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9 giugno 2025

Il poeta Giuseppe Di Tullio di Filetto.


Il poeta Giuseppe Di Tullio di Filetto

di Angelo Iocco

Giuseppe Di Tullio (4 settembre 1910 – 1 gennaio 1952) è uno di quei poeti abruzzesi che purtroppo sono scarsamente conosciuti, complice probabilmente la breve esistenza, stroncata da una brutta malattia a soli 42 anni. Pochi oggi lo ricordano, e fondamentale resta un saggio di Vittoriano Esposito nel suo Parnasso d’Abruzzo, alla relativa voce. Nativo della piccola Filetto, studiò al Liceo classico di Lanciano, successivamente proseguì gli studi universitari a Firenze, per poi tornare, imbevuto di toscanismo e patriottismo giolittiano, a Pescara, a insegnare. Seguì anche l’abilitazione musicale in violino presso il Conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli. scrisse su diversi giornali abruzzesi, come Il Messaggero, Il Tempo, Momento sera di Chieti, Rivista abruzzese. Oltre ai saggi sulla religione, Di Tullio si occupò anche di Gabriele d’Annunzio, Silvio Spaventa, Tommaso Campanella e umanisti abruzzesi. Nel 1933 pubblicò la silloge di poesie L’Eco delle fonti, e nel 1949 per l’editore Carabba di Lanciano, il poema Giano. Esso è ispirato alla figura mitica del dio della Creazione, e nel cantarlo, Di Tullio si riferisce a un’epoca felice, perduta, quello dei grandi classicisti dell’Ottocento, ma non solo, della letteratura italiana come Dante e Petrarca, celebra una società idilliaca felice, quella italiana, ancora non contaminata dagli orrori della guerra, che dal 1943 avrebbe martoriato l’Italia e la sua piccola patria quieta di Filetto, che ne uscì devastata, insieme alla vicina Orsogna. Il piccolo mondo fatto di cose semplici, rituali bucolici, per dirla alla Virgilio, è spazzato via per sempre dalla corrente della storia. Tra gli ultimi lavori di Di Tullio, figura una poesia in abruzzese, inedita, presentata al Concorso di poesia “Gennaro Finamore” di Lanciano del 1952, i di cui atti rimangono presso il Fondo “Cesare Fagiani” nella Biblioteca comunale di Lanciano.

“L’edificio sorgeva massiccio e quasi oscuro, simile a una vecchia roccaforte feudale. A quell’edificio mancavano i merli e il ballatoio per essere scambiato per una fortezza, ma bastava il campanile che sorgeva da un lato per dire subito che si trattava di una Chiesa. l’intera mole si ergeva superba sulla Rupe di San Rufino, dominando incontrastabilmente le case circostanti.

Ciò che addolciva quell’aspetto severo, che lo rendeva umano e familiare, era la presenza di colombi. Tutte le mura erano bucherellate di piccoli nidi, ed  in ogni momento della giornata i mansueti aligeri tubavano e volavano. A primavera poi la Chiesa sembrava rivestita a festa, perché da ogni parte era fiorente di viole romane: coloriture giallognole e rossastre, come lembi d’oro e di porpora, apparivano sul viso rugginoso delle mura vetuste. Tutta la Chiesa era costituita da due parti, l’una sovrapposta all’altra: nella prima, quella superiore, si officiava giornalmente, nella seconda, quella inferiore, si adunava la Congrega del S. Rosario o il Sodalizio della bella Sant’Agnese, ma si può dire che l’unica grande celebrazione ivi avvenisse nei giorni della Passione.

Se però nella parte superiore della Chiesa era dato cogliere qualche raro gioiello umanistico, nella parte inferiore si poteva ammirare una tela riferibile alla seconda metà del ‘500. Infatti nella parete di fondo della cripta, si vedeva raffigurata la Madonna del Rosario: lavoro di un tardo seguace di Raffaello, forse Luca Fornaci, che in quel tempo dipingeva a Chieti”[1]




Veduta della chiesa madre di Filetto, distrutta nel 1943, dal Corso S. Giacomo, oggi via Roma – Archivio Calendario Associazione “Ars Magistra” - Filetto


Luca Fornaci, Madonna coi Misteri del Rosario, chiesa di S. Maria ad Nives, Filetto

2 giugno 2025

IL CANTO POPOLARE ABRUZZESE NELLE TRADIZIONI DI IERI E DI OGGI – Capitolo VI: I Canti popolari di Sant’Antonio abate (Lu Sant’Antonie) in Abruzzo.

