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Ritratto
del B. Ludovico opera di Nicola Ranieri |
FRA’ LUDOVICO RICCELLI ovvero BEATO LUDOVICO DA GILDONE, un francescano molisano a Orsogna
di
Angelo Iocco
In
un testo dattiloscritto inedito di Vincenzo Simeoni di Orsogna sulla Storia del
Convento della Santissima Annunziata di Orsogna, leggiamo queste belle pagine
di un umile frate sepolto nell’antica chiesetta. Entrando in questo umile luogo
di preghiera, vediamo all’altezza della cappella della Madonna degli Angeli (ex
Sant’Antonio), una umile sepoltura con l’iscrizione del Santo, e di recente è
stata ivi ricollocata l’immagine del Ven. Ludovico dipinta post mortem dal
pittore Nicola Ranieri di Guardiagrele (1749-1851), da cui fu tratta anche
un’incisione per un santino.
Altre
sepolture di uomini illustri sono quella del Fr. Diego Giampaolo da Gamberale,
morto nel 1959, e quelle degli uomini illustri che procurarono la nascita del
Ritiro: il Ven. fr’ Francesco da Caramanico, il fr. Bernardino da Penne.
Lo
storico P. Marcellino Cervone da Lanciano scrisse nel 1891 fra tutti i Santi
Religiosi del secolo XVIII nella nostra Provincia Serafica Abruzzese, nessuno
uguagliò il Ven. Ludovico, specie per gli strepitosi miracoli operati dopo la
sua preziosissima morte, attestati dal Notato nel numero complessivo di 98.
Questa bella figura che tanto illustrò
il Ritiro di Orsogna, nacque al 10 novembre 1712 da Giovanni Riccelli e Viola
Massimi contadini, il giorno dopo fu battezzato col nome di Antonio. L’anno
precedente erano avvenuti due fatti importanti: la morte di un altro eroe
francescano, P. Bonaventura da Potenza, e la solenne condanna emessa da
Clemente XI contro le famose porposizioni dell’eretico Giansenio (Cornelius
Jansen, vescovo di Ypres).
Antonio
fu cresimato nel 1721 dal Cardinale Orsini, divenuto poi Papa con il nome di
Benedetto XIII. Presto dimostrò una grande religiosità, non ottenuta dal duro
lavoro dei capi che esercitò con grande impegno sino all’età di 17 anni.
Infatti nel mese di maggio del 1730 egli espresse il desiderio di farsi
religioso, ma invece di rivolgersi al locale Monastero degli Agostiniani, con
grande dolore della mamma che l’avrebbe voluto vicino a sé, si recò al Convento
dei Frati Minori di Foggia. Senonché il suo desiderio non fu esaudito, in
quanto la sua povertà non gli permetteva di acquistarsi l’abito, secondo la
religiosa consuetudine vigente allora.
Se ne tornò a casa rammaricato, ma tale fu il suo dolore che i suoi fratelli dovettero adoperarsi per procurargli la somma necessaria, per cui finalmente fu accolto nel Convento francescano della Ssma Trinità di Sepino della Provincia Serafica di Sant’Angelo delle Puglie. Altrettanto era avvenuto al dodicenne Felice Perretti, quando nel 1533 chiese di essere ricevuto al Convento di Montalto (nelle Marche). Fu tale il suo dolore che un pio benefico cittadino, Rosato Rosati, mosso a compassione gli offrì il denaro per l’acquisto dell’abito. Quell’oscuro fanciullo pieno di zelo e volontà divenne Sacerdote, e al 24 aprile 1585 fu elevato ai fasti pontifici con il nome di Sisto V. Morì il 27 agosto 1590.
Il 31 luglio 1730 Antonio indossò l’abito serafico, cambiando il nome in quello di Ludovico per devozione verso l’omonimo Santo francescano, che a 23 anni morì Vescovo a Tolosa, dopo aver rinunciato al suo diritto di successione al Regno paterno (19 agosto 1297). Il 31 luglio dell’anno dopo emise i voti, quindi si diede con grande profitto allo studio delle Lettere, e in particolare alla Filosofia e alla Teologia, menando nel contempo una vita di rinunce, sacrifici e penitenze con l’uso di cilici.
