1. Stato, Chiesa e vita religiosa nel Regno di Napoli durante
il XVI secolo.
Il
dominio spagnolo dell’Italia Meridionale iniziò nel 1503 con Ferdinando il
Cattolico e si concluse il 7 luglio 1707 quando le truppe austriache entrarono a
Napoli e il Regno passò agli asburgici.
Durante
i due secoli di dominio, i monarchi spagnoli delegarono l’amministrazione del
Regno a un viceré, non favorirono lo sviluppo del paese, lo appesantirono con un’esosa
pressione fiscale e conservarono la sua natura di stato feudale. Nell’epoca in
considerazione i baroni vecchi e nuovi conservarono l’ampio potere
amministrativo-giudiziario di cui godevano e ampliarono i possedimenti feudali;
la chiesa rafforzò il suo potere e prestigio morale e politico; i
rappresentanti della borghesia iniziarono la loro ascesa acquisendo prestigio
nell’amministrazione civica, l’economia e le libere professioni; i ceti più
umili continuarono a vivere in generalizzate condizioni di asservimento e
d’indigenza.
Il
Regno di Napoli era uno stato vassallo della Chiesa che il papa assegnava a chi
assecondava i suoi piani di potere temporale e le sue finalità spirituali. Al
momento dell'investitura Ferdinando il Cattolico riconobbe lo stato di
vassallaggio con tutte le condizioni a esso connesse tra cui il versamento al
pontefice del censo annuale di 8000 once d’oro e l’omaggio della chinea. Ai
fini di conservazione del potere, per gli spagnoli l'alleanza con la Chiesa era
indispensabile nonostante la condizione di asservimento e il suo alto costo in
termini economici.
Nel
Regno di Napoli gli spagnoli assunsero nei confronti della Chiesa due
atteggiamenti: da un lato se ne servirono per rafforzare il potere; dall'altro
pur riconoscendole privilegi e diritti, non assecondarono tutte le sue pretese
e talvolta anziché respingerle frontalmente, le attaccarono di fianco. In
particolare gli spagnoli non si opposero alle pretese della Chiesa quando erano
enunciate nei concili o con le bolle, ma ostacolavano la loro attuazione se
contrastavano con gli interessi dello Stato. Un esempio in tal senso è
costituito dall'atteggiamento che assunsero nel 1568 con la pubblicazione della
bolla "In coena Domini" con
cui il papa Pio V voleva riaffermare il primato della chiesa e far presente che
le ingiuste imposizioni fiscali erano moralmente perseguibili. In realtà per i
suoi particolari contenuti era un chiaro tentativo di violazione dei diritti
sovrani di uno Stato laico e fu utilizzata per la difesa dei privilegi e interessi
clericali dalle autorità civili. Infatti, la bolla consentiva alle autorità
clericali di ricorrere all’arma della scomunica anche nei confronti degli
amministratori zelanti che volendo far applicare le norme statali in materia
tributaria minacciavano il patrimonio ecclesiastico. In particolare essa
minacciava di scomunica coloro che: appoggiavano gli eretici; sostenevano la
superiorità dei concili rispetto al sommo pontefice; imponevano nuove tasse al
clero o aumentavano quelle già esistenti senza l'approvazione della Camera
apostolica; violavano le immunità ecclesiastiche sulla base del principio che non si fondavano sul diritto divino; impedivano
agli ecclesiastici l'esercizio della loro giurisdizione anche contro i laici,
l'esecuzione dei rescritti di Roma e l'esazione delle tasse della Chiesa. Il
governo spagnolo, nel rispetto dell’atteggiamento politico verso la chiesa
precedentemente delineato, quando la bolla fu promulgata non si oppose, ma in
seguito cercò di ostacolarne la diffusione e conoscenza.
Tenuto
conto degli aspetti generali enunciati, il presente saggio prosegue con
l’esposizione sintetica di alcuni significativi aspetti del rapporto
Stato-Chiesa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.
Il
29 giugno 1529 il papa Clemente VII e il re Carlo V firmarono il trattato di
Barcellona in cui al sovrano spagnolo fu concesso il diritto di presentare i
vescovi di 24 diocesi di regio patronato del viceregno napoletano. L’accordo
prevedeva che nell’Italia Meridionale l’amministrazione diocesana potesse
essere affidata anche a presuli non indigeni e di conseguenza alcune di esse iniziarono
a essere rette da prelati d’origine spagnola.
Nel
1541 un decreto della Regia Camera della Sommaria[1] deliberò
che i chierici avevano diritto alle esenzioni fiscali sui seguenti beni stabili
e di consumo: 1) i territori ecclesiastici e gli animali utilizzati nel lavoro
agricolo o come cavalcatura dai chierici e i loro famigliari; 2) l'acquisto di generi
alimentari e capi d'abbigliamento. Nello stesso anno, un altro decreto fissò le
quantità massime di merci che i chierici potevano acquistare in franchigia: un
rotolo di carne giornaliero (circa 0,9 kg), 2,5 tomoli di grano l'anno (1250
kg), 30 rotoli di formaggio l'anno (circa 27 kg), 3 staia d'olio annui (circa
30,2 litri), due botti di vino annui (circa 1047 litri e 40 rotoli di carne da
salare annui (circa 36 kg)[2].
Le immunità fiscali furono elargite anche ai coloni delle chiese e agli oblati
che donavano beni ai monasteri, non ne riservavano per loro stessi e vi
andavano a vivere. Siccome i sacerdoti non pagavano le tasse, i vescovi che
favorivano le ordinazioni al di sopra delle necessità delle diocesi che
governavano, furono ritenuti dei benefattori. Molti ecclesiastici nel corso del
secolo grazie ai privilegi accumulati, incentivarono l'evasione fiscale e cercarono
di coinvolgere anche i laici nelle esenzioni da loro godute. Un esempio in tal
senso è rappresentato dalle donazioni fittizie di beni immobiliari che i laici
facevano agli ecclesiastici allo scopo di non pagare le tasse sul patrimonio.
Conseguenza dei fatti accennati è che aumentarono a dismisura gli ecclesiastici
nel Regno di Napoli, mentre si contrassero i beni passibili di tassazione e le
rendite dello Stato. Contro questo stato di cose le autorità civili cercarono
di limitare il numero delle ordinazioni, gli amministratori locali presero
numerose iniziative e inoltrarono numerosissimi ricorsi alle autorità centrali affinché
prendessero opportuni provvedimenti tendenti a limitare il fenomeno. Purtroppo
tutti i tentativi per porre rimedi alla situazione non portarono ai risultati
sperati, poiché l'azione del governo non fu molto decisa e di conseguenza gli abusi
continuarono a essere perpetrati.
Nel
XVI secolo i chierici del Regno di Napoli percepivano rendite molto diverse: la
congrua, i diritti di stola, le decime e i redditi censuari da terreni, da
fabbricati, beneficiali, da messe, ecc. Nonostante questi benefici e vari
provvedimenti favorevoli, molti chierici delle campagne dell’Italia Meridionale
non avevano un adeguato benessere economico e talvolta coltivavano i terreni in
loro possesso.
La
religione nel secolo è un aspetto importantissimo dell'attività statale e
amministrativa. I re di Spagna si considerarono ardui difensori del
cattolicesimo e in tutti le istituzioni statali dei loro domini fecero obbligarono
i funzionari a esercitarsi in pratiche di culto. Infatti, gli ufficiali
pubblici intervenivano in forza alle funzioni sacre, i giudici prima di entrare
in seduta ascoltavano la messa, i reggimenti avevano i loro cappellani, nelle
carceri dovevano esercitarsi pratiche di culto, la bestemmia era considerata un
reato e lo Stato ordinava che si facessero pubbliche preghiere. A livello
locale le Università[3]
possedevano il diritto di patronato di cappelle laicali e chiese, fornivano alle
chiese stesse indumenti sacri, cera ed ostie e pagavano al clero le messe
celebrate pro populo.
Con
una prammatica del 5 gennaio 1571 il viceré De Rivera ordinò ai parroci di
registrare tutti i battezzati in un libro e la parrocchia iniziò ad assolvere
anche a funzioni d'anagrafe civile[4].
2. Il Concilio di Trento
Nella
prima metà del XVI secolo la Chiesa di Roma sul piano dottrinale trovò a fronteggiarsi
con le tesi protestanti enunciate da Martin Lutero e a reagire alla sua ondata
riformatrice fornendo un’adeguata risposta dottrinale. Per questi motivi fu
organizzato il Concilio di Trento che si svolse
dal 1545 al 1563.
