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16 giugno 2024

Tratturi e Transumanze. Le vie della pastorizia, tra Abruzzo e Puglia, e l’arte della lana che portò Leonardo a L’Aquila.

Le vie della pastorizia, tra Abruzzo e Puglia, e l’arte della lana che portò Leonardo a L’Aquila

di Gabriella Izzi Benedetti *

I camminamenti, l’incrocio tra vie hanno da sempre prodotto fusione fra culture e popoli. Questa realtà da tempi preistorici concerne anche i tratturi la cui origine è datata intorno a 10.000 anni fa. Sono vie di transito che, con un sistema reticolare, spostando masse di greggi dalla montagna alla pianura e viceversa, oltre alla migrazione hanno favorito lo smercio, il baratto, creato scambio di saperi. L’Abruzzo possiede tracce antichissime del fenomeno, sicuramente dal VI millennio. Testimonianze sono reperibili nella valle Subequana e a Civitaretenga. Le direttrici tratturali erano spesso fortificate; se ne trovano di simili nei camminamenti dei Sanniti e in quelle dei Sabelli.

Nel museo civico di Sulmona un interessante bassorilievo documenta scene dell’attività pastorale durante il trasferimento delle greggi. Per millenni la transumanza è stata libera da imposte, poi i romani le introdussero, creando conflitti anche perché il mondo pastorale ha avuto, da sempre, carattere fortemente devozionale. Ecco perché è calzante l’osservazione di Goethe: “L’Europa, è nata peregrinando e la sua lingua è il Cristianesimo” peregrinare nel senso di spostarsi, viaggiare. Goethe nell’indicare il Cristianesimo come lingua comune e unificante, si riferisce a più recenti cronologie; ma il senso del sacro già in età classica, ellenica, preromana e romana è stato un fattore di continuità tra il viaggio, in specie transumante e la sacralità.

L’Antico e il Nuovo Testamento, attraverso i Re pastori, coniugano l’aspetto autorevole e il devozionale. Il pastore è colui che guida, che salva. In Abruzzo i percorsi tuttora esistenti, per quanto minimi, rivelano lo stretto legame tra viabilità storica e religiosa. Presso Scanno scavi archeologici hanno evidenziato resti di un tempio sacro a Giove Lanario; e Scanno è sulla direttrice del Tratturo Regio. Presso Sulmona esiste un’intera area sacra a Ercole Quirino, e Sulmona è sulla direttrice tratturale L’Aquila-Foggia. La pratica di fede che accompagnava la lunga marcia delle greggi, trovava nelle strutture religiose una rete protettiva. Lungo i percorsi chiese e cappelle cristiane vennero edificate su ruderi di quelle romane e preromane.

La pieve di Santa Maria dei Cintorelli, a Caporciano, a ridosso del Tratturo, mostra residui di attività del mondo pastorale arcaico. In particolare furono fondamentali le strutture benedettine poste lungo il cammino transumante, e per la prima volta troviamo annessi ai conventi luoghi di ospitalità e cura; questo perché i Benedettini furono i primi, seguendo la regola ora et labora che Benedetto da Norcia dettò nel 542, a vivere non solo di preghiera. Divennero fra l’altro medici e infermieri, come architetti, giuristi, musicisti, artigiani.

In Abruzzo la realtà benedettina fu floridissima: circa 300 strutture. In zona Sangro la badia di Santa Maria di Cinquemiglia era dotata di un Hospitale per i viandanti. In modo particolare la devozione era rivolta alla Madonna dell’Incoronata e all’arcangelo Michele. A Vasto troviamo sull’antico tragitto il Convento dell’Incoronata, San Lorenzo e Sant’Antonio abate. Benedetto Croce parla di un poeta pastore abruzzese, Cesidio Gentile, cultore del rito mariano, che inventò un patto di gemellaggio fra Pescasseroli e Foggia, paesi collegati da un tratturo Regio o Magno, come quello, che dall’Aquila raggiungeva Foggia.

Tratturi Regi erano enormi, larghi 111 metri e 11 cm esatti; non si conosce il motivo di questa metratura, se riferita all’astronomia o a un calcolo di sfericità terrestre. Se si pensa che una nostra autostrada di 4 corsie non supera i 12 metri, possiamo immaginare la differenza. I tratturi più piccoli, tratturelli o bracci, confluivano in quelli maggiori, o facevano defluire le greggi verso altre zone; quindi formavano una rete gigantesca. Lungo il percorso transumante i “Riposi”, luoghi di sosta, collocati in genere vicino a un fiume, davano modo ai pastori di dedicarsi alla trasformazione del prodotto caseario, della lana, allo scambio di prodotti come zafferano, o prodotti delle cartiere.

Dalle zone vicine convenivano gli abitanti; sul sagrato della chiesa si svolgevano sagre, fiere, e questa aggregazione creava alla fine agglomerati urbani. Ne è esempio la fondazione dell’Aquila che porta un cambio di passo nella logistica non solo locale. La depurazione, filatura e tessitura delle lane raggiunsero in L’Aquila un grado di tale perfezione attraverso telai così particolari che la loro fama indusse Leonardo Da Vinci, tra il 1498 e il 1501, ad avventurarsi negli Abruzzi con un mercante di stoffe suo amico, il milanese Paolo Trivulzio, che scendeva spesso in Abruzzo per la lana aquilana, la più pregiata sul mercato.