Egli
sapeva che doti caratteristiche del Sacerdote sono la dottrina e la santità.
Questi deve essere in grado di istruire i fedeli, gli erranti e all’occorrenza
combattere e confutare i nemici della Chiesa. Il Sacerdote è il sale del mondo,
è una fiaccola accesa da porsi in alto per illuminare, è il faro per richiamare
i naviganti nell’infido oceano tempestoso di questo povero mondo. Con questi
concetti, Fra’ Ludovico superò magnificamente gli studi con impegno e amore,
continuando la vita da penitente. Durante il chiericato fra l’altro, egli per
un anno si sostenne soltanto con semplice pancotto.
L’altare
maggiore della chiesa, in stucchi tardo-settecenteschi, prima delle distruzioni
della guerra, con il quadro dell’Annunciazione, di Innocenzo Giammaria di Roma
(primi del ‘900). Foto Archivio Convento della Santissima Annunziata, Orsogna.
Nel 1737 fu ordinato finalmente Sacerdote dal Vescovo di Isernia nel Convento di Prata. Coronato così il suo sogno lungamente cullato, fu inviato a diversi Conventi, ma presto chiese di essere trasferito nel Ritiro di Ielsi, diocesi di Benevento, per potersi dedicare maggiormente ad una vita appartata, ascetica, apostolica. Il suo fisico però nel risentì molto, per cui si ridusse ad uno scheletro e per giunta sputò sangue. Perciò fu inviato a Celenza sul Trigno con la speranza che quel clima mite e salubre giovasse alla sua salute. Ma egli, affatto preoccupato, continuò la solita vita di penitenze, apostolati e di ardente predicazione. Con la sua parola suadente riuscì a convertire anche un bestemmiatore.
A
Celenza viveva un certo Diana, il quale desiderava ardentemente di trasferirsi
a Napoli per godere le ricchezze di un suo parente molto ricco. Il P. Ludovico
gli predisse che presto il suo sogno si sarebbe avverato, ma per poco. Infatti
quel parente napoletano morì, e Diana subito si recò a quella città per
ereditare la sua ricchezza, ma dopo due mesi, egli stesso lo seguì nella tomba.
A
Celenza un certo Locci (o Cocci) faceva alla presenza del P. Ludovico discorsi
sul gioco del lotto e di vincite che ardentemente desiderava. Il Venerabile lo
chiamò in disparte, additandogli il suo podere presso le mura del Convento, e
gli disse:
“Lasciate
pure questo giuoco immorale. Ecco, sig. Carlo, ecco il vostro lotto. Quest’anno
vi ricaverete 130 tomoli di grano!”
Biondeggiarono
le messi, fu mietuto e battuto il frumento: il raccolto corrispose esattamente
alla quantità predetta dal Venerabile, con grande meraviglia e ammirazione di
tutti! Purtroppo la sua vita ascetica e penitente, il suo ardente apostolato,
le sue profezie, avveratesi con la massima esattezza, gli procurarono fama di
santità, per cui egli per umiltà fu costretto a sottrarsi alla loro attenzione
e venerazione. Col permesso del Ministro Generale P. Lorenzo Cozza, che tempo
prima aveva fatto pubblicare la Regola dei Ritiri, volle lasciare il Molise per
recarsi a Orsogna, attratto dalla fama che il nostro Ritiro si era procurato in
diverse Regioni per merito del fondatore P. Francesco da Caramanico.
S’incamminò
a piedi nudi con il solo Breviario insieme a Fra’ Francesco da Liscia. Giunti a
Campodipietra, il Venerabile volle fermarsi press il suo antico condiscepolo d.
Michele Colella, pregandolo di lasciarlo solo la notte, non avendo voglia di
coricarsi, ma poi per ubbidire, si dovette sdraiare sul letto stesso di d.