 

IL CANTO POPOLARE ABRUZZESE NELLE TRADIZIONI DI IERI E DI OGGI – Capitolo VI: I Canti popolari di Sant’Antonio abate (Lu Sant’Antonie) in Abruzzo

di Angelo Iocco 

Vita di S. Antonio abate in breve 

S. Antonio Abate (Qumans, 12 gennaio 251 – Deserto della Tebaide, 17 gennaio 356) è stato un abate ed eremita egiziano. Contemporaneo di Paolo di Tebe, è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati; a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio. La sua vita è stata tramandata dal suo discepolo Atanasio di Alessandria. È uno dei quattro Padri della Chiesa d'Oriente che portano il titolo di "Grande" insieme allo stesso Atanasio, a Basilio e a Fozio di Costantinopoli. È ricordato nel Calendario dei santi della Chiesa cattolica e da quello luterano il 17 gennaio, ma la Chiesa ortodossa copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde, nel suo calendario, al 22 del mese di Tobi. Antonio nacque a Coma (l'odierna Qumans) il 12 gennaio del 251, figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent'anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, sentì ben presto di dover seguire l'esortazione evangelica: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri".

Segue in pdf

21 maggio 2025

Il culto dei Santi Patroni in Abruzzo.

IL CULTO DEI SANTI PATRONI IN ABRUZZO

 Si può parlare di identità regionale dell’Abruzzo solo a partire dal sec. XVIII; precedentemente si preferisce parlare di una “identità sfuggente” 1, dovuta alla sua conformazione policentrica, in cui ogni città ha difeso il suo peso politico, la sua presenza sul territorio. Ancora oggi c’è un forte campanilismo tra comuni e anche tra subregioni.

La storia ecclesiastica abruzzese ci documenta che lo spazio cittadino è profondamente segnato dalla presenza dell‘elemento religioso che si ritrova non solo nella agiografia e toponomastica, ma anche del paesaggio stesso costellato di chiese, monasteri, abbazie dal passato più o meno potente, e anche da piccoli luoghi di culto rupestri, cappelle tratturali, edicole votive. Più di tutti il Santo Patrono ha costituito il nucleo aggregante della identità municipale, segnando profondamente la cultura antropologica dei luoghi. Il culto per il santo patrono cittadino è l’espressione più antica e persistente del rapporto fra il santo e il luogo in cui ha versato il suo sangue e di cui spesso è stato anche vescovo, o che ha onorato con la sua vita esemplare e ha protetto dai pericoli spirituali e materiali.

Ci sono molti studi sulle cause e gli effetti del culto del Santo Patrono e su chi era, nel pensiero protocristiano, un Santo e come nasce e si sviluppa il relativo culto. Ne cito solamente due.
Uno studio a carattere generale:
Peter Brown, Il culto dei santi. L’origine e la diffusione di una nuova religiosità, Einaudi, Torino 2002.
Un altro studio in 5 volumi, specificatamente sui comuni abruzzesi:
Maria Concetta Nicolai, Un Santo per ogni campanile. Il culto dei Santi Patroni in Abruzzo
Volume I – Gesù e la sua Famiglia, gli Arcangeli, gli Apostoli ed Evangelisti
Volume II – I Martiri
Volume III – Papi , Vescovi e Patriarchi
Volume IV – Abati monaci, eremiti, eremitani, pellegrini e santi ausiliatori
Volume V – I taumaturghi. Due predicatori dell’osservanza. Tre santi della controriforma

Scrive I. Silone nella presentazione dell’Abruzzo sul Tourin Club 1948 (tutto il testo):

Nel quadro severo delle sue montagne e nelle difficili condizioni di esistenza da esse determinate, il profilo spirituale dell’Abruzzo è stato modellato dal cristianesimo: l’Abruzzo è stato, attraverso i secoli, prevalentemente una creazione di santi e di lavoratori.

