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17 novembre 2022

Amelio Pezzetta: La Chiesa e la vita religiosa in Abruzzo durante Il Viceregno Spagnolo (1503-1707).

1.      Stato, Chiesa e vita religiosa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il dominio spagnolo dell’Italia Meridionale iniziò nel 1503 con Ferdinando il Cattolico e si concluse il 7 luglio 1707 quando le truppe austriache entrarono a Napoli e il Regno passò agli asburgici.

Durante i due secoli di dominio, i monarchi spagnoli delegarono l’amministrazione del Regno a un viceré, non favorirono lo sviluppo del paese, lo appesantirono con un’esosa pressione fiscale e conservarono la sua natura di stato feudale. Nell’epoca in considerazione i baroni vecchi e nuovi conservarono l’ampio potere amministrativo-giudiziario di cui godevano e ampliarono i possedimenti feudali; la chiesa rafforzò il suo potere e prestigio morale e politico; i rappresentanti della borghesia iniziarono la loro ascesa acquisendo prestigio nell’amministrazione civica, l’economia e le libere professioni; i ceti più umili continuarono a vivere in generalizzate condizioni di asservimento e d’indigenza.

Il Regno di Napoli era uno stato vassallo della Chiesa che il papa assegnava a chi assecondava i suoi piani di potere temporale e le sue finalità spirituali. Al momento dell'investitura Ferdinando il Cattolico riconobbe lo stato di vassallaggio con tutte le condizioni a esso connesse tra cui il versamento al pontefice del censo annuale di 8000 once d’oro e l’omaggio della chinea. Ai fini di conservazione del potere, per gli spagnoli l'alleanza con la Chiesa era indispensabile nonostante la condizione di asservimento e il suo alto costo in termini economici.

Nel Regno di Napoli gli spagnoli assunsero nei confronti della Chiesa due atteggiamenti: da un lato se ne servirono per rafforzare il potere; dall'altro pur riconoscendole privilegi e diritti, non assecondarono tutte le sue pretese e talvolta anziché respingerle frontalmente, le attaccarono di fianco. In particolare gli spagnoli non si opposero alle pretese della Chiesa quando erano enunciate nei concili o con le bolle, ma ostacolavano la loro attuazione se contrastavano con gli interessi dello Stato. Un esempio in tal senso è costituito dall'atteggiamento che assunsero nel 1568 con la pubblicazione della bolla "In coena Domini" con cui il papa Pio V voleva riaffermare il primato della chiesa e far presente che le ingiuste imposizioni fiscali erano moralmente perseguibili. In realtà per i suoi particolari contenuti era un chiaro tentativo di violazione dei diritti sovrani di uno Stato laico e fu utilizzata per la difesa dei privilegi e interessi clericali dalle autorità civili. Infatti, la bolla consentiva alle autorità clericali di ricorrere all’arma della scomunica anche nei confronti degli amministratori zelanti che volendo far applicare le norme statali in materia tributaria minacciavano il patrimonio ecclesiastico. In particolare essa minacciava di scomunica coloro che: appoggiavano gli eretici; sostenevano la superiorità dei concili rispetto al sommo pontefice; imponevano nuove tasse al clero o aumentavano quelle già esistenti senza l'approvazione della Camera apostolica; violavano le immunità ecclesiastiche sulla base del principio  che non si fondavano sul diritto divino; impedivano agli ecclesiastici l'esercizio della loro giurisdizione anche contro i laici, l'esecuzione dei rescritti di Roma e l'esazione delle tasse della Chiesa. Il governo spagnolo, nel rispetto dell’atteggiamento politico verso la chiesa precedentemente delineato, quando la bolla fu promulgata non si oppose, ma in seguito cercò di ostacolarne la diffusione e conoscenza.

Tenuto conto degli aspetti generali enunciati, il presente saggio prosegue con l’esposizione sintetica di alcuni significativi aspetti del rapporto Stato-Chiesa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il 29 giugno 1529 il papa Clemente VII e il re Carlo V firmarono il trattato di Barcellona in cui al sovrano spagnolo fu concesso il diritto di presentare i vescovi di 24 diocesi di regio patronato del viceregno napoletano. L’accordo prevedeva che nell’Italia Meridionale l’amministrazione diocesana potesse essere affidata anche a presuli non indigeni e di conseguenza alcune di esse iniziarono a essere rette da prelati d’origine spagnola.

Nel 1541 un decreto della Regia Camera della Sommaria[1] deliberò che i chierici avevano diritto alle esenzioni fiscali sui seguenti beni stabili e di consumo: 1) i territori ecclesiastici e gli animali utilizzati nel lavoro agricolo o come cavalcatura dai chierici e i loro famigliari; 2) l'acquisto di generi alimentari e capi d'abbigliamento. Nello stesso anno, un altro decreto fissò le quantità massime di merci che i chierici potevano acquistare in franchigia: un rotolo di carne giornaliero (circa 0,9 kg), 2,5 tomoli di grano l'anno (1250 kg), 30 rotoli di formaggio l'anno (circa 27 kg), 3 staia d'olio annui (circa 30,2 litri), due botti di vino annui (circa 1047 litri e 40 rotoli di carne da salare annui (circa 36 kg)[2]. Le immunità fiscali furono elargite anche ai coloni delle chiese e agli oblati che donavano beni ai monasteri, non ne riservavano per loro stessi e vi andavano a vivere. Siccome i sacerdoti non pagavano le tasse, i vescovi che favorivano le ordinazioni al di sopra delle necessità delle diocesi che governavano, furono ritenuti dei benefattori. Molti ecclesiastici nel corso del secolo grazie ai privilegi accumulati, incentivarono l'evasione fiscale e cercarono di coinvolgere anche i laici nelle esenzioni da loro godute. Un esempio in tal senso è rappresentato dalle donazioni fittizie di beni immobiliari che i laici facevano agli ecclesiastici allo scopo di non pagare le tasse sul patrimonio. Conseguenza dei fatti accennati è che aumentarono a dismisura gli ecclesiastici nel Regno di Napoli, mentre si contrassero i beni passibili di tassazione e le rendite dello Stato. Contro questo stato di cose le autorità civili cercarono di limitare il numero delle ordinazioni, gli amministratori locali presero numerose iniziative e inoltrarono numerosissimi ricorsi alle autorità centrali affinché prendessero opportuni provvedimenti tendenti a limitare il fenomeno. Purtroppo tutti i tentativi per porre rimedi alla situazione non portarono ai risultati sperati, poiché l'azione del governo non fu molto decisa e di conseguenza gli abusi continuarono a essere perpetrati.

Nel XVI secolo i chierici del Regno di Napoli percepivano rendite molto diverse: la congrua, i diritti di stola, le decime e i redditi censuari da terreni, da fabbricati, beneficiali, da messe, ecc. Nonostante questi benefici e vari provvedimenti favorevoli, molti chierici delle campagne dell’Italia Meridionale non avevano un adeguato benessere economico e talvolta coltivavano i terreni in loro possesso.

La religione nel secolo è un aspetto importantissimo dell'attività statale e amministrativa. I re di Spagna si considerarono ardui difensori del cattolicesimo e in tutti le istituzioni statali dei loro domini fecero obbligarono i funzionari a esercitarsi in pratiche di culto. Infatti, gli ufficiali pubblici intervenivano in forza alle funzioni sacre, i giudici prima di entrare in seduta ascoltavano la messa, i reggimenti avevano i loro cappellani, nelle carceri dovevano esercitarsi pratiche di culto, la bestemmia era considerata un reato e lo Stato ordinava che si facessero pubbliche preghiere. A livello locale le Università[3] possedevano il diritto di patronato di cappelle laicali e chiese, fornivano alle chiese stesse indumenti sacri, cera ed ostie e pagavano al clero le messe celebrate pro populo.

Con una prammatica del 5 gennaio 1571 il viceré De Rivera ordinò ai parroci di registrare tutti i battezzati in un libro e la parrocchia iniziò ad assolvere anche a funzioni d'anagrafe civile[4].


2.      Il Concilio di Trento

Nella prima metà del XVI secolo la Chiesa di Roma sul piano dottrinale trovò a fronteggiarsi con le tesi protestanti enunciate da Martin Lutero e a reagire alla sua ondata riformatrice fornendo un’adeguata risposta dottrinale. Per questi motivi fu organizzato il Concilio di Trento che si svolse dal 1545 al 1563.