Nel
1564 il papa Pio IV fece pubblicare le conclusioni conciliari che nel loro complesso
con la riconferma di vari dogmi e il numero dei sacramenti, dimostrano che sul
piano dottrinale non fu fatto nessun cedimento alle controverse tesi luterane. Ai
fini del presente saggio hanno un notevole interesse i dettami conciliari che ebbero
notevoli riflessi sulla vita religiosa locale, erano finalizzate a moralizzare
la Chiesa, resero più incisivo il messaggio cristiano e dettarono le norme e i comportamenti
a cui il clero doveva attenersi.
Il
rinnovamento della fede e devozione popolare, secondo il concilio di Trento, si
doveva attuare con un'azione pastorale che prevedeva essenzialmente: a)
un'obbedienza cieca alla gerarchia ecclesiastica; b) il ruolo centrale della parrocchia
nella vita religiosa della propria circoscrizione; c) un'attività catechetica
più fitta; d) una maggiore diffusione delle missioni; e) un maggior esercizio
della pietà individuale. Quale conseguenza della riaffermazione dei principi e
dogmi di fede fu proibita la circolazione di libri e stampe devianti dalla
teologia, dottrina e morale conciliare. Pertanto nel 1559 e nel 1564 fu
pubblicato un "indice" dei libri proibiti, mentre nel 1587 fu
istituita una "Congregazione dell'Indice" al fine di vigilare su
tutto ciò che si stampava.
Il
Concilio prescrisse a tutti gli ecclesiastici l’obbligo del celibato e il divieto
di accumulare benefici. Ai vescovi riaffermò che i loro principali doveri erano
la cura delle anime e il governo della diocesi. Pertanto li obbligò a risiedere
stabilmente nelle diocesi stesse e a visitare periodicamente le sue parrocchie. Con questa norma s’istituzionalizzarono e
resero obbligatorie le visite pastorali dette anche sante visite. Durante la
loro esecuzione i vescovi: 1) esercitavano il controllo amministrativo, morale
e religioso su parrocchie, chiese, confraternite, luoghi pii ed altri enti
ecclesiastici che ricadevano nella loro giurisdizione territoriale; 2) favorivano la diffusione dei dettami riformatori, correggendo le devianze e gli eventuali abusi.
In particolare durante le visite essi erano tenuti a: fare osservazioni sul
comportamento dei sacerdoti; amministrare la cresima, fornire disposizioni in
materia dottrinale e di fede; richiamare al rispetto dei legati pii; esaminare
lo stato dei fedeli, la manutenzione delle chiese, degli altari, dei libri
liturgici, i registri parrocchiali.
Nel 1563 il Concilio prescrisse per i vescovi anche l’obbligo
di celebrare il sinodo diocesano almeno una volta l’anno ai fini di un maggior
controllo della vita
religiosa locale e imporre l’osservanza dei dettami conciliari.
Durante
le sessioni del concilio tridentino si fissarono anche i principali obblighi
dei rettori di parrocchie: risiedere nelle loro sedi, conoscere i propri
fedeli, avere cura dei poveri, predicare il Vangelo, esporre con chiarezza le
letture durante la messa, far conoscere il decreto sui matrimoni clandestini,
insegnare la dottrina cristiana ai fanciulli, spiegare il valore e l'uso dei
sacramenti, raccomandare l'osservanza del digiuno e delle feste di precetto,
conservare i registri parrocchiali, partecipare ai sinodi diocesani, osservare
l'ospitalità.
Al
concilio di Trento risale anche l'istituzione dei seminari e l'emanazione di
norme che spingevano a un maggior rigore nell'ammissione agli ordini sacri. Ad
avviso dei riformatori tridentini i seminari dovevano assolvere a due importanti
funzioni: migliorare la preparazione del clero che all’epoca in gran parte era
descritto come rozzo ed ignorante; fornire allo stesso gli strumenti culturali
e religiosi utili per competere e controbattere le tesi dei predicatori
protestanti.
Per
quanto riguarda le ordinazioni sacre si stabilì che ogni aspirante
sacerdote doveva dimostrare di avere i mezzi per mantenersi autonomamente senza
i frutti di qualche beneficio ecclesiastico. L’insieme dei beni necessari per
l’ordinazione fu definito patrimonio sacro. Il Concilio di Trento non
prescrisse il suo valore minimo, mentre nel Regno di Napoli fu fissato a circa trenta
ducati. La necessità che ogni aspirante al ministero ecclesiastico avesse una
propria rendita non era tesa (almeno nelle intenzioni) a limitare le
ordinazioni solo ai sacerdoti provenienti da famiglie benestanti, bensì a
impedire che accedessero agli ordini sacri gli individui privi di vocazione che
erano interessati a vivere con qualche beneficio ecclesiastico e avere la certezza
che, in assenza di benefici ecclesiastici, l'ordinato potesse avere mezzi propri
utili a condurre un'esistenza decorosa.
Al
concilio tridentino risale la ripartizione del territorio diocesano in foranie,
particolari distretti ecclesiastici che comprendono tutte le parrocchie dei
Comuni che vi sono inseriti. A dirigerle fu posto un sacerdote chiamato
"vicario foraneo" a cui il vescovo delegava il controllo sugli altri
parroci. In seguito alla loro istituzione, il clero foraneo fu obbligato a
incontri periodici per esaminare le condizioni generali delle parrocchie, discutere
sulle iniziative pastorali da intraprendere e rafforzare la collaborazione tra
sacerdoti.
Nel
Concilio di Trento si affermò che la vita sessuale era lecita solo con il
matrimonio e se subordinata alla procreazione. Di conseguenza il peccato della
carne acquisì una notevole importanza e onde
prevenirlo, tramite i sinodi diocesani e le omelie in chiesa furono impartite rigide
disposizioni sui comportamenti da osservare prima e dopo la celebrazione del
rito in chiesa.
Un altro importante aspetto trattato fu il problema della santità al fine di caratterizzare i modelli esemplari di condotta e vita cristiana. Il concetto di santità che si affermò fu imperniato sui seguenti valori: la macerazione della carne, l'obbedienza alla gerarchia cattolica, la rinuncia ai beni materiali e la dedizione alla cura e redenzione delle sofferenze del prossimo.
3. La vita religiosa nel Regno di Napoli durante il
XVII secolo
In
questo periodo la Chiesa con le sue organizzazioni e il suo esercito armato dalla
parola di Dio era presente ovunque: nelle potenti corti dei principi, nelle
feste dei nobili e dell'alta società, nei lazzaretti, lebbrosari, nelle
carceri, accanto ai malati ed alle persone sofferenti, ai condannati al
patibolo e gli incarcerati[5].
Dal
XVI secolo anche nel Regno di Napoli l’attività missionaria e di propaganda fide fu intensificata al fine
di correggere una profonda ignoranza religiosa che si esprimeva in credenze
superstiziose, l'incapacità di recitare le preghiere più elementari e
l'inosservanza di molti precetti tra cui quello del riposo festivo[6]. I
principali attori delle missioni popolari furono i vari Ordini religiosi vecchi
e nuovi di recente fondazione. Uno di essi fu la Compagnia di Gesù, comunemente
nota con il nome di ordine dei gesuiti, che offrì un efficacissimo strumento
per dirigere la riconquista spirituale dell'Italia meridionale. I missionari gesuitici
e non si spinsero nei centri più isolati del Regno per predicare il Vangelo,
favorire una più profonda comprensione e adesione al messaggio cristiano e
modificare gli aspetti di religiosità popolare caratterizzati da credenze superstiziose
e riti paganeggianti.
Le
missioni furono affiancate più o meno ovunque da una profonda ondata repressiva
in materia di religione, morale e costume contro gli eretici o presunti tali, la
vita sessuale libera, i matrimoni illeciti, la stregoneria e i comportamenti
incompatibili con i modelli di cristianità tridentini. Un suo particolare
aspetto fu l'intensa caccia alle streghe e ai veri o presunti possessori di
poteri malefici che portò al rogo un gran numero di persone tra cui anche
alcune innocenti. Poiché all'epoca la superstizione era un fenomeno dominante,
chiunque praticasse il più innocente scongiuro era passibile di essere accusato
di stregoneria. Nel Regno di Napoli l’attività inquisitoria fu condotta
essenzialmente dai vescovi poiché l'Inquisizione romana facente capo
direttamente al Sant’Uffizio non aveva giurisdizione, nonostante il tentativo
d’introdurla che il viceré Pedro di Toledo promosse nel 1532.
