Pagine

Visualizzazione post con etichetta Orsogna. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Orsogna. Mostra tutti i post

26 gennaio 2024

Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa.

Ludovico Teodoro, San Leucio nelle vesti di vescovo, con ai piedi il Dragone, Duomo di Atessa

Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa

Prima Puntata

di Angelo Iocco

Poco si conosce di questo artista, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti[1], uno dei migliori che fu attivo nell’Abruzzo chietino e nel Molise, ma anche nell’area di San Benedetto del Tronto e del teramano (dipinse il soffitto della Collegiata di Campli), dagli anni ’30 agli anni ’50 del ‘700. Per vent’anni dominò la scena con altri colleghi spesso napoletani, come Ludovico De Majo, Francesco Solimena, Giovan Battista Spinelli. Fu sepolto a Chieti nella chiesa di San Domenico, andata demolita nel 1914 per costruire il palazzo della Provincia di Chieti. La lezione del Teodoro pare essere stata recepita anche in Atessa, benché non siano attestate sue opere nelle chiese. Un esempio è l’affresco della volta della sala grande del palazzo De Marco-Giannico, ex casa di riposo, in Largo Castello, la cui scena illustra al primo piano Ercole che combatte l’Idra di Lerna, e al centro il Giudizio di Paride con Giunone, Minerva e Venere con l’Amorino, e attorno nelle nuvole dell’Olimpo, figure femminili e Grazie. La scena, ripresa anche dalle stampe che circolavano in quei tempi, ricorda per la divisione in due scomparti,. Le due tele del Teodoro di Chieti (chiesa di Santa Maria della  Civitella) e Guardiagrele (chiesa di Santa Chiara) con il tema della Cacciata del Demonio e degli Angeli ribelli dal Paradiso.

Dal volume A. e D. Jovacchini, Per una storia di Atessa, Cassa di Risparmio, Atessa, 1993

Ludovico figlio di Donato, attivo nella seconda metà del Settecento, fu ugualmente pittore, e non dimenticò l’insegnamento paterno, apprezzava le grandi scene corali, spesso rintracciabili nei dipinti di Luca Giordano a Napoli, dove andò a formarsi, come fece suo padre; e non mancava sicuramente di avere una personale collezione di stampe, da cui traeva ispirazione per i suoi affreschi di ampio respiro. Al momento, pienamente attribuibile a Ludovico, sono la tela di San Leucio vescovo col dragone, presente nell’altare maggiore del Duomo di Atessa, firmato e datato 1779. Benché non firmate, mi sento di attribuirli anche le due tele laterali del coro dei Canonici, che ritraggono la Natività con la Sacra Famiglia, e l’Adorazione dei Pastori. Opere  un di gusto teodoriano per la ben costruita scenografia, anche se con le immancabili grossolane superfetazioni del Bravo, e i fondi oscuri tipici dell’ultimo Donato, di chiara derivazione tardo caravaggesca[2].

Anonimo, Annunciazione, chiesa della Santissima Annunziata, Civitaluparella, 1790.

il ciclo di pitture sulla volta centrale della stessa chiesa collegiata di Atessa, con scene bibliche del Vecchio Testamento. Purtroppo a causa di danneggiamenti, le pitture sono state rifatte in più punti di scadenti restauratori, rovinando completamente l’opera ad esempio nella prima scena:“Battaglia e Giuditta con la testa di Oloferne”, dove si vedono i pesanti ritocchi del Bravo. I tondi laterali la controfacciata con i Santi Principi Pietro e Paolo, pure sono di Ludovico Teodoro.

Il secondo riquadro: “David accoglie Saul vincitore contro Golia” è molto simile al quadro dipinto dal padre Donato che mostra la scena di “Davide con la testa di Golia davanti a Saul”, oggi conservata nel palazzo Martinetti-Bianchi di Chieti, oppure allo stesso soggetto per la volta della chiesa madre di Colledimezzo. La composizione del soggetto ha la stessa matrice, ma il risultato di Ludovico è più scadente. In parte è dovuto ai restauri di Ennio Bravo, che ha cambiato alcuni volti, in parte alla stanca ripetizione dei modelli, come il barbuto Saul sul trono che è impaurito dalla scena macabra, e il giovane David, che con la sua smorfia di sofferenza esprime quel mansuetismo, quasi senso di colpa per i propri trionfi, che accomuna diverse opere di Donato che abbiano questa peculiarità del Trionfo del Bene sul Male, quasi uno strizzare l’occhio al Davide con la testa di Golia del Caravaggio. Ma appunto, ciò non riguarda tutte le opere del Donato, basta riferirsi ai volti trionfanti di Giuditta con la testa di Oloferne nella chiesa di Sant’Agata di Chieti, o ad altri soggetti simili, come lo stesso tema nella cupoletta del santuario dell’Assunta di Castelfrentano, et similia.

Donato Teodoro, Incontro tra Salomone e la Regina di Saba, Museo d’arte “C. Barbella”, Chieti, foto M. Vaccaro per gentile concessione

La scena “Saul placato dall’arpa di David e l’Arca dell’Alleanza” si divide in tre momenti, sulla sinistra il coro di cantatrici con strumenti musicali, al centro Saul che suona l’arpa, a destra i sacerdoti e l’Arca.

Navata del Duomo di Atessa


Osserviamo le fotografie delle pitture della volta del Duomo.

1° dipinto: L. Teodoro, Giuditta e Oloferne, particolare

2° dipinto, Saul e David con la testa di Golia, particolare di David

3° dipinto: David suona l’arpa con l’Arca dell’Alleanza, veduta d’insieme e particolare


4° dipinto: Salomone e la Regina di Saba.

L’ultima scena “La Regina di Saba” ha moltissime somiglianze con il dipinto di Giacinto Diano che realizzerà nel 1788 ca. nella Basilica cattedrale di Lanciano, la matrice della stampa da cui i due pittori hanno attinto è la stessa. Anche qui notiamo l’esasperazione dei volti, l’abbruttimento dei tratto somatici dei sacerdoti e delle cariche ebraiche, nonché i lunghi nasi, gli occhi strabuzzati, i pizzetti appuntiti, i turbanti delle figure di religione islamica contro cui si scontrano gli ebrei. Le pennellate sono molto chiare, seppur Ludovico non riesca a eguagliare la grandezza paterna. Osservando queste pitture, ci viene in mente il primo Donato Teodoro, non ancora trentenne, che fu attivo nel cantiere del santuario dell’Assunta di Castel Frentano, con la controfacciata della “Cacciata dei mercanti dal Tempio”; le pennellate simili, i colori leggermente sbiaditi, l’affresco orale di personaggi che si intrecciano in un turbinio di azioni, di giravolte, di scene concitate che inducono al movimento, a riguardare più volte la scena per adocchiarne i particolari.

Ludovico nel Duomo dipinse anche i tondi laterali con le figure degli Apostoli, e delle tele applicate ai pilastri della navata maggiore del Duomo, con le scene della Via Crucis.

 

Altre opere d’arte a San Leucio

Nel Duomo. Il pulpito in legno è della bottega Mascio di Atessa.

