12 dicembre 2024
29 agosto 2024
15 giugno 2024
31 ottobre 2023
La Marsica e i riti di Ognissanti.
Popolazione in preghiera nel cimitero di Carsoli (1900/1910) © ICCD
Nel libro di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi dal titolo “Halloween: nei giorni che i morti ritornano” il capitolo sull’Abruzzo si apre così: Il folklore abruzzese e molisano è molto ricco di materiali che riguardano la nostra ricerca. Partiamo dalla credenza che i morti tornino nella dimensione terrena nella notte tra l’1 e il 2 novembre, raggiungendo le loro vecchie case (spesso processionalmente, in schiere dove morti «buoni» e morti «cattivi» occupano posizioni diverse e distinte), e dai riti di accoglienza a loro tributati, non privi di pericoli, e quindi di precauzioni e di forti timori.
A questa introduzione i due autori fanno seguire numerosi estratti dalle fonti storiche, in particolare quelli raccolti da Antonio De Nino e Gennaro Finamore nei loro celebri volumi dedicati agli usi e costumi abruzzesi. Nel capitolo di Finamore dedicato a Ognissanti è contenuta una storia ambientata a Pescina, in cui si intuisce perfettamente la commistione tra sacro e profano:
La messa de’ Morti, preceduta dall’ufficio, è celebrata dal parroco molto per tempo, per modo che al far del giorno la lunga funzione è terminata. Tutti coloro che hanno antenati sepolti nella chiesa in cui si celebrano gli uffizi, vanno o mandano ad accendere candele sulle sepolture; onde in nessun’altra festa dell’anno tutta la chiesa è così variamente e fantasticamente illuminata. Ma, prima che dai vivi, il divino uffizio è celebrato dai morti. Una fornaia, che non sapeva questo, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti a una chiesa, che vide illuminata, credette che vi uffiziassero, ed entrò. La chiesa era illuminata e piena di popolo. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si avvicina e dice: «Comare, qui non stai bene; va via. Siamo tutti morti, e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti». La comare ringraziò, e andò via subito; ma per lo spavento perdette la voce. (Pescina)
Credenze usi e costumi abruzzesi raccolti da Gennaro Finamore (1890)
In una piccola pubblicazione realizzata attraverso il contributo degli alunni dell’ultimo anno delle Scuole Medie C. Corradini di Avezzano nel 1988, si può leggere una testimonianza sui riti di Ognissanti nella Marsica. Molto interessante il rapporto con il fuoco del camino, spesso presente in altre fonti abruzzesi.
Una volta si usava nelle nostre parti cucinare abbondantemente nelle festività di Ognissanti in modo che il cibo che restava dopo il pranzo e la cena veniva messo in vari piatti ed esposti durante la notte sui balconi e nelle finestre del camino chiamate “buscelle”. Si diceva che i morti sarebbero tornati una volta l’anno, proprio nella notte fra il primo e il due Novembre, ed avrebbero partecipato al pranzo. Per tutta la notte dunque i più famosi mangiatori del paese erano occupati a fare delle scorpacciate con la legittima soddisfazione di chi, svegliandosi al mattino e trovando i piatti puliti, erano convinti che la sua casa fosse stata visitata dai parenti defunti. Nelle antiche case dove si accendeva il fuoco nel camino, si usava ogni sera coprire i carboni accesi con le ceneri in modo che al mattino i tizzoni restassero ancora accesi. La sera del primo Novembre, invece, i tizzoni venivano tutti spenti. Il fuoco è simbolo di vita ed è per questo che, almeno una volta l’anno, veniva soffocato come estinzione della vita stessa.
Si diceva che… Motti, proverbi, usi e costumi illustrati dagli alunni della III F – Scuola Media C. Corradini Avezzano 1988.
Ne “I racconti di Angizia” di Giuseppe Pennazza (1921), l’autore immagina di avere un dialogo costante con la Dea Angizia: insieme a lei ricorda le tradizioni scomparse e gli antichi usi delle famiglie di Avezzano e dintorni. Nel capitolo intitolato “Novembre” viene fatta una breve rassegna delle tradizioni nel giorno dei morti.
L’utilizzo della zucca come elemento simbolico è molto presente nelle tradizioni della Festa di San Martino. Sempre da Finamore:
Nel Pescarese e in alcuni paesi dell’Aquilano, come Balsorano, i ragazzi portano ancora in giro, su una specie di barella, una zucca svuotata, con i fori degli occhi, del naso e della bocca, con due corna colorate e una candela accesa dentro; si fermano dinanzi agli usci delle case e delle botteghe cantando: «S. Martino, S. Martino».