        Leonardo da Vinci

I telai aquilani erano all’avanguardia nella tecnica; tecnica di cui Leonardo si appropriò immediatamente e realizzò per i tessitori del luogo dei disegni. Quindi abbiamo delle coperte abruzzesi realizzate secondo il disegno di Leonardo. Uno di essi è conservato presso il castello di Windsor. E presso la “Royal Collection” esistono suoi bozzetti raffiguranti Sulmona, il Morrone, la Majella, gli alti picchi del Gran Sasso, tutti su carta di Celano, cartiera tra le più importanti in Italia.

Poi qualcosa cambiò. Alfonso d’Aragona nel 1447 decise di riorganizzare la Dogana delle pecore in Puglia e fece convergere tutti gli armamentari, le attrezzature, a Foggia, penalizzando le fiere dell’Aquila, Castel di Sangro e abruzzesi in genere. Si salvò quella di Lanciano in quanto unica fiera franca, cioè libera, della regione, e lì vennero a convergere in tantissimi non solo italiani attratti dalla fama della lana abruzzese.

Dalla Toscana arrivavano le grandi famiglie fiorentine come i Biffi, gli Strozzi, i Tornaquinci e si avvantaggiavano di percorsi alternativi, le cosiddette vie della lana. In Abruzzo molto importante quella che da Guardiagrele arrivava a Prato. Guardiagrele era luogo di convergenza di prodotti lanari; e dimostra come i camminamenti interregionali producessero pluralità di relazioni. Per dire, Nicola da Guardiagrele scultore e orafo, (la sua Croce in argento è tra le più belle in assoluto), si formò nella bottega del toscano Lorenzo Ghiberti.

L’enorme intrico di strade intersecanti l’intera Europa potrebbero raccontarci molto di più della evoluzione da esse generate. Tra le direttrici più importanti la via Francigena che dalla Scozia, attraversando la Francia raggiungeva le Puglie, zona d’imbarco dei crociati. E un troncone proseguiva fino a Santa Maria di Leuca. La via che da Monte Sant’Angelo nel Gargano, attraversa l’Italia, si prolunga fino a Mont Saint Michel in Francia e oltre.

Soprattutto per i tratturi risulta importante la via degli Abruzzi che da Firenze arrivava a Napoli, incrociando SpoletoL’AquilaSulmonaCastel di Sangro, giudicata tra le più sicure per la ricchezza di castelli e torri di avvistamento abruzzesi.  In alcuni tratti viari come avviene per la via Traiana, è evidente l’intreccio tratturo e strada, il sovrapporsi. La transumanza abruzzese che, non dimentichiamo, era la più importante in Europa seconda solo alla Spagna, si collegava ad altre regioni. Dalla maremma, da Siena, i tratturi si congiungevano a quelli umbri.  Il termine Paschi vuol dire pascoli e il Magistrato dei Paschi in Siena aveva un grande potere perché come avveniva all’Aquila, a Foggia, la transumanza era fondata sul meccanismo doganale; attraverso un atto di “fida”, con diritti e privilegi in cambio del versamento di un canone, i pastori erano soggetti a “giustizia speciale”.

Dall’Umbria poi i tratturelli raggiungevano Marche e Abruzzo e tutto questo ha influito sull’ambiente, sicché molto di quello che oggi siamo lo dobbiamo a questo incrocio di saperi. Oggi le vie erbose, bersaglio di speculazioni, risultano smembrate e snaturate. É auspicabile l’accelerazione di iniziative intersettoriali, come il restauro dei monumenti in degrado, la costruzione di infrastrutture viarie e turistiche. Queste zone, grazie alla loro storia, hanno dato origine a una biodiversità ricchissima, per flora e fauna; e ci auguriamo che vengano istituiti seminari e incentivi per la ricerca.

La mia proposta è promuovere un turismo ambientale e culturale attraverso l’osservazione leonardesca della natura e delle attività legate al mondo agricolo e pastorale. Recuperare idealmente il percorso della via degli Abruzzi associando allo sguardo scientifico sulla odierna diversità, quello etico ed estetico espresso nel “Trattato della pittura” di Leonardo. Far partire percorsi museali e ambientali diffusi e approfondire lo studio della biodiversità e dell’ecosistema che accomunano le regioni centrali.

Curiosamente queste regioni, in specie Toscana Umbria Abruzzo, sono accomunate da un forma di eccellenza riferita alla drammaturgia sacra medievale, che raggiunse forme grandiose specie in Abruzzo e Toscana. In Umbria si affermò la Lauda. Nel Medioevo il teatro era a carattere sacro, il teatro classico inesistente, per il resto relegato nell’area dei guitti e saltimbanchi. Potrebbe essere in seguito questa una nuova proposta culturale. Per il momento ci auguriamo che la vocazione di eccellenza, che è stata la realtà transumante in Abruzzo, venga fatta risorgere con concreti contesti di investimenti in beni e servizi.

*Presidente della Società Vastese di Storia Patria

Da: ilmiogiornale.org

13 dicembre 2022

Il mistero delle Triplici Cinte a Castel di Sangro.