NAVATA DI SINISTRA, altare di San Michele che sconfigge Lucifero, è brutta copia di Francesco De Benedictis[3] del quadro di Guido Reni (sia De Benedictis che il suo predecessore Giuliano Crognale di Castelfrentano ne sfornarono di queste orride copie del quadro di Guido Reni per le chiese del chietino!), che però forse avrà copiato dal suo maestro Nicola Ranieri, per il san Michele presente nell’altare maggiore della chiesa di sant’Antonio di Lanciano, o da una stampa del quadro di Reni che circolava molto facilmente tra i disegnatori dei suoi tempi.

2° altare: Santa Lucia martire, quadro moderno di Ennio Bravo[4]

A seguire. Statua di san Pietro seduto, del XVI secolo, in pietra, dall’atteggiamento meditativo.

3° altare di San Giuseppe in cammino col Bambino, dell’800, autore locale, della scuola di Giacomo Falcucci

4° altare di San Bartolomeo martirizzato, opera dello stesso autore del precedente San Giuseppe col Bambino

CAPOALTARE NAVATA SINISTRA A CAPPELLA:  nicchie con statue del Sacro Cuore, San Donato e Madonna Immacolata, bottega locale. Il soffitto è stato rifatto da Bravo con i soliti cassettoni e fioroni.

Nella nicchia di controfacciata della seconda navata di sinistra, c’è il busto di San Leucio in argento di scuola napoletana datato 1857, e la costola del drago.

Ritratto del Prevosto Giandomenico Maccafani, presso la Sagrestia

NAVATA DESTRA: a muro in controfacciata, tela dell’Ultima Cena, autore ignoto, ma forse Giacomo Falcucci o di un suo seguace.

Altari laterali:

1° altare di Sant’Anna con Maria Bambina, tela di F. De Benedictis, di poco interesse.

2° altare con Martirio di San Sebastiano, con ex voto, forse di Giacomo Falcucci[5], è classificato come di anonimo dell’800.

3° altare di San Martino in gloria, con i putti che reggono le spighe. Ignoto, forse questo è un altro dipinto ignoto di Ludovico Teodoro; la postura è identica alla tela di san Leucio nell’altare maggiore. Il Santo con il braccio destro benedice, con l’altro regge il Vangelo e il pastorale. Accanto due angeli che reggono fasci di spighe. Quasi sempre Martino vescovo ha in mano un grappolo d’uva e un fascio di spighe di grano, per ricordare il suo protettorato sulle messi. A san Martino si rivolgevano preghiere per un raccolto prospero di grano, uva ed altro. Questa iconografia è presente in diverse opere pittoriche e scultoree che ritraggono il Santo. I due angeli hanno i volti tipici delle figure di Donato Teodoro, che riutilizzò questi modelli per diverse altre sue pitture, specialmente quello dell’angelo di destra che è di profilo, riutilizzato nei servitori delle pitture di Castelfrentano, Lanciano, Chieti. Interessante è anche la veduta in prospettiva di Atessa, dietro il santo, dal lato di Vallaspra, sulla destra vediamo il Duomo, con parte della facciata antica, privata nel 1935 delle volute laterali baroccheggianti, un restauro che forse ha restituito un aspetto troppo “razionalista” all’antica facciata gotica, a giudicare il periodo storico in cui venne recuperata. Sulla sinistra vediamo le mura di Porta Sant’Antonio, con il chiostro dell’antico convento dei Cappuccini e poi delle Clarisse di San Giacinto, demolito negli anni ’60, di cui resta una porzione con degli archi, e la torre massiccia della chiesa di Santa Croce.

 

Ludovico Teodoro (?), San Martino in gloria, con paesaggio, Duomo di Atessa

13 novembre 2023

Filippo Santoleri, architetto orsognese dell’Ottocento.

Cimitero comunale di Orsogna

Filippo Santoleri, architetto orsognese dell’Ottocento

di Angelo Iocco

Pochissimi lo conoscono o hanno sentito parlare di lui. Come ho accennato in un altro articolo sull’ingegnere Giacomo Torrese di Canosa, vissuto qualche trentennio prima di lui, il Santoleri operò alla fine dell’800, nell’area di Orsogna e dintorni. Ingegnere fu, lo studioso Armando de Grandis ci ha riferito che restaurò la chiesetta di San Rocco fuori il paese di Crecchio, che si trovava esattamente nel piazzale di ingresso al castello De Riseis, andata purtroppo distrutta nella seconda guerra mondiale. La cappella in una foto storica si mostra rettangolare con abside semicircolare; gli interni furono restaurati alla maniera neoclassica, con i capitelli ionici, le paraste, e i tipici stilemi di questa corrente che in Abruzzo giunse abbastanza tardi, esattamente dopo l’Unità d’Italia, salvo sporadici episodi di committenze colte, mi viene in mente il monumento a Michele Bassi d’Alanno, signore di Carpineto Sinello, nella seconda cappella di sinistra della chiesa di San Giovanni dei Cappuccini in Chieti, dove appaiono evidenti segni della massoneria, l’occhio di Dio, l’angelo con la fiaccola capovolta il sarcofago alla greca, e tanti altri elementi. Tonando a Santoleri, non possiamo ammirare la chiesa di Crecchio che restaurò, ma possiamo ammirare i cimiteri comunali che egli progettò per i paesi di Orsogna[1], forse Arielli, non molto distante dal piccolo paese di provenienza, e infine quello di Castelfrentano, Come ricorda lo storico Matteo Del Nobile nel suo libro La Madonna della Selva a Castel Frentano (2021), all’epoca nonostante le precise disposizioni di Napoleone sulle sepolture, a Castelfrentano e dintorni si continuava comodamente a seppellire i defunti in fosse comuni, oppure i più abbienti, nelle varie chiese e cappelle, ei diversi ossari, rischiando di generare epidemie di colera.

Foto storica di Villa Cavacini, archivio Marco Cavacini


Nell’ultimo decennio dell’800 il sindaco Fileno Cavacini a Castelfrentano dispose la costruzione di un cimitero pubblico dietro il santuario dell’Assunta, e così fu, il progetto fu affidato all’architetto Santoleri, che realizzò uno dei cimiteri molto comuni nell’area del chietino, impianto rettangolare, con un grande viale di accesso, l’ingresso monumentale a tempietto greco con arco, oppure colonne di ordine dorico, e architrave a timpano triangolare. Pochi elementi di aggetto e di ornamento, la spartanità dell’architettura greca del sentimento neoclassico trionfa. Poco altro si sa su questo Santoleri, nella speranza che chi ne sappia più di noi, possa condurre un ricerca più approfondita. Stando a quello che ci riferisce Marco Cavacini (che ringraziamo in questa sede con grande affetto per averci concesso le fotografia dei progetti originali, nel suo archivio, della Villa Cavacini della contrada Selva), proprietario della storica villa Cavacini lungo il viale del santuario a Castelfrentano, pare che il Santoleri progettò anche questa seconda residenza dei Cavacini. Questa famiglia possedeva un palazzo con cappella privata nel centro storico in Largo Chiesa, quella porzione orientale che tuttavia a causa dell’erosione del fiume Feltrino, nel luglio 1881 franò a valle, ingoiano diverse case e palazzi, compreso il monumentale palazzo Cavacini con la cappella privata.

22 agosto 2023

La bottega di Nunzio e Antonio Ferrari da Guardiagrele.