Antonio De Nino nel suo Usi e costumi abruzzesi (1879) dedica un intero capitolo alla simbologia delle zucche dal titolo Illuminazione con le zucche:
Nell’intero territorio abruzzese sono moltissime le storie legate al culto dei morti. Uno dei testi più importanti e suggestivi è sicuramente quello di Vittorio Monaco dal titolo “Capetièmpe – Capodanni in Abruzzo”, recentemente ristampato dalla Textus Edizioni. Le suggestioni della festività risuonano anche nei versi di Gabriele D’Annunzio e nel capolavoro di Francesco Paolo Michetti – La raccolta delle zucche, dove un teschio in primo piano si confonde tra i raccoglitori, sospesi in un’atmosfera magica.
Gabriele D’Annunzio – Ottobrata (Versi d’amore e di gloria, Mondadori Meridiani, Milano 2004)
La Raccolta delle Zucche – Francesco Paolo Michetti (1873)
Da: PiccolaBibliotecaMarsicana.itZucche nel Convento Michetti fotografate da Francesco Paolo Michetti © ICCD
27 novembre 2022
Ricordo dello scrittore abruzzese Ignazio Silone
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email mancinellielisabetta@gmail.com
17 novembre 2022
Amelio Pezzetta: La Chiesa e la vita religiosa in Abruzzo durante Il Viceregno Spagnolo (1503-1707).
1. Stato, Chiesa e vita religiosa nel Regno di Napoli durante
il XVI secolo.
Il
dominio spagnolo dell’Italia Meridionale iniziò nel 1503 con Ferdinando il
Cattolico e si concluse il 7 luglio 1707 quando le truppe austriache entrarono a
Napoli e il Regno passò agli asburgici.
Durante
i due secoli di dominio, i monarchi spagnoli delegarono l’amministrazione del
Regno a un viceré, non favorirono lo sviluppo del paese, lo appesantirono con un’esosa
pressione fiscale e conservarono la sua natura di stato feudale. Nell’epoca in
considerazione i baroni vecchi e nuovi conservarono l’ampio potere
amministrativo-giudiziario di cui godevano e ampliarono i possedimenti feudali;
la chiesa rafforzò il suo potere e prestigio morale e politico; i
rappresentanti della borghesia iniziarono la loro ascesa acquisendo prestigio
nell’amministrazione civica, l’economia e le libere professioni; i ceti più
umili continuarono a vivere in generalizzate condizioni di asservimento e
d’indigenza.
Il
Regno di Napoli era uno stato vassallo della Chiesa che il papa assegnava a chi
assecondava i suoi piani di potere temporale e le sue finalità spirituali. Al
momento dell'investitura Ferdinando il Cattolico riconobbe lo stato di
vassallaggio con tutte le condizioni a esso connesse tra cui il versamento al
pontefice del censo annuale di 8000 once d’oro e l’omaggio della chinea. Ai
fini di conservazione del potere, per gli spagnoli l'alleanza con la Chiesa era
indispensabile nonostante la condizione di asservimento e il suo alto costo in
termini economici.
Nel
Regno di Napoli gli spagnoli assunsero nei confronti della Chiesa due
atteggiamenti: da un lato se ne servirono per rafforzare il potere; dall'altro
pur riconoscendole privilegi e diritti, non assecondarono tutte le sue pretese
e talvolta anziché respingerle frontalmente, le attaccarono di fianco. In
particolare gli spagnoli non si opposero alle pretese della Chiesa quando erano
enunciate nei concili o con le bolle, ma ostacolavano la loro attuazione se
contrastavano con gli interessi dello Stato. Un esempio in tal senso è
costituito dall'atteggiamento che assunsero nel 1568 con la pubblicazione della
bolla "In coena Domini" con
cui il papa Pio V voleva riaffermare il primato della chiesa e far presente che
le ingiuste imposizioni fiscali erano moralmente perseguibili. In realtà per i
suoi particolari contenuti era un chiaro tentativo di violazione dei diritti
sovrani di uno Stato laico e fu utilizzata per la difesa dei privilegi e interessi
clericali dalle autorità civili. Infatti, la bolla consentiva alle autorità
clericali di ricorrere all’arma della scomunica anche nei confronti degli
amministratori zelanti che volendo far applicare le norme statali in materia
tributaria minacciavano il patrimonio ecclesiastico. In particolare essa
minacciava di scomunica coloro che: appoggiavano gli eretici; sostenevano la
superiorità dei concili rispetto al sommo pontefice; imponevano nuove tasse al
clero o aumentavano quelle già esistenti senza l'approvazione della Camera
apostolica; violavano le immunità ecclesiastiche sulla base del principio che non si fondavano sul diritto divino; impedivano
agli ecclesiastici l'esercizio della loro giurisdizione anche contro i laici,
l'esecuzione dei rescritti di Roma e l'esazione delle tasse della Chiesa. Il
governo spagnolo, nel rispetto dell’atteggiamento politico verso la chiesa
precedentemente delineato, quando la bolla fu promulgata non si oppose, ma in
seguito cercò di ostacolarne la diffusione e conoscenza.