Michele. Questi verso mezzanotte fu costretto ad alzarsi ed aprire la finestra
per una forte fragranza che aveva inondato la stanza, ma mentre se ne chiedeva
la ragione, fu chiamato da P. Ludovico presso di sé. Solo allora si convinse
che quella soave fragranza proveniva dal suo ospite gradito!
Poi
vedendolo così gracile e macilento, gli fece osservare che al Ritiro di Orsogna
avrebbe perso la salute, ma il Venerabile gli rispose:
“Perché
ci siamo fatti religiosi? Certamente per staccarci totalmente dal mondo, e
seguire con mezzi più sicuri il buon Dio. Che importa? Sarà sempre meglio
morire per Nostro Signore Gesù Cristo.”
Ma
giunti alla riva del Sangro, il “Sagrus magnus amnis” dei Frentani, furono
costretti a fermarsi a causa delle acque tumultuose e limacciose del fiume.
Allora si rinnovò lo strepitoso miracolo operato 4.200 anni prima alle rive del
Mar Rosso da Mosè, l’insuperabile Condottiero, Legislatore, Profeta e Storico.
Il Venerabile alzò fidente gli occhi al Cielo e con gesto ieratico benedisse le
acque in piena, che miracolosamente si divisero, lasciando passare all’asciutto
i due Religiosi. Giunto all’altra riva, questo novello Mosè pregò il suo
compagno di non rivelare ad alcuno il grande prodigio se non dopo la sua morte.
Fra’ Francesco fu fedele alla sua promessa. Quindi i due grandi viandanti
ripresero il cammino a piedi nudi verso Orsogna, meta sospirata che da lontano
si annunziava con l’aereo campanile di San Nicola[1],
che domina il luminoso e grandioso scenario che si estende dall’Adriatico alla
maestosa Maiella, Madre di Santi, artisti e poeti, alla duplice cuspide del
Gran Sasso “la Vetta d’Italia”, svettante nel bel cielo azzurro abruzzese.
CANDIDO
GIGLIO PROFUMATO
Giunsero
al Ritiro nel mese di aprile 1760. La natura sorrideva nella primavera del
fiore, il fabbricato era incorniciato dalla bella Selva ammantata di verde
profumato, gli uccelli gorgheggiavano gioiosamente in armonia col ruscello che
nel fondo valle mormora ancora la sua dolce canzone d’amore verso il Creatore.
Furono
accolti a braccia aperte dal P. Francesco da Caramanico e dagli altri
Religiosi. Quel fausto giorno due novelli gigli vennero ad inebriare quel
fiorente giardino profumato, due nuovi cantori vennero ad innalzare la loro
voce fresca, come una rosa nel solenne coro osannante di quel delizioso
“Poggio” ridente al sole, cui facevano eco angelici concerti.
“Hic
manebimus optime!”, forse gridò P. Ludovico pienamente soddisfatto insieme a P.
Francesco da Liscia. P. Ludovico vi continuò l’asperrima vita che ormai gli era
abituale. Era sempre il primo ad intervenire alle comuni orazioni, che si
prolungavano per oltre 8 ore al giorno e notte tra il Divino Ufficio,
l’orazione mentale e altre pie pratiche che erano ancora in vigore nel 1893.
Inoltre dopo l’Ufficio di mezzanotte, egli era solito trattenersi in orazione
nella propria celletta per una lunga preparazione per la Santa Mesa, la cui celebrazione
al mattino seguente durava 35 minuti in profondo raccoglimento, tutto compreso
nell’arcano Mistero Divino:
“Si
rimaneva grandemente edificati per la compostezza, il devoto raccoglimento,
l’esattezza della Sacra Cerimonia ed il fervore con cui compiva il Sacro
Ritiro”.
Animato
da santo zelo, una volta non esitò a far rilevare un leggero difetto, commesso
durante la celebrazione della Santa Messa dall’Arcivescovo di Chieti Mons.
Brancia, il quale era venuto per respirare le dolci aure mistiche del Ritiro.