Nunzio Ferrari, statua di Sant’Antonio abate, chiesa di San Rocco, Guardiagrele

La bottega di Nunzio e Antonio Ferrari da Guardiagrele
di Angelo Iocco

L’uno era il padre di don Filippo Ferrari, prevosto di Santa Maria Maggiore a Guardiagrele, l’altro lo zio. Don Filippo era nato nel 1867, e morì nel 1943, fu attivo nel parrocato della chiesa madre di Guardiagrele, e soprattutto nei primi del ‘900, produsse varie opere di carattere storico-divulgativo sulla storia della stessa chiesa, sulle opere di Nicola “Gallucci” da Guardiagrele, partecipò alla Mostra Regionale d’Arte Abruzzese di Chieti nel 1905, fece scavi archeologici nella necropoli italica di Comino vicino il paese, ma spesso fu tacciato di campanilismo, e di scrivere notizie false, o interpolazioni volute delle fonti per far risaltare maggiormente la sua patria. Avremo modo di interessarci di don Filippo, e delle sue indagini storico-archeologiche e delle sue travagliate vicende di istituire a Guardiagrele un museo civico-archeologico in altri articoli. Tornando ai fratelli Ferrari, erano parenti della famosa bottega di orafi Ferrari, che tanto lustro dette alla piccola Guardiagrele, e che ugualmente nel 1905 partecipò alla Mostra d’arte a Chieti con dei pezzi di vario gusto, e che furono recensiti anche in un numero del 1930 della serie “Città d’Abruzzo”, proprio nella monografia su Guardiagrele. Molto fini nella realizzazione della scultura lignea, in pietra e scagliola, i Ferrari realizzarono alcune statue nelle chiese del loro paese, ad esempio nella chiesa di San Rocco sotto il Duomo di Santa Maria, si conservano un Sant’Antonio abate e un San Rocco, di fine fattura, tanto da farle sembrare del XVIII sec. la loro produzione ben presto superò i confini provinciali, e la bottega sfornò statue per diverse chiese, anche a Sulmona, dove ci sono alcune figurine datate 1907; qui però notiamo come la plastica sia meno elaborata, e si riconosca che le opere siano dei prodotti moderni che cercano di imitare l’antico barocco, non eguagliando altri modelli leccesi, che nelle parrocchie minori abruzzesi erano sovente richieste in quei tempi.
Emigrarono in America, dove ebbero comunque modo di farsi valere con la loro arte. La bottega dei Ferrari si può inserire in quel contesto di revival della scultura plastica abruzzese dell’Ottocento che imitava i fasti del Barocco, a iniziare alla fine del Settecento con Luigi e Filippo Tenaglia di Orsogna, i quali trovarono nel chietino degni epigoni nella bottega Falcucci di Atessa.


Fratelli Ferrari, Sant’Ambrogio, statua della Basilica cattedrale di Lanciano, 1885

Presso gli eredi, come ricorda un numero del giornale guardiese “Aelion”, Piccola “Madonna della Pietà” in pietra. Tra le opere che maggiormente hanno caratterizzato in Abruzzo la loro produzione, ricordiamo quelle per la città principale del circondario del Sangro ovvero Lanciano; nel 1874 Nunzio Ferrari firma una statua di San Francesco Saverio che predica, per la cappella omonima della chiesa di Santa Lucia al Borgo, di bella fattura. Una tela coeva della “Predica di S. Francesco Saverio agli Indiani” fu realizzata da Francesco Paolo Palizzi per la chiesa di Santa Chiara. La devozione lancianese per questo santo, per San Filippo Neri e per San Pompilio Pirrotti, è dovuta proprio alla predicazione di quest’ultima tra Chieti e Lanciano, presso la famiglia Capretti del Borgo, il quale impiantò le Scuole Pie dell’Ordine degli Scolopi. Ecco spiegata la devozione del quartiere per San Francesco nella chiesa di Santa Lucia.

Nunzio Ferrari, San Francesco Saverio, chiesa di Santa Lucia, Lanciano, 1874

Altre opere di rilievo dei Ferrari in Lanciano, sono il gruppo delle quattro statue monumentali di Sant’Ambrogio, Sant’Anastasio, Sant’Agostino e San Girolamo, presso le nicchie della navata della Basilica cattedrale di Lanciano- già lo storico Luigi Renzetti, contemporaneo dei fratelli Ferrari, e testimone oculare del lavoro eseguito nel 1885, ne parlò nella sua monografia sul Santuario di Nostra Signora del Ponte, lodando la bella opera. Le statue sono severe, ricche di particolari, i quattro Dottori della Chiesa sono rappresentanti mentre leggono o redigono i loro famosi Scritti, Sant’Agostino guarda in alto, ispirato da Dio, San Girolamo è più grave, leggendo il suo cartiglio, con la testa canuta, sono figure che danno gravità e severità alla grande basilica rococò lancianese, e che danno testimonianza di come Guardiagrele sia sempre stato centro di arti orafe, scultoree, e pittoriche con la bottega di Nicola Ranieri.

6 agosto 2023

L’Album pittorico letterario abruzzese.

L’Album pittorico letterario abruzzese
di Angelo Iocco

Pagine dell’Album pittorico: entrata di Vittorio Emanuele a Pescara nel 1860, sul ponte di barche sul fiume


L’Album Pittorico e Letterario Abruzzese fu fondato da Francesco Vicoli di Chieti nel 1859. L’intenzione era quella di riportare in Abruzzo quel sentimento per la ricerca patria, avviato con Pasquale De Virgilii sempre a Chieti nel 1836, quando fondò il Giornale Abruzzese di lettere, scienze ed arti, in seguito trasferito a Napoli per problemi con l’Intendenza di Chieti circa le visioni politiche del De Virgilii. L’Album pittorico ebbe vita breve, nel 1860 a causa di problemi col governo borbonico chiuse; era stampato in città dalla Tip. Del Vecchio, storica stamperia di Chieti. Il diretto, Vicoli, era un valente patriota teatino, appassionato di letteratura, e promotore della causa dell’unità nazionale. Il fratello Luigi combatté in varie battaglie, e quando morì, fu sepolto nel cimitero monumentale di Chieti, e lo scultore Costantino Barbella gli realizzò la scultura granitica de “La Morte”, una delle sue opere più riuscite.
Al giornale collaborarono i maggiori intellettuali abruzzesi dell’epoca: Raffaele Del Ponte (1813-1872), pittore e incisore di Chieti, che realizzò i disegni, Angelo De Luca da Guardiagrele, già attivo presso il Giornale Abruzzese, Luigi e Francesco Vicoli, Ignazio De Innocentiis da Orsogna, Gianfedele Cianci poeta orsognese, Francescopaolo Ranieri da Guardiagrele, Clemente de Caesaris politico, poeta e oratore di Penne che fu coinvolto nei moti antiborbonici pennesi del 1837, e che combatterà strenuamente per la causa italiana nelle carceri della Fortezza di Pescara. A seguire Gabriello Cherubini , De Stephanis, Panfilo Serafini da Sulmona, Antonio De Nino, Angelo Leosini da Aquila con numerosi articoli riguardanti l’arte e la storia del circondario amiternino.

2 luglio 2023

Camillo De Nardis: festeggiato a Orsogna per gli 80 anni nel 1937, un viaggio tra le sue composizioni abruzzesi.