Tenuto
conto degli aspetti generali enunciati, il presente saggio prosegue con
l’esposizione sintetica di alcuni significativi aspetti del rapporto
Stato-Chiesa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.
Il
29 giugno 1529 il papa Clemente VII e il re Carlo V firmarono il trattato di
Barcellona in cui al sovrano spagnolo fu concesso il diritto di presentare i
vescovi di 24 diocesi di regio patronato del viceregno napoletano. L’accordo
prevedeva che nell’Italia Meridionale l’amministrazione diocesana potesse
essere affidata anche a presuli non indigeni e di conseguenza alcune di esse iniziarono
a essere rette da prelati d’origine spagnola.
Nel
1541 un decreto della Regia Camera della Sommaria[1] deliberò
che i chierici avevano diritto alle esenzioni fiscali sui seguenti beni stabili
e di consumo: 1) i territori ecclesiastici e gli animali utilizzati nel lavoro
agricolo o come cavalcatura dai chierici e i loro famigliari; 2) l'acquisto di generi
alimentari e capi d'abbigliamento. Nello stesso anno, un altro decreto fissò le
quantità massime di merci che i chierici potevano acquistare in franchigia: un
rotolo di carne giornaliero (circa 0,9 kg), 2,5 tomoli di grano l'anno (1250
kg), 30 rotoli di formaggio l'anno (circa 27 kg), 3 staia d'olio annui (circa
30,2 litri), due botti di vino annui (circa 1047 litri e 40 rotoli di carne da
salare annui (circa 36 kg)[2].
Le immunità fiscali furono elargite anche ai coloni delle chiese e agli oblati
che donavano beni ai monasteri, non ne riservavano per loro stessi e vi
andavano a vivere. Siccome i sacerdoti non pagavano le tasse, i vescovi che
favorivano le ordinazioni al di sopra delle necessità delle diocesi che
governavano, furono ritenuti dei benefattori. Molti ecclesiastici nel corso del
secolo grazie ai privilegi accumulati, incentivarono l'evasione fiscale e cercarono
di coinvolgere anche i laici nelle esenzioni da loro godute. Un esempio in tal
senso è rappresentato dalle donazioni fittizie di beni immobiliari che i laici
facevano agli ecclesiastici allo scopo di non pagare le tasse sul patrimonio.
Conseguenza dei fatti accennati è che aumentarono a dismisura gli ecclesiastici
nel Regno di Napoli, mentre si contrassero i beni passibili di tassazione e le
rendite dello Stato. Contro questo stato di cose le autorità civili cercarono
di limitare il numero delle ordinazioni, gli amministratori locali presero
numerose iniziative e inoltrarono numerosissimi ricorsi alle autorità centrali affinché
prendessero opportuni provvedimenti tendenti a limitare il fenomeno. Purtroppo
tutti i tentativi per porre rimedi alla situazione non portarono ai risultati
sperati, poiché l'azione del governo non fu molto decisa e di conseguenza gli abusi
continuarono a essere perpetrati.
Nel
XVI secolo i chierici del Regno di Napoli percepivano rendite molto diverse: la
congrua, i diritti di stola, le decime e i redditi censuari da terreni, da
fabbricati, beneficiali, da messe, ecc. Nonostante questi benefici e vari
provvedimenti favorevoli, molti chierici delle campagne dell’Italia Meridionale
non avevano un adeguato benessere economico e talvolta coltivavano i terreni in
loro possesso.
La
religione nel secolo è un aspetto importantissimo dell'attività statale e
amministrativa. I re di Spagna si considerarono ardui difensori del
cattolicesimo e in tutti le istituzioni statali dei loro domini fecero obbligarono
i funzionari a esercitarsi in pratiche di culto. Infatti, gli ufficiali
pubblici intervenivano in forza alle funzioni sacre, i giudici prima di entrare
in seduta ascoltavano la messa, i reggimenti avevano i loro cappellani, nelle
carceri dovevano esercitarsi pratiche di culto, la bestemmia era considerata un
reato e lo Stato ordinava che si facessero pubbliche preghiere. A livello
locale le Università[3]
possedevano il diritto di patronato di cappelle laicali e chiese, fornivano alle
chiese stesse indumenti sacri, cera ed ostie e pagavano al clero le messe
celebrate pro populo.
Con
una prammatica del 5 gennaio 1571 il viceré De Rivera ordinò ai parroci di
registrare tutti i battezzati in un libro e la parrocchia iniziò ad assolvere
anche a funzioni d'anagrafe civile[4].
27 luglio 2022
Carlo Afan de Rivera: Considerazioni sul progetto di prosciugare il lago Fucino e di congiungere il mar Tirreno all'Adriatico per mezzo di un canale di navigazione, 1823.
5 aprile 2022
Abruzzo anni '70, foto di Paola Agosti.
Due stampe vintage alla gelatina ai sali d'argento, cm 24,2 x 35.