Dopo averne capito le montagne, che sono il corpo, per scoprire l’interna struttura morale dell’Abruzzo bisogna dunque conoscerne i santi e la povera gente.

Si può infatti dire che manchino nella storia locale glorie civili e militari paragonabili a quelle della maggior parte delle altre regioni d’Italia; mentre, durante tutto il medioevo, che fu l’epoca di formazione dell’Abruzzo, e fino al secolo scorso, le anime elette non vi trovarono altro scampo e non vi conobbero altre forme di sublimazione e di genialità all’infuori di quelle religiose. E questo si rivela, a prima vista, anche al forestiero più distratto, per l’assoluta inferiorità costruttiva dell’architettura civile rispetto a quella religiosa: non sono infatti pochi i luoghi d’Abruzzo, tanto urbani che rurali dove, a chiunque abbia gusto ed interesse per le creazioni dell’arte, dopo aver visitato le chiese e i conventi, resta poco o nulla da vedere.

L’Abruzzo è pertanto fra le regioni più cristiane d’Italia. Questa regione che in tutta la sua storia, per i suoi duri valichi ed il carattere chiuso, aspro e diffidente dei suoi abitanti, è sempre stata di difficile accesso alle nuove credenze, fu invece tra le prime ad aprirsi al cristianesimo; erano ancora i tempi apostolici e il territorio si chiamava tuttavia provincia Valeria, quando vi arrivò e fu accolto il Vangelo. La nuova religione vi fu professata subito da uomini che l’accolsero in tutto il suo rigore, alieni dalle facilitazioni costantiniane, secondo attesta la memoria di un monachesimo autoctono, diverso da quello farfense e vulturnense e anteriore a San Benedetto.

Fino al Decretum super electione sanctorum in patronos di papa Urbano VIII (23 marzo 1630) la scelta dei santi patroni dei luoghi era operata indistintamente dalla Chiesa e dalle istituzioni civili, talvolta eleggendosi al patronato finanche i santi non canonizzati. Col decreto il pontefice pose fine agli arbitri fino ad allora perpetrati ed impose regole severe per l’elezione dei santi tutori, rendendo obbligatoria l’approvazione pontificia e imponendo un iter che prevedeva il voto ufficiale dell’ordinario diocesano, del clero secolare, di quello regolare e della popolazione del luogo interessato dal patrocinio, per poi trasmettersi l’incartamento alla Congregazione dei riti per una meticolosa analisi dello stesso.
Il decreto del 1630 è restato in vigore fino alla comparsa delle Normae de patronis constituendis promulgate il 19 marzo 1973 da papa Paolo VI. Le nuove norme stabiliscono una riduzione del numero dei santi patroni ad uno solo per snellire i calendari liturgici delle Chiese particolari, ma soprattutto confermano che la scelta del patrono spetta a coloro che godono della sua protezione, e quindi non solo al vescovo e al clero ma anche e soprattutto al popolo che è esplicitamente chiamato a esprimersi mediante pubbliche consultazioni.

In Italia tradizionalmente è consuetudine festeggiare il santo che ha il ruolo di patrono in una comunità. Nella città patrocinata, la giornata dedicata al santo è celebrata come un giorno festivo (il suo fondamento è nei contratti collettivi ). Il festeggiamento tradizionale prevede alcune cerimonie pubbliche, processioni, fuochi d’artificio e momenti conviviali. Il giorno festivo varia da comune a comune, a volte anche per uno stesso santo. Diversi comuni hanno fissato una doppia data; altri non hanno fissato una precisa data ricorrente ma una giornata relativa (per esempio ultima domenica di luglio, ecc.). In Abruzzo questa tradizione è ancora molto sentita e la festa del santo patrono continua ad essere la festa delle feste; è diventata molto più laica ma sempre identificante ed aggregante per le comunità, in modo particolare per i paesi soggetti nel tempo a forte emigrazione.

Il culto del Santo Patrono è comunque collegato alla storia delle diocesi abruzzesi, di cui si parla in un altro articolo.