 

Camillo De Nardis: festeggiato a Orsogna per gli 80 anni nel 1937, un viaggio tra le sue composizioni abruzzesi.

di Angelo Iocco

Il 18 agosto 1937 l’OND di Orsogna volle omaggiare il suo amato figlio Camillo De Nardis con una rassegna musicale in suo onore, per celebrarne gli 80 anni. Immancabilmente l’On. Raffaele Paolucci si prodigò per rendere memorabile l’audizione, organizzando il tutto. Furono scelti treni speciali della ferrovia Sangritana per arrivare alla diramazione della stazione di Orsogna, per l’orchestra fu scelto il M° A. Marchesini, soprano I. Monsalvato, tenore P. Scarlata, maestro al piano F. Pinzacconi per il programma lirico, mentre il Gruppo corale OND di Orsogna, che più avanti sarà intitolato “La figlia di Jorio”, si occupò di eseguire i canti abruzzesi del De Nardis.

Il programma lirico prevedeva l’esecuzione delle Scene Abruzzesi 1.o Suite per Orchestra del M.o Camillo De Nardis, Bari, [1901-1910] in II Suite, il Giudizio Universale, poema sinfonico, 1911: Overture Eroica, con didascalia di Raffaele Paolucci. 

Spendiamo qualche parola su questo omaggio del M° De Nardis alla sua terra d’Abruzzo con le Scene Abruzzesi.

Il Coro OND di Orsogna, nel giardino di Villa Cucchiarelli, Orsogna, anni ‘20

14 maggio 2023

Storia critica della sagra dei Talami di Orsogna e le sue edizioni dal 1900 a oggi.

Immagine storica dell’affresco del XV sec. della Madonna Nera, presso la distrutta chiesa della Madonna del Riparo di Orsogna.
Archivio Associazione “I Talami – Quadri biblici viventi”, Orsogna.

Storia critica  della sagra dei Talami di Orsogna e le sue edizioni dal 1900 a oggi.

di Angelo Iocco

È una festa ormai Patrimonio Nazionale, che segna la conclusione del Periodo della Passione, che si chiude con la celebrazione del Corpus Domini. A Orsogna fino ai primi anni 200 le infiorate per le stradine e le grandi strade del paese erano rinomate, le devote coglievano i petali dei diversi tipi di fiori, e tessevano il ricamo e il disegno sacro! Oggi purtroppo tutto dimenticato…..La festa dei Talami si celebra il Martedì in Albis, qualche anno fa si propose il Lunedì di Pasqua per venire incontro ai vacanzieri di turno e agli emigranti che tornavano per le feste. È una festa che simboleggia la rinascita di Cristo, profanamente la rinascita della vita e della natura dopo l’inverno, con la festa per la Madonna e la festa di ringraziamento per il risorgere della vita, del grano, della fertilità! Quanti ricordi ci ispirano questa cerimonia, ci riportano al tempo dell’infanzia, quando presso le scuole secondarie di I grado illustravamo i pannelloni in compensato, li squadravamo, tracciavamo il disegno della scenografia del soggetto biblico da illustrare, e coloravamo, dipingevano, poi dalle brave sarte del quartiere ci facevamo cucire su misura i vestiti variopinti per essere ora un pastore, ora il figliol prodigo, ora il Re, ora il Faraone, ora il mendicante, ora il Sommo Sacerdote, ora Ester, ora la Madonnina! Tutta Orsogna partecipa attivamente con somma gioia a questa festa!

Le origini sono solitamente fatte risalire al Medioevo, tempo delle grandi rappresentazioni teatrali sacre. Il tavolato della chiesa dove si svolgevano le rappresentazioni, presso il muro che separava il tramezzo dal coro, era chiamato “tabularium” e poi talamo e il D’Ancona nei suoi scritti sull’antico teatro sacro, fa diverse menzioni di rappresentazioni inscenate nel talamo. La Sacra Rappresentazione nacque a Firenze nel XIV secolo, proprio come senso vero di rappresentazione teatrale scenica, con rappresentazioni simboliche dei martiri dei Santi, delle scene della Vita di Gesù e della Madonna; questa tradizione si spostò naturalmente in Umbria, dove abbiamo diverse esemplari di Laudi, fino a raggiungere, attraverso la via per Napoli, l’Abruzzo aquilano. Il De Bartholomaeis studiò gli antichi testi delle Laudi e Sermoni in volgare aquilano abruzzese di questi tempi, incentrati sui pianti della Madonna per la morte di Gesù, o su racconti delle vite dei Santi, si ricordano quelli di Sant’Antonio abate, San Giuliano amico di Frate Giovanni da Capestrano, di Santa Caterina martire opera di Buccio di Ranallo,ecc.

Pio Costantini in un suo saggio sulla Madonna di Orsogna, ricorda le origini della chiesa distrutta della Madonna del Rifugio, monumento-simulacro assente da anni nella memoria collettiva e nella fisicità del tessuto urbano orsognese, ma simbolo di una tradizione che non muore, nemmeno nell’assenza del monumento-simulacro stesso, oggetto del culto, in quanto i carri dei Talami sono ben tangibili visivamente-tatticamente, mentre sfilano per il paese, così come la statua della Madonna, ricostruita a imitazione dell’antico affresco, e conservata nella chiesa parrocchiale.

Prima di parlare del tentativo di riportare la festa come doveva esserlo prima della guerra, almeno nei primi anni del ‘900, da parte del Prof. Stoppa, ricordiamo come anche Costantini, a guerra terminata, si chiedesse come mai il simulacro della Madonna, sulla scorta delle fotografie esistenti, non venisse ricostruito e esposto magari nella chiesa di San Rocco. Un Simulacro nel 2016 fu realizzato, ristampando su gonfalone la fotografia in bianco e nero della Madonna, ma a causa di screzi vari con l’Organizzazione, oggi il progetto di Stoppa a Orsogna è naufragato, e si esegue il rito canonico della Festa, che più avanti descriveremo. Costantini cita l’antico codice degli Statuti della Bagliva di Orsogna del XIV secolo, dove si parla della chiesa di Santa Maria dei Raccomandati o della Fraterna, e quindi ne deduce che la chiesa in quei tempi già esistesse, proprio presso la rupe del piazzale Belvedere che guarda verso la Majella; ma già all’epoca si svolgeva questo antico rito dei Talami? Impossibile dirlo, in assenza di documenti; anche perché Costantini nel parlare degli Statuti, menziona un’aggiunta del XVI-XVII secolo; dunque ci spostiamo all’epoca del tardo Rinascimento, all’epoca delle riforme del culto col Concilio di Trento, all’epoca del fiorire di diverse Confraternite e nuovi ordini religiosi come i Camilliani, i Paolotti, i Gesuiti, gli Oratoriani, gli Scolopi, nati per desiderio della Santa Chiesa nel tentativo di ripascimento della Fede Cattolica dalle ondate protestanti.