Nel 1564 il papa Pio IV fece pubblicare le conclusioni conciliari che nel loro complesso con la riconferma di vari dogmi e il numero dei sacramenti, dimostrano che sul piano dottrinale non fu fatto nessun cedimento alle controverse tesi luterane. Ai fini del presente saggio hanno un notevole interesse i dettami conciliari che ebbero notevoli riflessi sulla vita religiosa locale, erano finalizzate a moralizzare la Chiesa, resero più incisivo il messaggio cristiano e dettarono le norme e i comportamenti a cui il clero doveva attenersi.

Il rinnovamento della fede e devozione popolare, secondo il concilio di Trento, si doveva attuare con un'azione pastorale che prevedeva essenzialmente: a) un'obbedienza cieca alla gerarchia ecclesiastica; b) il ruolo centrale della parrocchia nella vita religiosa della propria circoscrizione; c) un'attività catechetica più fitta; d) una maggiore diffusione delle missioni; e) un maggior esercizio della pietà individuale. Quale conseguenza della riaffermazione dei principi e dogmi di fede fu proibita la circolazione di libri e stampe devianti dalla teologia, dottrina e morale conciliare. Pertanto nel 1559 e nel 1564 fu pubblicato un "indice" dei libri proibiti, mentre nel 1587 fu istituita una "Congregazione dell'Indice" al fine di vigilare su tutto ciò che si stampava.

Il Concilio prescrisse a tutti gli ecclesiastici l’obbligo del celibato e il divieto di accumulare benefici. Ai vescovi riaffermò che i loro principali doveri erano la cura delle anime e il governo della diocesi. Pertanto li obbligò a risiedere stabilmente nelle diocesi stesse e a visitare periodicamente le sue parrocchie. Con questa norma s’istituzionalizzarono e resero obbligatorie le visite pastorali dette anche sante visite. Durante la loro esecuzione i vescovi: 1) esercitavano il controllo amministrativo, morale e religioso su parrocchie, chiese, confraternite, luoghi pii ed altri enti ecclesiastici che ricadevano nella loro giurisdizione territoriale; 2) favorivano la diffusione dei dettami riformatori, correggendo le devianze e gli eventuali abusi. In particolare durante le visite essi erano tenuti a: fare osservazioni sul comportamento dei sacerdoti; amministrare la cresima, fornire disposizioni in materia dottrinale e di fede; richiamare al rispetto dei legati pii; esaminare lo stato dei fedeli, la manutenzione delle chiese, degli altari, dei libri liturgici, i registri parrocchiali.

Nel 1563 il Concilio prescrisse per i vescovi anche l’obbligo di celebrare il sinodo diocesano almeno una volta l’anno ai fini di un maggior controllo della vita religiosa locale e imporre l’osservanza dei dettami conciliari.

Durante le sessioni del concilio tridentino si fissarono anche i principali obblighi dei rettori di parrocchie: risiedere nelle loro sedi, conoscere i propri fedeli, avere cura dei poveri, predicare il Vangelo, esporre con chiarezza le letture durante la messa, far conoscere il decreto sui matrimoni clandestini, insegnare la dottrina cristiana ai fanciulli, spiegare il valore e l'uso dei sacramenti, raccomandare l'osservanza del digiuno e delle feste di precetto, conservare i registri parrocchiali, partecipare ai sinodi diocesani, osservare l'ospitalità.

Al concilio di Trento risale anche l'istituzione dei seminari e l'emanazione di norme che spingevano a un maggior rigore nell'ammissione agli ordini sacri. Ad avviso dei riformatori tridentini i seminari dovevano assolvere a due importanti funzioni: migliorare la preparazione del clero che all’epoca in gran parte era descritto come rozzo ed ignorante; fornire allo stesso gli strumenti culturali e religiosi utili per competere e controbattere le tesi dei predicatori protestanti.

Per quanto riguarda le ordinazioni sacre si stabilì che ogni aspirante sacerdote doveva dimostrare di avere i mezzi per mantenersi autonomamente senza i frutti di qualche beneficio ecclesiastico. L’insieme dei beni necessari per l’ordinazione fu definito patrimonio sacro. Il Concilio di Trento non prescrisse il suo valore minimo, mentre nel Regno di Napoli fu fissato a circa trenta ducati. La necessità che ogni aspirante al ministero ecclesiastico avesse una propria rendita non era tesa (almeno nelle intenzioni) a limitare le ordinazioni solo ai sacerdoti provenienti da famiglie benestanti, bensì a impedire che accedessero agli ordini sacri gli individui privi di vocazione che erano interessati a vivere con qualche beneficio ecclesiastico e avere la certezza che, in assenza di benefici ecclesiastici, l'ordinato potesse avere mezzi propri utili a condurre un'esistenza decorosa.

Al concilio tridentino risale la ripartizione del territorio diocesano in foranie, particolari distretti ecclesiastici che comprendono tutte le parrocchie dei Comuni che vi sono inseriti. A dirigerle fu posto un sacerdote chiamato "vicario foraneo" a cui il vescovo delegava il controllo sugli altri parroci. In seguito alla loro istituzione, il clero foraneo fu obbligato a incontri periodici per esaminare le condizioni generali delle parrocchie, discutere sulle iniziative pastorali da intraprendere e rafforzare la collaborazione tra sacerdoti.

Nel Concilio di Trento si affermò che la vita sessuale era lecita solo con il matrimonio e se subordinata alla procreazione. Di conseguenza il peccato della carne acquisì una notevole importanza e onde prevenirlo, tramite i sinodi diocesani e le omelie in chiesa furono impartite rigide disposizioni sui comportamenti da osservare prima e dopo la celebrazione del rito in chiesa.

Un altro importante aspetto trattato fu il problema della santità al fine di caratterizzare i modelli esemplari di condotta e vita cristiana. Il concetto di santità che si affermò fu imperniato sui seguenti valori: la macerazione della carne, l'obbedienza alla gerarchia cattolica, la rinuncia ai beni materiali e la dedizione alla cura e redenzione delle sofferenze del prossimo. 

 


3.      La vita religiosa nel Regno di Napoli durante il XVII secolo

In questo periodo la Chiesa con le sue organizzazioni e il suo esercito armato dalla parola di Dio era presente ovunque: nelle potenti corti dei principi, nelle feste dei nobili e dell'alta società, nei lazzaretti, lebbrosari, nelle carceri, accanto ai malati ed alle persone sofferenti, ai condannati al patibolo e gli incarcerati[5].

Dal XVI secolo anche nel Regno di Napoli l’attività missionaria e di propaganda fide fu intensificata al fine di correggere una profonda ignoranza religiosa che si esprimeva in credenze superstiziose, l'incapacità di recitare le preghiere più elementari e l'inosservanza di molti precetti tra cui quello del riposo festivo[6]. I principali attori delle missioni popolari furono i vari Ordini religiosi vecchi e nuovi di recente fondazione. Uno di essi fu la Compagnia di Gesù, comunemente nota con il nome di ordine dei gesuiti, che offrì un efficacissimo strumento per dirigere la riconquista spirituale dell'Italia meridionale. I missionari gesuitici e non si spinsero nei centri più isolati del Regno per predicare il Vangelo, favorire una più profonda comprensione e adesione al messaggio cristiano e modificare gli aspetti di religiosità popolare caratterizzati da credenze superstiziose e riti paganeggianti.

Le missioni furono affiancate più o meno ovunque da una profonda ondata repressiva in materia di religione, morale e costume contro gli eretici o presunti tali, la vita sessuale libera, i matrimoni illeciti, la stregoneria e i comportamenti incompatibili con i modelli di cristianità tridentini. Un suo particolare aspetto fu l'intensa caccia alle streghe e ai veri o presunti possessori di poteri malefici che portò al rogo un gran numero di persone tra cui anche alcune innocenti. Poiché all'epoca la superstizione era un fenomeno dominante, chiunque praticasse il più innocente scongiuro era passibile di essere accusato di stregoneria. Nel Regno di Napoli l’attività inquisitoria fu condotta essenzialmente dai vescovi poiché l'Inquisizione romana facente capo direttamente al Sant’Uffizio non aveva giurisdizione, nonostante il tentativo d’introdurla che il viceré Pedro di Toledo promosse nel 1532.

