Pagine

Visualizzazione post con etichetta Pescina. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Pescina. Mostra tutti i post

8 ottobre 2025

“Dessèchement du Lac Fucino.” Il prosciugamento del Fucino in un articolo del 1863.

Riportiamo la traduzione dal francese dell’articolo pubblicato il 21 febbraio 1863 sulla rivista parigina “L’Illustration: journal universel” dal titolo: Dessechèment du Lac Fucino. Inauguration de l’émissaire de Claude, reconstruit par le Prince Alexandre Torlonia.

PROSCIUGAMENTO DEL LAGO FUCINO. INAUGURAZIONE DELL’EMISSARIO DI CLAUDIO, RICOSTRUITO DAL PRINCIPE ALESSANDRO TORLONIA.

L’Illustration annunciava per prima, dieci anni fa, che il re di Napoli Ferdinando II aveva concesso a una compagnia il prosciugamento del lago Fucino, a condizione che essa restaurasse il celebre emissario di Claudio.
Da quell’epoca, i lavori sono stati proseguiti senza interruzione, in mezzo alle maggiori difficoltà, e il 9 agosto 1862 si inaugurava, con una brillante cerimonia sulle rive del lago, l’apertura del nuovo canale sotterraneo, o emissario che sostituisce quello costruito dall’imperatore Claudio, e destinato, come il canale romano, a gettare le acque del Fucino nel fiume Liri, che nel suo corso inferiore prende il nome di Garigliano e si getta nel Mediterraneo, presso Gaeta.
Quest’impresa è una delle più notevoli del nostro tempo e la più antica fra tutte quelle in corso di esecuzione; il suo inizio risale all’anno 42 della nostra era; spesso interrotta, ma non interamente abbandonata, almeno in principio, soltanto dopo millottocentoventi anni ha visto compiersi la prima, la più difficile e la più dispendiosa parte delle sue operazioni, grazie alla nobile e coraggiosa iniziativa del principe Alessandro Torlonia, che non ha indietreggiato davanti a diciotto secoli di tentativi infruttuosi e ha voluto assumere da solo tutti gli immensi oneri, i rischi e la responsabilità di quest’opera colossale.
Il Fucino è uno dei più grandi laghi d’Italia. La sua superficie è di circa 16.000 ettari; è il più vasto bacino mediterraneo che sia mai stato prosciugato dalla mano dell’uomo.
Situato negli Abruzzi, su uno degli altipiani più elevati degli Appennini meridionali, si trova proprio al centro della Penisola.
La particolare conformazione del suo bacino, interamente circondato da alte montagne, produce su questo lago un fenomeno che, fin dall’antichità più remota, gli ha valso una reputazione di meraviglioso che non ha completamente perduto neppure ai nostri giorni.
È soggetto a piene che talvolta durano venti, trenta, quaranta anni e più; i suoi periodi di ritiro sono altrettanto lunghi.
Questi straordinari movimenti non hanno limiti né nella durata, né nelle altezze che il lago può raggiungere; essi risultano dalla configurazione del territorio, che, chiuso da ogni lato dalle montagne, non lascia alle acque alcun passaggio per raggiungere le valli vicine.
L’evaporazione è l’unica causa che modera il volume del lago e, il più delle volte, è insufficiente a eliminare tutta l’acqua che si raccoglie nel bacino.

Durante le sue lunghe inondazioni, il Fucino ricopre vaste estensioni di terreni molto fertili e riduce a profonda miseria un gran numero di famiglie che vivono sulle sue rive; fece così scomparire, nell’antichità, tre città popolate, Archippe, Penne e Marruvio, delle quali si ritrovano ancora alcune rovine.

Gli abitanti delle rive, continuamente esposti a questo flagello, non hanno mai cessato, in ogni epoca, di implorare i governi di liberarli dal loro temibile vicino.
Giulio Cesare, per primo, volle dare sbocco al Fucino; la morte arrestò il suo progetto, e fu Claudio a tentare la realizzazione di questa idea. Bisognava costruire un canale sotterraneo che portasse le acque del lago nel Liri,
che scorrono in fondo a una stretta valle chiamata Valle Roveto.

