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20 aprile 2024

Giovanni Antonio Cardona di Atessa, i suoi bei paliotti in scagliola.

Giovanni Antonio Cardona di Atessa, i suoi bei paliotti in scagliola

di Angelo Iocco

Poco conosciuto, non sa quasi niente della sua attività; atessano di buona famiglia, i suoi avi costruirono una casa che oggi prospetta sulla piazza Benedetti, dive c’è la celebre bottega del liquore San Pasquale. Giuseppe Antonio fu falegname e scultore, e la sua maestria nel lavorare la scagliola, la possiamo ammirare nei due bellissimi paliotti d’altare che si trovano nella chiesa di Santa Croce in Atessa, uno dei quali firmato e datato 1703. I due paliotti abbelliscono l’altare della Madonna del Rosario, la “mamma di Atessa”, copia dell’originale di Felice Ciccarelli di Atessa conservata nella chiesa di San Rocco della cittadina. Questa copia forse è di Francesco Paolo Marchiani per bella fattura, ma c’è chi sostiene che sia una copia devozionale di Gabriele Falcucci atessano, che nel paese realizzò diverse altre opere, specialmente nella chiesa di San Domenico, dove nel 1857 firmò degli affreschi della volta centrale, purtroppo quasi distrutti da infiltrazioni che ne hanno compromesso l’antica bellezza, e nella cappella omonima della chiesa, nell’altare privilegiato della Congrega del Rosario, il Falcucci dipinse un grande quadro di San Domenico e i Misteri del Rosario. Tornando al Cardona, oltre all’altare del Rosario, realizzò il paliotto della cappella corrispondente nella navata di sinistra, della Beata Vergine delle Grazie. 

LEGGENDA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE DI ATESSA

La nicchia conserva la statuetta del XVI sec. di fattura molto popolare della Madonna col Bambino e alla base due angeli; la leggenda riportata da padre Tommaso Bartoletti nei suoi manoscritti di storia atessana, dice che in una nicchie tufacea dove oggi insiste l’altare, fu rinvenuta la statuetta votiva, che fu messa in sicurezza dentro la chiesa, ma ogni giorno la statua veniva rinvenuta nello stesso luogo, qualche mano misteriosa la riponeva sempre lì? O era il volere della Madonna? La terza volta che la Madonna fu rinvenuta allo stesso posto, fu sentimento comune innalzarLe un altare. 

La Madonna ha quel movimento realistico delle Madonne tosco-umbre, le cui influenze secondo il Toesca, giunsero nell’Abruzzo aquilano nella seconda metà del Duecento, con la venuta nel Regno di Sicilia degli Angiò. A Scurcola infatti nel santuario della Madonna della Vittoria, si conserva la bellissima Madonna, con l’anca piegata nel sorreggere il Bambino, che le si aggrappa ai capelli. Un dettaglio artistico di rilievo, di saporito realismo, del tutto assente nelle Madonne statiche del Romanico. Una Madonna che nella zona chietina ha delle affinità anche con la Madonna col Bambino della bottega di Francesco Perrini nel portale della chiesa di Sant’Agostino di Lanciano, del 1320 ca.


La festa della Madonna si svolge in Atessa il 19 maggio, mese mariano, con un triduo, anticamente la novena, e il giorno di festa la solenne processione per le strade del quartiere.

12 aprile 2024

La lune a la Maielle. Canti abruzzesi, versi di Don Evandro Marcolongo.


Coro Giovani Voci Dijoriane, Atessa
canzoni:
SERENATELLA STUNATE di Marcolongo-Di Jorio
PAESE ME' di Marcolongo-De Francesco
LA BANDA DI ZI' NICO' di Marcolongo-Di Jorio
CHI VA'...CHI VE' di Marcolongo-Di Jorio
QUANDE MAMME MI DICE' i Marcolongo-Di Jorio
LE STELLE di Marcolongo.Garzarelli-Jannucci
UNA BELLE, UVA DOCE di Marcolongo-Coccione
SERENATA SPASSOSE di Marcolongo-Di Jorio
SERENATA DE L'AMORE PERDUTE di Marcolongo-Coccione
LA CANZONE DE LU GRANE di Marcolongo-Coccione
LA CANZONE DELL'UVA di Marcolongo-Di Jorio
SUONNE di Marcolongo-Di Jorio
BORZA NERE di Marcolongo-Di Jorio

26 gennaio 2024

Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa.

Ludovico Teodoro, San Leucio nelle vesti di vescovo, con ai piedi il Dragone, Duomo di Atessa

Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa

Prima Puntata

di Angelo Iocco

Poco si conosce di questo artista, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti[1], uno dei migliori che fu attivo nell’Abruzzo chietino e nel Molise, ma anche nell’area di San Benedetto del Tronto e del teramano (dipinse il soffitto della Collegiata di Campli), dagli anni ’30 agli anni ’50 del ‘700. Per vent’anni dominò la scena con altri colleghi spesso napoletani, come Ludovico De Majo, Francesco Solimena, Giovan Battista Spinelli. Fu sepolto a Chieti nella chiesa di San Domenico, andata demolita nel 1914 per costruire il palazzo della Provincia di Chieti. La lezione del Teodoro pare essere stata recepita anche in Atessa, benché non siano attestate sue opere nelle chiese. Un esempio è l’affresco della volta della sala grande del palazzo De Marco-Giannico, ex casa di riposo, in Largo Castello, la cui scena illustra al primo piano Ercole che combatte l’Idra di Lerna, e al centro il Giudizio di Paride con Giunone, Minerva e Venere con l’Amorino, e attorno nelle nuvole dell’Olimpo, figure femminili e Grazie. La scena, ripresa anche dalle stampe che circolavano in quei tempi, ricorda per la divisione in due scomparti,. Le due tele del Teodoro di Chieti (chiesa di Santa Maria della  Civitella) e Guardiagrele (chiesa di Santa Chiara) con il tema della Cacciata del Demonio e degli Angeli ribelli dal Paradiso.