Nonostante l'attività repressiva e l'opera di propaganda fide, nell’Italia meridionale la religiosità pur manifestando alcuni segni di cambiamento, non si adeguò completamente ai canoni tridentini. I motivi dello status quo religioso-culturale sono da attribuirsi all'isolamento geografico e culturale di molte comunità, il rifiuto dei parroci e vescovi eccessivamente tridentini e il fatto che nell'Italia meridionale non c'era stata una Riforma cui opporre una Controriforma. Di conseguenza la religiosità si manifestò con caratteristiche variegate; ogni piccola comunità continuò a coltivare i propri culti a cui lentamente sovrappose nuovi modelli e tradizioni. La religione continuò a essere presente in tutti i momenti della vita dell'uomo. Le persone dell’epoca avevano una concezione utilitaristica della fede: pregavano e facevano l'offerta in chiesa o al santo a cui erano devote nella speranza di ottenere protezione per sé stesse e le proprie cose; con i santi intessevano particolari rapporti; ai loro occhi le statue si animavano e i santi che rappresentavano diventavano personaggi viventi con cui dialogare e stringere patti per il futuro. Spesso, le feste religiose dell’epoca erano organizzate all'insegna della teatralità, con grandi processioni dal suggestivo aspetto coreografico ed il senso dello spettacolo che spesso sovrastava quello della fede. La teatralità dominava anche la celebrazione della messa con frequenti canti, preghiere, benedizioni, ecc. Le ricorrenze religiose scandivano la vita nelle campagne, i momenti di lavoro o riposo e l'apertura e chiusura dei principali cicli agrari stagionali. Le chiese erano sempre stracolme e in prima fila contenevano posti riservati per i nobili, i possidenti, i borghesi e i membri delle amministrazioni locali.

Grazie al forte impulso dei dominicani, francescani e gesuiti, nel XVII secolo si diffuse la devozione mariana. A causa di ciò: 1) furono realizzate moltissime chiese e cappelle intitolate alla Madonna; 2) la sua figura si frammentò in tantissime Madonne locali ognuna con una propria denominazione, funzione protettiva e mitologia; 3) in linea con le immagini e le tendenze culturali dell’epoca, la madre di Dio fu rappresentata piangente, col cuore trafitto, vestita di lusso, etc.

Il XVII secolo fu dominato anche da credenze e grandi paure religiose condivise da tutte le classi sociali (la paura della morte, della dannazione eterna e il complesso di colpa) che spinsero a fare donazioni alla chiesa e a fondare enti ecclesiastici, cappelle e oratori. Gli atti notarili dell'epoca documentano queste tensioni morali e sono uno specchio fedele dell’esistenza di queste forme di devozione e pratiche religiose. In particolare, la diffusione di carestie e morbi che mietevano vittime erano considerati castighi divini, mentre il merito della loro liberazione era sempre un evento soprannaturale che si attribuiva a Dio e ai santi. A tal proposito la peste del 1656 che in diverse zone del Regno provocò l’impressionante calo demografico di oltre il 50%, fu ritenuta la manifestazione della volontà di Dio di voler punire i peccatori. Di conseguenza per liberarsene in molte località fu invocato l'intervento soprannaturale, furono organizzate processioni, litanie, forme di pentimento collettivo e si diffusero i culti per San Rocco e San Francesco Saverio a cui le credenze popolari attribuivano poteri protettivi contro il morbo.

Un altro aspetto di grande interesse riguarda la preparazione del clero. Grazie ai seminari diocesani, il clero secolare post-conciliare iniziò a essere culturalmente più preparato rispetto ai secoli precedenti. Al miglioramento della preparazione culturale del clero e dell'incisività della sua azione pastorale contribuirono anche i seguenti volumi che videro la luce nella seconda metà del XVI secolo: il Catechismus romanus pubblicato nel 1567, il Breviarum Romanus apparso nel 1568 e il Missale romanum che fu dato alle stampe nel 1570.

Nel 1694 il papa Innocenzo XII emanò norme molto severe riguardanti la condotta di vita dei sacerdoti secolari stabilendo che: 1) dovevano essere modelli irreprensibili di vita; 2) non potevano vivere con donne, affittare case ai laici, portare armi ed esercitare uffici di procura e avvocato presso tribunali laici; 3) erano tenuti a celebrare in modo adeguato le messe; 4) dovevano assistere i propri fedeli con le pratiche di devozione, le messe, i conforti religiosi nei momenti salienti della vita, ecc.

All’epoca tanti aspiranti sacerdoti, nella scelta della vita clericale erano guidati da interessi, motivazioni e ambizioni famigliari anziché da una sentita vocazione religiosa. Infatti, le aspirazioni famigliari a ottenere privilegi, ridurre i tributi, non dividere la proprietà e accrescere il prestigio socio-economico erano forti motivazioni che spingevano alla carriera ecclesiastica[7]. Ogni famiglia possidente faceva in modo che un proprio membro fosse ordinato sacerdote per intestargli la maggior quantità possibile di beni richiesti per l'ordinazione e avere uno strumento legale per eludere il fisco.

A partire dalla seconda metà del XVI nel Regno di Napoli iniziò anche la diffusione più capillare delle Confraternite, particolari associazioni di fedeli che furono oggetto di numerose donazioni e promossero la mutua assistenza tra gli iscritti, la celebrazione di feste religiose, nuove forme di religiosità popolare, devozione, pietà e carità cristiana. Esse condizionarono l'attività dei parroci a cui imposero i loro culti e spesso un cristianesimo esteriore, celebrato e non vissuto. Tali organizzazioni, insieme a vari ordini religiosi promossero la diffusione anche di opere pie tra cui gli ospedali per perseguire le seguenti finalità: fornire l'assistenza materiale agli indigenti in mancanza di assistenza pubblica statale e mettere in condizione i fedeli di acquisire attraverso le opere misericordiose, i titoli necessari per guadagnare la salvezza eterna.

 In linea con i decreti tridentini e nel 1604 il papa Clemente VIII, fissò le norme per la  fondazione delle confraternite, facendole rientrare nella giurisdizione vescovile (Bono 1988). Di conseguenza agli ordinari diocesani fu assegnato il controllo amministrativo sulle stesse e ogni loro operazione finanziaria doveva avere la loro autorizzazione vescovile. Alcune associazioni confraternali che nell’epoca ebbero una larga diffusione furono le seguenti:

- la Confraternita del Santissimo Rosario che nel Regno di Napoli iniziò a diffondersi intorno al 1525 grazie all'opera dei Domenicani e ricevette un grande impulso nel 1571, quando il papa Pio V istituì la festa del Rosario:

- la Confraternita del Santissimo Sacramento o del Corpo di Cristo che iniziò la sua diffusione più capillare nel 1539, anno in cui fu fondata a Roma;

- la Confraternita del Monte dei Morti le cui finalità essenziali erano l’assicurazione ai propri adepti di un decente funerale e una buona morte cristiana.

Nella seconda metà del XVI secolo, ad avviso di NAYMO (2013) si registrò un sorprendente incremento anche di fondazioni beneficiali di patronato, ovvero oratori privati, cappelle laicali e ufficiature perpetue nelle chiese. I loro fondatori si riservavano il diritto di nominare il sacerdote che officiava le funzioni sacre e attraverso l'esercizio di questa prerogativa riuscivano a controllare l'attività parrocchiale.

Le cappelle laicali consistevano in altari disposti lungo le pareti laterali delle chiese e nelle loro vicinanze di solito erano poste le tombe famigliari dei fondatori. Le loro fioriture furono notevoli nella prima metà del XVII secolo, iniziarono a ridursi nei decenni successivi e sono indicatori di due diversi fenomeni socio-religiosi. Innanzitutto documentano un’attenzione ai temi religiosi e al modo particolare in cui si manifestavano nel corso del secolo. Inoltre poiché una gran parte di esse fu fondata dai membri della borghesia, sono esempi dimostrativi del benessere economico e prestigio sociale che i membri di tale classe sociale avevano acquisito.

Alle istituzioni fondate, di solito si assegnava un patrimonio iniziale costituito da beni immobili (case e terreni) e diritti di riscuotere prestazioni periodiche. Esso poteva arricchirsi con altre donazioni, acquisti di beni e operazioni finanziarie condotte dai legittimi patroni o i procuratori, ovvero i soggetti scelti dai fondatori per l’amministrazione dei beni. Le rendite connesse al patrimonio assegnato si utilizzavano per: prestiti in denaro contante; le officiature di messe; l’acquisto di arredi sacri, la cura dell'aspetto esteriore degli altari con fiori, tovaglie, candele; la celebrazione della festa del santo a cui esse erano intitolate e in certi casi anche per opere di beneficienza. Grazie anche a queste rendite nella chiesa seicentesca circolò una maggior quantità di beni che permise di abbellirle e arricchirle con  arredi sacri.