Questo canale doveva avere 5.680 metri di lunghezza, attraversare la base di una montagna di calcare molto duro, procedere costantemente a 100 metri al di sotto del suolo, in mezzo ai terreni così vari e sconvolti della formazione appenninica.
Era, come si comprende, un lavoro di un’audacia inaudita per i Romani, privi dei potenti mezzi di cui disponiamo solo da poco tempo per eseguire simili opere.
Nulla, tuttavia, fermò Claudio; fece scavare trentaquattro pozzi profondi, e un numero ancora maggiore di gallerie inclinate, chiamate Cunicoli, per permettere agli operai un accesso più facile ai diversi punti della galleria sotterranea che essi perforavano nella roccia con piccone e scalpello, e che rivestivano di muratura nelle argille e nelle sabbie.
« Era un lavoro, dice l’eloquente Plinio, che l’aveva visto, che superava l’immaginazione e che nessuna espressione potrebbe rendere. »
« Claudio vi impiegò undici anni, trentamila uomini e somme talmente considerevoli che il tesoro pubblico ne risultò gravemente oberato.
Nell’anno 53, l’imperatore volle inaugurare l’emissario con grande pompa, e offrì sul lago la più grande naumachia dell’antichità. Diciannovemila combattenti, scelti tra gladiatori e criminali, montavano due flotte composte di vascelli a tre e quattro ordini di remi: l’una rappresentava l’esercito dei Rodii, l’altra quello dei Siciliani.»

Claudio assisteva a questo spettacolo indossando il grande costume dei Cesari; Agrippina era vestita con una clamide d’oro.
Tutta Roma era presente a queste feste, che non avevano ancora avuto eguali.
Un tritone d’argento, emergendo dal seno delle acque, suonò la sua tromba per dare il segnale del combattimento; ma i tristi attori, interpretando il saluto con cui Claudio aveva risposto al terribile « Ave Cesare » come una grazia concessa alla loro vita, rifiutarono di combattere.
Le preghiere, le minacce e soprattutto le disposizioni prese sulla riva per impedire loro di fuggire finirono per vincere la resistenza di quegli sventurati.
Furono costretti a venire alle mani e, quando si furono scannati tra loro, per la grande gioia degli innumerevoli spettatori, si tolsero le paratoie che trattenevano le acque.
Queste si precipitarono con violenza estrema nell’emissario, trascinando tutto con sé, ma rifluirono ben presto con non minore forza; la tribuna imperiale ne fu profondamente scossa e rischiò di scomparire nel baratro.

L’emissario non aveva dato passaggio alle acque. La causa di questo incidente rimase ignota; Tacito, a torto, credeva che fosse dovuta a errori di livello del canale.
Fu solo negli ultimi lavori, dopo diciotto secoli, che si vide che quell’incidente era stato prodotto da una frana avvenuta proprio al momento dell’immissione delle acque.
Quella frana era il risultato della cattiva qualità delle costruzioni realizzate da Narciso, direttore dell’impresa.
Il ministro infedele, per realizzare immensi e illeciti profitti, aveva alterato i piani dell’emissario, trascurato l’esecuzione delle murature e causato, con la sua cupidigia, la rovina prematura di un’opera che aveva richiesto tante fatiche e sacrifici.
Agrippina, a detta di Tacito, approfittò dello spavento di Claudio per rimproverare a Narciso le sue dilapidazioni; ma il ministro era più potente della sposa.

Claudio morì avvelenato poco tempo dopo questo avvenimento, e l’emissario, distrutto appena nato, fu abbandonato dai suoi primi successori.
Traiano e Adriano vi fecero delle riparazioni, la cui durata fu effimera.
Federico II, nel Medioevo; più tardi Alfonso I d’Aragona, e, all’inizio del XVII secolo, il connestabile Lorenzo Colonna tentarono anch’essi, ma inutilmente, di riaprire il canale di Claudio.
Questi tentativi, rinnovati senza successo, fecero dubitare più di uno studioso della possibilità del prosciugamento del Fucino, e il popolo credette che vi fosse una “jettatura” su quest’impresa.

Durante il secolo scorso, il Fucino rimase pressappoco stazionario e entro limiti ristretti; fu solo verso il 1780 che riprese un periodo ascendente, ma allora si innalzò rapidamente e gettò di nuovo il terrore tra gli abitanti delle rive.
Ferdinando IV fece eseguire studi e preparativi di lavori che furono presto interrotti dagli avvenimenti politici.
Il lago continuò la sua piena fino al 1816, e raggiunse, in quell’epoca, la sua maggiore altezza conosciuta nei tempi moderni (aveva 23 metri di profondità).
Subito dopo cominciò un movimento di ritiro che durò fino al 1835; allora non aveva più che 10 metri, e questo fu il minimo registrato.
Il governo approfittò di questa decrescita per far sgomberare l’emissario, che era quasi interamente colmato dalle sue rovine.
Il lavoro fu lungo e penoso; cominciato nel 1826, fu terminato solo nel 1835.
Il commendatore Afan de Rivera, che lo aveva diretto, presentò poi un progetto incompleto di restauro, che fu respinto, e Ferdinando II, istruito dalla storia di Narciso, volle lasciare all’industria privata il compito di tentare di nuovo il prosciugamento.
Le offerte si fecero attendere a lungo; infine, nel 1853, una compagnia, di cui il principe Torlonia era il principale interessato, ottenne la concessione.
Il principe, spinto dall’idea di rifare uno dei monumenti più celebri dell’antica Italia, di restituire a una contrada popolata il benessere che le era stato tolto dalle inondazioni del lago, divenne unico proprietario dell’impresa, alla quale da dieci anni non cessava di dedicare le sue cure più attive.