Nonostante
l'attività repressiva e l'opera di propaganda
fide, nell’Italia meridionale la religiosità pur manifestando alcuni segni
di cambiamento, non si adeguò completamente ai canoni tridentini. I motivi
dello status quo religioso-culturale
sono da attribuirsi all'isolamento geografico e culturale di molte comunità, il
rifiuto dei parroci e vescovi eccessivamente tridentini e il fatto che
nell'Italia meridionale non c'era stata una Riforma cui opporre una
Controriforma. Di conseguenza la religiosità si manifestò con caratteristiche variegate;
ogni piccola comunità continuò a coltivare i propri culti a cui lentamente
sovrappose nuovi modelli e tradizioni. La religione continuò a essere presente
in tutti i momenti della vita dell'uomo. Le persone dell’epoca avevano una
concezione utilitaristica della fede: pregavano e facevano l'offerta in chiesa
o al santo a cui erano devote nella speranza di ottenere protezione per sé
stesse e le proprie cose; con i santi intessevano particolari rapporti; ai loro
occhi le statue si animavano e i santi che rappresentavano diventavano personaggi
viventi con cui dialogare e stringere patti per il futuro. Spesso, le feste
religiose dell’epoca erano organizzate all'insegna della teatralità, con grandi
processioni dal suggestivo aspetto coreografico ed il senso dello spettacolo
che spesso sovrastava quello della fede. La teatralità dominava anche la celebrazione
della messa con frequenti canti, preghiere, benedizioni, ecc. Le ricorrenze
religiose scandivano la vita nelle campagne, i momenti di lavoro o riposo e l'apertura
e chiusura dei principali cicli agrari stagionali. Le chiese erano sempre stracolme
e in prima fila contenevano posti riservati per i nobili, i possidenti, i
borghesi e i membri delle amministrazioni locali.
Grazie
al forte impulso dei dominicani, francescani e gesuiti, nel XVII secolo si
diffuse la devozione mariana. A causa di ciò: 1) furono realizzate moltissime
chiese e cappelle intitolate alla Madonna; 2) la sua figura si frammentò in
tantissime Madonne locali ognuna con una propria denominazione, funzione
protettiva e mitologia; 3) in linea con le immagini e le tendenze culturali
dell’epoca, la madre di Dio fu rappresentata piangente, col cuore trafitto,
vestita di lusso, etc.
Il
XVII secolo fu dominato anche da credenze e grandi paure religiose condivise da
tutte le classi sociali (la paura della morte, della dannazione eterna e il
complesso di colpa) che spinsero a fare donazioni alla chiesa e a fondare enti
ecclesiastici, cappelle e oratori. Gli atti notarili dell'epoca documentano
queste tensioni morali e sono uno specchio fedele dell’esistenza di queste forme
di devozione e pratiche religiose. In particolare, la diffusione di carestie e
morbi che mietevano vittime erano considerati castighi divini, mentre il merito
della loro liberazione era sempre un evento soprannaturale che si attribuiva a
Dio e ai santi. A tal proposito la peste del 1656 che in diverse zone del Regno
provocò l’impressionante calo demografico di oltre il 50%, fu ritenuta la
manifestazione della volontà di Dio di voler punire i peccatori. Di conseguenza
per liberarsene in molte località fu invocato l'intervento soprannaturale, furono
organizzate processioni, litanie, forme di pentimento collettivo e si diffusero
i culti per San Rocco e San Francesco Saverio a cui le credenze popolari attribuivano
poteri protettivi contro il morbo.
Un
altro aspetto di grande interesse riguarda la preparazione del clero. Grazie ai
seminari diocesani, il clero secolare post-conciliare iniziò a essere culturalmente
più preparato rispetto ai secoli precedenti. Al miglioramento della
preparazione culturale del clero e dell'incisività della sua azione pastorale
contribuirono anche i seguenti volumi che videro la luce nella seconda metà del
XVI secolo: il Catechismus romanus pubblicato
nel 1567, il Breviarum Romanus
apparso nel 1568 e il Missale romanum
che fu dato alle stampe nel 1570.
Nel
1694 il papa Innocenzo XII emanò norme molto severe riguardanti la condotta di
vita dei sacerdoti secolari stabilendo che: 1) dovevano essere modelli
irreprensibili di vita; 2) non potevano vivere con donne, affittare case ai laici,
portare armi ed esercitare uffici di procura e avvocato presso tribunali laici;
3) erano tenuti a celebrare in modo adeguato le messe; 4) dovevano assistere i
propri fedeli con le pratiche di devozione, le messe, i conforti religiosi nei
momenti salienti della vita, ecc.
All’epoca
tanti aspiranti sacerdoti, nella scelta della vita clericale erano guidati da
interessi, motivazioni e ambizioni famigliari anziché da una sentita vocazione
religiosa. Infatti, le aspirazioni famigliari a ottenere privilegi, ridurre i
tributi, non dividere la proprietà e accrescere il prestigio socio-economico erano
forti motivazioni che spingevano alla carriera ecclesiastica[7]. Ogni
famiglia possidente faceva in modo che un proprio membro fosse ordinato sacerdote
per intestargli la maggior quantità possibile di beni richiesti per
l'ordinazione e avere uno strumento legale per eludere il fisco.
A
partire dalla seconda metà del XVI nel Regno di Napoli iniziò anche la
diffusione più capillare delle Confraternite, particolari associazioni di
fedeli che furono oggetto di numerose donazioni e promossero la mutua
assistenza tra gli iscritti, la celebrazione di feste religiose, nuove forme di
religiosità popolare, devozione, pietà e carità cristiana. Esse condizionarono
l'attività dei parroci a cui imposero i loro culti e spesso un cristianesimo
esteriore, celebrato e non vissuto. Tali organizzazioni, insieme a vari ordini
religiosi promossero la diffusione anche di opere pie tra cui gli ospedali per perseguire
le seguenti finalità: fornire l'assistenza materiale agli indigenti in mancanza
di assistenza pubblica statale e mettere in condizione i fedeli di acquisire
attraverso le opere misericordiose, i titoli necessari per guadagnare la
salvezza eterna.
In linea con i decreti tridentini e nel 1604
il papa Clemente VIII, fissò le
norme per la fondazione delle
confraternite, facendole rientrare nella giurisdizione vescovile (Bono 1988). Di conseguenza agli
ordinari diocesani fu assegnato il controllo amministrativo sulle stesse e ogni
loro operazione finanziaria doveva avere la loro autorizzazione vescovile.
Alcune associazioni confraternali che nell’epoca ebbero una larga diffusione
furono le seguenti:
-
la Confraternita del Santissimo Rosario che nel Regno di Napoli iniziò a
diffondersi intorno al 1525 grazie all'opera dei Domenicani e ricevette un
grande impulso nel 1571, quando il papa Pio V istituì la festa del Rosario:
-
la Confraternita del Santissimo Sacramento o del Corpo di Cristo che iniziò la
sua diffusione più capillare nel 1539, anno in cui fu fondata a Roma;
-
la Confraternita del Monte dei Morti le cui finalità essenziali erano
l’assicurazione ai propri adepti di un decente funerale e una buona morte
cristiana.
Nella
seconda metà del XVI secolo, ad avviso di NAYMO (2013) si registrò un
sorprendente incremento anche di fondazioni beneficiali di patronato, ovvero oratori
privati, cappelle laicali e ufficiature perpetue nelle chiese. I loro fondatori
si riservavano il diritto di nominare il sacerdote che officiava le funzioni
sacre e attraverso l'esercizio di questa prerogativa riuscivano a controllare
l'attività parrocchiale.
Le
cappelle laicali consistevano in altari disposti lungo le pareti laterali delle
chiese e nelle loro vicinanze di solito erano poste le tombe famigliari dei
fondatori. Le loro fioriture furono notevoli nella prima metà del XVII secolo, iniziarono
a ridursi nei decenni successivi e sono indicatori di due diversi fenomeni
socio-religiosi. Innanzitutto documentano un’attenzione ai temi religiosi e al
modo particolare in cui si manifestavano nel corso del secolo. Inoltre poiché una
gran parte di esse fu fondata dai membri della borghesia, sono esempi dimostrativi
del benessere economico e prestigio sociale che i membri di tale classe sociale
avevano acquisito.
Alle
istituzioni fondate, di solito si assegnava un patrimonio iniziale costituito
da beni immobili (case e terreni) e diritti di riscuotere prestazioni
periodiche. Esso poteva arricchirsi con altre donazioni, acquisti di beni e
operazioni finanziarie condotte dai legittimi patroni o i procuratori, ovvero i
soggetti scelti dai fondatori per l’amministrazione dei beni. Le rendite
connesse al patrimonio assegnato si utilizzavano per: prestiti in denaro
contante; le officiature di messe; l’acquisto di arredi sacri, la cura
dell'aspetto esteriore degli altari con fiori, tovaglie, candele; la
celebrazione della festa del santo a cui esse erano intitolate e in certi casi
anche per opere di beneficienza. Grazie anche a queste rendite nella chiesa
seicentesca circolò una maggior quantità di beni che permise di abbellirle e
arricchirle con arredi sacri.