Elenco cronologico culto dei Santi Patroni in Abruzzo

Ecco in ordine cronologico e raggruppati per mesi i Santi Patroni dei comuni abruzzesi. Per curiosità diciamo che i Santi titolari del patronato sono 173 (tra i più frequenti: la Madre di Dio 24, San Nicola di Myra 18, San Rocco 15, San Giovanni Battista 11). Per le feste che hanno come riferimento a Pasqua o in Albis occorre tenere in considerazione la data annuale della Pasqua.

Gennaio

5 maggio 2025

Gennaro Spadaccini, La cumbuagnìa pì Bère (Pellegrinaggio a San Nicola di Bari).

Gruppo di Vasto

La cumbuagnìa pì Bère (Pellegrinaggio a Bari).

di Gennaro Spadaccini

Giuvunò …addò vànne tutte 'sti pirzàne?
Jè la cumbagniè che và a Sànda Nicole di Bère
E piccà ci vànne? pì divuziàne o pì lù purdàne?
Ammà li dèice? Addùmmannele a chi ti père…

Ma dèmme ... gnà ci vànne? Appète o ‘ngarròzze?
Mèzz’appète e mèzze pure a cavàlle si càle li forze.
E chi jè chi la fàmmene che strèlle e mò' si dànne?
Chillì jè ‘zà Micchilèine...la cummuannànde.

E cànda si pèghe? Haja parlè 'nghì àsse?
Ohhh...cànda ni vù sapà...jè ni li sàcce!
Muà..a la Mète sta Niculine nostre pì' dìce li màsse
e vàcce a capè piccà s'abbèine 'nghi màzze e visàcce.

Fòrze pi si cumbussè jè meje 'nu Suànde frastìre:
'ndì canàsce, 'ndì sènde, e ti po' smizzè la puniziàne;
ma Nuculuène sènde bène, vàde e ti tòje la misìre
e avòje accundè ca jè lu duiàvele addùrre 'ndendàziàne.


Traduzione 

Giovanotto, dove vanno tutte queste persone?
E' la compagnia che va a San Nicola di Bari.
E perché ci vanno? Per devozione o per il perdono?
E lo chiedi a me? Domandalo a chi ti pare qui..

E come ci vanno? A piedi o in carrozza?
Un po' a piedi e un po' a cavallo se si stancano...
E chi è quella donna che strilla e sembra si danni?
Quella è zia Michelina, l'organizzatrice.

E quanto si paga? Devo parlar con lei?
Ohhh....quanto vuoi sapere...io non lo so!
Muà...alla Meta c'è il nostro Nicolino per dire messa
e vai a capire perché s'avviano con bastoni e bisacce.

Forse per confessarsi è meglio un Santo forestiero:
lui non ti conosce, non ti sente, e così può dimezzare la penitenza,
ma Nicolino nostro sente bene, vede e ti sa prendere le misure,
e hai voglia a dire che è il diavolo a indurre in tentazione.


da Francesco Paolo Spadaccini FB

Gruppo di Vasto il 2 maggio a Monte Sant'Angelo, anni '30

Video da Vasto Abruzzo Blog: A piedi per San Nicola. Il pellegrinaggio a S.Nicola di Bari della compagnia di Vasto.

29 aprile 2025

P. Domenico Maria D'Amico da S.Eufemia O.F.M. – Nel 50° anniversario del transito (1943-1993) – Il Santo costruttore di chiese.

Foto-ritratto di Padre Domenico D’Amico, donata a Luigi Polacchi con dedica, Archivio privato “Luigi Polacchi” Villino Nonnina, Pescara.