I lavori moderni non dovevano cedere in nulla agli antichi per le difficoltà da superare, e li avrebbero superati di molto per la grandiosità delle loro proporzioni.
Non si trattava della restaurazione di un’opera mal riuscita fin dalla sua origine che il principe intendeva realizzare, ma di una costruzione completamente nuova, che prese posto al primo rango tra i lavori più grandiosi della nostra epoca.
Il celebre e per sempre compianto costruttore del canale della Durance a Marsiglia, l’ingegnere F. de Montricher, fu incaricato dal principe dell’esecuzione della sua grande idea.
Fin dall’inizio fu deciso che il canale romano, che anche restaurato non avrebbe mai potuto prosciugare il lago interamente, sarebbe stato sostituito da un tunnel più che doppio; l’antico aveva nove metri quadrati di apertura, il nuovo doveva averne venti.
I Romani non avevano avuto l’intenzione che di restringere e mantenere il lago entro limiti fissi; il progetto moderno invece doveva sostituirlo con un fiume, le cui acque sarebbero state una nuova fonte di ricchezze per la regione.

Per operare questa trasformazione, occorreva, invece di un emissario che, nelle migliori condizioni, non poteva far passare più di dodici o quindici metri cubi d’acqua al secondo, costruirne uno che potesse farne scorrere sessantotto nella stessa unità di tempo.
Le condizioni in cui si eseguirono questi lavori furono senza dubbio tra le più difficili che si possano incontrare.
L’emissario, sostenuto da armature provvisorie durante lo sgombero del 1835, crollava da ogni parte nel 1853.
Frane considerevoli lo avevano spezzato in più tronconi; i resti delle murature romane, staccati dalle acque sotterranee che affluivano nel canale, lo ingombravano per quasi tutta la sua lunghezza e crollavano ad ogni istante sotto l’enorme pressione di cento metri di terra.
Infine, lo stesso lago sembrava voler lottare contro l’impresa. Dal 1835 non aveva smesso di innalzarsi e, dal solo inizio dei lavori, era cresciuto di quasi sei metri.
Tutta la parte superiore del canale era invasa, e le acque, trattenute da una frana che bisognava attraversare, esercitavano un’enorme pressione equivalente a ventidue metri di colonna, contro la quale occorreva resistere e avanzare.
Tutti questi ostacoli furono tuttavia vinti, grazie all’abilità e alla perseveranza degli ingegneri Bermont e Brisse, che, come direttore e vicedirettore dei lavori, continuarono l’opera dell’infelice de Montricher, strappato improvvisamente alla sua brillante carriera.
Ma, superate queste difficoltà, l’abbondanza delle acque ne creava di nuove man mano che i lavori si avvicinavano al lago.
4.300 metri della nuova costruzione erano completamente ultimati; diventava impossibile completare i 4.400 che restavano senza dare al lago un deflusso che, abbassandone il livello, ne ritraesse le sponde.
Ma per poter ottenere questo primo deflusso, quanti grandi lavori bisognava ancora eseguire! Scavare un canale, aprire una galleria, restaurare la parte dell’emissario che non si poteva completare.
Eppure tutto fu fatto, ed è l’apertura di questo canale provvisorio che costituiva l’oggetto dell’inaugurazione del 9 agosto, rappresentata dalla nostra incisione.
Non si potrebbe precisare il tempo necessario al completo prosciugamento del Fucino; quando il livello del lago sarà abbassato di alcuni metri, occorrerà riprendere i 1.400 metri di galleria incompiuti e dar loro le stesse proporzioni dei 4.300 già terminati; poi, essendo la durata del prosciugamento subordinata alle stagioni più o meno piovose, si stima che occorreranno in media dai sei agli otto anni per vedere questo bacino trasformato in una vasta pianura la cui fertilità, soprattutto nei primi anni, sarà davvero fenomenale.
I lavori eseguiti fino a oggi possono, con alcune cifre, dare meglio delle parole un’idea della grandezza di questa impresa.