Questi non si dolse, anzi ringraziò di cuore con molto affetto il suo
“cerimonialista”.
La devozione verso il Sacramento lo spingeva alle più alte effusioni di eroici sacrifici. Quante volte verso mezzanotte si alzava dal misero giaciglio, sfidando i rigori dell’inverno che ad Orsogna è molto rigido. Coperto di un logoro abito e di un mistero mantello, scendeva alla piccola Chiesa profumata di misticismo, ovattata dalla penombra. Raggomitolato su sé stesso per il freddo intenso, rimaneva rapito in devoto raccoglimento, e soavi colloqui davanti al Prigioniero d’Amore lungo tempo, e poi risaliva carponi le scale per l’estrema debolezza.
Il
suo confessore P. Silvestro da Barisciano ha deposto con giuramento al Processo
di Beatificazione che il Venerabile, nelle ore libere dalle comuni operazioni,
si ritirava nel corridoio detto “Via Crucis”, dove faceva il pio esercizio con
una grossa e pesante croce sulle spalle, strisciando la lingua per terra per la
conversione dei peccatori. Il mondo considera questi gesti una pazzia. P.
Ludovico se ne beava, offrendo lietamente gioie e dolori. Colui che per nostro
immenso amore volle sacrificarsi fino alla morte orribile della Croce che per i
Romani era ignominia, per i pagani scandalo, per gli Ebrei follia.
O
ineffabile follia che ha generato i Santi ed ha spinto nei secoli numerosi
Martiri ed Anime elette a seguire, abbracciare, adorare la Croce facendovisi
inchiodare tra canti di gioia! Da quando Cristo vi volle essere sospeso, la
Croce è divenuta trofeo di vittoria, simbolo della nostra Redenzione, trono di
gloria, di trionfo e di splendore. Da allora Sovrani e Principi l’hanno scelto
come emblema, Partiti ed Associazioni religiose e civili l’hanno adottato come stemma
e simbolo di eroismo, distinzione, onore e valore culturale. Uomini di pensiero
e di azione sono rimasti affascinati dalla sapienza della Croce, scienziati vi
hanno trovato lume e sprone per svelare i Misteri dell’Universo. La Croce è
guida per viandanti, dolcezza per chi piange, speranza per i peccatori e
moribondi. Essa risplende sul mondo come faro luminoso di civiltà, progresso
amore, e segno della nuova era che in Cristo ha avuto inizio e in Lui si
concluderà
Ave Crux, Spes unica!
Il
Superiore P. Francesco da Caramanico attestò giuridicamente al Cronologo P.
Francesco Bernardino d’Arischia, per gli Atti del Processo di Beatificazione
quanto segue:
“P.
Ludovico era ansioso e desiderosissimo dell’eterna beatitudine e sperava con
molta fiducia di conseguirla per i meriti della Passione di Cristo e per le sue
opere buone, specialmente di quelle che sono solite praticarsi qui nel Ritiro.
Esse sono le frequenza del Coro notto e giorno, la devota recita del Divino
Ufficio, le orazioni vocali e mentali, il silenzio continuo, le discipline tre
volte la settimana, i digiuni della nostra Regola sia di precetto che di
consiglio, confessare le colpe nel Capitolo, la frequenza agli atti comuni
qualunque indisposto e malato, lavare i piedi, i piatti, scopare il Convento e
altre cose simili”.
Oltre
le quattro Quaresime francescane digiunava anche nelle Vigilie delle Feste
della Vergine e dei Santi dell’Ordine. Esercitava inoltre altri atti di pietà
raccolti in un manualetto da lui stesso scritto. Era solito confessarsi tre
volte al giorno per meglio offrire con il Sacramento della Penitenza l’anima
sua. Costretto dai medici a passeggiare nell’orto a causa dei suoi mali, era
talmente assorto che non si accorgeva nemmeno delle persone che gli passavano
accanto. Era più nel Cielo che nella Terra!