Molto spesso i procuratori di chiese, monasteri, cappelle laicali, confraternite e monti di pietà s’impegnarono in operazioni di prestito di denaro contante a tassi agevolati che, nel rispetto di una bolla del papa Niccolò V dovevano oscillare tra il 7 e il 10%. In questi casi chi riceveva il prestito, ipotecava un proprio bene e s’impegnava a versare annualmente un canone corrispondente alla quota d’interesse pattuita. I pagamenti potevano durare molti anni ed essere trasmessi agli eredi. La loro estinzione avveniva nel momento in cui il beneficiario del prestito restituiva tutta la cifra ricevuta.

Queste istituzioni assicuravano ai fondatori diversi vantaggi e diritti. Di solito a essi si concedeva il diritto di nominare i sacerdoti che ufficiavano le funzioni sacre e di avere proprie insegne e posti riservati in chiesa, due fatti che contribuivano ad accrescere il prestigio sociale e comunitario. Spesso i sacerdoti scelti per la celebrazione delle funzioni sacre appartenevano alla cerchia famigliare dei fondatori stessi. In questo modo i beni assegnati alle cappelle continuavano a restare nell’ambito del patrimonio famigliare e si arricchivano del vantaggio di non essere soggetti a obblighi fiscali.

Nel corso del secolo il sogno tridentino di rinnovamento e della parrocchia quale principale centro della vita religiosa nell'Italia meridionale fu di difficilissima attuazione e non riuscì a realizzarsi a causa di vari e complessi fattori. Uno di essi era il fatto che nelle chiese di patronato, il clero parrocchiale continuava a dipendere dai baroni, le Università e le famiglie gentilizie, subendone i condizionamenti legati a interessi materiali e di potere. Nelle chiese ricettizie dotate di una massa comune di beni, il clero era molto geloso delle sue prerogative d’autonomia e pertanto l'autorità vescovile si esercitava con molta fatica.

Nonostante il notevole impegno degli ordinari diocesani, dei missionari e la coerente applicazione dei dettami conciliari non si riuscirono a reprimere neanche tutte le forme di devozione popolare dagli aspetti più paganeggianti. 

 


 4.      La chiesa abruzzese durante il viceregno spagnolo.

 

      4a. Le diocesi abruzzesi

Nell’epoca in esame dal punto di vista dell’organizzazione ecclesiastica l’Abruzzo era molto articolato e l’amministrazione diocesana non toccava tutte le località regionali. Infatti, accanto alle circoscrizioni diocesane esistevano importanti monasteri ed enti ecclesiastici pontifici che erano sottratti al controllo vescovile, dipendevano dalla Santa Sede e nel loro insieme possedevano vasti territori con la relativa giurisdizione sugli uomini e le chiese presenti.  

All’epoca l’Abruzzo odierno fu ripartito nelle seguenti diocesi: Atri-Penne, Avezzano o dei Marsi, Chieti, L’Aquila, Lanciano, Ortona (dal 1600 Campli-Ortona) e Sulmona-Valva. Alcune parrocchie erette in località abruzzesi furono inserite nelle diocesi di altre regioni. Infatti, alla diocesi molisana di Trivento appartenevano le parrocchie di vari Comuni delle Province dell’Aquila e di Chieti, mentre a quella marchigiana di Montalto, alcuni Comuni del teramano.

Le diocesi di Atri e Penne furono unificate durante il Medio Evo. Il primo vescovo conosciuto dopo l’unificazione è Beraldo che amministrò la diocesi dal 1252 al 1263. Invece il primo vescovo dell’epoca in esame fu Giovanni Battista Valentini Cantalicio che la tenne dal 19 novembre 1503 al 1514, l’anno della sua morte.

Il 27 giugno 1515 il papa Leone X fondò la diocesi di Lanciano e il suo primo vescovo fu Angelo Maccafani .

A Ortona la sede vescovile soppressa nel VII secolo, fu ripristinata il 20 ottobre 1570 dal papa Pio V e affidata a Giandomenico Rebiba.

Nel 1580 il papa Gregorio XIII, con la bolla In suprema dignitatis apostolicae specula[ spostò a Pescina, la cattedrale e la sede vescovile della diocesi dei Marsi.

Il papa Sisto V il 24 novembre 1586 con la bolla Super universas, istituì la diocesi di Montalto e le assegnò una porzione di territorio appartenente a quella di Teramo.

Nel 1588 fu fondata la diocesi di Campli e al suo vescovo fu concessa la giurisdizione territoriale su località che in precedenza appartenevano alle diocesi di Teramo e Montalto. Il 12 maggio 1600 avvenne l’unificazione con quella di Ortona.

Nella prima metà del XVII secolo si riaccese la disputa tra Valva e Sulmona; la causa fu portata a Roma prima davanti alla Congregazione del concilio e poi alla Sacra Rota che nel 1628 decise che la circoscrizione vescovile doveva assumere la denominazione di diocesi di Sulmona-Valva.

Prima del Concilio di Trento generalmente le diocesi erano affidate a vescovi non residenti che le amministravano tramite loro delegati. Addirittura a L’Aquila nel 1515 fu nominato vescovo Giovanni Franchi che non aveva ricevuto nessun ordine sacro e nel 1523 si dimise per intraprendere la carriera militare. In seguito gli ordinari diocesani furono obbligati a risiedere nelle rispettive diocesi e operarvi spesso in condizioni di notevole isolamento geografico e giurisdizionale contro i baroni, l’amministrazione civile e il clero riottoso che si opponeva alle riforme e ai controlli imposti dai decreti tridentini.

Alcune diocesi furono affidate a presuli d’origine spagnola: Bernardo Sancio, Álvaro de la Quadra, Juan de Acuña, Francisco Tello de León, Juan Torrecillas y Ruiz de Cárdenas e Ignacio de la Cerda y Avendaño che ressero la diocesi aquilana; Juan Salazar Fernández, Antonio Gaspar Rodríguez, Francisco Romero, Alfonso Álvarez Barba Ossorio e Manuel de la Torre y Gutiérrez che s’insediarono a Lanciano; Cristoforo de los Rios che resse la diocesi di Sulmona-Valva. Alti presuli erano extraregnicoli e provenivano da località italiane centro-settetrionali.

In tutte le diocesi regionali furono istituiti seminari in cui fornire un’adeguata preparazione ai candidati al sacerdozio. In particolare nel 1568 Giovanni Oliva istituì il seminario a Chieti e Juan de Acuña lo fondò all’Aquila.

A Penne l’istituzione del primo seminario avvenne quando la diocesi era retta dal vescovo Tommaso Baldani (1599-1621). Il suo predecessore Orazio Montani che tenne la diocesi dal 1591 al 1598 a causa delle ristrettezze economiche affidò la preparazione degli aspiranti al sacerdozio a un maestro di sacra teologia degli eremiti di Sant’Agostino (RICCIOTTI 1988). Nel 1596 fu istituito un seminario a Teramo ma fu chiuso nel 1603 in seguito a un omicidio commesso da un giovane seminarista. Nel 1674 ci fu una nuova apertura favorita dal vescovo Giuseppe Armeni. Nel 1580 il vescovo Matteo Colli fondò un seminario a Pescina. Nel 1619 Il vescovo Francisco Romero istituì a Lanciano il seminario diocesano. Nel 1653 a Ortona il romano Carlo Bonafaccia unì al Seminario diocesano due fondi di monasteri agostiniani e celestiniani soppressi .

  

       4b. Le parrocchie

Nell'accezione moderna la parrocchia è la circoscrizione ecclesiastica costituita da un gruppo di fedeli affidati alle cure spirituali di un sacerdote che nella maggioranza dei casi è definito parroco. Il suo territorio può coincidere con quello di un comune, può comprendere più comuni oppure una solo una loro frazione.

All’epoca anche l’organizzazione e il tipo di parrocchie esistenti in Abruzzo erano molto variegate. Infatti, in ogni Università, per vari motivi ci potevano essere una o più istituzioni parrocchiali appartenenti alle seguenti tipologie: 1) le chiese ricettizie che erano caratterizzate una notevole autonomia amministrativa, un patrimonio di beni definito massa comune, un clero con più individui che godeva di tutti i benefici annessi alla struttura, attendeva alle impellenze dell'attività pastorale e conduceva vita comune; 2) le collegiate che raggruppavano più chiese e/o parrocchie governate da un collegio di chierici definiti canonici; 3) le parrocchie di libera collazione in cui il rettore era scelto direttamente dall’ordinario diocesano; 4) le parrocchie di patronato in cui i patroni sceglievano i rettori che poi dovevano avere l’approvazione vescovile. In molti casi le parrocchie erano definite arcipreture per indicare un loro prestigio derivante dall’antichità e dal fatto di avere o aver avuto le attribuzioni di chiesa matrice e di centro religioso di riferimento per altre chiese vicine.