Il mistero delle Triplici Cinte a Castel di Sangro

“Noi siamo le pedine del gioco del Cielo, che si diverte con noi sullo scacchiere dell’Essere. Poi, uno dopo l’altro, rientriamo nella scatola del Nulla…”

(Umar al-Khayyam, matematico e poeta persiano del XI secolo)

Cosa sono le misteriose “triplici cinte”, e cosa rappresentano? Ed è vero che sono simboli legati alla figura dei monaci guerrieri Templari?


La triplice cinta è un’antica incisione, presente in molte parti del Mondo, costituita da tre quadrati concentrici divisi da linee mediane. Ma esistono altre versioni, meno classiche, come tre quadrati concentrici divisi oltre che da linee mediane anche da diagonali.

Su vecchi gradini di abitazioni private, sui parapetti di palazzi e case tra le più antiche del paese, nella versione classica, e in quella con le diagonali, addirittura in una variante costituita da quattro (o cinque) quadrati concentrici : le triplici cinte presenti a Castel di Sangro sono almeno 7. Sono relativamente tante, per un paese che ha subito, ripetuti terremoti e pesantissimi danni di guerra nel corso dei secoli.

Una delle molte triplici cinte di Castel di Sangro

Gli studiosi tendono ad associare le triplici cinte all’omonimo gioco con le pedine chiamato anche filetto, o tris. Un gioco antichissimo, di origine orientale (così come la dama, gli scacchi e altri giochi da tavolo, di cui vi sono numerose testimonianze letterarie ed archeologiche). A conferma di ciò, antichi esemplari di questo gioco sono stati rinvenuti in Medioriente, in Cina, nello Sri Lanka.

In Italia la più antica testimonianza del gioco della triplice cinta è stata ritrovata in una necropoli di epoca romana a Brindisi, e pare risalga al primo secolo a.C.

Ma è durante il Medioevo che in Europa la triplice cinta ebbe la sua massima diffusione. Non a caso, si presume che il gioco venne introdotto (o reintrodotto) dai Crociati di ritorno dalla Terrasanta. È notorio che i Crociati, e soprattutto i Cavalieri Templari, tornarono dall’Oriente con un bagaglio di nuove conoscenze. Taluni, ad esempio, attribuiscono ai Cavalieri del Tempio il fiorire delle cattedrali gotiche, chiese straordinarie e affascinanti sia sotto il profilo artistico che per quello simbolico ed esoterico. Di qui, una serie di leggende. Come quella che racconta che i Templari, a Gerusalemme, erano entrati in possesso dell’anello di Mosè, oggetto capace di controllare i numeri, i pesi e le misure in base ad una proporzione, misura, divina. E, proprio questi segreti, decifrati dall’ordine dei Cistercensi, avevano permesso la costruzione delle cattedrali gotiche.

Inoltre, Gerusalemme, nel Medioevo, a volte veniva rappresentata, come la città ideale, all’interno di tre cinte concentriche.

Quindi, altrettanto avvalorata è l’ipotesi che il gioco della triplice cinta non abbia solo un significato ludico, ma sia anche un simbolo, volto a racchiudere significati allegorici, religiosi, e, azzardiamo, anche esoterici. Escludendo forme di riutilizzo delle lastre di pietra, pratica molto comune nel passato, non si spiegherebbero altrimenti alcune incisioni, sparse in tutta Europa, fatte su superfici già verticali all’origine, o di dimensioni talmente ridotte da impossibilitare il gioco.

Non solo. Triplici cinte vennero incise da Cavalieri Templari sulle pareti della loro prigione nella fortezza di Chinon in Francia. Difficile pensare che, in una tale occasione, un simbolo posto in verticale, possa essere servito da “scacchiera”.

Tornando a Castel di Sangro, la presenza del gioco, e simbolo, della triplice cinta, avvalora l’ipotesi della presenza templare, dato che questa incisione compare altrove, in maniera diffusa, nei territori percorsi dall’Ordine del Tempio. Non dimentichiamo infatti, l’importanza strategica, durante il Medioevo, dell’antico ponte di origine romana (attuale ponte della Maddalena). Non è un caso che alcune triplici cinte si trovino non lontano da detto ponte e da una delle strade più battute dai pellegrini e viaggiatori dell’epoca. Strada che ovviamente, data la sua enorme importanza, presumiamo, doveva essere per forza presidiata dai Cavalieri.

Sembrerebbe tutto spiegato. Tutto già detto. Ma non è così.

La relativa abbondanza, e soprattutto la densità di triplici cinte a Castel di Sangro e nella zona (ad Alfedena pare se ne contino più di una ventina in un’area ristretta) ci porta a fare altre considerazioni, e a sollevare altri interrogativi.

È possibile che alcune delle triplici cinte siano state tracciate per imitazione, magari anche in periodi successivi?

Inoltre, le pietre su cui sono tracciate le triplici cinte, sono spesso state oggetto di recupero per costruzioni successive. Perché premurarsi di conservare, recuperare, un semplice gioco, o un simbolo sconosciuto? Sarebbe stato più conveniente ribaltare le pietre laddove non erano consunte.

Può darsi che consapevolmente, o inconsapevolmente, qualcuno abbia dato loro un valore apotropaico.