P. DOMENICO MARIA D’AMICO DA S. EUFEMIA O.F.M. – NEL 50° ANNIVERSARIO DEL TRANSITO (1943-1993) – IL SANTO COSTRUTTORE DI CHIESE

di Angelo Iocco

Nella Biblioteca del Convento dell’Osservanza della Santissima Annunziata del Poggio a Orsogna, si conserva un dattiloscritto inedito dal titolo Storia del Convento della Ssma Annunziata di Orsogna, a firma di Vincenzo Simeoni. Fratello maggiore del sindaco Tommaso Simeoni (1904-1994) che ricostruì Orsogna, Vincenzo si occupò da subito di studi classici e religiosi, e condivise il Collegio col celebre storico P. Aniceto Chiappini di Lucoli, come riporta in questi appunti, e si adoperò per la pubblicazione di diversi articoli su riviste romane e umbre sui francescani abruzzesi e le figure di spicco di Orsogna. Memorabile il suo intervento sulla festa dei Talami a Orsogna, letto al VII Convegno Internazionale delle Tradizioni popolari tenutosi a Chieti nel 1957 per volere del prof. Ernesto Giammarco e Francesco Verlengia.

In questo capitolo, leggiamo la storia del francescano Padre Domenico Maria D’Amico da Sant’Eufemia a Maiella (1886-1943), dell’Ordine Osservante, che si adoperò con pochissimi mezzi e con tanta Fede, per la ricostruzione di diverse chiese abruzzesi in abbandono, e la fondazione di nuovi Conventi dell’Osservanza nel chietino e nel pescarese. Molte notizie sono tratte dal Simeoni, dal volume di P. Donatangelo Lupinetti: P. DOMENICO MARIA D’AMICO IL FRATE MATTONARO, Pescara 1993.

Ecco il testo del dattiloscritto inedito:

Questa attraente Figura d’Apostolo francescano, nacque il 25 agosto 1864 da Ercole D’Amico e Filomena Tonto a S. Eufemia a Maiella, dove crebbe come un Giglio profumato. Circondato dall’affetto dei genitori, del fratello Giocondino e dalla sorella Maria Giustina, passò la sua innocente fanciullezza e casta gioventù nell’aiutare suo padre sacrestano. A 12 anni ebbe il primo incontro con Gesù, che con il lavorio della sua grazia man mano lo preparò alla sua futura missione. Gli fu di valido aiuto il buon Arciprete d. Gioacchino Cerretani il quale, conoscendone la bontà, la vivida intelligenza e le disposizioni, prese a coltivarne la mente e il cuore, quasi presago del suo avvenire. Domenico si prestava a quel provvidenziale insegnamento anche quando l’Arciprete fu trasferito a Villa Reale[1], facendo chilometri a piedi, e spesso vi rimaneva per apprendere lezioni di Religione, cultura generale e latino. E per non essere in aggravio al suo benefattore, la sera studiava alla fioca luce del Sacramento, davanti al quale poi profondeva dolci colloqui d’amore.

In quella favorevole atmosfera, nacque in lui la vocazione sacerdotale, nonostante i continui richiami del mondo fallace e ingannatore e la propaganda anticlericale che allora si propagava nella nostra Penisola. Il suo sogno andava man mano maturando nel suo animo tra quei monti suggestivi, risonanti del murmure delle acque e degli alberi secolari, anzi fu forse quell’ambiente mistico che gli suggerì di chiudersi in un Convento per meglio servire il Signore nel silenzio del chiostro. Nell’anno 1866 i Conventi erano stati chiusi per legge, e i poveri Religiosi dispersi come fuscelli al vento, non sapendo quindi come realizzare il sogno tanto caro, egli si raccomandò alla sua cara Madonna la quale venne preso in suo aiuto.

Fortunatamente il 13 luglio 1885 si riaprì il Ritiro di Orsogna ed allora il giovane decise di lasciare il suo paese per seguire la voce di Dio. non l’attrasse il vicino Convento di Tocco Casauria, posto come sentinella avanzata del francescanesimo allo sbocco della valle che divide l’imponente Maiella dal Morrone, santificato da S. Pietro Celestino e dai suoi Monaci.  Eppure, un mistico come lui avrebbe dovuto preferire quel baluardo serafico che dalle falde del Morrone domina un vasto orizzonte che si estende dalla sottostante Gola di Popoli sino all’azzurro Adriatico, e oltre il superbo Gran Sasso, ai cui piedi il 27 febbraio 1862 era morto Gabriele dell’Addolorata, il Santo del sorriso “Stella dell’eternità senza fine”.