Molto spesso i procuratori di chiese,
monasteri, cappelle laicali, confraternite e monti di pietà s’impegnarono in
operazioni di prestito di denaro contante a tassi agevolati che, nel rispetto
di una bolla del papa Niccolò V dovevano oscillare tra il 7 e il 10%. In questi
casi chi riceveva il prestito, ipotecava un proprio bene e s’impegnava a
versare annualmente un canone corrispondente alla quota d’interesse pattuita. I
pagamenti potevano durare molti anni ed essere trasmessi agli eredi. La loro
estinzione avveniva nel momento in cui il beneficiario del prestito restituiva
tutta la cifra ricevuta.
Queste
istituzioni assicuravano ai fondatori diversi vantaggi e diritti. Di solito a
essi si concedeva il diritto di nominare i sacerdoti che ufficiavano le
funzioni sacre e di avere proprie insegne e posti riservati in chiesa, due
fatti che contribuivano ad accrescere il prestigio sociale e comunitario. Spesso
i sacerdoti scelti per la celebrazione delle funzioni sacre appartenevano alla
cerchia famigliare dei fondatori stessi. In questo modo i beni assegnati alle
cappelle continuavano a restare nell’ambito del patrimonio famigliare e si
arricchivano del vantaggio di non essere soggetti a obblighi fiscali.
Nel
corso del secolo il sogno tridentino di rinnovamento e della parrocchia quale
principale centro della vita religiosa nell'Italia meridionale fu di
difficilissima attuazione e non riuscì a realizzarsi a causa di vari e
complessi fattori. Uno di essi era il fatto che nelle chiese di patronato, il
clero parrocchiale continuava a dipendere dai baroni, le Università e le famiglie
gentilizie, subendone i condizionamenti legati a interessi materiali e di
potere. Nelle chiese ricettizie dotate di una massa comune di beni, il clero
era molto geloso delle sue prerogative d’autonomia e pertanto l'autorità vescovile
si esercitava con molta fatica.
Nonostante il notevole impegno degli ordinari diocesani, dei missionari e la coerente applicazione dei dettami conciliari non si riuscirono a reprimere neanche tutte le forme di devozione popolare dagli aspetti più paganeggianti.
4. La chiesa abruzzese durante il viceregno spagnolo.
4a.
Le diocesi abruzzesi
Nell’epoca
in esame dal punto di vista dell’organizzazione ecclesiastica l’Abruzzo era
molto articolato e l’amministrazione diocesana non toccava tutte le località
regionali. Infatti, accanto alle
circoscrizioni diocesane esistevano importanti monasteri ed enti ecclesiastici
pontifici che erano sottratti al controllo vescovile, dipendevano dalla Santa
Sede e nel loro insieme possedevano vasti territori con la relativa
giurisdizione sugli uomini e le chiese presenti.
All’epoca
l’Abruzzo odierno fu ripartito nelle seguenti diocesi: Atri-Penne, Avezzano o dei Marsi, Chieti, L’Aquila, Lanciano, Ortona (dal 1600 Campli-Ortona) e Sulmona-Valva. Alcune parrocchie erette in località abruzzesi furono
inserite nelle diocesi di altre regioni. Infatti, alla diocesi molisana di
Trivento appartenevano le parrocchie di vari Comuni delle Province dell’Aquila
e di Chieti, mentre a quella marchigiana di Montalto, alcuni Comuni del
teramano.
Le diocesi di Atri e Penne furono unificate durante il Medio
Evo. Il primo vescovo conosciuto dopo l’unificazione è Beraldo che amministrò
la diocesi dal 1252 al 1263. Invece il primo vescovo dell’epoca in esame fu Giovanni Battista
Valentini Cantalicio che la tenne dal 19 novembre 1503 al 1514, l’anno della
sua morte.
Il
27 giugno 1515 il
papa
Leone X fondò la diocesi di Lanciano e il suo primo vescovo fu Angelo Maccafani .
A
Ortona la sede vescovile soppressa nel VII secolo, fu ripristinata il 20 ottobre 1570 dal papa Pio V e affidata a Giandomenico Rebiba.
Nel 1580 il papa Gregorio XIII, con la bolla In
suprema dignitatis apostolicae specula[ spostò a Pescina,
la cattedrale e
la sede vescovile della diocesi dei Marsi.
Il papa Sisto V il 24 novembre 1586 con
la bolla Super universas, istituì la diocesi di Montalto e le
assegnò una porzione di territorio appartenente a quella di Teramo.
Nel 1588 fu fondata la diocesi di Campli e al
suo vescovo fu concessa la giurisdizione
territoriale su località che in precedenza appartenevano alle diocesi di Teramo
e Montalto. Il 12 maggio 1600 avvenne l’unificazione con quella di Ortona.
Nella
prima metà del XVII secolo si riaccese la disputa tra Valva e
Sulmona; la causa fu portata a Roma prima davanti alla Congregazione
del concilio e poi alla Sacra Rota che
nel 1628
decise che la circoscrizione vescovile doveva assumere la denominazione di
diocesi di Sulmona-Valva.
Prima del Concilio di Trento generalmente le diocesi erano
affidate a vescovi non
residenti che le amministravano tramite loro delegati. Addirittura a L’Aquila nel 1515 fu nominato vescovo Giovanni Franchi che non aveva
ricevuto nessun ordine sacro e nel 1523 si dimise per intraprendere la carriera
militare. In seguito gli ordinari diocesani furono
obbligati a risiedere nelle rispettive diocesi e operarvi spesso in condizioni
di notevole isolamento geografico e giurisdizionale contro i baroni,
l’amministrazione civile e il clero riottoso che si opponeva alle riforme e ai controlli
imposti dai decreti tridentini.
Alcune diocesi furono affidate a presuli d’origine spagnola: Bernardo Sancio, Álvaro de la Quadra, Juan
de Acuña,
Francisco
Tello de León, Juan
Torrecillas y Ruiz de Cárdenas e Ignacio
de la Cerda y Avendaño che ressero la diocesi aquilana; Juan Salazar
Fernández, Antonio Gaspar Rodríguez, Francisco Romero, Alfonso
Álvarez Barba Ossorio e Manuel de la Torre
y Gutiérrez che s’insediarono a Lanciano; Cristoforo de los Rios che
resse la diocesi di Sulmona-Valva. Alti presuli erano extraregnicoli e
provenivano da località italiane centro-settetrionali.
In tutte le diocesi regionali furono istituiti seminari in cui
fornire un’adeguata preparazione ai candidati al sacerdozio. In particolare nel
1568 Giovanni Oliva istituì il seminario a Chieti e Juan
de Acuña lo
fondò all’Aquila.
A
Penne l’istituzione del primo seminario avvenne quando la diocesi era retta dal
vescovo Tommaso Baldani (1599-1621). Il suo predecessore Orazio Montani che tenne la diocesi dal 1591 al 1598 a
causa delle ristrettezze economiche affidò la preparazione degli aspiranti al
sacerdozio a un maestro di sacra teologia degli eremiti di Sant’Agostino
(RICCIOTTI 1988). Nel 1596 fu istituito un
seminario a Teramo ma fu chiuso nel 1603 in seguito a un omicidio commesso da
un giovane seminarista. Nel 1674 ci fu una nuova
apertura favorita dal vescovo Giuseppe Armeni. Nel 1580 il vescovo Matteo
Colli fondò un seminario a Pescina. Nel 1619 Il vescovo
Francisco Romero istituì a Lanciano il seminario diocesano. Nel 1653 a Ortona il
romano Carlo Bonafaccia unì al Seminario diocesano due fondi di monasteri
agostiniani e celestiniani soppressi .
4b. Le parrocchie
Nell'accezione
moderna la parrocchia è la circoscrizione ecclesiastica
costituita da un gruppo di fedeli affidati alle cure spirituali di un sacerdote
che nella maggioranza dei casi è definito parroco. Il suo territorio può
coincidere con quello di un comune, può comprendere più comuni oppure una solo
una loro frazione.
All’epoca
anche l’organizzazione e il tipo di parrocchie esistenti in Abruzzo erano molto
variegate. Infatti, in ogni Università, per vari motivi ci potevano essere una
o più istituzioni parrocchiali appartenenti alle seguenti tipologie: 1) le
chiese ricettizie che erano caratterizzate una notevole autonomia
amministrativa, un patrimonio di beni definito massa comune, un clero con più
individui che godeva di tutti i benefici annessi alla struttura, attendeva alle
impellenze dell'attività pastorale e conduceva vita comune; 2) le collegiate
che raggruppavano più chiese e/o parrocchie governate da un collegio di
chierici definiti canonici; 3) le parrocchie di libera collazione in cui il
rettore era scelto direttamente dall’ordinario diocesano; 4) le parrocchie di
patronato in cui i patroni sceglievano i rettori che poi dovevano avere
l’approvazione vescovile. In molti casi le parrocchie erano definite
arcipreture per indicare un loro prestigio derivante dall’antichità e dal fatto
di avere o aver avuto le attribuzioni di chiesa matrice e di centro religioso
di riferimento per altre chiese vicine.