Fuori dalle case, sui muretti o sui gradini delle abitazioni, quegli antichi simboli sacri avrebbero tenuto lontano il male.
di Concetta Rocci


SULLA TRIPLICE CINTA ESOTERICA (OVVERO DIGRESSIONI SUL SIMBOLO)

La triplice cinta adorna spesso soglie di abitazioni, finestre e loggiati, al punto che viene quasi automatico pensare che ad esse fosse attribuito un significato magico, il simbolismo del varco: di qui si entra nel luogo sacro agli iniziati (prendendo il termine “sacro” nella sua accezione più letterale: riservato), o magari che venisse usata a mo’ di benedizione, o di stregoneria oppure di qualsiasi altra diavoleria per cui fosse propizio imprimere il segno sulla pietra longeva nei secoli, che per giocare a filetto si sarebbe ben pensato di sedere comodamente su una panca davanti una tavoletta disegnata e buon bicchiere di vino, più che intralciare la soglia della propria abitazione.

Quel che però ci tenta a percorrere le vie lunghe e tortuose della curiosità è: perché quel simbolo? Perché quello schema e non un altro? Ebbene molti studiosi si sono posti questa domanda ed hanno tentato di darvi risposta, come del resto anche noi abbiamo fatto, riflettendo a lungo, cercando di leggere qualcosa in quei segni calpestati da generazioni di iniziati e profani.

Una delle teorie più affascinanti sul simbolo è quella che lo vuole ereditato direttamente dalla Atlantide come descritta da Platone, con l’unica eccezione che la città perduta era costruita su tre cinte murarie circolari e non quadrate mentre altri studiosi come Guenon l’accostavano alla Gerusalemme Celeste: la città del Giudizio descritta nell’Apocalisse di Giovanni

Apocalisse 21

10 L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. 11 Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. 12 La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13 A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte. 14 Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
15 Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. 16 La città è a forma di quadrato, la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: misura dodici mila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono eguali.

Dodici porte, come i 4 lati dei 3 quadrati intersecati dalle linee; la pianta quadrata e alta esattamente quanto la base. Certo il simbolo si accosta molto alla descrizione della città ultraterrena del Giorno del Giudizio ma con un pizzico di fantasia potremmo vedere la triplice cinta proprio come un cubo in prospettiva oppure come una piramide tronco-conica (tipo uno Ziggurat) vista dall’alto.

Due immagini satellitari di ziggurat rinvenute in medio oriente.

Molti ancora la vedono come una proiezione della Gerusalemme Celeste, che sarebbe circolare (geometria più adatta a Dio), sulla terra e quindi quadrata. Altri ancora vi figurano i 3 gradi dell’iniziazione massonica e forse un intero trattato non riassumerebbe tutte le suggestioni possibili infuse da questo glifo.

Studiando Guenon, infine, non possiamo non ragionare sul simbolismo del Triregnum: i regni dello spirito, dell’anima e del corpo così come rappresentati sulla Tiara papale: il copricapo antico che porta tre corone concentriche, una più piccola dell’altra a risalire la forma conica del cappello fino alla sommità, sormontata dal globo con la croce.

Il Triregnum

Il triregnum e la triplice cinta: tre corone concentriche, tre quadrati concentrici, il globo con la croce a sommità, il foro al centro della triplice cinta a simboleggiare il divino “Motore Immobile”: che essa davvero figuri “Il Re del Mondo”? Questa forse è solo l’immaginazione di un curioso… su un simbolo che nelle sue cinte imperscrutabili difenderà stretti i suoi segreti finché il vento e l’acqua non li dilaveranno dalla pietra.
di Giovanni Santostefano

Da: https://misterias.altervista.org/le-triplici-cinte-a-castel-di-sangro/

Misteri Alto Sangro - Luoghi, storie e misteri del Alto Sangro.

 

Misteri Alto Sangro

Luoghi, storie e misteri del Alto Sangro


5 luglio 2022

Teofilo Patini, Vanga e latte, 1884.

Teofilo Patini, Vanga e latte, 1884.

 
Teofilo Patini (Castel di Sangro, 5 maggio 1840 – Napoli, 16 novembre 1906)
"Vanga e latte", 1884
Olio su tela, cm. 213x372
Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, Roma.