Fondato nel 1470 dal Comune di Tocco in onore di S. Francesco e di S. Giovanni da Capestrano che si era spento il 23 ottobre 1456 a Ilok dopo la sua splendida vittoria di Belgrado sui Musulmani, vantava un glorioso passato ed era la Sede capitolare dei Francescani d’Abruzzo. Chiuso nel 1811, ma riaperto il 13 marzo 1816, era rimasto a svolgere fortunatamente la sua piena attività anche dopo il 1866, nonostante avesse subìto la dispersione della ricca biblioteca. Certamente l’aveva salvato il potente mistico nome di S. Maria del Paradiso! Potenza della Madre di Dio!


Filippo Palizzi, schizzo del Convento di Orsogna, 1874 – fotoriproduzione dall’archivio del Convento della Santissima Annunziata, Orsogna.

A 21 anni, il giovane Domenico lasciò i suoi cari monti, testimoni della sua ascesi mistica, per dirigersi verso il lontano Ritiro di Orsogna fondato nel 1448 da S. Giovanni da Capestrano. Era stato chiuso improvvisamente dal Delegato di pubblica sicurezza il 14 gennaio 1864, l’anno di nascita di Domenico, ma riaperto il 13 luglio di quel fatidico anno 1885, che segnava l’inizio di una nuova vita per il Missionario. Che meravigliosa coincidenza! In quell’arco di tempo egli aveva maturato il suo bellissimo sogno che doveva rivelarsi radiosa realtà. Superando i meravigliosi Monti della Maiella, giunse a Caramanico per rifocillarsi di un boccone. Quel giorno era venerdì, ed egli senza rispetto umano, chiese al locandiere cibo di magro, tra le beffe di alcuni giovinastri che vomitarono ingiurie contro il Papa e tutto ciò che vi era di veramente bello e sacro.

27 aprile 2025

Antonio Mezzanotte, La chiesa di Santa Maria di Roncisvalle a Sulmona.