A queste particolari tipologie parrocchiali erano legati vari problemi. I canonici delle collegiate di solito risiedevano stabilmente nel centro principale. Per questo motivo, accadeva che qualche suo componente a cui era affidata una parrocchia non le assicurava un'adeguata cura animarum e tutti i servizi liturgici. Tuttavia i canonici delle collegiate non erano gli unici a non risiedere nelle parrocchie in cui avevano la titolarità. Il fatto che esistessero parrocchie di patronato dimostra che il governo delle chiese locali era fortemente influenzato dai baroni, potenti famiglie o le Università. Di conseguenza i loro rettori oltre al potere vescovile dovevano assecondare il potere laico dei loro patroni. Le poche chiese ricettizie della Regione avevano invece una larga autonomia e il potere vescovile si esercitava con maggiori difficoltà. Nelle parrocchie di libera collazione i rettori dovevano seguire i condizionamenti imposti da confraternite e famiglie gentilizie che avevano fondato cappelle private e propri sepolcri in chiesa.

Molte parrocchie non avevano confini geografici precisi ed erano ripartite in famiglie. Questa particolare organizzazione si scontrava con le prescrizioni tridentine che prevedevano la ripartizione geografica in aree distinte e aveva ragioni sostanzialmente economiche poiché evitava che a qualche parrocchia appartenessero solo famiglie ricche e ad altre quelle povere.

Alcuni parroci dell’epoca giravano armati e cumulavano benefici. Molto spesso accadeva che essi fossero parenti stretti degli amministratori locali e contribuissero all’affermazione sociale dei loro famigliari. All’epoca, anche nei piccoli centri si formarono delle vere e proprie dinastie sacerdotali in cui ogni famiglia riusciva far accedere agli ordini sacri in proprio membro ogni una o due generazioni.

Questi fatti nel loro insieme imponevano una riorganizzazione della rete parrocchiale, nonostante urtasse con gli interessi acquisiti di laici ed ecclesiastici. Gli ordinari diocesani s’impegnarono in queste riforme e di conseguenza nel XVII secolo in Abruzzo alcune parrocchie furono unificate, altre istituite e in generale si assistette a una modifica delle loro competenze e prerogative. All’epoca, in linea con il generale andamento nel Viceregno, le parrocchie; 1) iniziarono a svolgere anche l’attività di ufficio di stato civile registrando nascite, matrimoni e decessi, 2) nella loro missione evangelizzatrice e caritativo-assistenziale furono affiancate da istituzioni che ebbero una notevole diffusione dopo il Concilio di Trento: gli ospedali, le confraternite, le cappelle laicali e i monti frumentari e di pietà.

         4c. I sinodi diocesani

I sinodi diocesani sono organi consultori presieduti dai vescovi nei quali periodicamente si riunisce il clero diocesano per deliberare sulle incombenze dell'attività pastorale, il calendario delle feste religiose, l’amministrazione dei sacramenti, la disciplina ecclesiastica, le regole per il rispetto dei luoghi sacri, i requisiti per l’ordinazione sacerdotale, i temi liturgici, ecc. A ogni sinodo segue la pubblicazione e diffusione degli atti sinodali che nel loro complesso rivelano la mentalità della gerarchia ecclesiastica, gli indirizzi pastorali e le interpretazioni ufficiali sui fenomeni religiosi e sociali; impongono le direttive sulla vita religiosa diocesana; evidenziano le principali feste, la disciplina del clero e dei fedeli.

I primi sinodi risalgono al VI secolo, mentre in Abruzzo il più antico di cui si è a conoscenza fu convocato nell’840 dal vescovo teatino Teodorico.

Prima del Concilio di Trento la loro convocazione era sporadica e avveniva quando le autorità diocesane lo ritenevano opportuno.

Nel 1512, quindi prima del Concilio di Trento, uno di essi fu convocato dall'arcivescovo di Chieti mons. Carafa nella metropoli marruccina al fine di fissare rigide prescrizioni sulla disciplina del clero, rendere più esplicite le principali norme di vita cristiana che i fedeli dovevano seguire e impedire che gli edifici di culto fossero utilizzati per usi profani[8]. Alcune sue importanti deliberazioni furono le seguenti: fu raccomandato ai parroci di annunciare durante la messa cantata domenicale le principali feste e i giorni di digiuno da osservare durante la settimana (a tal proposito fu rilevato che le pratiche di digiuno e di astinenza quali atti di penitenza nella diocesi erano abbastanza trascurati); s’impose di vietare l'uso delle chiese per attività non strettamente religiose quali il deposito di biada, grano, legna, botti o ceppi, luogo di adunanza per pubblici parlamenti o di popolo, luogo di gioco e forno pubblico; fu sentenziato il divieto assoluto a tutti i sacerdoti di eseguire nelle chiese e cimiteri incantesimi e altre attività superstiziose; fu promosso l’obbligo di tenere le chiese sempre chiuse, tranne i momenti in cui si celebravano gli uffici sacri; a tutti i chierici fu imposto il divieto assoluto di abitare o semplicemente conversare con donne capaci di alimentare cattivi sospetti, di girare di notte cantando o portando armi, di giocare a carte, dadi e altri giochi proibiti, di tagliarsi i capelli almeno due volte al mese, radersi la barba e non portare abiti corti o indecenti; furono minacciati di scomunica e multa di quattro once d'oro tutti i rei di bestemmia; ai parroci fu richiesto di ammonire i propri fedeli all’osservanza della comunione pasquale, il precetto festivo e di tenere nel periodo quaresimale un adeguato comportamento in linea con le leggi e disposizioni della Chiesa; fu prescritto il divieto di celebrare matrimoni clandestini e di far precedere quelli regolari da tre pubblicazioni per accertarsi che tra i contraenti non ci fossero impedimenti ed ostacoli alle loro unioni.

Dopo il Concilio di Trento anche nelle diocesi abruzzesi i sinodi diocesani iniziarono a essere convocati con maggior regolarità ma l’obbligo di celebrarlo almeno una volta l’anno fu completamente disatteso. In alcune diocesi furono più frequenti e in altre più occasionali, come si può osservare dai dati riportati.

Nella diocesi teatina i sinodi furono convocati nel 1578, 1581, 1584, 1588, 1616, 1635 e 1673. Nella diocesi di Lanciano fu convocato un sinodo nel 1545. Nella diocesi di Sulmona-Valva i sinodi furono organizzati negli anni 1572, 1590, 1603, 1620 e 1629. Nel 1581 il vescovo dell’Aquila Mariano de Racciaccaris convocò un sinodo diocesano e a esso seguirono quelli del 1596, 1608, 1620 e 1649. Nella diocesi dei Marsi nella seconda metà del XVI secolo furono convocati due sinodi diocesani. Il primo lo convocò il vescovo Giambattista Milanese al ritorno dal concilio di Trento, mentre il secondo fu voluto dal vescovo Bartolomeo Peretti all'inizio del Seicento. A Penne il primo sinodo diocesano fu convocato dal vescovo Silvestro Andreozzi che resse la diocesi dal 17 marzo 1621 a gennaio del 1648. Nel 1681 il vescovo Giuseppe Spinucci convocò un altro sinodo.

Nelle altre diocesi le convocazioni sinodali furono più sporadiche e talvolta non furono organizzati a causa dell’opposizione del clero locale che non era favorevole ad accettare le riforme tridentine.

I dati riportati dimostrano che i sinodi diocesani furono più frequenti nella seconda metà del XVI secolo e quindi negli anni immediatamente successivi al Concilio di Trento, mentre nel XVII secolo le convocazioni si ridussero. Questi fatti hanno una spiegazione molto semplice. Le numerose convocazioni cinquecentesche traevano ispirazione dalla volontà degli ordinari diocesani di far conoscere profondamente e applicare i dettami conciliari. Nel secolo successivo si fecero più rari poiché alcuni obiettivi furono raggiunti e s’istituirono le foranie che favorirono la diffusione delle direttive vescovili, i contatti tra gli esponenti del clero foraneo e i controlli sulle attività parrocchiali.

        4d. Le visite pastorali.