Anche Orsogna dunque ebbe la sua sede confraternale nella chiesa della Madonna, di gestione die Padri Paolotti, e dunque nella metà del ‘500, con la devozione per la Madonna e per l’affresco conservato nella chiesa, nacque la Festa dei Talami? O magari la devozione man mano con gli anni, si radicò così tanto presso il popolo, da organizzare delle esposizioni teatrali di gusto medievale, fino alla cristallizzazione del rito processionale, con la sagra dei Talami che oggi conosciamo? Ancora difficile dirlo con certezza! A nostro avviso, ma è solo mera ipotesi, sulla base di confronti con altri pellegrinaggi dei devoti coi ceri alla Madonna in Abruzzo, ad esempio per la Madonna della Libera di Pratola, per la Madonna di Casalbordino, per la Madonna delle Grazie di Francavilla, per la Madonna Addolorata di Pescara, per la Madonna della Selva di Castelfrentano, per la Madonna di Roio all’Aquila ecc., i pellegrini delle contrade orsognesi, come descritto da Finamore e da Simeoni, giungevano a piedi al sagrato della chiesa per il rito di adorazione, e come ricorda il Costantini nel giorno della festa, di incubazione. Infatti era credenza presso il volgo di fare tante preghiere alla Madonna la notte prima della festa, poiché allo spuntare del dì, il raggio di sole avrebbe colpito il volto dell’affresco, e la Madonna avrebbe mosso gli occhi!

Questo affresco già citato oggi è andato perduto insieme a tutta la chiesa, risale a prima del XVI secolo, almeno al 1400, tempo in cui la chiesa era citata nei documenti come di Santa Maria. Un affresco che mostra la Vergine Nera, sulla base delle tradizioni bizantine, attorniata da Angeli e da piccoli fedeli, dipinti appositamente, come nella tradizione bizantina e romanica, in scala minore rispetto alla grandezza della Vergine, del Santo o del Cristo trionfante. Il vestito è tutto dorato e trapunto, altra caratteristica bizantina. Cogli anni, il culto della Madonna Nera si tramutò nella Madonna Bianca; la chiesa al tempo era sotto la parrocchia di San Giovanni nell’omonimo rione, chiesa purtroppo andate perduta anch’essa, per le sciagurate ricostruzioni e demolizioni post-belliche del 1948. Costantini dice che il culto della Madonna era così forte che perfino la famiglia Colonna, feudataria di Orsogna per secoli, fece realizzare una copia dell’affresco in una sala del loro palazzo-castello sulla Piazza. Manco a dirlo, anche il castello colla guerra, e nelle ricostruzioni, andò completamente distrutto!

2 dicembre 2022

Adelaide Saraceni, Le Romanze e i duetti.


 
Da: Abruzzo Forte e Gentile 95



Le Romanze e i duetti di Adelaide Saraceni (1895-1995) Archivio Vittorio Pace
IL BALLO IN MASCHERA di G. Verdi: "Saper vorresti" LA BOHEME di G. Puccini: "Mi chiamo Mimì" ADRIANA LECOUVEUR di Cilea: "Io son l'umile ancella" ADRIANA LECOUVER di Cilea: "Poveri fiori" ADRIANA LECOUVER di Cilea: "nella mia fronte", duetto con Piero Pauli tenore L'AMICO FRITZ di P. Mascagni: "Son pochi fiori"
MANON di Massenet: "Ancora son io tutta stordita" MANON di Massenet: "A Parigi andrem", duetto con Piero Pauli MANON di Massenet: "La tua manon non è", duetto con Piero Pauli RIGOLETTO di G. Verdi: "Ah veglia, o donna", duetto con Apollo Granforte, baritono.

Adelaide Saraceni
Argentina d'origine italiana, precisamente di Orsogna (provincia di Chieti), fu uno dei più importanti soprani lirici del primo Novecento. Dopo un breve periodo di studi in Argentina, si trasferì giovanissima in Italia e continuò a studiare canto al Conservatorio di Pesaro con la maestra Edvige Ghibaudo. Debuttò nel 1922 al Teatro comunale di Argenta nel ruolo di Rosina ne Il barbiere di Siviglia. Dopo un periodo di gavetta trascorso nei teatri di provincia, il 27 gennaio 1928 arrivò il debutto al Teatro alla Scala di Milano nel ruolo di Susanna ne Le nozze di Figaro, ottenendo un importante successo che le permise di essere scritturata per altre sette stagioni consecutive.
La Saraceni cantò nei principali teatri italiani, come il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro Carlo Felice di Genova, il Teatro Comunale di Bologna, il Teatro La Fenice di Venezia e all'Arena di Verona. Importante fu anche la sua attività artistica nei teatri internazionali di Francia, Paesi Bassi, Germania, Grecia. Negli anni trenta prese parte a una tournée in Sudamerica, dove ottenne un successo personale al Teatro Colón di Buenos Aires. Fra le sue interpretazioni di rilievo vanno ricordate La traviata, Manon Lescaut, Madama Butterfly, Adriana Lecouvreur, L'amico Fritz e Zanetto, dove fu diretta dallo stesso autore Pietro Mascagni. Cantò con i più grandi cantanti del periodo come Beniamino Gigli, Aureliano Pertile, Tito Schipa, Giacomo Lauri-Volpi, Galliano Masini, Gianna Pederzini, Claudia Muzio e direttori d'orchestra come Gino Marinuzzi, Tullio Serafin. Nel 1931 tenne un concerto serale a Orsogna, patria dei suoi familiari, dove fu acclamata dalla folla.
Oltre a un numero importante di opere in repertorio, il soprano prese parte a prime esecuzioni assolute di opere di autori contemporanei italiani come Ermanno Wolf-Ferrari, Giuseppe Pietri, Ottorino Respighi, Arrigo Pedrollo. Alcune di queste esecuzioni furono trasmesse dalla radio dell'epoca EIAR. Negli anni trenta incise in studio per la HMV Victor alcune arie e due opere complete registrate nel 1932, Pagliacci e Don Pasquale, oggi rimasterizzate in CD. Una grave infermità la costrinse ad abbandonare le scene nel periodo artistico migliore della sua carriera. Ritiratasi dal teatro, insegnò canto a Milano e la sua scuola fu tra le più apprezzate, tra i suoi allievi vanno menzionati i soprani Emilia Ravaglia e Fiorella Pediconi, il tenore Marco Berti.

Pasquale Galliano Magno e il processo Matteotti.