Ogni
Venerdì per ordine del Superiore spiegava la Regola ad alti doveri ai Fratelli
laici con grande carità, acceso dal desiderio delle Cose Celesti. Alla fine si
scusava dicendo:
“Perdonatemi
Fratelli, se non mi spiego meglio, perché la mia testa è di paglia!”
Era
anche solito dire con voce sommessa di non saper parlare meglio, ed a proposito
per la sua ignoranza e balordaggine. Una volta durante la comune conversazione,
uno zelante ma timido religioso gli disse:
“Fratello
Ludovico, chi sa se l’indovineremo nell’altro mondo e ci salveremo!”
Il
Venerabile, con soavità e franchezza di spirito rispose:
“E
perché no, Fratello, se abbiamo la Misericordia di Dio e la Passione di Gesù
Cristo? Dio ci ha liberati dai pericoli del mondo chiamandoci alla Religione e
di più ci ha dato la grazia di fermarci in questo santo luogo di ritiro. Perciò
spero con certezza che compirà l’Opera sua salvando le nostre anime.”
Con
questi santi sentimenti egli si perfezionava sempre più con tanta fiducia e ilarità
sino all’ultimo giorno.
Particolarmente
sensibile verso le sofferenze materiali e spirituali degli altri, un giorno si
commosse nel sentire piangere una povera donna nella Chiesa, e poi alla porta
del Convento. Saputo poi dal portinaio che nessun Religioso voleva confessarla
perché tediosa e petulante, corse da lei pregandola di farsi animo, in quanto
si sarebbe impegnato lui stesso a trovare il confessore. Si recò quindi dal P.
Antonio da Palena, e gettatosi ai suoi piedi col cordone al collo, lo pregò
affettuosamente con le lacrime ad aver compassione e bontà verso quella
scrupolosa donna e confessarla per amore di Dio. ottenuto l’assenso, se ne andò
tutto lieto ringraziando P. Antonio. Una sera, dopo cena, diede ad un laico
infermo, Fra’ Francesco da Lanciano, un decotto visitare il malato trovandolo
perfettamente guarito.
Oh
potenza della carità del Venerabile!
Bravo
Oratore, alternava l’intensa vita ascetica e penitente con l’infocata
predicazione nei paesi vicini, similmente al suo Serafico Padre San Francesco.
In quel tempo infuriava la propaganda atea degli Illuministi, i quali
pretendevano di negare la Divinità e ribellarsi al Creatore, fidando
esclusivamente nella “ragione” umana, suprema regolatrice di ogni cosa. Egli
dal pergamo combatté efficacemente questa eresia moderna che tanto male fece
alla Chiesa e all’umanità. Pieno di ardore, esclamava:
“Mi
duole l’animo per il grave male che arrecano le loro leggi alla società. Dio
perdoni i disturbatori che mettono tali disordini fra i popoli!”
Visse
ad Orsogna 14 anni, pazientissimo sino all’estremo delle infermità, nelle
agitazioni interne e desolazioni di spirito, nelle croci e nei travagli interni
ed esterni, dai quali non fu quasi mai esente. Eppure ne ringraziava e lodava
Iddio. All’occorrenza una sola parola del P. Spirituale lo rasserenava. Menò
una vita angelica, di purità, di penitenze, di abnegazione, di carità.
Obbediente a qualsiasi richiesta di vaore, rispondeva sempre:
“Volentieri,
Fratello. Eccomi pronto, Fratello.”
Ma
un giorno di estremo cordoglio e di prostrazione fu tentato di essere incorso
in tutte le censure della Chiesa e quindi impossibilitato a celebrare la Santa
Messa. In questo stato d’animo ricorse al Confessore, il quale l’assicurò
dicendo, celiando:
“Orsù,
poiché siete caduto in tanti fatti e scomuniche come farneticate, io vi pongo
anche l’interdetto! Andate quindi subito a celebrare la Messa, né più
discorrete di queste cose.”
Il
Venerabile obbedì con tutta umiltà e gioia, pur assillato dalle sue infermità.