La diga che separa la testa del canale e il lago ha richiesto 90.000 metri cubi di riporto e 21.000 di roccia per proteggerla dall’azione delle onde del lago.
Gli scavi effettuati nella galleria principale, nei pozzi, nel canale provvisorio, ammontano a 154.000 metri cubi di materiali diversi.
Le murature, quasi tutte in pietra squadrata, ammontano a 21.000 metri cubi, e tuttavia, come abbiamo detto, l’emissario non è ancora terminato che per tre quarti della sua lunghezza.
Si può facilmente immaginare cosa abbiano dovuto essere i lavori accessori, soprattutto in questo paese lontano da tutti i grandi centri, dove è stato necessario far fabbricare sotto i propri occhi fino ai minimi dettagli di questa immensa impresa.
Da quanto abbiamo detto, si vede che non a torto abbiamo annunciato che il prosciugamento del Fucino era destinato a fare epoca nella storia industriale d’Italia, e che l’opera del principe Torlonia è, fino a oggi, unica nel suo genere, tanto per la grandezza del fine che si propone quanto per quella della sua esecuzione.
È bello vedere un uomo ricco consacrare così le sue cure e una parte della sua fortuna a un’impresa tanto grandiosa quanto utile, di fronte alla quale la potenza di tre Cesari e diciotto secoli di sforzi erano falliti.

Pierre Paget

Da: PicccolaBibliotecaMarsicana

12 luglio 2025

Francesco Ippoliti (1865 - 1938), medico degli ultimi, anarchico e antifascista abruzzese.


Francesco Ippoliti nacque il 12 febbraio 1865 a San Benedetto dei Marsi, provincia dell’Aquila, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri.
Dopo aver completato gli studi superiori, si trasferì a Napoli, dove si laureò in Medicina e Chirurgia. 
Proprio nell’ambiente universitario partenopeo entrò in contatto con l’anarchismo, maturando una coscienza politica che avrebbe segnato tutta la sua vita. 
Tornato nel suo paese natale scelse invece di praticare la medicina come strumento di giustizia sociale. 
Curava gratuitamente i poveri, comprava i medicinali per chi non poteva permetterseli e si spostava in tutte le zone più isolate. 
Oltre all’attività medica, Ippoliti lottava contro il dominio dei grandi latifondisti, in particolare la potente dinastia Torlonia, che aveva trasformato la Marsica in una terra di sfruttamento intensivo dopo l’essiccazione del lago Fucino. 
Denunciava le condizioni di semi-schiavitù dei contadini e cercava di costruire un’alleanza tra lavoratori attraverso l’istruzione popolare e la solidarietà. 
La sua notorietà e il suo attivismo lo resero bersaglio delle autorità fin dal regime liberale, che lo sottopose a perquisizioni e denunce. 
Con l’avvento del fascismo, la repressione e le violenze divennero sistematiche, tanto più che Ippoliti era il punto di riferimento di diversi militanti attivi nella zona. 
Nel 1926 fu arrestato e mandato al confino politico prima a Pantelleria e poi a Lipari, dove scrisse diari in cui descrisse le dure condizioni dei reclusi e la pervasiva sorveglianza del regime. 
Anche in esilio continuò a curare i compagni detenuti e ad agire come figura di riferimento morale. 
Tornato in Abruzzo nel 1928, visse sorvegliato e poverissimo, costretto a smettere di esercitare la professione. 
Rifiutò sempre ogni compromesso con il fascismo, conducendo una vita austera e solitaria.
Negli anni Trenta, sempre più isolato e debilitato, fu assistito solo da pochi compagni fidati, in particolare Francesco De Rubeis e Pasqualina Martino. 
Morì il 7 gennaio 1938 nel suo paese natale, dove fu sepolto in forma anonima. 
La sua memoria, per decenni silenziata, è stata riscoperta solo di recente grazie a testimonianze familiari e studi storici.

Da: https://www.facebook.com/share/p/16bx9jsVh4/

Per approfondimenti:

https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13234-ippoliti-francesco

16 febbraio 2025

C'era una volta il Lago del Fucino.


L’area del Fucino, testimone della presenza dell’uomo fin dall’epoca pre-protostorica, è stata teatro di un ‘opera eccezionale di trasformazione del territorio: il prosciugamento del grande lago, Già tentato nel I secolo d.C. dall’imperatore Claudio, fu realizzato con successo da Alessandro Torlonia alla fine dell’800. La grandiosità dell’opera di bonifica idraulica unica al mondo ha comportato una radicale trasformazione ambientale suscitando l’interesse di ingegneri, studiosi e scrittori di tutto il mondo.

Mappa del Lago Fucino

31 ottobre 2023

La Marsica e i riti di Ognissanti.

 

Popolazione in preghiera nel cimitero di Carsoli (1900/1910) © ICCD

Nel libro di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi dal titolo “Halloween: nei giorni che i morti ritornano” il capitolo sull’Abruzzo si apre così: Il folklore abruzzese e molisano è molto ricco di materiali che riguardano la nostra ricerca. Partiamo dalla credenza che i morti tornino nella dimensione terrena nella notte tra l’1 e il 2 novembre, raggiungendo le loro vecchie case (spesso processionalmente, in schiere dove morti «buoni» e morti «cattivi» occupano posizioni diverse e distinte), e dai riti di accoglienza a loro tributati, non privi di pericoli, e quindi di precauzioni e di forti timori.