Ampliando i termini dell’analisi intrapresa, con Vanga e latte Patini cominciò a porre in evidenza l’ingrato ruolo riservato alla donna, costretta, dalla difficile condizione rurale, ad alternare varie e spesso pesanti incombenze al già duro lavoro dei campi. In questo caso è la necessità di offrire il seno al suo piccolo a farle momentaneamente interrompere la vangatura. E fu nell’espletamento di una tale mansione, seduta fra le zolle ed appoggiata al basto, che il pittore la ritrasse, dedicandole la solenne architettura, sapientemente inscritta nell’articolato schema generale della composizione, e riservandole una monumentalità che richiama l'idea di una sacra maternità in trono. Anche perciò l'attenzione sembra incentrarsi su di lei, mentre l'uomo che continua a vangare alle sue spalle potrebbe perfino apparire figura di secondo piano, ove, mirabilmente stagliato contro il cielo lattiginoso con quelle possenti forme scandite e racchiuse in una sorta di ellissi ideale, a sua volta reinserita nel complesso schema generale, non si traducesse in un simbolo della sacralità del lavoro. La deliberata fedeltà a criteri di ascendenza neoclassica, oltreché cinque – seicentesca, continua a predominare nell’impianto e nel modellato delle figure; prevale anche sulle possibili connessioni con L’Angelus del Millet, a cui il dipinto è stato accostato. I ricordi degli affreschi eseguiti da Hans von Marèe tornano ad affacciarsi nei criteri seguiti per suggerire la spazialità attraverso la contrapposizione fra l’andamento orizzontale dei terreni in fuga verso le ondulazioni montuose, evocate in lontananza attraverso il magistrale ricorso alla prospettiva aerea, e gli elementi verticali costituiti dalla figura del vangatore e dal superbo brano pittorico della vanga rimasta infissa fra le zolle ad attendere che la donna torni al lavoro interrotto. Le zolle che animano il primo piano, la rudimentale culla dalla forma evocante l’idea di una piccola bara, la cupola dell’ombrello sdrucito che la ripara dal sole, ma soprattutto le dorate sterpaglie del granturco reciso, chiamate ad accogliere la superba natura morta del piatto di polenta, oltre che in allusioni e suggerimenti abitualmente affidati dall’autore agli oggetti, si traducono in felici brani di pittura. Il riferimento alle opere sociali del Patini, l’incidenza con cui vi aveva passato in rassegna le realtà da affrontare e risolvere sul piano normativo, si inserì spesso nel dibattito politico contemporaneo come il più pratico ed autorevole ed eloquente riscontro. Ancora agli inizi del Novecento, per ottenere finalmente i consensi necessari all’approvazione di alcune leggi volte a migliorare la condizione del sottoproletariato rurale posta in discussione nel dibattito parlamentare del 20 giugno 1903, all’On. Tozzi fu sufficiente far riferimento alla situazione rappresentata in Vanga e latte, l’ampio dipinto che non il solo “ministro uscendo dal suo gabinetto vedeva ogni giorno”, essendo lì custodito. L’applauso caldo e corale, con cui spontaneamente rispose l’assemblea, ed il voto favorevole all’accoglimento di quelle norme, che fu espresso subito dopo, consentono di commisurare la funzione a cui finì con l’assolvere quel dipinto ed il ruolo di primo piano che ancora in quel torno di tempo veniva riconosciuto al suo autore.

Testo di Cosimo Savastano a cura di Raffaella Dell'Erede

5 gennaio 2022

Angelo Iocco, La tradizione della pasquetta di Epifania in Abruzzo.


 LA TRADIZIONE DELLA PASQUETTA DI EPIFANIA IN ABRUZZO

di Angelo Iocco

 La tradizione dell'Epifania in Abruzzo varia: per concludere il ciclo delle feste natalizie, usanze antiche raccolte da Gennaro Finamore e Antonio de Nino vogliono che dal tizzone o dal pane gettato dalla finestra si raccolgano auspici per il benessere o per il futuro marito della sposa; mentre comune in Abruzzo è la carrellata di canzoni augurali della "Pasquetta" o della "Bbuffanie". Questi gruppi improvvisati di cantori che girano le per le strade del paese di sera il 6 gennaio vanno augurando il buon anno nuovo ("E dumane è la Pasquette!" ecc ecc), la prosperità familiare, e chiedono anche alla fine qualcosa da mangiare o un bicchiere di vino. Famosa tra queste è la serenata delle Chezette che si canta a Scanno. Una tradizione della Pasquetta abruzzese che nulla ha a che vedere col Lunedì di Pasqua! A Rivisondoli invece dal 1947 si inscena il Presepe vivente, in ricordo della rinascita sociale e morale del paese dopo le distruzioni belliche apportate dai tedeschi, e in particolare in questo paese del Piano delle Cinquemiglia, si seleziona tra i bambini colei che farà la Madonnina per tale evento del Presepe vivente.

Il repertorio delle canzoni ha a che fare con l’arrivo dei Re Magi alla Capanna di Betlemme dove è nato Gesù; per l’occasione soprattutto nella zona vastese del chietino, delle compagnie di buontemponi con strumenti improvvisati, come ricordano Finamore, Lupinetti e Giancristofaro, andavano per le strade e le case di notte, alla vigila dell’Epifania, annunciando l’arrivo dei Magi a Betlemme, e chiedendo alla fine da mangiare come ricompensa per il canto. Qualcosa che precede il rituale di Sant’Antonio abate del 17 gennaio, sempre con un repertorio narrativo che riguarda questa volta le tentazioni e le imprese del Santo Anacoreta.

Nell’800 Antonio Rossetti, barbiere squattrinato e poeta, fratello del famoso poeta Gabriele, nella città di Vasto componeva un Dies Irae, e soprattutto un Canto della Pasquetta, come rilevato da Filippo Marino, che ancora oggi viene eseguito, e registrato anche dal prof. Emiliano Giancristofaro. 

La canzone strofica è la seguente:

 
Noi veniamo in questa sera

Con la nuova più che vera:

Domattina è la Pasquetta,

che sia santa e benedetta!  X 2

 

Si riempie il nostro cuore,

di contento e di stupore,

vanno gli angioli cantando

e i pastori festeggiando! X 2

 

Quanti scendon per la via,

è nato il Gran Messia!

E il Gran Re dell’Oriente

Si dipartiva allegramente! X 2

 

28 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?