Nonostante la sua cultura, era solito andare questuando nei paesi vicini,
dicendo:
“Date
pure ai Fratelli, ai poveri di Gesù Cristo, consolateli poiché per ciò che
date, essi stessi soddisferanno per voi al Datore di ogni bene”.
Ma
un brutto giorno, mentre questuava con un frate laico a Guardiagrele, ebbe uno
strappo all’inguine, per cui dovette restare a terra sulla pubblica strada,
senza poter più camminare. Rifiutò finanche la cavalcatura, offertagli dal Rev.
Ferrari, Prevosto di quella cittadina, insensibile a ogni insistenza per non
trasgredire il precetto della sua Regola, nonostante che lo permettesse in caso
di necessità.
Fu
incrollabile nel suo rifiuto.
Con
grandissima difficoltà e sofferenze indicibili, a poco a poco, quasi carponi si
trascinò per 10 km sino al Convento, lieto e soddisfatto. Sono sofferenze e
sacrifici che soltanto chi è animato da profonda fede e da un alto ideale può
sopportare. Infatti questo eroico episodio contribuì ad aumentare la fama della
sua santità.
MARTIRIO D’AMORE
Alcuni
anni dopo il suo arrivo a Orsogna, i medici constatarono che la tubercolosi da
cui era affetto P. Ludovico da tempo, gli procurava una grave forma d’asma che
gli toglieva il respiro, con possibili conseguenze per la sua vita. inoltre
l’edema polmonare gli faceva emettere dalla bocca un fetido alito, e di tanto
in tanto materie marciose miste a sangue. Sovente gli si gonfiavano a dismisura
le gambe e i piedi. Nell’ultima malattia si aggiunse anche l’idropisia al
petto, che gli rese più affannoso il respiro. L’ernia che gli era sopravvenuta
a Guardiagrele durante la questua, emorroidi cieche e il cauterio a una gamba
contribuirono ad aggravare il suo stato veramente impressionante e pietoso. Era
un vero Martire che tutto sopportava con sublime amore!
Tutti
questi mali gli procuravano una fame divoratrice, eppure mangiava pochissimo,
anzi dopo aveva più fame di prima, come egli stesso confessò al Superiore. Ad
un religioso che lo compativa, rispose:
“Oh,
Fratello mio, che è mai ciò in confronto dei miei peccati e della Passione del
mio Signore? Ben altro meriterebbe questo inutile vermiciattolo!”
La
posizione stessa della sua misera cella contribuiva ad aggravare la sua salute:
caldo afoso d’estate e freddo intenso l’inverno. Ma mai se ne lamentò, anzi ne
gioiva spiritualmente. Nella cella, divenuta il suo Tabor, egli si trasfigurava
nel silenzio, nelle preghiere continue, nelle gravi penitenze, nelle sue estasi
d’amore. Era un vero seguace di San Francesco, tutto Serafico in amore!
Una
volta un confratello, nauseato dal fetido alito e dalle materie marciose che il
Venerabile emetteva, si permise di rimproverargli di essere venuto a Orsogna,
ma egli umile e sottomesso, gli chiese perdono del disturbo che
involontariamente gli arrecava. Il P. Francesco Bernardino d’Arischia
cronologo, dopo la morte del P. Ludovico scrisse al P. Generale il 28 aprile
1774 dal nostro Ritiro:
“Egli
fu un vero Martire per l’eroica intrepidezze, non conosciuta di certo in vita
sua. Martire di desolazione, martire d’infermità, martire di scrupoli, martire
d’ubbidienza.”
Con
questa santa vita penitente, ascetica e apostolica, il Venerabile si avvicinava
a grandi passi verso la morte, alla quale era pienamente preparato, anzi
rassegnato.
[1] A quel tempo la torre campanaria della chiesa di S. Nicola non esisteva, bensì è citata una piccola torre a vela. Qualche anno più tardi nel 1776 verrà completata la nuova chiesa dotata di torre. VEDI PLINIO SILVERII IL NOSTRO CAMPANILE HA DUCENT’ANNI
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