LA CHIESA DI SANTA MARIA DI RONCISVALLE A SULMONA
di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che nell’anno 826 alcune giovani sulmonesi andarono a raccogliere erbe nelle terre a confine tra Sulmona e Pescocostanzo. Certi pescolani cominciarono a importunarle e uno di questi, il più sfrontato, oltraggiò la più bella delle sulmonesi, nonostante la disperata resistenza della ragazza. Tornate a Sulmona, le donne riferirono l’accaduto ai padri, ai nobili e al sindaco della città e tutti, sdegnati, fecero proposito di vendetta, ma nascosero le loro intenzioni per non insospettire i colpevoli. Venne così il 1° settembre 827 e molti pescolani scesero a Sulmona per prender parte alla grande fiera della Madonna di Roncisvalle. I sulmonesi tesero l’agguato e, all’improvviso, piombarono su di essi facendone strage, senza riguardo a sesso ed età: trecento pescolani furono fatti a pezzi, a settanta donne vennero tagliate le vesti dall’ombelico in giù e fatte sfilare a frustate per Sulmona, per dileggio, mentre le teste degli uccisi furono appese ed esposte per la città: un provvedimento comunale ordinava a tutti i cittadini di oltraggiare quei miseri resti, sotto minaccia di pena capitale.
La vicenda è raccontata da Giovanni Pansa (archeologo, storico e politico vissuto a cavallo del 1900, la cui formazione giuridica appare evidente per il rigoroso richiamo alle fonti e per la chiarezza argomentativa dei suoi scritti) sulla Rassegna abruzzese di storia e arte del 1899, che la riprende dai resoconti dell’Acuti, un cronista del XVI secolo, il quale a sua volta trascrive un racconto popolare (precisando che l’episodio accadde davanti a Porta San Martino, poi chiamata Porta Sant’Agostino, una delle porte distrutte nel sisma del 1706 e delle quali s'è persa memoria, ma che mi dicono che questa doveva trovarsi all'inizio di corso Ovidio, tra piazza Carlo Tresca e via Porta Romana, prima dell'odierno palazzo della Curia diocesana).
Ovviamente, è lo stesso Pansa a mettere in dubbio l’episodio, frutto di storie e leggende stratificatesi nei secoli, di certo riferite a scaramucce di confine tra le due cittadine, e la chiesetta, tutt’oggi esistente, probabilmente deve il nome non tanto al ricordo dell’epopea dei paladini di Carlo Magno e, in particolare, della disfatta al passo pirenaico di Roncisvalle (abbinando, quindi, nella fantasia popolare, il mito di Orlando all’asserita strage di pescolani), quanto all’appartenenza dell'edificio all’Ordine ospedaliero degli agostiniani di Santa Maria di Roncisvalle (così detto per l’ospedale fatto costruire da un re di Navarra nel 1219 lungo la via di Compostela proprio sul celebre passo dei Pirenei).
La chiesa sulmonese (indicata nelle fonti anche come S. Maria Lungis Valle, Rosa de Vallis o Rocci da Valle, S. Maria Giovanna – quest’ultima denominazione è probabile da una storpiatura della pronuncia dialettale) venne eretta in una zona sacra dedicata a Minerva, come testimoniano i reperti rinvenuti appena fuori dalla cinta muraria cittadina, dalle parti di Porta Romana. Alla chiesa era annesso un ospedale (termine polivalente, che poteva alludere a un luogo di cura, ma anche a un ricovero per pellegrini), adiacente al lato settentrionale, nel sedime di una precedente chiesa dedicata a San Vincenzo. Tutto il complesso in età angioina venne posto sotto l’amministrazione della Casa Santa dell’Annunziata e ancora ne dà notizia quel gran galantuomo di Pietro Carrera da Rosciano, Governatore dell’Ospedale dell’Annunziata alla fine del 1700.
La chiesa sorge lungo quella che era la Via Numicia o Minucia, strada della tarda età repubblicana che saliva da Corfinio verso Alfedena, passando per l’altopiano delle cinquemiglia; nel tempo venne inglobata nella medievale Via degli Abruzzi, che collegava Firenze a Napoli, aggirando Roma e le paludi del litorale laziale. In questo tratto la strada venne a coincidere con il tratturo Celano - Foggia e i pastori potevano trovare riparo nella chiesa, abbeverando il bestiame nell’attigua fontana, nota anche come fonte di Santa Maria Giovanna (una referente del luogo mi parlava di un'altra denominazione: “fonte dei lupi mannari”, ma non mi ha saputo precisare il motivo), le cui acque venivano ritenute miracolose e dalle proprietà salutari. La fontana, posta di fronte alla chiesa, ancora ammirabile nella lineare monumentalità, è di semplice impianto quadrangolare con quattro mascheroni decorativi.
La struttura originaria del piccolo tempio risale al XIII sec., a navata unica. Il portale d’ingresso, ogivale, presenta nella lunetta un affresco della Madonna con Bambino e santi databile alla seconda metà del 1200. Nel XV sec. fu aggiunto un portale esterno sul quale venne collocato, in corrispondenza della chiave dell’arco, lo scudo in pietra dello stemma cittadino (di età sveva e forse il più antico della città, come sostiene Franco Cavallone in un interessante contributo apparso sulla Rivista Abruzzese qualche tempo fa); in epoca successiva al terremoto del 1706 la chiesa è stata oggetto di numerosi interventi manutentivi. L'altare barocco richiama esempi di scuola pescolana.
L’immagine della Madonna di Roncisvalle era ritenuta miracolosa (mi si dice di una speciale devozione di Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III, che fu amministratore apostolico della diocesi di Sulmona - Valva nel 1521) e di recente è stata rinvenuta, tra le carte dell’Annunziata conservate nella sezione sulmonese dell’Archivio di Stato, una bolla di papa Bonifazio IX del 1391 che concedeva l’indulgenza plenaria per coloro che avessero visitato la chiesa pentiti e confessati nell’ottava dell’Assunta, a testimoniare l’importanza del luogo e del sacro edificio nei secoli passati.
La chiesa, dopo un lungo periodo di abbandono, è stata restaurata qualche anno fa. Un piccolo luogo identitario, testimone delle vicende locali legate alla transumanza, alla fede e alla pietà popolare, all'accoglienza di pellegrini, forestieri e malati. Queste chiesette, collocate quasi sempre ai margini degli abitati, lungo i tratturi o presso fonti sorgive costituiscono la nostra memoria più intima e dare ad esse il dovuto valore sarebbe davvero cosa buona e giusta.