A questa introduzione i due autori fanno seguire numerosi estratti dalle fonti storiche, in particolare quelli raccolti da Antonio De Nino e Gennaro Finamore nei loro celebri volumi dedicati agli usi e costumi abruzzesi. Nel capitolo di Finamore dedicato a Ognissanti è contenuta una storia ambientata a Pescina, in cui si intuisce perfettamente la commistione tra sacro e profano:

La messa de’ Morti, preceduta dall’ufficio, è celebrata dal parroco molto per tempo, per modo che al far del giorno la lunga funzione è terminata. Tutti coloro che hanno antenati sepolti nella chiesa in cui si celebrano gli uffizi, vanno o mandano ad accendere candele sulle sepolture; onde in nessun’altra festa dell’anno tutta la chiesa è così variamente e fantasticamente illuminata. Ma, prima che dai vivi, il divino uffizio è celebrato dai morti. Una fornaia, che non sapeva questo, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti a una chiesa, che vide illuminata, credette che vi uffiziassero, ed entrò. La chiesa era illuminata e piena di popolo. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si avvicina e dice: «Comare, qui non stai bene; va via. Siamo tutti morti, e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti». La comare ringraziò, e andò via subito; ma per lo spavento perdette la voce. (Pescina)

Credenze usi e costumi abruzzesi raccolti da Gennaro Finamore (1890)

In una piccola pubblicazione realizzata attraverso il contributo degli alunni dell’ultimo anno delle Scuole Medie C. Corradini di Avezzano nel 1988, si può leggere una testimonianza sui riti di Ognissanti nella Marsica. Molto interessante il rapporto con il fuoco del camino, spesso presente in altre fonti abruzzesi.

Tutti i morti

Una volta si usava nelle nostre parti cucinare abbondantemente nelle festività di Ognissanti in modo che il cibo che restava dopo il pranzo e la cena veniva messo in vari piatti ed esposti durante la notte sui balconi e nelle finestre del camino chiamate “buscelle”. Si diceva che i morti sarebbero tornati una volta l’anno, proprio nella notte fra il primo e il due Novembre, ed avrebbero partecipato al pranzo. Per tutta la notte dunque i più famosi mangiatori del paese erano occupati a fare delle scorpacciate con la legittima soddisfazione di chi, svegliandosi al mattino e trovando i piatti puliti, erano convinti che la sua casa fosse stata visitata dai parenti defunti. Nelle antiche case dove si accendeva il fuoco nel camino, si usava ogni sera coprire i carboni accesi con le ceneri in modo che al mattino i tizzoni restassero ancora accesi. La sera del primo Novembre, invece, i tizzoni venivano tutti spenti. Il fuoco è simbolo di vita ed è per questo che, almeno una volta l’anno, veniva soffocato come estinzione della vita stessa.

Si diceva che… Motti, proverbi, usi e costumi illustrati dagli alunni della III F – Scuola Media C. Corradini Avezzano 1988.

Ne “I racconti di Angizia” di Giuseppe Pennazza (1921), l’autore immagina di avere un dialogo costante con la Dea Angizia: insieme a lei ricorda le tradizioni scomparse e gli antichi usi delle famiglie di Avezzano e dintorni. Nel capitolo intitolato “Novembre” viene fatta una breve rassegna delle tradizioni nel giorno dei morti.

Ho incontrato Angizia e mi ha fatto paura. Essa era ammantata di nero.
– Dove vai? Che fai fuori di casa, solo, a quest’ora?
– Vado in cerca dei Morti: domani è la loro festa.
– Credulo e superstizioso come tutta la tua razza! Scommetterei che anche tu, questa sera, metteresti alla porta della tua casa il lume coperchiato con una zucca vuota e coi soliti fori da somigliare occhi e naso di teschi; anche tu non toccheresti in questa sera la catena del camino per non disturbare i morti nella loro quiete; anche tu, come i monelli, anderesti a picchiare a tutte le porte delle case per avvertire che è resuscitato un morto della famiglia.

L’utilizzo della zucca come elemento simbolico è molto presente nelle tradizioni della Festa di San Martino. Sempre da Finamore:

Nel Pescarese e in alcuni paesi dell’Aquilano, come Balsorano, i ragazzi portano ancora in giro, su una specie di barella, una zucca svuotata, con i fori degli occhi, del naso e della bocca, con due corna colorate e una candela accesa dentro; si fermano dinanzi agli usci delle case e delle botteghe cantando: «S. Martino, S. Martino».