Le relazioni delle visite pastorali post-conciliari rappresentano un importante documento storico-sociologico poiché dalla loro consultazione emergono aspetti demografici, economici, religiosi e giuridico-amministrativi delle parrocchie e gli altri enti ecclesiastici visitati.

Nell’epoca in considerazione l’insieme delle visite effettuate documenta l'interesse degli ordinari diocesani ad adeguare la vita religiosa ai nuovi orientamenti del Concilio di Trento con frequenti controlli sulle singole parrocchie finalizzati a eliminare ogni forma di religiosità deviante dai canoni conciliari, migliorare la preparazione culturale, la disciplina e la moralità del clero, l'osservanza del precetto festivo, la frequenza alla messa e la tutela dei beni ecclesiastici. Durante la loro esecuzione gli ordinari diocesani facevano osservazioni sulla preparazione e il comportamento dei sacerdoti, amministravano la cresima, impartivano disposizioni in materia dottrinale e di fede, risolvevano i casi di conflitti tra chierici e con i laici, richiamavano al rispetto dei legati pii, esaminavano lo stato dei fedeli, la manutenzione delle chiese, degli altari, dei libri liturgici, dei registri parrocchiali, ecc.

Dopo la conclusione del Concilio di Trento, nel rispetto delle sue direttive anche nelle diocesi abruzzesi, gli ordinari diocesani assolsero l’impegno di eseguirle. Tuttavia la norma della frequenza biennale fu osservata solo in pochi e limitati casi. All’epoca le generalizzate condizioni di maltempo della stagione invernale e dei periodi d’intense precipitazioni, le pessime condizioni delle vie di comunicazione e la loro percorribilità a piedi o a dorso di qualche quadrupede rendevano molto difficoltosi gli spostamenti. Di conseguenza le località poste anche a pochi kilometri si potevano visitare solo in alcuni limitati periodi dell’anno; s’impiegavano ore per spostarsi da una località a un’altra, mentre per visitare un’intera diocesi erano necessari più mesi. Talvolta si osserva una continuità annuale tra le visite ma in questi casi di solito gli ordinari diocesani in più anni si recavano in località diverse delle loro diocesi.

Dalla bibliografia e fondi consultati è emerso che la frequenza delle visite varia da diocesi a diocesi. In particolare nella diocesi di Chieti, dopo la seconda metà del XVI secolo furono fatte visite pastorali nel 1568, 1575, 1576, 1578, 1579, 1586, 1587,1588-89, 1591, 1593 e 1595. Nella diocesi aquilana furono effettuate visite pastorali nel 1569, 1572, 1573, 1585 e 1594. In quella di Penne e Atri le visite furono eseguite nel 1582, 1589 e 1592. Nella diocesi di Sulmona-Valva tra il 1568 e il 1599 furono effettuate 6 visite pastorali. Nella diocesi di Teramo si ha notizia di una visita fatta nel 1553 cui seguono altre negli anni successivi. Nella diocesi di Lanciano si ha notizia di una visita pastorale organizzata nel 1589.

Nel corso di alcune visite diversi parroci manifestarono la loro contrarietà a essere sottoposti ad attività ispettive. Infatti, nel 1573, nella diocesi aquilana un arciprete non si fece trovare nella propria sede e un altro chiuse le porte della chiesa (MORELLI 1988).

In generale dalle relazioni delle visite effettuate è emerso quanto segue: un clero che a causa di una preparazione culturale carente, non sempre era all'altezza di assolvere ai compiti assegnati; gli ordinari diocesani facevano osservazioni e prescrivevano regole riguardanti la custodia dell’eucarestia e i libri parrocchiali; i fedeli che generalmente non trascuravano i sacramenti, non seguivano con assidua continuità il precetto festivo e ascoltavano la messa sino alla conclusione; edifici di culto non sempre ben tenuti; la vita religiosa organizzata non solo attorno alle parrocchie ma anche ad associazioni laicali quali le confraternite.

Nel secolo successivo anche le visite pastorali, al pari dei sinodi si fecero con minor frequenza poiché gli ordinari diocesani utilizzarono i vicari foranei per il controllo della vita religiosa delle parrocchie. Nel corso del XVII secolo nella diocesi teatina furono organizzate visite pastorali nel 1629, 1668, 1673. Nella diocesi aquilana si ricordano le visite del 1601 e del 1606. Nella diocesi dei Marsi furono effettuate visite negli anni 1635, 1648, 1672, 1684, 1689, 1690, 1694, 1696 e 1700. In quella di Penne nel 1629 e 1652. In quella di Sulmona-Valva tra il 1603 e il 1695 furono fatte cinque visite.

Le relazioni delle visite del nuovo secolo riportano fatti e contenuti diversi da quelle della seconda metà del XVI secolo. Infatti, dalla loro lettura emerge che gli ordinari diocesani o i loro vicari puntarono l’attenzione sull'ordine e decoro degli edifici di culto, le manifestazioni di obbedienza del clero e l'osservanza dei rituali tridentini. Esse non riportano fatti riguardanti l'accertamento dei requisiti culturali del clero, che non si misero in discussione poiché la formazione religiosa generalmente avveniva in seminario ed era più controllata dalle autorità ecclesiastiche.

I decreti delle visite pastorali abbracciarono una normativa molto varia; in particolare, si osserva che: 1) in linea con i dettami tridentini mirarono alla riforma della liturgia e alla disciplina del clero; 2) in più occasioni ordinavano ai parroci e ai procuratori di confraternite di tenere in ordine le chiese e a tutti gli ecclesiastici di curare il loro aspetto esteriore; 2) imponevano che in chiesa i fedeli indossassero abiti decenti, puliti e non da lavoro.  

       4e. Gli ordini religiosi

Dalla seconda metà del XVI secolo in tutte le diocesi regionali si diffusero vecchi e nuovi ordini religiosi. In particolare i barnabiti, camilliani, caraccioilini, carmelitani, crociferi, filippini, gesuiti, minimi, minori osservanti, minori conventuali, oratoriani, riformati, serviti e scolopi si aggiunsero agli ordini maschili e femminili già esistenti (agostiniani, basiliani, benedettini, celestini, cisterciensi, clarisse, domenicani, francescani, gerosolimitani e olivetani).

In Abruzzo tra il 1505 e il 1700 i francescani nel complesso occuparono 47 nuove sedi conventuali che si aggiunsero a quelle esistenti[9]. I domenicani fondarono nuovi conventi a Vasto (1575) e Guardiagrele (1580)[10]. Inoltre tra il XVI e il XVII secolo furono fondati conventi dai seguenti nuovi ordini religiosi: Barnabiti (L’Aquila), Camilliani (Chieti, L’Aquila e Teramo), Carmelitani (Campli, Lanciano, Marsi, Sulmona e Teramo), Crociferi (Chieti), Gesuiti (Atri, Chieti, Penne, Teramo), Minimi (Atri, Chieti, Penne e Sulmona), Oratoriani (Chieti, Lanciano e L’Aquila), Serviti (L’Aquila) e Scolopi (Chieti)[11].

Nel 1596 all’Aquila durante il vescovato di Basilio Pignatelli (1593-1599) due gesuiti fondarono il Collegium Aquilanum per diffondere la loro religiosità e migliorare la preparazione del clero. Nel 1616 esso annoverò circa 60 studenti. I Gesuiti si diffusero anche nelle altre diocesi regionali in cui fondarono anche confraternite per contribuire all’educazione religiosa popolare ed eliminare le credenze superstiziose. Durante l’Età Moderna un rappresentante dell’ordine utilizzò l’espressione “India” per definire la religiosità della popolazione abruzzese, come si può rilevare dal seguente testo scritto al generale dell’ordine da Dionisio Vasquez, il responsabile del collegio teramano: «Nelle montagne, che sono grandi e molto vicine, habbiamo un’India in ignorantia et bisogno di aiuto spirituale; nelle quali, quando vanno li nostri, che è frequentemente, sono ricevuti come angeli di Dio, et domesticandosi molto, imparano la dottrina cristiana et obbediscono alli padri. Grande è la fatiga d’andare per le montagne a predicare et insegnare la dottrina, ma molto è maggiore il frutto che si vede riuscire. Vengono dalle castella a chiamar li nostri ogni settimana dei doi o tre lochi, perché le castella sono più di centocinquanta, ma tutte piccole, come in montagne».[12]

Ad avviso dei gesuiti in Abruzzo era caratterizzato da culti paganeggianti e da credenze superstiziose molto diffusi e da notevoli difficoltà di un’efficace opera di predicazione a causa dell’orografia e la distribuzione spaziale dei centri abitati. Qualche anno dopo, precisamente nel 1576, essi diedero vita a un importante campagna missionaria nella Regione che si protrasse per diversi anni.