A
queste particolari tipologie parrocchiali erano legati vari problemi. I
canonici delle collegiate di solito risiedevano stabilmente nel centro
principale. Per questo motivo, accadeva che qualche suo componente a cui era
affidata una parrocchia non le assicurava un'adeguata cura animarum e tutti i servizi liturgici. Tuttavia i canonici
delle collegiate non erano gli unici a non risiedere nelle parrocchie in cui
avevano la titolarità. Il fatto che esistessero parrocchie
di patronato dimostra che il governo delle chiese locali era fortemente
influenzato dai baroni, potenti famiglie o le Università. Di conseguenza i loro
rettori oltre al potere vescovile dovevano assecondare il potere laico dei loro
patroni. Le poche chiese ricettizie della Regione avevano invece una larga
autonomia e il potere vescovile si esercitava con maggiori difficoltà. Nelle
parrocchie di libera collazione i rettori dovevano seguire i condizionamenti
imposti da confraternite e famiglie gentilizie che avevano fondato cappelle
private e propri sepolcri in chiesa.
Molte parrocchie non avevano confini geografici precisi ed
erano ripartite in famiglie. Questa particolare organizzazione si scontrava con
le prescrizioni tridentine che prevedevano la ripartizione geografica in aree
distinte e aveva ragioni sostanzialmente economiche poiché evitava che a
qualche parrocchia appartenessero solo famiglie ricche e ad altre quelle povere.
Alcuni parroci dell’epoca giravano armati e cumulavano
benefici. Molto spesso accadeva che essi fossero parenti stretti degli amministratori
locali e contribuissero all’affermazione sociale dei loro famigliari.
All’epoca, anche nei piccoli centri si formarono delle vere e proprie dinastie
sacerdotali in cui ogni famiglia riusciva far accedere agli ordini sacri in
proprio membro ogni una o due generazioni.
Questi fatti nel loro insieme imponevano una riorganizzazione della rete parrocchiale, nonostante urtasse con gli interessi
acquisiti di laici ed ecclesiastici. Gli ordinari diocesani s’impegnarono in
queste riforme e di conseguenza nel XVII secolo in Abruzzo alcune
parrocchie furono unificate, altre istituite e in generale si assistette a una
modifica delle loro competenze e prerogative. All’epoca, in linea con il
generale andamento nel Viceregno, le parrocchie; 1) iniziarono a svolgere anche
l’attività di ufficio di stato civile registrando nascite, matrimoni e decessi,
2) nella loro missione evangelizzatrice e caritativo-assistenziale furono affiancate
da istituzioni che ebbero una notevole diffusione dopo il Concilio di Trento: gli
ospedali, le confraternite, le cappelle laicali e i monti frumentari e di
pietà.
4c. I sinodi diocesani
I
sinodi diocesani sono organi consultori presieduti dai vescovi nei quali periodicamente
si riunisce il clero diocesano per deliberare sulle incombenze dell'attività
pastorale, il calendario delle feste religiose, l’amministrazione
dei sacramenti, la disciplina ecclesiastica, le regole per il rispetto dei luoghi sacri, i requisiti per
l’ordinazione sacerdotale, i temi liturgici, ecc. A ogni sinodo segue la
pubblicazione e diffusione degli atti sinodali che nel loro complesso rivelano
la mentalità della gerarchia ecclesiastica, gli indirizzi pastorali e le
interpretazioni ufficiali sui fenomeni religiosi e sociali; impongono le
direttive sulla vita religiosa diocesana; evidenziano le principali feste, la
disciplina del clero e dei fedeli.
I
primi sinodi risalgono al VI secolo, mentre in Abruzzo il più antico di cui si
è a conoscenza fu convocato nell’840 dal vescovo teatino Teodorico.
Prima
del Concilio di Trento la loro convocazione era sporadica e avveniva quando le
autorità diocesane lo ritenevano opportuno.
Nel
1512, quindi prima del Concilio di Trento, uno di essi fu convocato dall'arcivescovo
di Chieti mons. Carafa nella metropoli marruccina al fine di fissare rigide prescrizioni
sulla disciplina del clero, rendere più esplicite le principali norme di vita
cristiana che i fedeli dovevano seguire e impedire che gli edifici di culto
fossero utilizzati per usi profani[8].
Alcune sue importanti deliberazioni furono le seguenti: fu raccomandato ai
parroci di annunciare durante la messa cantata domenicale le principali feste e
i giorni di digiuno da osservare durante la settimana (a tal proposito fu rilevato
che le pratiche di digiuno e di astinenza quali atti di penitenza nella diocesi
erano abbastanza trascurati); s’impose di vietare l'uso delle chiese per attività
non strettamente religiose quali il deposito di biada, grano, legna, botti o
ceppi, luogo di adunanza per pubblici parlamenti o di popolo, luogo di gioco e
forno pubblico; fu sentenziato il divieto assoluto a tutti i sacerdoti di
eseguire nelle chiese e cimiteri incantesimi e altre attività superstiziose; fu
promosso l’obbligo di tenere le chiese sempre chiuse, tranne i momenti in cui
si celebravano gli uffici sacri; a tutti i chierici fu imposto il divieto
assoluto di abitare o semplicemente conversare con donne capaci di alimentare
cattivi sospetti, di girare di notte cantando o portando armi, di giocare a
carte, dadi e altri giochi proibiti, di tagliarsi i capelli almeno due volte al
mese, radersi la barba e non portare abiti corti o indecenti; furono minacciati
di scomunica e multa di quattro once d'oro tutti i rei di bestemmia; ai parroci
fu richiesto di ammonire i propri fedeli all’osservanza della comunione pasquale,
il precetto festivo e di tenere nel periodo quaresimale un adeguato
comportamento in linea con le leggi e disposizioni della Chiesa; fu prescritto
il divieto di celebrare matrimoni clandestini e di far precedere quelli
regolari da tre pubblicazioni per accertarsi che tra i contraenti non ci fossero
impedimenti ed ostacoli alle loro unioni.
Dopo
il Concilio di Trento anche nelle diocesi abruzzesi i sinodi diocesani
iniziarono a essere convocati con maggior regolarità ma l’obbligo di celebrarlo
almeno una volta l’anno fu completamente disatteso. In alcune diocesi furono
più frequenti e in altre più occasionali, come si può osservare dai dati
riportati.
Nella diocesi teatina i sinodi furono convocati nel 1578, 1581, 1584,
1588, 1616, 1635 e 1673. Nella diocesi di
Lanciano fu convocato un sinodo nel 1545. Nella diocesi di Sulmona-Valva i
sinodi furono organizzati negli anni 1572, 1590, 1603, 1620 e 1629. Nel 1581 il vescovo dell’Aquila Mariano de
Racciaccaris convocò un sinodo diocesano e a
esso seguirono quelli del 1596, 1608, 1620 e 1649. Nella diocesi dei
Marsi nella seconda metà del XVI secolo furono convocati due sinodi diocesani.
Il primo lo convocò il vescovo Giambattista Milanese al ritorno dal concilio
di Trento,
mentre il secondo fu voluto dal vescovo Bartolomeo Peretti all'inizio del Seicento. A Penne il
primo sinodo diocesano fu convocato dal vescovo Silvestro Andreozzi che resse la diocesi dal 17 marzo 1621 a gennaio del 1648. Nel 1681 il
vescovo Giuseppe Spinucci convocò un altro sinodo.
Nelle
altre diocesi le convocazioni sinodali furono più sporadiche e talvolta non
furono organizzati a causa dell’opposizione del clero locale che non era
favorevole ad accettare le riforme tridentine.
I
dati riportati dimostrano che i sinodi diocesani furono più frequenti nella
seconda metà del XVI secolo e quindi negli anni immediatamente successivi al Concilio
di Trento, mentre nel XVII secolo le convocazioni si ridussero. Questi fatti
hanno una spiegazione molto semplice. Le numerose convocazioni cinquecentesche
traevano ispirazione dalla volontà degli ordinari diocesani di far conoscere profondamente
e applicare i dettami conciliari. Nel secolo successivo si fecero più rari
poiché alcuni obiettivi furono raggiunti e s’istituirono le foranie che
favorirono la diffusione delle direttive vescovili, i contatti tra gli
esponenti del clero foraneo e i controlli sulle attività parrocchiali.