23 aprile 2025

Sciarretta A-L, "Colonie Slave (Schiavoni) nel XV - XVI sec. nell'Abruzzo e Molise Adriatico".


Nella seconda metà del Quattrocento e fino agli inizi del Cinquecento, l'Abruzzo e l'odierno Molise (in parte Capitanata all'epoca) furono interessate dalle migrazioni degli "Schiavoni" dalle opposte sponde dell'Adriatico, cioè la costa dalmata tra Zara e Cattaro. Pare che le cause principali fossero le invasioni turche e i buoni rapporti che legavano i re siciliani della dinastia aragonese alle popolazioni balcaniche.
Il nome "Schiavoni" riflette chiaramente il latino sclavonus 'slavo', ma molti di questi erano in realtà albanesi o forse di etnia mista. La vera discriminante era la religione: latini (cattolici) vs. greci (ortodossi).
In Abruzzo furono interessate le diocesi adriatiche: Chieti, Penne-Atri e in minor misura Teramo (Lanciano e Ortona non erano ancora state erette o ripristinate). In Molise quelle di Termoli e Guardialfiera. Solo qui sopravvive ancora in alcuni paesi la lingua slava (Acquaviva, Montemitro, S. Felice) Più a sud, a Larino, andarono gli albanesi che mantengono fino ad oggi lingua e tradizioni (Ururi, Portocannone, Montecilfone).
In Abruzzo la lingua originaria è andata perduta da secoli. Ma sopravvivono i cognomi, qualche toponimo e alcune tradizioni. Da questi possiamo verificare come gli Schiavoni dell'Ortonese, Lancianese e Vastese fossero effettivamente dalmati slavi, mentre quelli del Chietino fossero probabilmente misti o albanesi. Stessa cosa nel Pennese e nel Teramano, dove è difficile rintracciare cognomi o altre sopravvivenze di origine slava.
La cartina mostra i territori (antichi castelli disabitati dalla Crisi del Trecento) ripopolati dagli Schiavoni che vi fondarono colonie, e quelli in cui gli Schiavoni si stabilirono accanto a popolazioni locali. Nella legenda, territorio per territorio sono dati i nomi delle colonie, molte delle quali sono paesi ancora esistenti, i cognomi e i toponimi di origine slava.
di Sciarretta Antonio

14 aprile 2025

IL CANTO POPOLARE ABRUZZESE NELLE TRADIZIONI DI IERI E DI OGGI – Capitolo V- I CANTI DELLA SANTA PASSIONE.

 

I Simboli della Passione, incisione settecentesca


I riti popolari della Passione in Abruzzo, iniziano con la preparazione della Quaresima, il tempo degli ultimi 40 giorni della vita di Gesù. In Abruzzo dopo i riti di Sant’Antonio abate di gennaio, prende avvio il tempo della Quaresima, e ci si prepara spiritualmente al Mistero della Passione e Morte del Cristo. In diverse parti della regione, anticamente, si formavano dei gruppi di singoli o compagnie questuanti, che andavano cantando la Settimana Santa, i momenti salienti della Morte di Gesù. Questi canti affondano le radici alle antiche Passioni del Medioevo, che erano diffuse specialmente nell’aquilano dai frati predicatore dell’Ordine domenicano. Esse erano vere e proprie rappresentazioni teatrali sacre, che tramite dei figuranti, venivano inscenate dentro o fuori una chiesa, illustrano i momenti più salienti, con accompagnamento musicale, e voce narrante. In sostanza ancora oggi vengono rappresentate, poco prima della Settimana Santa, le 14 stazioni della Via Crucis, con dei figuranti, in luoghi suggestivi, come chiostri di conventi o abbazie, borghi storici; e in Abruzzo questi canti vennero già schedati dagli etnologi Antonio De Nino, Gennaro Finamore e Donatangelo Lupinetti nei loro lavori.