          4f: Le confraternite e le cappelle laicali abruzzesi.

Nel periodo in esame, in linea con i modelli culturali dell’epoca, anche in Abruzzo la volontà di assicurarsi una buona morte cristiana e la salvezza eterna spinse chi se lo poteva permettere ad aderire a confraternite, fondare cappelle laicali, donare beni a enti religiosi e chiedere l'autorizzazione alle autorità ecclesiastiche per costruire un sepolcro per sé e i propri familiari all’interno di un edificio di culto. Quest'ultima esigenza nasceva anche da motivazioni: la volontà di conservare i resti mortali in un luogo sacro in cui si supponeva che i santi offrissero una migliore protezione dell'anima e la guidassero più facilmente verso il paradiso; la possibilità che anche dopo la morte, i famigliari in vita potessero mantenere con il proprio caro estinto un più frequente contatto attraverso le visite in chiesa e la partecipazione alle funzioni sacre.

Per quanto riguarda le confraternite, durante il XVII secolo in tutto l’Abruzzo se ne conteggiarono circa un migliaio con varie denominazioni.[13] Alla loro diffusione contribuirono i laici, le Università del Regno, gli ordinari diocesani e vari ordini religiosi tra cui i domenicani e i gesuiti.

Nel primo decennio del XVII secolo il vescovo aquilano Gonzalo de Rueda fondò la confraternita femminile intitolata alle Serve di Maria. I domenicani, dopo la battaglia di Lepanto del 1571, anche in Abruzzo favorirono la diffusione capillare delle confraternite del Santissimo Rosario e di altre. Infatti, tra la fine del XVI secolo e i primi anni di quello successivo fondarono circa 250 confraternite.[14] A loro volta i gesuiti, negli ultimi decenni del XVI secolo fondarono in Abruzzo una decina di associazioni confraternali nelle località di campagna in cui a loro avviso si avvertiva la notevole esigenza di estirpare il malcostume con pratiche negromantiche e superstiziose. 

Un’altra associazione confraternale che in Abruzzo raggiunse una notevole diffusione fu quella del Santissimo Sacramento che nei primi decenni del XVII secolo era presente in quasi tutte le località regionali, aveva raggiunto il numero di 400 associazioni[15] e nei centri con più parrocchie ne esistevano più di una.

Durante il XVII secolo ebbero una notevole diffusione anche le Confraternite del Monte dei Morti che come visto avevano la finalità di assicurare ai propri iscritti, la buona morte cristiana, un decente funerale e un numero di preghiere a suffragio dell’anima proporzionale alle quote versate. Tra il 1648 e il 1698, nella diocesi teatina furono fondate 28 associazioni con tale denominazione[16]. Tuttavia esse non erano le uniche a occuparsi dell’anima e dei funerali dei propri iscritti poiché finalità più o meno simili erano condivise tra tutte le associazioni confraternali. Questo particolare bisogno di aggregarsi fu favorito da: 1) lo spirito di rinnovamento che portò i rappresentanti della Chiesa a diffondere le concezioni dottrinarie sui defunti e la vita ultraterrena emerse con il Concilio di Trento; 2) i frequenti fatti ed eventi calamitosi (epidemie, carestie, terremoti, etc.) che accentuavano la precarietà esistenziale ed ebbero importanti riflessi sulla concezione dell’esistenza umana e la religiosità popolare; 3) la volontà generalizzata di rispettare il modello della buona morte cristiana.[17] La ragione di tali fioriture è da ricondurre anche ai particolari modelli culturali abruzzesi sui morti tramandati sino in epoche molto recenti che portavano ad avere sempre grande considerazione e rispetto per i famigliari defunti, a non dimenticarli poiché periodicamente tornavano tra i vivi e potevano intercedere con Dio e i Santi per assicurare la protezione soprannaturale ai famigliari in vita.

La chiesa ha sempre combattuto molte concezioni popolari sui morti e l’aldilà proponendo in alternativa il rispetto delle tradizioni religiose diffuse dal suo magistero. In questo senso la fondazione in epoca moderna delle confraternite in esame, ad avviso di Tanturrri (2002) “è spiegabile come un tentativo della cultura controriformista di normalizzare il culto dei morti, disperdendo le tracce di un’escatologia lontana dall’insegnamento della chiesa”.[18]

Alcune confraternite regionali dell’epoca anziché dei morti si occuparono delle ragazze povere che si volevano sposare e non ricevevano la dote dai loro genitori. A tal proposito in diverse località regionali furono fondate apposite associazioni confraternali che ebbero a disposizione rendite utili per acquistare il corredo matrimoniale da regalare alle ragazze bisognose.  

Alla diffusione delle confraternite si aggiunse la fondazione di cappelle laicali nelle chiese e monasteri allora esistenti. In particolare nelle chiese parrocchiali e più importanti, esse occupavano tutte le pareti laterali degli edifici e vedevano sacerdoti che quasi quotidianamente erano impegnati nella celebrazione di messe. Le altre istituzioni controllate dalle autorità ecclesiastiche che all’epoca furono fondate anche in Abruzzo erano gli ospedali, i monti frumentari e di pietà, a dimostrazione che dopo la Controriforma si pose al centro d'attenzione anche la pubblica assistenza e l'esercizio di atti di carità cristiana verso il prossimo. Nel loro complesso tutte le istituzioni ecclesiastiche dell’epoca svolsero un’importante opera non solo assistenziale ma anche economica con prestiti di capitali e sementi alle popolazioni rurali, la formazione della dote matrimoniale alle ragazze povere e l’affitto di case e terreni a canoni modici.

          4g. I Santi abruzzesi vissuti nel XVI e XVII secolo.

Nei secoli XVI e XVII nacquero in Abruzzo diversi soggetti che furono elevati agli onori degli altari e contribuirono al rinnovamento della chiesa, com’era auspicato dal Concilio tridentino.

Il primo di essi fu San Camillo de Lellis che nacque a Bucchianico il 25 maggio 1550 e morì nel 1614. San Camillo fondò l’ordine dei camilliani ed è considerato il patrono degli ospedali, degli infermieri e dei malati. Il secondo personaggio è San Francesco Caracciolo che nacque a Villa Santa Maria, il 13 ottobre 1563 e morì nel 1608. Anche Francesco Caracciolo fondò un nuovo ordine religioso che da lui prese il nome di caracciolini. Il terzo soggetto è il gesuita Alessandro Valignano che nacque a Chieti, il 15 febbraio 1539 e morì a Macau il 20 gennaio 1606. Durante la vita andò in missione in India e diverse località dell’Asia Orientale tra cui Macau ove fondò un collegio gesuita e morì. Il quarto soggetto d’origini abruzzesi elevato agli onori degli altari è il beato Rodolfo Acquaviva, anch’esso missionario che nacque ad Atri il 2 ottobre 1550 e fu ucciso nel villaggio di Cuncolim (India) il 25 luglio 1583.

        4h. Le feste religiose e di precetto

Un altro aspetto interessante riguarda le feste religiose e di precetto che nell’epoca in considerazione si dovevano celebrare in ogni parrocchia. Il loro numero nel complesso era abbastanza elevato e variava da parrocchia a parrocchia. La scelta delle feste da celebrare competeva a diverse autorità: la curia pontificia, l’apparato statale viceregnicolo, i sinodi diocesani, le Università e le singole comunità parrocchiali.

Il sinodo dell’Aquila del 1581 prescrisse la celebrazione annua di 50 feste e di precetto oltre alle ricorrenze domenicali. A sua volta il sinodo diocesano teatino del 1616 alle feste dei Santi titolari di ogni parrocchia, alle domeniche, il Corpus Domini, la Pasqua, l'Ascensione, le Pentecoste, Natale e i due giorni successivi aggiunse altre ricorrenze festive di precetto raggiungendo la cifra totale di 90 giorni dell'intero anno liturgico. Nelle altre diocesi abruzzesi si ebbero situazioni simili caratterizzate da un notevole numero di giornate festive. Queste scelte miravano a rinforzare le pratiche di culto e la conoscenza della religione cattolica in un periodo in cui era molto acuta la lotta al protestantesimo e a tentare di eliminare o perlomeno ridurre le deviazioni pagane ancora insite nella religiosità popolare.

        4i. I matrimoni.