4d. Le visite pastorali.
Le
relazioni delle visite pastorali post-conciliari rappresentano un importante
documento storico-sociologico poiché dalla loro consultazione emergono aspetti
demografici, economici, religiosi e giuridico-amministrativi delle parrocchie e
gli altri enti ecclesiastici visitati.
Nell’epoca
in considerazione l’insieme delle visite effettuate documenta l'interesse degli
ordinari diocesani ad adeguare la vita religiosa ai nuovi orientamenti del
Concilio di Trento con frequenti controlli sulle singole parrocchie finalizzati
a eliminare ogni forma di religiosità deviante dai canoni conciliari,
migliorare la preparazione culturale, la disciplina e la moralità del clero,
l'osservanza del precetto festivo, la frequenza alla messa e la tutela dei beni
ecclesiastici. Durante la loro esecuzione gli ordinari diocesani facevano
osservazioni sulla preparazione e il comportamento dei sacerdoti, amministravano
la cresima, impartivano disposizioni in materia dottrinale e di fede, risolvevano
i casi di conflitti tra chierici e con i laici, richiamavano al rispetto dei
legati pii, esaminavano lo stato dei fedeli, la manutenzione delle chiese, degli
altari, dei libri liturgici, dei registri parrocchiali, ecc.
Dopo
la conclusione del Concilio di Trento, nel rispetto delle sue direttive anche
nelle diocesi abruzzesi, gli ordinari diocesani assolsero l’impegno di eseguirle.
Tuttavia la norma della frequenza biennale fu osservata solo in pochi e
limitati casi. All’epoca le generalizzate condizioni di maltempo della stagione
invernale e dei periodi d’intense precipitazioni, le pessime condizioni delle
vie di comunicazione e la loro percorribilità a piedi o a dorso di qualche quadrupede
rendevano molto difficoltosi gli spostamenti. Di conseguenza le località poste
anche a pochi kilometri si potevano visitare solo in alcuni limitati periodi
dell’anno; s’impiegavano ore per spostarsi da una località a un’altra, mentre
per visitare un’intera diocesi erano necessari più mesi. Talvolta si osserva
una continuità annuale tra le visite ma in questi casi di solito gli ordinari
diocesani in più anni si recavano in località diverse delle loro diocesi.
Dalla
bibliografia e fondi consultati è emerso che la frequenza delle visite varia da
diocesi a diocesi. In particolare nella diocesi di Chieti, dopo la seconda metà
del XVI secolo furono fatte visite pastorali nel 1568, 1575, 1576, 1578, 1579, 1586,
1587,1588-89, 1591, 1593 e 1595. Nella diocesi aquilana furono effettuate
visite pastorali nel 1569, 1572, 1573, 1585 e 1594. In quella di Penne e Atri le
visite furono eseguite nel 1582, 1589 e 1592. Nella diocesi di Sulmona-Valva
tra il 1568 e il 1599 furono effettuate 6 visite pastorali. Nella diocesi di
Teramo si ha notizia di una visita fatta nel 1553 cui seguono altre negli anni
successivi. Nella diocesi di Lanciano si ha notizia di una visita pastorale
organizzata nel 1589.
Nel
corso di alcune visite diversi parroci manifestarono la loro contrarietà a
essere sottoposti ad attività ispettive. Infatti, nel 1573, nella diocesi
aquilana un arciprete non si fece trovare nella propria sede e un altro chiuse
le porte della chiesa (MORELLI 1988).
In
generale dalle relazioni delle visite effettuate è emerso quanto segue: un
clero che a causa di una preparazione culturale carente, non sempre era
all'altezza di assolvere ai compiti assegnati; gli ordinari diocesani facevano osservazioni
e prescrivevano regole riguardanti la custodia dell’eucarestia e i libri
parrocchiali; i fedeli che generalmente non trascuravano i sacramenti, non
seguivano con assidua continuità il precetto festivo e ascoltavano la messa
sino alla conclusione; edifici di culto non sempre ben tenuti; la vita
religiosa organizzata non solo attorno alle parrocchie ma anche ad associazioni
laicali quali le confraternite.
Nel
secolo successivo anche le visite pastorali, al pari dei sinodi si fecero con
minor frequenza poiché gli ordinari diocesani utilizzarono i vicari foranei per
il controllo della vita religiosa delle parrocchie. Nel corso del XVII secolo nella
diocesi teatina furono organizzate visite pastorali nel 1629, 1668, 1673. Nella
diocesi aquilana si ricordano le visite del 1601 e del 1606. Nella diocesi dei
Marsi furono effettuate visite negli anni 1635, 1648, 1672, 1684, 1689,
1690, 1694, 1696 e 1700. In quella di Penne nel 1629 e 1652. In quella
di Sulmona-Valva tra il 1603 e il 1695 furono fatte cinque visite.
Le
relazioni delle visite del nuovo secolo riportano fatti e contenuti diversi da
quelle della seconda metà del XVI secolo. Infatti, dalla loro lettura emerge
che gli ordinari diocesani o i loro vicari puntarono l’attenzione sull'ordine e
decoro degli edifici di culto, le manifestazioni di obbedienza del clero e l'osservanza
dei rituali tridentini. Esse non riportano fatti riguardanti l'accertamento dei
requisiti culturali del clero, che non si misero in discussione poiché la
formazione religiosa generalmente avveniva in seminario ed era più controllata
dalle autorità ecclesiastiche.
I decreti delle visite pastorali abbracciarono una normativa molto varia; in particolare, si osserva che: 1) in linea con i dettami tridentini mirarono alla riforma della liturgia e alla disciplina del clero; 2) in più occasioni ordinavano ai parroci e ai procuratori di confraternite di tenere in ordine le chiese e a tutti gli ecclesiastici di curare il loro aspetto esteriore; 2) imponevano che in chiesa i fedeli indossassero abiti decenti, puliti e non da lavoro.
4e.
Gli ordini religiosi
Dalla
seconda metà del XVI secolo in tutte le diocesi regionali si diffusero vecchi e
nuovi ordini religiosi. In particolare i barnabiti,
camilliani, caraccioilini, carmelitani,
crociferi, filippini, gesuiti, minimi, minori
osservanti, minori conventuali, oratoriani, riformati, serviti e scolopi si
aggiunsero agli ordini maschili e femminili già esistenti (agostiniani,
basiliani, benedettini, celestini, cisterciensi, clarisse, domenicani, francescani,
gerosolimitani e olivetani).
In Abruzzo tra il 1505 e il 1700 i francescani nel complesso occuparono 47 nuove sedi conventuali che si aggiunsero a quelle esistenti[9]. I domenicani fondarono nuovi conventi a Vasto (1575) e Guardiagrele (1580)[10]. Inoltre tra il XVI e il XVII secolo furono fondati conventi dai seguenti nuovi ordini religiosi: Barnabiti (L’Aquila), Camilliani (Chieti, L’Aquila e Teramo), Carmelitani (Campli, Lanciano, Marsi, Sulmona e Teramo), Crociferi (Chieti), Gesuiti (Atri, Chieti, Penne, Teramo), Minimi (Atri, Chieti, Penne e Sulmona), Oratoriani (Chieti, Lanciano e L’Aquila), Serviti (L’Aquila) e Scolopi (Chieti)[11].
Nel 1596 all’Aquila durante il vescovato
di Basilio
Pignatelli (1593-1599)
due gesuiti fondarono il Collegium
Aquilanum per diffondere la loro religiosità e migliorare la preparazione
del clero. Nel 1616 esso annoverò circa 60 studenti. I Gesuiti si diffusero
anche nelle altre diocesi regionali in cui
fondarono anche confraternite per contribuire all’educazione religiosa popolare
ed eliminare le credenze superstiziose. Durante l’Età Moderna un rappresentante dell’ordine utilizzò
l’espressione “India” per definire la religiosità della popolazione abruzzese,
come si può rilevare dal seguente testo scritto al generale dell’ordine da
Dionisio Vasquez, il responsabile del collegio teramano: «Nelle montagne, che sono grandi e molto vicine, habbiamo un’India in
ignorantia et bisogno di aiuto spirituale; nelle quali, quando vanno li nostri,
che è frequentemente, sono ricevuti come angeli di Dio, et domesticandosi
molto, imparano la dottrina cristiana et obbediscono alli padri. Grande è la
fatiga d’andare per le montagne a predicare et insegnare la dottrina, ma molto
è maggiore il frutto che si vede riuscire. Vengono dalle castella a chiamar li
nostri ogni settimana dei doi o tre lochi, perché le castella sono più di centocinquanta,
ma tutte piccole, come in montagne».[12]
Ad
avviso dei gesuiti in Abruzzo era caratterizzato da culti paganeggianti e da
credenze superstiziose molto diffusi e da notevoli difficoltà di un’efficace
opera di predicazione a causa dell’orografia e la distribuzione spaziale dei
centri abitati. Qualche anno dopo, precisamente nel 1576, essi diedero vita a un
importante campagna missionaria nella Regione che si protrasse per diversi
anni.