I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?
di Antonio Mezzanotte

I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro? Una delle più antiche famiglie nobili del Regno di Napoli, che riuscì a creare un vasto stato feudale tra Abruzzo e Molise dal XV sec. in poi: dal centro di San Buono, nella Valle del Treste, ad Agnone, Castel di Sangro, Capracotta, San Vito Chietino, Bucchianico, Roccaraso, Castiglione Messer Marino, Rosciano, Alanno, Cugnoli, Fraine, Roccaspinalveti, Guardiagrele e tanti altri luoghi. Ad un certo momento, la loro ascesa sembrava inarrestabile, la stessa città di Chieti finì soggiogata al dominio dei Santobono. Ferrante (nato a San Buono) fu l'antagonista di Masaniello, suo nipote Carmine Nicola (di Bucchianico) ebbe incarichi internazionali di primo piano divenendo Viceré del Perù ed il figlio di questi, Giovanni Costanzo, cardinale, fu l'artefice della più famosa fontana al mondo, quella di Trevi a Roma. L'archivio dei Santobono, conservato in parte nell'Archivio di Stato di Napoli, è una miniera di informazioni su tanti profili di storia economica, sociale, politica e culturale abruzzese, molisana, napoletana. Ho la sensazione, però, che, contrariamente ai Valignani di Chieti, ai d’Avalos del Vasto ed agli Acquaviva di Atri (tanto per citare altre famiglie nobili che pure hanno inciso profondamente sulle vicende dei propri feudi abruzzesi e non solo), i Caracciolo di Santobono sono ancora poco studiati.
Uno degli infiniti, possibili approcci per auspicabili ricerche potrebbe essere verificare in che modo ed in che misura le abitudini alimentari abruzzesi siano state indirizzate dall’utilizzo di particolari varietà di grano, come la "carosella", ad esempio, che nei domini dei Caracciolo, a San Buono ed a Monteferrante, era largamente prevalente e, da lì, diffusasi in tutta la regione ed anche oltre.
Per tale motivo, a chiusura (per ora) di queste veloci escursioni domenicali sui Caracciolo di Santobono (escursioni divulgative e senza pretesa alcuna), voglio riproporre un post di qualche tempo fa avente ad oggetto proprio il grano detto "carosella".

IL GRANO DEL PRINCIPE

Agostino Giannone era un bravo avvocato amministrativista di fine Settecento e tra i suoi assistiti figurava Gregorio Caracciolo, principe di Santo Bono, duca di Castel di Sangro, marchese di Bucchianico (solo per ricordo, i Caracciolo di San Buono possedevano o avevano posseduto nel tempo mezza provincia di Chieti, l'Alto Sangro, parte del Molise e vari territori del pescarese, tra i quali Rosciano, Alanno e Cugnoli).
Il Giannone ebbe vari incarichi pubblici: fu nominato segretario dell'Accademia siciliana di agricoltura, arti e commercio (una antesignana delle moderne Camere di Commercio) e, grazie al favore del Caracciolo, anche segretario della Real Deputazione delle nuove strade degli Abruzzi (ossia dell'ente - una ANAS ante litteram - al quale i Borboni affidarono la realizzazione di nuovi collegamenti tra la capitale, Napoli, e la nostra regione, in particolare della strada che da Venafro saliva a Sulmona, quella che i francesi chiamarono Napoleonica e che, in buona sostanza, è oggi un tratto della S.S. 17 dell'Appennino abruzzese).
Nel predisporre la relazione sullo stato finanziario delle opere stradali necessarie per collegare Venafro a Sulmona e da lì proseguendo per L'Aquila e Chieti, il Nostro Avvocato annotò con minuziosi particolari le caratteristiche salienti del territorio abruzzese di fine Settecento (1784).
In particolare, l'Avv. Giannone si sofferma sulla coltivazione del grano, indicando dapprima le località a spiccata vocazione granaria (soprattutto del teramano), per poi aggiungere che la varietà di grano detta Carosella, inizialmente coltivata soprattutto a San Buono e Monteferrante (entrambi feudi dei Caracciolo) era diventata la più diffusa nell'intero Abruzzo Citeriore, tanto che essa stava espandendosi in quasi tutte le località dell'Ulteriore ed era molto commercializzata anche fuori dei confini nostrani.
Com'era e com'è la Carosella? Un grano tenero, risalente direttamente all'epoca dei romani, a stoppia lunga fino ad un metro, il cui nome deriverebbe dal siciliano "caruso" per indicare il chicco piccolo ed allungato, leggero, di aspetto dorato e lucido.
La farina di Carosella (a basso contenuto di glutine) era ricercata per le qualità di tenere la pasta a cottura e per il pane.
Con l'avvento della trebbiatura meccanica i grani a paglia lunga furono sostituiti con le varietà a paglia corta, di natura ibrida, tanto ibrida che sovente sono causa di insorgenza di allergie alimentari, prima di tutte quella al glutine.
In varie zone del Meridione (Cilento e Basilicata) si sta riscoprendo questa antica varietà.
Sarebbe cosa buona e giusta ed utile, allora, studiare la storia del territorio anche per riscoprire una sana alimentazione e il grano del principe Caracciolo, un tempo coltivato in tanti paesi della nostra regione, potrebbe essere riscoperto ed accostato alle altre varietà autoctone abruzzesi, come la Solina e la Saragolla, ma io aggiungerei per la qualità anche il Senatore Cappelli, per una scelta alimentare genuina e salutare.

14 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, "Giovanni Costanzo Caracciolo di Santobono, il Cardinale della Fontana di Trevi".

