,5, collezione privata.
Perché la Scuola di Posillipo parlò abruzzese?
Alcune definizioni nascono malevole fin dall’inizio ma vengono poi accettate quasi per spirito di sfida. “Decadentismo”, per esempio, fu termine coniato polemicamente e per sfregio nei confronti di quegli autori dell’Ottocento nevrotici e malaticci il cui immaginario scompensava verso derive provocanti e perturbanti, inaccettabili agli occhi del tempo. Eppure quegli stessi artisti malaticci se ne appropriarono con gioia e oggi decadente è un aggettivo che ha l’onore di accomunare un Baudelaire, un Mallarmé, un Thomas Mann.
Così accadde anche per i pittori napoletani della prima metà del XIX secolo che si specializzarono nel paesaggismo e, come s’insinuò con cattiveria, si concentrarono a Posillipo per smerciare più agevolmente i loro quadri ai turisti che erano affascinati da scorci meridionali e marine.
Il fenomeno, dagli anni Venti agli anni Trenta dell’Ottocento, ebbe i caratteri dell’allargamento dei cerchi concentrici sull’acqua: il gruppo si riunì dapprima intorno alla figura dell’olandese Sminck van Pitloo, poi sostituito da Giacinto Gigante, gigante non solo di nome a considerare il talento, attraendo progressivamente nomi nuovi e soprattutto intere famiglie di artisti, come i Witting, i Fergola, i Carelli. Si praticava tuttavia spesso una pittura fatalmente corriva, da qui forse muovevano le critiche degli accademici: i paesaggi vibravano di lirici slanci per quanto romanticamente protesi ad assimilare la lezione di Turner, che si fermò a Napoli a lungo, o di Camille Corot, e quindi a rinnovare il ruolo della luce e lo statuto stesso, anche tecnico, dell’acquerello. È evidente il pericolo di stereotipia insito nella pratica del paesaggismo, tuttavia la Scuola di Posillipo sperimentò parecchio prima di adagiarsi sul vedutismo convenzionale.
Giunta ai suoi epigoni, a invertire la rotta intervennero però i fratelli Palizzi, Giuseppe, Filippo, Nicola e Francesco Paolo, provenienti da Vasto, in provincia di Chieti.
La città adriatica attraversava in quegli anni una fase di grande vivacità culturale, anche per la presenza di una variegata borghesia illuminata, ben più progressista che provinciale.
A fare da apripista a Napoli, era stato un altro vastese, Gabriele Smargiassi, che nella capitale partenopea divenne insegnante di “paesaggio” all’Accademia delle Belle Arti, e molto influenzò Nicola Palizzi, destinato tra i fratelli a diventare l’esponente della Scuola di Resìna, apertamente verista. Nicola non disdegnava le emozioni forti: il suo pennello spaziava da eruzioni a terremoti, ma l’intuizione verso il cambiamento puntava ormai al superamento del manierismo romantico all’insegna di un realismo maggiore, come quello che emergerà dai lavoratori rappresentati da Giuseppe, l’unico nato a Lanciano, che trova la sua strada e il successo in Francia.
Ad affiancare il primogenito dei Palizzi negli anni parigini, sarà poi il minore dei fratelli, Francesco Paolo, il più vicino ai soggetti di tradizione napoletana, capace però di cogliere nuove suggestioni dalle tonalità della campagna francese e dalla pittura di Chardin.
Su tutti svetta tuttavia la prodigiosa produzione del secondogenito Filippo, allievo a Napoli del conterraneo Giuseppe Bonolis, affermato ritrattista originario di Teramo.
Il gusto puntuale di Filippo per il dettaglio matura precocemente a Vasto, nella bottega di un modellatore di statuine da presepe, e tocca l’apice con l’interesse rivolto alla fotografia, che egli praticò con severa professionalità insieme alla lavorazione delle maioliche. La sua pittura è infatti plastica, precisa e poetica, basti pensare allo spirito d’osservazione che si nasconde dietro i suoi prediletti animali, soprattutto domestici: la cagna bianca e nera con i cuccioli, i buoi luminosi nei caldi interni di stalla, i muli e i vitelli spesso associati ai bambini, o le caprette interrogative dall’ispido vello rustico che paiono anticipare la “capra semita” di Saba.
Minimalismo di svolta fecondamente lungimirante: da qui avrebbe preso presto le mosse la rivoluzione dei Macchiaioli.
Da: Luisa Gasbarri, 101 perché sulla storia dell'Abruzzo che non puoi non sapere.
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