4f: Le confraternite e le cappelle laicali abruzzesi.
Nel
periodo in esame, in linea con i modelli culturali dell’epoca, anche in Abruzzo
la volontà di assicurarsi una buona morte cristiana e la salvezza eterna spinse
chi se lo poteva permettere ad aderire a confraternite, fondare cappelle
laicali, donare beni a enti religiosi e chiedere l'autorizzazione alle autorità
ecclesiastiche per costruire un sepolcro per sé e i propri familiari all’interno
di un edificio di culto. Quest'ultima esigenza nasceva anche da motivazioni: la
volontà di conservare i resti mortali in un luogo sacro in cui si supponeva che
i santi offrissero una migliore protezione dell'anima e la guidassero più
facilmente verso il paradiso; la possibilità che anche dopo la morte, i famigliari
in vita potessero mantenere con il proprio caro estinto un più frequente
contatto attraverso le visite in chiesa e la partecipazione alle funzioni
sacre.
Per quanto riguarda le confraternite, durante il XVII secolo in tutto
l’Abruzzo se ne conteggiarono circa un migliaio con varie denominazioni.[13] Alla loro diffusione contribuirono i laici, le
Università del Regno, gli ordinari diocesani e vari ordini religiosi tra cui i
domenicani e i gesuiti.
Nel
primo decennio del XVII secolo il vescovo aquilano Gonzalo de Rueda fondò la
confraternita femminile intitolata alle Serve di Maria. I domenicani, dopo la battaglia di Lepanto del
1571, anche in Abruzzo favorirono la diffusione capillare delle confraternite
del Santissimo Rosario e di altre. Infatti, tra la fine del XVI secolo e i
primi anni di quello successivo fondarono circa 250 confraternite.[14] A loro volta i gesuiti, negli ultimi decenni del XVI
secolo fondarono in Abruzzo una decina di associazioni confraternali nelle
località di campagna in cui a loro avviso si avvertiva la notevole esigenza di
estirpare il malcostume con pratiche negromantiche e superstiziose.
Un’altra associazione confraternale che in Abruzzo raggiunse
una notevole diffusione fu quella del Santissimo Sacramento che nei primi
decenni del XVII secolo era presente in quasi tutte le
località regionali, aveva raggiunto il numero di 400 associazioni[15]
e nei centri con più parrocchie ne esistevano più di una.
Durante il XVII secolo ebbero una notevole diffusione anche le
Confraternite del Monte dei Morti che come visto avevano la finalità di
assicurare ai propri iscritti, la buona morte cristiana, un decente funerale e
un numero di preghiere a suffragio dell’anima proporzionale alle quote versate.
Tra il 1648 e il 1698, nella diocesi teatina furono fondate 28 associazioni con
tale denominazione[16].
Tuttavia esse non erano le uniche a occuparsi dell’anima e dei funerali dei
propri iscritti poiché finalità più o meno simili erano condivise tra tutte le
associazioni confraternali. Questo particolare bisogno di aggregarsi fu favorito
da: 1) lo spirito di rinnovamento che portò i rappresentanti della Chiesa a
diffondere le concezioni dottrinarie sui defunti e la vita ultraterrena emerse
con il Concilio di Trento; 2) i frequenti fatti ed eventi calamitosi (epidemie,
carestie, terremoti, etc.) che accentuavano la precarietà esistenziale ed
ebbero importanti riflessi sulla concezione dell’esistenza umana e la
religiosità popolare; 3) la volontà generalizzata di rispettare il modello
della buona morte cristiana.[17] La ragione di tali fioriture è da ricondurre anche ai
particolari modelli culturali abruzzesi sui morti tramandati sino in epoche
molto recenti che portavano ad avere sempre grande considerazione e rispetto per
i famigliari defunti, a non dimenticarli poiché periodicamente tornavano tra i
vivi e potevano intercedere con Dio e i Santi per assicurare la protezione
soprannaturale ai famigliari in vita.
La
chiesa ha sempre combattuto molte concezioni popolari sui morti e l’aldilà
proponendo in alternativa il rispetto delle tradizioni religiose diffuse dal
suo magistero. In questo senso la fondazione in epoca moderna delle
confraternite in esame, ad avviso di Tanturrri
(2002) “è spiegabile come un tentativo
della cultura controriformista di normalizzare il culto dei morti, disperdendo
le tracce di un’escatologia lontana dall’insegnamento della chiesa”.[18]
Alcune
confraternite regionali dell’epoca anziché dei morti si occuparono delle
ragazze povere che si volevano sposare e non ricevevano la dote dai loro
genitori. A tal proposito in diverse località regionali furono fondate apposite
associazioni confraternali che ebbero a disposizione rendite utili per
acquistare il corredo matrimoniale da regalare alle ragazze bisognose.
Alla
diffusione delle confraternite si aggiunse la fondazione di cappelle laicali nelle
chiese e monasteri allora esistenti. In particolare nelle chiese parrocchiali e
più importanti, esse occupavano tutte le pareti laterali degli edifici e
vedevano sacerdoti che quasi quotidianamente erano impegnati nella celebrazione
di messe. Le altre istituzioni controllate dalle autorità ecclesiastiche che
all’epoca furono fondate anche in Abruzzo erano gli ospedali, i monti frumentari
e di pietà, a dimostrazione che dopo la Controriforma si pose al centro
d'attenzione anche la pubblica assistenza e l'esercizio di atti di carità
cristiana verso il prossimo. Nel loro complesso tutte le istituzioni
ecclesiastiche dell’epoca svolsero un’importante opera non solo assistenziale
ma anche economica con prestiti di capitali e sementi alle popolazioni rurali,
la formazione della dote matrimoniale alle ragazze povere e l’affitto di case e
terreni a canoni modici.
4g. I Santi abruzzesi vissuti nel XVI e XVII secolo.
Nei
secoli XVI e XVII nacquero in Abruzzo diversi soggetti che furono elevati agli
onori degli altari e contribuirono al rinnovamento della chiesa, com’era
auspicato dal Concilio tridentino.
Il
primo di essi fu San Camillo de Lellis che nacque a Bucchianico il 25 maggio
1550 e morì nel 1614. San Camillo fondò l’ordine
dei camilliani ed è considerato il patrono degli ospedali, degli infermieri e
dei malati. Il secondo personaggio è San Francesco Caracciolo che nacque a Villa
Santa Maria, il 13 ottobre 1563 e morì nel 1608.
Anche Francesco Caracciolo fondò un nuovo ordine religioso che da lui prese il
nome di caracciolini. Il terzo soggetto è il gesuita Alessandro Valignano che
nacque a Chieti, il 15 febbraio 1539 e
morì a Macau il 20 gennaio 1606. Durante la vita andò in missione in India e diverse
località dell’Asia Orientale tra cui Macau ove fondò un collegio gesuita e
morì. Il quarto soggetto d’origini abruzzesi elevato agli onori degli altari è
il beato Rodolfo Acquaviva, anch’esso missionario che nacque ad Atri il 2
ottobre 1550 e fu ucciso nel villaggio di Cuncolim (India) il 25 luglio 1583.
4h. Le feste religiose e di precetto
Un
altro aspetto interessante riguarda le feste religiose e di precetto che
nell’epoca in considerazione si dovevano celebrare in ogni parrocchia. Il loro
numero nel complesso era abbastanza elevato e variava da parrocchia a
parrocchia. La scelta delle feste da celebrare competeva a diverse autorità: la
curia pontificia, l’apparato statale viceregnicolo, i sinodi diocesani, le
Università e le singole comunità parrocchiali.
Il
sinodo dell’Aquila del 1581 prescrisse la celebrazione annua di 50 feste e di
precetto oltre alle ricorrenze domenicali. A sua volta il sinodo diocesano
teatino del 1616 alle feste dei Santi titolari di ogni parrocchia, alle
domeniche, il Corpus Domini, la Pasqua, l'Ascensione, le Pentecoste, Natale e i
due giorni successivi aggiunse altre ricorrenze festive di precetto
raggiungendo la cifra totale di 90 giorni dell'intero anno liturgico. Nelle
altre diocesi abruzzesi si ebbero situazioni simili caratterizzate da un
notevole numero di giornate festive. Queste scelte miravano a rinforzare le
pratiche di culto e la conoscenza della religione cattolica in un periodo in
cui era molto acuta la lotta al protestantesimo e a tentare di eliminare o
perlomeno ridurre le deviazioni pagane ancora insite nella religiosità
popolare.