Il Leone dei Caracciolo di Santobono e un ritratto di Giovanni Costanzo Caracciolo 
Giovanni Costanzo Caracciolo di Santobono, il Cardinale della Fontana di Trevi
di Antonio Mezzanotte

Fontana di Trevi
Chi non conosce la celebre Fontana di Trevi a Roma? Ma probabilmente pochi hanno notato i due stemmi che vi campeggiano: il primo è quello di papa Clemente XII (committente e finanziatore dell'opera), in alto. L’altro, scolpito vicino al cosiddetto Asso di Coppe, ossia al vaso in travertino posto a sinistra del monumento, raffigura il leone rampante dei Caracciolo di San Buono sovrastato dal cappello dei prelati della curia pontificia dell'epoca. Vediamo come sono andati i fatti. In un mio precedente post ho narrato le vicende di Carmine Nicola Caracciolo, principe di San Buono (nonché Duca di Castel di Sangro, Marchese di Bucchianico e padrone feudale di tanti altri paesi posti tra l'Abruzzo ed il Molise), il quale, come premio per la sua fedeltà alla casa dei Borbone di Spagna e per i servizi resi, fu nominato Vicerè del Perù. 
Da Bucchianico (CH), paese natio, a Lima capitale del Perù (ossia di tutta l’America meridionale spagnola) ebbe una vita movimentata e ricca di soddisfazioni, ma anche di grandi amarezze, come quando, dopo esser salpato da Cadice con tutta la famiglia il 13.11.1715, attraversò l’Oceano Atlantico in poco più di un mese e mezzo, ma prima di giungere a destinazione, quando ormai la piccola flotta era entrata nel Mar dei Caraibi, al largo delle coste colombiane di Cartagena l’amata moglie Costanza morì di parto dando alla luce il piccolo Giovanni, al quale venne aggiunto il nome Costanzo in memoria della madre. Era il 19.12.1715.
Dopo gli anni trascorsi in Sudamerica, nel 1721 Carmine Nicola Caracciolo (che nel frattempo si era risposato) tornò in Europa con parte della propria famiglia, per spegnersi a Madrid nel 1726.
Il figlio Giovanni Costanzo fu avviato presto alla carriera nell’amministrazione pontificia e ricoprì vari incarichi: fu segretario generale della Fabbrica di San Pietro, uditore presso la Camera Apostolica e, dal 1732 al 1762 divenne Procuratore delle Acque di Roma, in buona sostanza il capo dell’organo gestore degli acquedotti romani. In tale veste, fu presidente della Commissione che esaminò i progetti di rinnovamento della Fontana di Trevi, attribuendo l’appalto al romano, ma forse di origini aquilane, Nicola Salvi (il cui progetto, tra l'altro, era il più economico tra i 16 presentati, preferito anche a quello del Vanvitelli, che pure piacque molto al Papa). Come gestore delle acque di Roma, il Caracciolo seguì assiduamente i lavori per la nuova Fontana di Trevi.

7 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, Da Bucchianico al Perù: Carmine Nicola Caracciolo di Santobono.

Carmine Nicola Caracciolo nel giorno del suo ingresso a Lima, capitale del Perù,
il 5 ottobre 1716, di artista anonimo
.

Da Bucchianico al Perù: Carmine Nicola Caracciolo di Santobono
di Antonio Mezzanotte

Suo nonno, Ferrante, era stato una gran testa calda: opportunista, spavaldo, attaccabrighe, ottimo spadaccino. Si scontrò varie volte a duello, fece da prestanome in operazioni finanziarie poco chiare, qualche tempo dopo riuscì a comprarsi all’asta la città di Chieti, poi rifiutò di levarsi il cappello dinnanzi a Masaniello, scappò per un pelo alla folla che voleva linciarlo (e che gli saccheggiò il palazzo di Napoli), fu colpito a morte da una archibugiata a Nola mentre, alla testa dei propri soldati, andava all'assalto dei rivoltosi. Una vita movimentata.
Carmine Nicola fu apparentemente l’esatto contrario dell'antenato: riflessivo, di buona cultura, anche un po’ piacione e bravo oratore. Aveva una inclinazione tutta particolare per gli studi letterari, compose numerose poesie, opere buffe, favole, anche un compendio storico della propria famiglia.
Non si trattava, però, di una famiglia qualunque: parliamo dei Caracciolo Principi di San Buono, Duchi di Castel di Sangro, Marchesi di Bucchianico e feudatari di mezza provincia di Chieti, dell’Alto Sangro, dell’Alto Molise e titolari di feudi anche nel pescarese.
Carmine Nicola nacque proprio a Bucchianico (CH) il 5 luglio 1671, rampollo di cotanta progenie. Da ragazzo visse in paese, con qualche puntata a Castel di Sangro e a San Buono, nella Valle del Treste. La madre curò molto la sua istruzione e, quando da adulto arrivò a Napoli, si circondò di poeti e giuristi, frequentò i circoli culturali più esclusivi della Capitale (le famose Accademie) e ne creò altrettanti, tutti accumunati dallo splendore della sua corte. Amava la bella vita e le belle donne (ci fu un mezzo scandalo per aver messo gli occhi su una cantante, che però era la favorita del viceré Medinaceli).

Antonio Mezzanotte, Storia di una truffa, di uno zio spendaccione e di un giudizio durato 109 anni.