Pasquale Galliano Magno e il processo Matteotti.
Da: Abruzzo Forte e Gentile 95



Pasquale Galliano Magno (Orsogna, 25 febbraio 1896 – Pescara, 9 settembre 1974) è stato un avvocato italiano, figlio del notaio Eugenio Magno e da Maria Felice Eliseo - detta. “Felicetta” - casalinga.  Dopo gli studi classici a Chieti frequentò l'università a Ma
cerata, dove si laureò in legge. Nel 1927 sposò Maria Luisa D'Angelo ed ebbe da lei due figli: Valeria, che conseguì la laurea in giurisprudenza presso l'università di Roma, e Carlo Eugenio, laureatosi anch'egli in legge, presso l'università di Bologna. Entrambi i figli hanno svolto, nella città di Pescara, attività di avvocato. Convinto antifascista e oppositore del regime, fu sindaco di Orsogna, suo paese natio, appena divenuto maggiorenne. Fu il sindaco più giovane d'Italia, in quel tempo. Provvide a istituire a Orsogna una biblioteca pubblica, tuttavia l'attività amministrativa durò poco a causa del movimento fascista dell'avversario Raffaele Paolucci, che ebbe il sopravvento contro i socialisti, con minacce e ritorsioni. Sicché Magno fu costretto a dimettersi e a vivere da "esiliato" fuori Orsogna. L'avvocato Magno esercitò la professione dapprima a Chieti e poi a Pescara. Ha partecipato quale avvocato difensore della signora Velia Titta, vedova di Giacomo Matteotti, barbaramente ucciso da un gruppo di fascisti, al primo processo per l'accertamento delle responsabilità nell'assassinio del marito. L'istruttoria del processo iniziò nel giugno del 1924 presso il Tribunale di Roma. Il giudizio fu poi rimesso dalla Corte di Cassazione alla Corte d'Assise di Chieti, con la risibile motivazione della sussistenza di gravi motivi di pubblica sicurezza; il dibattimento ebbe quindi luogo nel 1926 a Chieti. Non intendendo più soggiacere a soprusi e malefatte, la signora Velia Titta, pur facendo le più ampie riserve per l'esercizio delle azioni civili a lei spettanti nei confronti di tutti gli imputati, si vide costretta, date le angherie subite e lo spirito poliziesco che aleggiava nel processo, a non partecipare alla successiva fase dibattimentale: pertanto incaricò Magno al ritiro della costituzione di parte civile, già avvenuta durante la fase istruttoria effettuata a Roma con l'indicazione dell'onorevole Giuseppe Emanuele Modigliani come suo patrocinatore. A questo fine l‘avvocato Magno, per incarico e procura conferitagli dalla signora Velia Titta, svolse attività professionale in Chieti nei vari atti istruttori che precedettero la fase dibattimentale. A riscontro di tale attività, i magistrati, i quali avrebbero dovuto rendere giustizia, si limitavano costantemente (influenzati anche dallo stato di coartazione morale stabilito dal fascismo) ad osteggiare e disattendere le varie istanze, all'evidente scopo di insabbiare il processo e comunque operare il salvataggio completo degli assassini di Giacomo Matteotti, dei loro complici e mandanti: persino le richieste e le supplichevoli istanze, intese ad ottenere la restituzione degli effetti personali appartenenti alla vittima, vennero inopinatamente respinte. Perciò l'avvocato Magno contestò in giudizio, pubblicamente, quello che definì "un processo burla". In effetti, a conferma dei suoi sospetti e della sua denuncia, la Corte d'Assise con una vergognosa sentenza, ritenne di dover condannare i soli imputati Dumini Amerigo, Volpi Albino, e Poveromo Amleto per il reato di omicidio preterintenzionale. Fu esclusa la premeditazione e furono concesse le attenuanti generiche. I tre assassini furono condannati alla pena di cinque anni, mesi undici e giorni venti di reclusione, nonché all'interdizione dai pubblici uffici. La gratitudine della signora Velia Titta per l'opera professionale, che l'avvocato Pasquale Galliano Magno stava svolgendo nel processo, risulta attestata nella lettera che ella gli inviò in data 29 marzo 1926. Con successiva lettera 2 aprile 1926, inviata all'avvocato Magno, la signora Velia Titta così scriveva: “Mi lusingo che la sua premura e la volontà del buon esito in un atto pietoso, arrivino a superare le difficoltà possibili, di una pratica così delicata. Le esprimo la mia riconoscenza per quanto potrà fare”. Anche in questo suo ulteriore scritto la signora Velia Titta confermava, attestava e ribadiva l'apprezzamento e la stima che provava per il professionista che, con tenace impegno, aveva cura dei suoi legittimi interessi. Va altresì ricordato che la signora Velia Titta donò, con un gesto di gratitudine e riconoscenza, la penna stilografica del defunto suo marito all'avvocato Magno, penna che suo figlio, avvocato Carlo Eugenio Magno, oggi custodisce presso un istituto bancario

15 novembre 2022

Modesto Parlatore di Orsogna e le sue opere.


Modesto Parlatore (Orsogna, 5 marzo 1849 – Roma, 6 marzo 1912) è stato scultore e architetto.
Nel 1870 Parlatore ottenne un finanziamento dalla città di Orsogna per studiare a Roma e si iscrisse all'Istituto delle Belle arti con il professor Tito Angelini. Lì si dedicò alla scultura e all'architettura. A Roma fu incoraggiato dal pittore Annibale Angelini. In questi primi anni scolpì ed esibì opere come Busto di vedova, Busto di anziano, un Busto del re Umberto in bronzo e uno del Generale Garibaldi.
Nel 1877 ricevette il suo primo premio per un'opera in mostra a Ginevra, in Svizzera.
Completò dei progetti, mai realizzati, per un Monumento all'Eroe di Caprera (Garibaldi) da erigere a Chieti in piazza San Giustino e per un Monumento a Quintino Sella.
Lavorò come architetto in numerosi restauri e prestò servizio in alcune commissioni per esaminare progetti di monumenti, tra cui quella che si doveva occupare di un monumento a Vittorio Emanuele II che venne poi eretto a Spoleto. Tuttavia, poiché si era lamentato della possibile corruzione nel processo di selezione, venne escluso dalle commissioni a Roma. Secondo Verlengia, Parlatore costruì il tabernacolo per ospitare la reliquia del Santo Bambino nella chiesa parrocchiale di Lama dei Peligni.
Nel 2021 una serie di opere e modelli donati dal Parlatore alla sua provincia furono raccolti in una dépendance del Museo Orsognese Arte Musica, situato nella Torre di Bene a Orsogna. Per il paese natio, Parlatore realizzò il paliotto d'altare di San Rocco con una veduta di Orsogna, ma questo fu trafugato nel 1946 dalla chiesa.
Tra le sculture ci sono quattro statue di stucco a grandezza naturale: La Sorpresa, Il Ravvedimento, Il Fromboliere e Vir Plebeus ad Forum. Ci sono anche un bassorilievo in stucco raffigurante San Rocco tra gli appestati, uno scudo araldico della città di Guardiagrele, e dieci mezzi busti in bronzo, stucco e terracotta.
Parlatore scolpì anche una targa dedicata ai soldati italiani caduti durante la Guerra d'Eritrea (Monumento ai Caduti di Saati e Dogali), situata vicino alla Chiesa di Santa Chiara di Lanciano, dove prima si trovavano caserme per il contingente poi morto nel conflitto.
Orsogna in ricordo dello scultore, ha allestito una mostra di sue sculture in gesso presso la Torre di Bene.
A Roma al Pincio è il suo busto di Gabriele Rossetti

4 novembre 2022

Canti popolari abruzzesi: Etnomusicologia di un territorio. L'Aquila e la sua provincia nel contesto abruzzese: La feste cantate - Omaggio a L'Aquila.