Antonio De Nino nel suo Usi e costumi abruzzesi (1879) dedica un intero capitolo alla simbologia delle zucche dal titolo Illuminazione con le zucche:

In Ortucchio, alla vuota zucca si fanno dei buchi a forma di occhi, bocca e naso.
Dentro vi si adatta una candela. Nel cocuzzolo si legano due corni più o meno lunghi.
L’ operazione si compisce con infilare a un palo la cornuta zucca.
Fatto notte, si accendono le candelette di questi strani lanternoni (forse i cerei dei saturnali), e si gira per paese al grido di “Viva San Martino! Viva le corna!”
E io con un corno vi caverei un occhio! se mi fosse lecito.

Nell’intero territorio abruzzese sono moltissime le storie legate al culto dei morti. Uno dei testi più importanti e suggestivi è sicuramente quello di Vittorio Monaco dal titolo “Capetièmpe – Capodanni in Abruzzo”, recentemente ristampato dalla Textus Edizioni. Le suggestioni della festività risuonano anche nei versi di Gabriele D’Annunzio e nel capolavoro di Francesco Paolo Michetti – La raccolta delle zucche, dove un teschio in primo piano si confonde tra i raccoglitori, sospesi in un’atmosfera magica.

Su le tegole brune riposano enormi
zucche gialle e verdastre, sembianti a de’ cranii spelati,
e sbadiglian da qualche fessura uno stupido riso
a ’l meriggio.

Gabriele D’Annunzio – Ottobrata (Versi d’amore e di gloria, Mondadori Meridiani, Milano 2004)

La Raccolta delle Zucche – Francesco Paolo Michetti (1873)

Zucche nel Convento Michetti fotografate da Francesco Paolo Michetti © ICCD

Da: PiccolaBibliotecaMarsicana.it

27 novembre 2022

Ricordo dello scrittore abruzzese Ignazio Silone

Ricordo dello scrittore abruzzese Ignazio Silone
di Elisabetta Mancinelli.

Ignazio Silone, pseudonimo di Ignazio Tranquilli, figlio di una tessitrice e di un piccolo proprietario terriero, nacque igiorno 1 maggio 1900 a Pescina dei Marsi, comune in provincia dell'Aquila. Una tragedia segna la vita del piccolo Ignazio, la perdita del padre e di cinque fratelli durante il terribile terremoto che scosse la Marsica nel 1915. Rimasto orfano all'età di quattordici anni, interrompe gli studi liceali si dedica all'attività politica, che lo porterà a prendere parte attiva alle lotte contro la guerra e al movimento operaio . Solo e senza famiglia, il giovane scrittore vive nel quartiere più povero del comune dove frequenta il gruppo rivoluzionario "Lega dei contadini". Idealista com’era, in esso trovava pane per i suoi denti assetati di giustizia e uguaglianza. In quegli anni, intanto, l'Italia partecipa alla Prima guerra mondiale. Finito il conflitto , Silone si trasferisce a Roma, dove entra a far parte della Gioventù socialista, opponendosi al fascismo. Come rappresentante del Partito Socialista, prende parte, nel 1921 alla fondazione del Partito Comunista Italiano. L'anno dopo, mentre i fascisti effettuavano la marcia su Roma, Silone diventa direttore del giornale romano "L'avanguardia" e redattore della testata triestina: "Il Lavoratore". Compie varie missioni all'estero, ma poi, a causa delle persecuzioni fasciste, è costretto a vivere nella clandestinità, collaborando con Gramsci. Nel 1926, dopo l'approvazione da parte del Parlamento delle leggi di difesa del regime, vengono sciolti tutti i partiti politici.
In questi anni, comincia a profilarsi la sua personale crisi d'identità, legata alla revisione delle sue idee comuniste e dopo poco il disagio interiore aumenta tanto che nel 1930 esce dal Partito Comunista.La causa scatenante è la ripulsa che Silone, provava per la politica di Stalin, percepito dai più solo come padre della rivoluzione e illuminato condottiero delle avanguardie socialiste. Per la sua abiura dell'ideologia comunista pagò un prezzo altissimo : la cessazione dei rapporti di quasi tutti i suoi amici di fede comunista i quali, non capendo e non approvando le sue scelte, rinnegarono i rapporti con lui . Oltre alle amarezze derivate dalla politica, si aggiunse per Ignazio un altro dramma, quello del fratello più giovane, ultimo superstite della sua già sfortunata famiglia, arrestato nel 1928 con l'accusa di appartenere al Partito Comunista illegale.
Silone , deluso e amareggiato come uomo , nel suo esilio svizzero, si dedicò alla scrittura e pubblicò lettere di emigrati, articoli e saggi interessanti sul fascismo italiano e il suo romanzo più famoso: "Fontamara", che l’autore descrive come «un antico e oscuro luogo di contadini poveri ‘i cafoni’ situato nella Marsica, a mezza costa tra le colline e la montagna, dove i giorni, come i soprusi, si ripetono sempre uguali.” Dopo pochi anni esce "Vino e pane" che si svolge in : « quella parte della contrada che con lo sguardo poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui e che non misura più di trenta o quaranta chilometri in un senso e nell’altro». È un mondo popolato da personaggi umili, rassegnati, che trovano soddisfazione nella vivacità del loro dialetto e nel sapore delle cose semplici, come il pane intinto nel vino.
Nel 1941 lo scrittore pubblica "Il seme sotto la neve" e pochi anni dopo, terminata la seconda guerra mondiale rientra in Italia, dove aderisce al Partito Socialista. Dirige "l'Avanti!", fonda "Europa Socialista” e tenta la fusione delle forze socialiste con l'istituzione di un nuovo partito, ma ottiene solo delusioni, che lo convincono al ritiro della politica. Intensifica la sua attività narrativa e pubblica gli ultimi romanzi : "Una manciata di more", "Il Segreto di Luca" e "La volpe e le camelie".
Il 22 agosto 1978, dopo una lunga malattia, Silone muore in una clinica di Ginevra per un’emorragia celebrale. Viene sepolto a Pescina dei Marsi, nei pressi del vecchio campanile di San Bernardo.

Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email mancinellielisabetta@gmail.com

17 novembre 2022

Amelio Pezzetta: La Chiesa e la vita religiosa in Abruzzo durante Il Viceregno Spagnolo (1503-1707).

1.      Stato, Chiesa e vita religiosa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il dominio spagnolo dell’Italia Meridionale iniziò nel 1503 con Ferdinando il Cattolico e si concluse il 7 luglio 1707 quando le truppe austriache entrarono a Napoli e il Regno passò agli asburgici.

Durante i due secoli di dominio, i monarchi spagnoli delegarono l’amministrazione del Regno a un viceré, non favorirono lo sviluppo del paese, lo appesantirono con un’esosa pressione fiscale e conservarono la sua natura di stato feudale. Nell’epoca in considerazione i baroni vecchi e nuovi conservarono l’ampio potere amministrativo-giudiziario di cui godevano e ampliarono i possedimenti feudali; la chiesa rafforzò il suo potere e prestigio morale e politico; i rappresentanti della borghesia iniziarono la loro ascesa acquisendo prestigio nell’amministrazione civica, l’economia e le libere professioni; i ceti più umili continuarono a vivere in generalizzate condizioni di asservimento e d’indigenza.

Il Regno di Napoli era uno stato vassallo della Chiesa che il papa assegnava a chi assecondava i suoi piani di potere temporale e le sue finalità spirituali. Al momento dell'investitura Ferdinando il Cattolico riconobbe lo stato di vassallaggio con tutte le condizioni a esso connesse tra cui il versamento al pontefice del censo annuale di 8000 once d’oro e l’omaggio della chinea. Ai fini di conservazione del potere, per gli spagnoli l'alleanza con la Chiesa era indispensabile nonostante la condizione di asservimento e il suo alto costo in termini economici.

Nel Regno di Napoli gli spagnoli assunsero nei confronti della Chiesa due atteggiamenti: da un lato se ne servirono per rafforzare il potere; dall'altro pur riconoscendole privilegi e diritti, non assecondarono tutte le sue pretese e talvolta anziché respingerle frontalmente, le attaccarono di fianco. In particolare gli spagnoli non si opposero alle pretese della Chiesa quando erano enunciate nei concili o con le bolle, ma ostacolavano la loro attuazione se contrastavano con gli interessi dello Stato. Un esempio in tal senso è costituito dall'atteggiamento che assunsero nel 1568 con la pubblicazione della bolla "In coena Domini" con cui il papa Pio V voleva riaffermare il primato della chiesa e far presente che le ingiuste imposizioni fiscali erano moralmente perseguibili. In realtà per i suoi particolari contenuti era un chiaro tentativo di violazione dei diritti sovrani di uno Stato laico e fu utilizzata per la difesa dei privilegi e interessi clericali dalle autorità civili. Infatti, la bolla consentiva alle autorità clericali di ricorrere all’arma della scomunica anche nei confronti degli amministratori zelanti che volendo far applicare le norme statali in materia tributaria minacciavano il patrimonio ecclesiastico. In particolare essa minacciava di scomunica coloro che: appoggiavano gli eretici; sostenevano la superiorità dei concili rispetto al sommo pontefice; imponevano nuove tasse al clero o aumentavano quelle già esistenti senza l'approvazione della Camera apostolica; violavano le immunità ecclesiastiche sulla base del principio  che non si fondavano sul diritto divino; impedivano agli ecclesiastici l'esercizio della loro giurisdizione anche contro i laici, l'esecuzione dei rescritti di Roma e l'esazione delle tasse della Chiesa. Il governo spagnolo, nel rispetto dell’atteggiamento politico verso la chiesa precedentemente delineato, quando la bolla fu promulgata non si oppose, ma in seguito cercò di ostacolarne la diffusione e conoscenza.