Un altro interessante aspetto della vita sociale e religiosa del periodo in considerazione riguarda i modi di celebrazione dei sacramenti e in particolare di quello del matrimonio che oltre a seguire le norme emanate dal Concilio di Trento, si organizzavano nel rispetto di usi e consuetudini locali. In generale i sinodi diocesani dell’epoca prescrivevano che le coppie non avessero rapporti sessuali prima della benedizione in chiesa, si esortavano i genitori e parenti a controllarle e si definivano gli obblighi dei sacerdoti e i rituali da seguire durante la celebrazione in chiesa. A tal proposito durante il sinodo diocesano teatino del 1581 si prescrisse che: 1) i matrimoni non potevano essere contratti se prima non si erano fatte le tre "monitioni" (pubblicazioni) nella chiesa parrocchiale della donna in tre giorni festivi non consecutivi; 2) durante la cerimonia il sacerdote officiante doveva fare in modo che lo sposo prendesse la mano della sposa e dopo, ponendo sopra le loro mani anche la sua in segno di croce, doveva affermare: "Conjungo vos in matrimoni in nomine Patri, Filii et Spiritus Sancti"; 3) vietò che le giovani coppie avessero rapporti prematrimoniali e si esortarono i loro parenti a controllarli.

Nei sinodi di altre diocesi si affermarono prescrizioni simili.

Dalla consultazione di vari atti notarili dell'epoca è emerso che i matrimoni erano preceduti da trattative, spesso erano combinati con il concorso di amici e parenti e non rappresentavano sempre la libera volontà di due giovani che decidevano di vivere insieme.

Ad avviso di MORELLI (1988) nella diocesi aquilana della seconda metà del XVI secolo, molti matrimoni avvenivano per contratto e talvolta passavano mesi prima che coppie iniziassero a convivere.

 Un aspetto dei matrimoni cinque-seicenteschi era costituito dall'assegnazione di dote al fine di facilitare la vita iniziale della futura coppia, indennizzare la sposa dell'eredità dei genitori in occasione del suo distacco dalla famiglia di origine e la tutela della moglie grazie alla cessione al marito dell’usufrutto sui beni dotali. Quando i matrimoni avvenivano tra giovani appartenenti a famiglie benestanti, i parenti della sposa le assegnavano la dote ufficializzandola in accordi scritti noti col nome di "capitoli matrimoniali", che si ufficializzavano in appositi atti notarili. In generale, nei capitoli matrimoniali consultati si sono rinvenute formule comuni riguardanti essenzialmente la promessa di matrimonio nel rispetto delle leggi della Chiesa, l’elenco dei beni costituenti la dote della sposa, le modalità e i tempi di consegna della stessa, gli impegni da rispettare nell'eventualità che uno dei due sposi morisse prima di contrarre il matrimonio e la promessa di restituzione dei beni ricevuti. Ovviamente, se il matrimonio non si celebrava, si annullavano tutti i patti precedentemente concordati.

  

       4l. La caccia alle streghe in Abruzzo.


Anche l’Abruzzo nell’epoca in esame fu caratterizzato dall’ondata repressiva contro la stregoneria e le persone che la praticavano. La bibliografia in merito offre un’ampia casistica di soggetti che dopo la Controriforma fu accusata di praticarla e, di provvedimenti intrapresi per scongiurare il fenomeno. Di tali fatti in questo saggio se ne riportano alcuni abbastanza significativi.


A Penne nel 1584 fu organizzato un rogo multiplo contro persone accusate di stregoneria.

Nel 1612 una donna accusata di essere una strega dopo aver subito il carcere e la tortura fu condannata a stare in ginocchio con un cero in mano davanti alla porta della cattedrale di Teramo durante i giorni festivi.

Nel 1619 a Giulianova una donna precedentemente accusata di stregoneria fu processata da un tribunale ecclesiastico, imprigionata, torturata e arsa viva.

Nel sinodo diocesano teatino del 1636 si minacciarono di scomunica: "magi, striges" e tutti coloro che si fossero serviti dei sacramenti e dell'Olio Santo per pratiche superstiziose, cerimoniali magici, malefici e per arrecare danno al prossimo mediante l'invocazione del demonio.[19]

Nel 1668 a Chieti fu denunciata al Sant’Ufficio una donna che non liberava da una presunta fattura l’ex amante della figlia.[20]

Nel 1690 il vescovo di Lanciano fece arrestare e processare un uomo accusato di stregoneria.

 

 

5.      Bibliografia consultata e di riferimento


BERARDI M.R., Una diocesi di confine tra Regno di Napoli e Stato pontificio: documenti e regesti del fondo pergamenaceo della Curia vescovile dei Marsi (secc. XIII - XVI), Ed. Libr. Colacchi, L’Aquila, 2005.

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[1] La Regia Camera della Sommaria era un’istituzione statale del Regno di Napoli a cui erano affidate funzioni giuridiche in ambito amministrativo, finanziario e fiscale.

[2]  Sta in ROSA M., La Chiesa meridionale nell’età della Controriforma.

[3] Con il termine “Civium Universitas” o più semplicemente “Università”, nel Regno di Napoli, durante il Medio Evo e l’Età Moderna s’indicavano gli enti assimilabili ai Comuni dell’Italia contemporanea.

[4]  Il termine prammatica nel Regno di Napoli era sinonimo di norma di legge.

[5] In particolare il rapporto tra il clero ed i condannati al patibolo si presta ad alcune importanti considerazioni. Il trasgressore delle leggi statali era considerato reo anche dalla Chiesa a cui aveva inferto una ferita da ricucire con il pubblico pentimento, la confessione e la richiesta di assoluzione. Il reo confesso che si pentiva, subiva la punizione prevista dalle leggi statali ma il suo pentimento salvaguardava anche l'interesse della Chiesa che era interessata alla redenzione dell'anima. L'ammissione della colpa e la confessione legittimava l'esercizio dell'autorità statale. Ciò non significa che la Chiesa era in errore nella sua pretesa di redimere l'anima di un presunto o reale fuorilegge, ma costringendolo a confessare le sue colpe prima di salire sul patibolo rafforzava l'autorità statale e giustificava i suoi metodi repressivi.

[6] All’epoca la popolazione contadina che aveva scarse risorse materiali non poteva fare a meno di lavorare i campi durante le giornate festive per non pregiudicare le proprie possibilità di sopravvivenza materiale.

[7] A tal proposito Gaetano Salvemini, nel 1911 in un articolo sulle caratteristiche dei sacerdoti meridionali scrisse: “Prima del 1860 e negli anni immediatamente successivi, la grande ambizione delle famiglie che avessero un po' di terra al sole o che aspiravano ad elevarsi socialmente era di avere un figlio prete. Nella famiglia che otteneva questa grazia dal Signore, l'avito fondicello ritrovava ben presto un fratellino. E se la seconda generazione riusciva a produrre un altro prete la famiglia entrava addirittura tra le case notabili del paese. La terza generazione arrivava finalmente al canonico, con cui cominciava quasi la nobiltà” (in: De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, pagg. 200-203.

[8] Sta in Carusi E., Appunti di storia ecclesiastica abruzzese. Atti sinodali di G. P. Carafa vescovo di Chieti.

[9] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, origini, storia, attualità., pagg.96-98.

[10] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag. 99.

[11] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag.103.

[12] Relazione del P. Dionisio Vasquez al P. Francesco Borgia, Generale della Compagnia di Gesù, Teramo 1571, in P. TACCHI VENTURI, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, tomo I, Civiltà cattolica, Roma 1931, p. 367.

[13] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag. 115.

[14] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag. 113,

[15] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pag.108.

[16] Bigi A., Confraternite d'Abruzzo, op. cit.. pagg. 337-338.

[17] Durante le epidemie non era possibile assicurare sempre il funerale per tutti i deceduti. Il tema della buona morte, invece, cristiana rispondeva all'esigenza di rinnovamento pastorale promosso dal Concilio di Trento che confermò l’esistenza del Purgatorio e il fatto che le indulgenze e i suffragi consentivano di restarci il meno possibile.

[18]Tanturri A. Le Confraternite del Monte dei Morti nell’Arcidiocesi di Chieti, in Ricerche di storia sociale e religiosa, fasc.30, pag. 83.

[19]Giancristofaro E., Folklore e magia in alcuni sinodi diocesani di Penne, Atri, L'Aquila e Chieti nei secoli XVII, XVIII, XIX, pag. 19.

[20] Giancristofaro E., Tradizioni popolari d’Abruzzo, pag. 318.

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Francescani in  Abruzzo




Sulmona, cattedrale

Teramo, Cattedrale

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