"Il Tribunale della Vicaria" di Napoli, presso Castel Capuano,
olio su tela, sec. XVII, attribuito a Carlo Coppola ovvero ad Ascanio Luciani
 
Storia di una truffa, di uno zio spendaccione e di un giudizio durato 109 anni
di Antonio Mezzanotte

Un bambino di tredici mesi, rimasto orfano di padre, morto in guerra, viene affidato alla tutela dello zio paterno. Questo zio, amante della bella vita, ma notoriamente con le tasche bucate, in pochi anni svende buona parte del patrimonio che ha ereditato il nipote: terreni, case, mobili, preziosi, industrie ed intasca i soldi senza dichiarare nulla al Fisco. I compratori, che conoscono il carattere del personaggio, fanno finta di credere di acquistare beni di modico valore, terreni improduttivi, case in rovina. Invece l’affare è davvero lucroso: lo zio tutore realizza subito un bel gruzzolo, i compratori con poco prezzo si impadroniscono di grasse aziende agricole, palazzi, mobili d’arte e dei beni immobili così acquistati nulla trascrivono nei Pubblici Registri, sicché gli stessi continuano a figurare come intestati al minore.
Quando lo zio muore, il nipote, divenuto maggiorenne, scopre che molto probabilmente è stato frodato: in primo luogo dallo zio, che non ha mai avuto una contabilità separata del patrimonio amministrato per conto del nipote (e che, ovviamente, gli ha lasciato in eredità solo debiti), ma anche dal notaio, dai testimoni delle compravendite, dai periti che hanno attestato il falso e forse anche dal Giudice tutelare, che ha concesso con interessata e remunerata leggerezza le autorizzazioni per disporre del patrimonio intestato ad un minore. Così decide di promuovere un'azione legale contro i compratori ed i loro aventi causa per chiedere l’annullamento dei contratti e per rientrare in possesso di tutto.
Sembra una vicenda giudiziaria che potremmo leggere sui giornali di oggi; invece, risale a circa 350 anni fa e vide come protagonista una delle più potenti e influenti famiglie nobili che dominavano buona parte dell’Abruzzo: i Caracciolo, principi di San Buono, duchi di Castel di Sangro, marchesi di Bucchianico, nonché feudatari di numerosi paesi, tra cui Rosciano, Alanno, Cugnoli, ma anche Guardiagrele, Filetto, San Martino sulla Marrucina, Monteferrante e buona parte dell'Alto Sangro, dell'Alto Vastese e dell'Alto Molise.
Il bambino rimasto orfano era Marino V Caracciolo, figlio di quel Ferrante, avventuriero e brillante spadaccino, il quale riuscì persino a comprarsi la città di Chieti ma che perse la vita durante la rivolta di Masaniello, e lo zio era Gianbattista, cavaliere di Malta e, come tale, Priore di Messina. I compratori di immobili e feudi furono Ludovico de Pizzis di Ortona (uomo ambizioso e spregiudicato, il suo motto era: “chi non s’arrischia, non acquista”) e Marc’Antonio Leognani Fieramosca di Civitaquana (un personaggio calcolatore e con il fiuto per gli affari, di lui si diceva che “faceva valere per ducato il suo carlino”).

Antonio Mezzanotte, Quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta la città di Chieti.

Particolare del frontespizio della "Historia della Città di Chieti" di Girolamo Nicolino, 1657
 
Quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta la città di Chieti
di Antonio Mezzanotte

L’importanza della città di Chieti nelle vicende storiche abruzzesi è ben nota o perlomeno dovrebbe esserlo, considerato che nel 1558 veniva costituita Metropoli delle Provincie dell’Abruzzo con sede di Regia Udienza ed altri uffici governativi. Il Palazzo di Giustizia odierno, in piazza San Giustino, è stato costruito proprio dove in antico era la sede del Preside e Governatore Generale delle provincie abruzzesi.
Accadde però, agli inizi del XVII sec., che la cronica penuria di denaro nella casse dell’Erario spagnolo (sempre più impegnato a sostenere sfibranti guerre, senza che, per altro, la Corona di Spagna ne traesse particolari benefici) ed un debito di re Filippo IV nei confronti del re di Polonia, costrinsero il Governo Vicereale di Napoli a vendere i gioielli di famiglia, ossia le Città demaniali.
Com’è e come non è, il 7 luglio 1644 la città di Chieti fu venduta all’asta (metodo della candela vergine) per la somma di 81 ducati a fuoco (inteso come nucleo familiare fiscale), operazione che, per la ragione di 2000 fuochi più le spese, portò nelle casse dell’Erario la somma di 170mila ducati. All'epoca solo un personaggio poteva permettersi di sborsare una somma così ingente: il Duca di Castel di Sangro, Ferrante Caracciolo, della Casata dei Santobono (in un mio precedente post ne ho tracciato un breve ritratto), il quale, essendo già padrone della confinante Bucchianico, aveva da tempo accarezzato l'idea di mettere le mani proprio su Chieti.
Non starò qui a narrare tutte le vicende della infeudazione di Chieti e dei tentativi dei nobili teatini, capeggiati dai Valignani, di scongiurarne la vendita, degli episodi di rivolta e del riscatto al Regio Demanio durante le epiche giornate dell'insurrezione napoletana del 1647, nel corso delle quali Ferrante Caracciolo trovò la morte.