Tenuto conto degli aspetti generali enunciati, il presente saggio prosegue con l’esposizione sintetica di alcuni significativi aspetti del rapporto Stato-Chiesa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il 29 giugno 1529 il papa Clemente VII e il re Carlo V firmarono il trattato di Barcellona in cui al sovrano spagnolo fu concesso il diritto di presentare i vescovi di 24 diocesi di regio patronato del viceregno napoletano. L’accordo prevedeva che nell’Italia Meridionale l’amministrazione diocesana potesse essere affidata anche a presuli non indigeni e di conseguenza alcune di esse iniziarono a essere rette da prelati d’origine spagnola.

Nel 1541 un decreto della Regia Camera della Sommaria[1] deliberò che i chierici avevano diritto alle esenzioni fiscali sui seguenti beni stabili e di consumo: 1) i territori ecclesiastici e gli animali utilizzati nel lavoro agricolo o come cavalcatura dai chierici e i loro famigliari; 2) l'acquisto di generi alimentari e capi d'abbigliamento. Nello stesso anno, un altro decreto fissò le quantità massime di merci che i chierici potevano acquistare in franchigia: un rotolo di carne giornaliero (circa 0,9 kg), 2,5 tomoli di grano l'anno (1250 kg), 30 rotoli di formaggio l'anno (circa 27 kg), 3 staia d'olio annui (circa 30,2 litri), due botti di vino annui (circa 1047 litri e 40 rotoli di carne da salare annui (circa 36 kg)[2]. Le immunità fiscali furono elargite anche ai coloni delle chiese e agli oblati che donavano beni ai monasteri, non ne riservavano per loro stessi e vi andavano a vivere. Siccome i sacerdoti non pagavano le tasse, i vescovi che favorivano le ordinazioni al di sopra delle necessità delle diocesi che governavano, furono ritenuti dei benefattori. Molti ecclesiastici nel corso del secolo grazie ai privilegi accumulati, incentivarono l'evasione fiscale e cercarono di coinvolgere anche i laici nelle esenzioni da loro godute. Un esempio in tal senso è rappresentato dalle donazioni fittizie di beni immobiliari che i laici facevano agli ecclesiastici allo scopo di non pagare le tasse sul patrimonio. Conseguenza dei fatti accennati è che aumentarono a dismisura gli ecclesiastici nel Regno di Napoli, mentre si contrassero i beni passibili di tassazione e le rendite dello Stato. Contro questo stato di cose le autorità civili cercarono di limitare il numero delle ordinazioni, gli amministratori locali presero numerose iniziative e inoltrarono numerosissimi ricorsi alle autorità centrali affinché prendessero opportuni provvedimenti tendenti a limitare il fenomeno. Purtroppo tutti i tentativi per porre rimedi alla situazione non portarono ai risultati sperati, poiché l'azione del governo non fu molto decisa e di conseguenza gli abusi continuarono a essere perpetrati.

Nel XVI secolo i chierici del Regno di Napoli percepivano rendite molto diverse: la congrua, i diritti di stola, le decime e i redditi censuari da terreni, da fabbricati, beneficiali, da messe, ecc. Nonostante questi benefici e vari provvedimenti favorevoli, molti chierici delle campagne dell’Italia Meridionale non avevano un adeguato benessere economico e talvolta coltivavano i terreni in loro possesso.

La religione nel secolo è un aspetto importantissimo dell'attività statale e amministrativa. I re di Spagna si considerarono ardui difensori del cattolicesimo e in tutti le istituzioni statali dei loro domini fecero obbligarono i funzionari a esercitarsi in pratiche di culto. Infatti, gli ufficiali pubblici intervenivano in forza alle funzioni sacre, i giudici prima di entrare in seduta ascoltavano la messa, i reggimenti avevano i loro cappellani, nelle carceri dovevano esercitarsi pratiche di culto, la bestemmia era considerata un reato e lo Stato ordinava che si facessero pubbliche preghiere. A livello locale le Università[3] possedevano il diritto di patronato di cappelle laicali e chiese, fornivano alle chiese stesse indumenti sacri, cera ed ostie e pagavano al clero le messe celebrate pro populo.

Con una prammatica del 5 gennaio 1571 il viceré De Rivera ordinò ai parroci di registrare tutti i battezzati in un libro e la parrocchia iniziò ad assolvere anche a funzioni d'anagrafe civile[4].