ETNOMUSICOLGIA DI UN TERRITORIO, CANZONI POPOLARI L'AQUILA E PROVINCIA  

PARTE 1: LE FESTE CANTATE
1:LA BONA STRINA canto dell'epifania, versione Marco Notarmuzi scannese
2: CANTO DI QUESTUA PER PASQUARELLA lezione di Tornimparte, dicitrice Natalina Corpetti
3: CANTO DI QUESTUA PER SANT'ANTONIO ABATE, lezione di Collelongo
4: FILASTROCCA DI CARNEVALE lezione di Tornimparte, Mario Santucci
5: CHE VAI FACENDO MADRE MARIA Lez. di Tornimparte, Lorenzo de Paolis
6: STORNELLI PER LA PASQUA lezione di Tornimparte, Mario Santucci
7: TUTTA DI VERDE MI VOGLIO VESTIRE lez. del chietino di Donatangelo Lupinetti, usata anche per la tragedia "La figlia di Jorio" di D'Annunzio
8: LA QUAGLIARELLA lezione peligna di Franco Cercone
9: STORNELLI PASTORALI, area aquilana, cantori pastori circolani
10: CANZONE PER SAN FRANCO D'ASSERGI dicitrice Domenica Carnicelli
11: STORNELLI PER LA MIETITURA versione Tornimparte dicitrice Luigina Vecchioli
12: SERENATA ALL'ANTICA, dicitrice Pina Vecchioli
13: FILASTROCCA
14: AMORE AMORE  lez. orsognese, solisti Luigino Angelini, Emanuele Nanni
15: CANZONE PER SANTA LUCIA lezione peligna di Franco Cercone
16: CANTO PER SAN SILVESTRO lezione peligna di Franco Cercone

PARTE 2: OMAGGIO A L'AQUILA, CANTI DELLA PROVINCIA
1: NON ME' LASSA' di Pina Vecchioli
2: J'ANTICU NATALE di Mario Santucci
3:  A JU PAESE di Giuseppe Porto
4:  LA ROSA 'I LA SPINA di Cesidio di Gravio
5: CANTE DI SCIONNA di Cosimo Savastano
6: BIANCA MADONNA preghiera di montagna di Mario Santucci
7: L'ULTIMA NINNA NANNA di Gerardo Colaiuda
8: INCANTU di Bice Solfaroli Camillocci
9: A SPUSU E SPOSA di B. Solfaroli Camillocci
10: JI FOCU DE SA'GNUANNI di Francesco de Gregorio
11: BACIU RASCHIU di Filippo Crudele
12: BALLATE DE NU BRIGANTE di Sebastiano Ventresca
13: NINNA NANNA FATTA DE GNENTI di Mario Santucci
14: NINNA NANNA DE 'U ARCHUBBALENE di Raffaella del Greco
15: NU FIORE DELLA GIOVENTU' di Mario Lolli
16: PER VIOLE di B. Solfaroli Camillocci
17: ASPETTA CORE ME di Giuliana Cicchetti
18: OMAGGIO A L'AQUILA di Mario Santucci.

27 ottobre 2022

Lu Fazzole, commedia satirica in tre atti di Plinio Silveri.


L'Associazione scoglio del gabbiano di contrada Vallevò, ha presentato la "Commedia satirica in tre atti di Plinio Silveri", con la regia di Adelisa Verì. Nella Parrocchia di Santa Maria del Porto di Marina di San Vito. Altri personaggi:Eusebio Aimola, Adelisa Verì, Lorena Verì, Marino Verì, Piera Di Carlo, Mariangela Sulas, Paride Verì, Francesco Mancini, Davide Verì, Viola Verì, Vittoria Verì, Renato Verì. Il giorno 20 Ottobre 2007. Domenico Antonio Lupinetti, fotografia: Andrea Mancini.

Ricordo di Plinio Silverii (1926-2002).

Ricordo di Plinio Silverii (1926-2002)
di Angelo Iocco

Plinio, semplicemente così si faceva chiamare dagli amici, un uomo candido, mite e allegro, che ha dato al sua vita per la cultura a Orsogna. Li nacque, nella casa che ancora oggi insiste su via San Giovanni maggiore, nel quartiere omonimo verso il belvedere dove stava la chiesa del Santo, che guarda verso Castel Frentano. Plinio nacque nel 1926, allegro e felice, in un’ultima intervista rilasciata all’ex presidente dell’Associazione “Il Teatro di Plinio” di Orsogna, Vittorio Pace, Plinio raccontava di come il suo animo sin da piccolo fosse generoso, di come condividesse con gli amici le caramelle, di come soffrisse ai rimproveri del maestro, ripudiando quei sistemi severi di educazione che oggi tanto fanno scalpore a sentirli. Da ragazzo amava il teatro e la poesia, e nelle recite della parrocchia con i bambini si divertiva a rappresentare diversi personaggi. Poi venne la guerra…che tanto distrusse in Abruzzo, e distrusse quasi completamente la piccola Orsogna, colpevole di trovarsi nel fuoco incrociati dei tedeschi asserragliati, e degli Alleati che tentavano di attraversale la gola della Fonte, cannoneggiando dal cimitero, e ricevendo il contraccolpo dai tedeschi. Plinio sfollò nel nord Italia, in una elegante città, dove ebbe modo di essere accudito e di trovare pane per i suoi denti, frequentare il teatro di Parma, e i circoli culturali…ma poi nel 1946 fu il momento di tornare nel paesello natio…e quando tornò, non voleva scendere dal camion, tanto l’orrore nell’aver visto un paese che più paese non era, macerie ovunque, mancava qualunque servizio, dall’illuminazione a quelli igienici, la gente viveva nella baracche.
Ma con il Piano Marshall Orsogna in meno di un decennio si riprese, malgrado avesse perso per sempre la sua bellezza, il suo volto dolce per sempre sfigurato dalla distruzione prima, e da avidi palazzinari dopo! Plinio studiò successivamente a Napoli, , fece i concorsi per diventare maestro elementare, e insegnò a Orsogna. Come ricordano coloro che lo hanno conosciuto, Plinio era amabile, cercava in ogni maniera di evitare l’accanimento fisico, l’umiliazione come ebbe a subire in gioventù, piuttosto con i nuovi mezzo della tecnologia, con il confronto tra ragazzi, con i laboratori didattici alla Montessori, allora impensabili in un paese quale Orsogna, allevò generazioni di ragazzi, che ancora oggi, da anziani e da adulti, lo ricordano con ammirazione e affetto.
Come detto, la passione di Plinio era quella del teatro, esisteva un circolo culturale presso la parrocchia, poca cosa, Plinio volle riformarlo dagli anni ’70, promuovendo alcuni lavori scritti, di breve durata, ma il progetto si farà più concreto, proponendo a inizio anni ’80, una commedia dal sapore drammatico, che riguardava proprio il tema della distruzione di Orsogna durate la guerra: Lu sfullamente, in 3 atti.

Lu sfullamente

 

Sfullate!                                                                                     Trimenne, scappenne.

Chie seme!                                                                                 Scappenne, scappenne.

Oddije, chi seme!                                                                      ‘Na grotte…..!

Sfullate!                                                                                      Nu ‘ndreme,

Stracce di cristijane                                                                  spasimenne, piagnenne.

‘mmezze a na vije,                                                                     La terre all’intorne

jttate.                                                                                          la vita ha perdute:

Crijature di Ddi,                                                                       né cerche

nude e crude;                                                                             né frutte

pezze a li pide                                                                            né fiure

fangutte a li spalle.                                                                    né jerve.

Sule!                                                                                           Fratte di ferre,

Né Patrie,                                                                                   spine d’acciaje,

né Chiese!                                                                                  scatulette di morte.

Paese e case                                                                               Lu ciele,

‘cchiù nin tineme!                                                                     ‘ngrifate,

La guerre l’ha tote.                                                                   di fume

Bestie selvagge,                                                                          z’ha fatte.

scappeme ‘mbazzite:                                                                Piogge di foche, granile di piombe

la guerre,                                                                                   Signore! Signore!

i corre appresse.                                                                       Chi ‘ffì ajesse sopre?

La guerre,                                                                                  Ci vide!

gna acque                                                                                   Ci sinte!

gna foche                                                                                    A nnù Tu nin pinze?