4i. I matrimoni.
Un
altro interessante aspetto della vita sociale e religiosa del periodo in
considerazione riguarda i modi di celebrazione dei sacramenti e in particolare
di quello del matrimonio che oltre a seguire le norme emanate dal Concilio di
Trento, si organizzavano nel rispetto di usi e consuetudini locali. In generale
i sinodi diocesani dell’epoca prescrivevano che le coppie non avessero rapporti
sessuali prima della benedizione in chiesa, si esortavano i genitori e parenti
a controllarle e si definivano gli obblighi dei sacerdoti e i rituali da
seguire durante la celebrazione in chiesa. A tal proposito durante il sinodo
diocesano teatino del 1581 si prescrisse che: 1) i matrimoni non potevano
essere contratti se prima non si erano fatte le tre "monitioni"
(pubblicazioni) nella chiesa parrocchiale della donna in tre giorni festivi non
consecutivi; 2) durante la cerimonia il sacerdote officiante doveva fare in
modo che lo sposo prendesse la mano della sposa e dopo, ponendo sopra le loro
mani anche la sua in segno di croce, doveva affermare: "Conjungo vos in matrimoni in nomine Patri,
Filii et Spiritus Sancti"; 3) vietò che le giovani coppie avessero
rapporti prematrimoniali e si esortarono i loro parenti a controllarli.
Nei
sinodi di altre diocesi si affermarono prescrizioni simili.
Dalla
consultazione di vari atti notarili dell'epoca è emerso che i matrimoni erano preceduti
da trattative, spesso erano combinati con il concorso di amici e parenti e non
rappresentavano sempre la libera volontà di due giovani che decidevano di vivere
insieme.
Ad
avviso di MORELLI (1988) nella diocesi aquilana della seconda metà del XVI
secolo, molti matrimoni avvenivano per contratto e talvolta passavano mesi
prima che coppie iniziassero a convivere.
Un aspetto dei matrimoni cinque-seicenteschi
era costituito dall'assegnazione di dote al fine di facilitare la vita iniziale
della futura coppia, indennizzare la sposa
dell'eredità dei genitori in occasione del suo distacco dalla famiglia di
origine e la tutela della moglie grazie alla cessione al marito dell’usufrutto
sui beni dotali. Quando i matrimoni avvenivano tra giovani appartenenti
a famiglie benestanti, i parenti della sposa le assegnavano la dote ufficializzandola
in accordi scritti noti col nome di "capitoli matrimoniali", che si
ufficializzavano in appositi atti notarili. In generale, nei capitoli
matrimoniali consultati si sono rinvenute formule comuni riguardanti
essenzialmente la promessa di matrimonio nel rispetto delle leggi della Chiesa,
l’elenco dei beni costituenti la dote della sposa, le modalità e i tempi di
consegna della stessa, gli impegni da rispettare nell'eventualità che uno dei
due sposi morisse prima di contrarre il matrimonio e la promessa di
restituzione dei beni ricevuti. Ovviamente,
se il matrimonio non si celebrava, si annullavano tutti i patti precedentemente
concordati.
4l. La caccia alle streghe in Abruzzo.
Anche
l’Abruzzo nell’epoca in esame fu caratterizzato dall’ondata repressiva contro la
stregoneria e le persone che la praticavano. La bibliografia in merito offre
un’ampia casistica di soggetti che dopo la Controriforma fu accusata di
praticarla e, di provvedimenti intrapresi per scongiurare il fenomeno. Di tali
fatti in questo saggio se ne riportano alcuni abbastanza significativi.
A Penne nel 1584 fu organizzato un rogo multiplo contro persone accusate di stregoneria.
Nel
1612 una donna accusata di essere una strega dopo aver subito il carcere e la
tortura fu condannata a stare in ginocchio con un cero in mano davanti alla
porta della cattedrale di Teramo durante i giorni festivi.
Nel
1619 a Giulianova una donna precedentemente accusata di stregoneria fu
processata da un tribunale ecclesiastico, imprigionata, torturata e arsa viva.
Nel
sinodo diocesano teatino del 1636 si minacciarono di scomunica: "magi, striges" e tutti coloro che
si fossero serviti dei sacramenti e dell'Olio Santo per pratiche superstiziose,
cerimoniali magici, malefici e per arrecare danno al prossimo mediante
l'invocazione del demonio.[19]
Nel 1668 a Chieti fu denunciata al Sant’Ufficio una
donna che non liberava da una presunta fattura l’ex amante della figlia.[20]
Nel 1690 il vescovo di Lanciano fece arrestare e
processare un uomo accusato di stregoneria.
5. Bibliografia consultata e di riferimento
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vol. I, Venezia, 1717.
[1]
La Regia Camera della
Sommaria era un’istituzione statale del Regno di Napoli a cui erano
affidate funzioni giuridiche in ambito amministrativo, finanziario e fiscale.
[2] Sta in ROSA M., La Chiesa meridionale nell’età della
Controriforma.
[3]
Con il termine “Civium
Universitas” o più semplicemente “Università”, nel Regno di Napoli,
durante il Medio Evo e l’Età Moderna s’indicavano gli enti assimilabili ai
Comuni dell’Italia contemporanea.
[4] Il termine prammatica nel Regno di Napoli era
sinonimo di norma di legge.
[5] In particolare
il rapporto tra il clero ed i condannati al patibolo si presta ad alcune
importanti considerazioni. Il trasgressore delle leggi statali era considerato
reo anche dalla Chiesa a cui aveva inferto una ferita da ricucire con il
pubblico pentimento, la confessione e la richiesta di assoluzione. Il reo
confesso che si pentiva, subiva la punizione prevista dalle leggi statali ma il
suo pentimento salvaguardava anche l'interesse della Chiesa che era interessata
alla redenzione dell'anima. L'ammissione della colpa e la confessione
legittimava l'esercizio dell'autorità statale. Ciò non significa che la Chiesa
era in errore nella sua pretesa di redimere l'anima di un presunto o reale
fuorilegge, ma costringendolo a confessare le sue colpe prima di salire sul
patibolo rafforzava l'autorità statale e giustificava i suoi metodi repressivi.
[6] All’epoca la
popolazione contadina che aveva scarse risorse materiali non poteva fare a meno
di lavorare i campi durante le giornate festive per non pregiudicare le proprie
possibilità di sopravvivenza materiale.
[7]
A tal proposito Gaetano Salvemini, nel 1911 in un articolo sulle
caratteristiche dei sacerdoti meridionali scrisse: “Prima del 1860 e negli anni immediatamente successivi, la grande
ambizione delle famiglie che avessero un po' di terra al sole o che aspiravano
ad elevarsi socialmente era di avere un figlio prete. Nella famiglia che
otteneva questa grazia dal Signore, l'avito fondicello ritrovava ben presto un
fratellino. E se la seconda generazione riusciva a produrre un altro prete la
famiglia entrava addirittura tra le case notabili del paese. La terza
generazione arrivava finalmente al canonico, con cui cominciava quasi la
nobiltà” (in: De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, pagg.
200-203.
[8] Sta in Carusi E., Appunti di storia ecclesiastica abruzzese. Atti sinodali di G. P.
Carafa vescovo di Chieti.
[9] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, origini, storia, attualità., pagg.96-98.
[10] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag. 99.
[11] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag.103.
[12] Relazione del P.
Dionisio Vasquez al P. Francesco Borgia, Generale della Compagnia di Gesù,
Teramo 1571, in P. TACCHI VENTURI, Storia
della Compagnia di Gesù in Italia, tomo I, Civiltà cattolica, Roma 1931, p.
367.
[13] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag. 115.
[14] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag. 113,
[15] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag.108.
[16] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pagg. 337-338.
[17] Durante le
epidemie non era possibile assicurare sempre il funerale per tutti i deceduti.
Il tema della buona morte, invece, cristiana rispondeva all'esigenza di
rinnovamento pastorale promosso dal Concilio di Trento che confermò l’esistenza
del Purgatorio e il fatto che le indulgenze e i suffragi consentivano di
restarci il meno possibile.
[18]Tanturri A. Le Confraternite del Monte dei Morti
nell’Arcidiocesi di Chieti, in Ricerche di storia sociale e religiosa,
fasc.30, pag. 83.
[19]Giancristofaro E.,
Folklore e magia in alcuni sinodi diocesani di Penne, Atri, L'Aquila e Chieti
nei secoli XVII, XVIII, XIX, pag. 19.
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