‘ntè loche.                                                                                                                 

E jeme strascichijenne:

busche, campagne.                                                                                                      

Cammineme sfanchijenne:

frane, stirpaje;

jeme arrampichijenne:

ripe, cripacce,

fusse e vallune                                                                                                                                   


A nostro dire, questa commedia-dramma è il capolavoro di Plinio, rappresentata a Orsogna, ogni decade che finisca con il numero 3, a perenne memoria dello sfollamento dei paesani da parte dei tedeschi, che si preparavano a fortificare la linea Gustav per combattere gli alleati. Quante famiglie distrusse, quanti morirono di stenti, nascosti nelle grotte sotto-terra, di cui Orsogna è ricca nel Colle e nei dintorni, quante giovani violentate e catturate dagli avidi tedeschi, quante liti tra famiglie, ridotte a bestie che lottavano per sopravvivere per un po’ di pane! Tutto questo dramma è presente ne Lu sfullamente, e dopo la scena delle grotte, nell’ultimo atto, al ritorno nel paesello liberato, cosa fare? Ci sono solo sfollati in mezzo alla rovina! Ma il sentimento di Plinio non è mai pessimista, sicché anche nelle ultime battute, si presagisce un invito collettivo a farsi forza e a ricostruire la comunità, nonostante la devastazione, e i comportamenti sciacalleschi di alcuni, che sembrano essere stati avvelenati, nella loro innocenza pre-bellica, da un oscuro male.
Questo era Plinio, certamente segnato a vita dall’esser stato strappato in gioventù dai giochi, dagli amori, dalla spensieratezza della vota dalla morte e dalla distruzione di qualcosa più grande di tutta la piccola Orsogna, sacrificata per niente! La commedia riscuote tantissimi consensi, Plinio viene salutato quale nuovo autore del teatro abruzzese, e inizia a collaborare anche coi Cori; con l’amico e concittadino Domenico Ceccarossi scrive alcune canzoni per le Maggiolate di Ortona, ormai verso il tramonto, e le Settembrate di Pescara, scrive canzoni per la nuova commedia La struculatora con il pescarese Fernando d’Onofrio.



LA STRUCULATORA


Quante ricurde sta struculatore
quante pinzire m’apponde a lu core.
Mintr ‘a la tine li panne sciacquave,
chi bille cose la mente crijave!



I, li capille ‘ondulate d’Arture
rassumijave ‘a sti scannilature,
e li gradine ‘nghi vase di rose
di chi l’altare ‘ddò avà da-j spose.


Mentre appinnave li panne a la fratte,
jecche Arture chi ‘vvè all’intrasatte;
primennime l’ucchie e dicennime ‘zzà,
gna nu schiuppette mi faceve jundà.



I, mò’, vulesse a ‘sta struculatore
struculijà li vidille e lu core
di chi la streghe chi ‘nghi na fatture
perde m’ha fatte l’amore d’Arture.

 

Torce vulesse, gna sti cusarelle,
li trecce e li recchie di chi la ciandelle,
lengue maligne e gran pittilone,
chiacchiarijenne tra vije e pindone.

 

I, mò’, mi spose nu ricche a Milane;
pozza cripà chi la brutta ruffiane!
'Sta struculatore li jette a lu mare,
“la lavatrice mi faccio accattare…..

 

Sciacque e risciacque
sbatte e ritorce,
strizze po l’acque
gocce su gocce.

 

Strucule strucule
gna nu mutore;
strucule strucule
Struculatore.

                                                                

Si prodiga anche per promuovere il Coro ENAL di Orsogna, nato nel 1921, successivamente ribattezzato “Coro La Figlia di Jorio” in omaggio al pittore Michetti che nel suo quadro ritrasse proprio una orsognese. Nel 1979 promuove al teatro comunale di Orsogna un convegno sulla tradizione canora-dialettale abruzzese cui partecipano anche eminenti personalità quali Ernesto Giammarco, Ettore Paratore, Giuseppe Di Pasquale, con gran finale del Coro, che intona la famosa aria orsognese “Bbone Ursogne”, elaborata su motivo popolare. Varie altre commedie vengono scritte da Plinio, Li moje di li ‘mricane, una satira sull’emigrazione, che afflisse Orsogna, Parapattepace, Il castello in mezzo al mare, tutte di grande successo. Promosse la nascita di un’associazione teatrale, di cui fu presidente, e che girò in turnè l’Italia, e che fu invitata perfino in America Latina da amici immigrati orsognesi, riscuotendo un tale successo che Plinio non riusciva a rendersene conto realmente, tanto era il giubilo con cui venivano accolti i suoi lavori teatrali.

Scrisse diverse poesie per bambini, che sono state recentemente raccolte in un volumetto dal titolo Orsogna in rime, insieme a vari altri volumi sulle pièce teatrali. Molto graziose sono quelle per bambini, ad esempio La circhitelle di Natale, in cui un nonno troppo vecchio stile, critica la pomposità e la vuotezza delle luci di un albero di Natale, rispetto alla bellezza e alla castità di un presepe tradizionale, oppure le poesie della guerra, del Carnevale orsognese, la critica a una Orsogna troppo civettuole e provincialotta per poter andare avanti nella sua storia, fino all’ultima poesia, pubblicata dopo la morte nel 2002 per cancro, che è un vero e commovente commiato da un paese che ha amato per tutta la vita nel più profondo.


Ti ho amata, Orsogna,

nelle tue tradizioni

e nell’anima del tuo popolo

più vero, più umile e più grande:

sii sempre bella di umanità e di pulizia morale,

come ti hanno fatta e ti ricordano i tuoi figli lontani.

Per te, Orsogna natia, gioiosa,

sfollata, distrutta, ritrovata,

ricostruita, emigrata, vissuta:

per te sarò sempre

nel silenzio delle tue strade,

nell’aria delle tue stagioni,

nella luce del tuo cielo…

il tuo umile cantore

                             

Amore così grande per il suo paese, che Plinio arrivava addirittura a non concepire il pagamento dei testi stampati delle sue opere, che dovevano essere liberamente distribuite a chiunque, così come i libri che scrisse sulla storia di Orsogna, in modo che il paese fosse conosciuto da tutti. Scrisse diversi testi, che andrebbero ristampati dato che ormai sono difficilmente rintracciabili: il primo è Orsogna – Talami, coro, banda, usanze, 1981, con illustrazioni di Vito Giovannelli e foto storiche, che illustra a volo d’uccello la storia del paese, i monumenti principali, con note di riferimento molto precise, e ricerche d’archivio che spesso svolgeva a Chieti, Roma e Napoli, fu tra i primi a mettere in luce ad esempio l’attività dei lavoratori del legno a Orsogna, come la bottega dei Salvini e dei Tenaglia; a seguire racconta della banda, la storia del Coro, le varie usanze tradizionali, il Giovedì degli Amici, i Talami, i giochi di una volta; e questo metodo rigoroso, ma facilmente accessibile e semplice per tutti, scorrevole, lo usa per altri libri come Il nostro campanile ha 200 anni, Carri armati sui nostri tratturi, l’ultimo libro edito nel 1999, ricco di documentazione fotografica, ricerche in archivi di guerra, e interviste a personaggi che hanno avuto a che fare con Orsogna nella seconda guerra mondiale.
L’eredità di Plinio è stata raccolta dall’amico e allievo Vittorio Pace che promosse le attività dell’Associazione “Il Teatro di Plinio”, e successivamente dai nuovi membri.