Dal volume A. e D. Jovacchini, Per una storia di Atessa, Cassa di Risparmio, Atessa, 1993

Ludovico figlio di Donato, attivo nella seconda metà del Settecento, fu ugualmente pittore, e non dimenticò l’insegnamento paterno, apprezzava le grandi scene corali, spesso rintracciabili nei dipinti di Luca Giordano a Napoli, dove andò a formarsi, come fece suo padre; e non mancava sicuramente di avere una personale collezione di stampe, da cui traeva ispirazione per i suoi affreschi di ampio respiro. Al momento, pienamente attribuibile a Ludovico, sono la tela di San Leucio vescovo col dragone, presente nell’altare maggiore del Duomo di Atessa, firmato e datato 1779. Benché non firmate, mi sento di attribuirli anche le due tele laterali del coro dei Canonici, che ritraggono la Natività con la Sacra Famiglia, e l’Adorazione dei Pastori. Opere  un di gusto teodoriano per la ben costruita scenografia, anche se con le immancabili grossolane superfetazioni del Bravo, e i fondi oscuri tipici dell’ultimo Donato, di chiara derivazione tardo caravaggesca[2].

Anonimo, Annunciazione, chiesa della Santissima Annunziata, Civitaluparella, 1790.

il ciclo di pitture sulla volta centrale della stessa chiesa collegiata di Atessa, con scene bibliche del Vecchio Testamento. Purtroppo a causa di danneggiamenti, le pitture sono state rifatte in più punti di scadenti restauratori, rovinando completamente l’opera ad esempio nella prima scena:“Battaglia e Giuditta con la testa di Oloferne”, dove si vedono i pesanti ritocchi del Bravo. I tondi laterali la controfacciata con i Santi Principi Pietro e Paolo, pure sono di Ludovico Teodoro.

Il secondo riquadro: “David accoglie Saul vincitore contro Golia” è molto simile al quadro dipinto dal padre Donato che mostra la scena di “Davide con la testa di Golia davanti a Saul”, oggi conservata nel palazzo Martinetti-Bianchi di Chieti, oppure allo stesso soggetto per la volta della chiesa madre di Colledimezzo. La composizione del soggetto ha la stessa matrice, ma il risultato di Ludovico è più scadente. In parte è dovuto ai restauri di Ennio Bravo, che ha cambiato alcuni volti, in parte alla stanca ripetizione dei modelli, come il barbuto Saul sul trono che è impaurito dalla scena macabra, e il giovane David, che con la sua smorfia di sofferenza esprime quel mansuetismo, quasi senso di colpa per i propri trionfi, che accomuna diverse opere di Donato che abbiano questa peculiarità del Trionfo del Bene sul Male, quasi uno strizzare l’occhio al Davide con la testa di Golia del Caravaggio. Ma appunto, ciò non riguarda tutte le opere del Donato, basta riferirsi ai volti trionfanti di Giuditta con la testa di Oloferne nella chiesa di Sant’Agata di Chieti, o ad altri soggetti simili, come lo stesso tema nella cupoletta del santuario dell’Assunta di Castelfrentano, et similia.

Donato Teodoro, Incontro tra Salomone e la Regina di Saba, Museo d’arte “C. Barbella”, Chieti, foto M. Vaccaro per gentile concessione

La scena “Saul placato dall’arpa di David e l’Arca dell’Alleanza” si divide in tre momenti, sulla sinistra il coro di cantatrici con strumenti musicali, al centro Saul che suona l’arpa, a destra i sacerdoti e l’Arca.

Navata del Duomo di Atessa


Osserviamo le fotografie delle pitture della volta del Duomo.

1° dipinto: L. Teodoro, Giuditta e Oloferne, particolare

2° dipinto, Saul e David con la testa di Golia, particolare di David

3° dipinto: David suona l’arpa con l’Arca dell’Alleanza, veduta d’insieme e particolare


4° dipinto: Salomone e la Regina di Saba.

L’ultima scena “La Regina di Saba” ha moltissime somiglianze con il dipinto di Giacinto Diano che realizzerà nel 1788 ca. nella Basilica cattedrale di Lanciano, la matrice della stampa da cui i due pittori hanno attinto è la stessa. Anche qui notiamo l’esasperazione dei volti, l’abbruttimento dei tratto somatici dei sacerdoti e delle cariche ebraiche, nonché i lunghi nasi, gli occhi strabuzzati, i pizzetti appuntiti, i turbanti delle figure di religione islamica contro cui si scontrano gli ebrei. Le pennellate sono molto chiare, seppur Ludovico non riesca a eguagliare la grandezza paterna. Osservando queste pitture, ci viene in mente il primo Donato Teodoro, non ancora trentenne, che fu attivo nel cantiere del santuario dell’Assunta di Castel Frentano, con la controfacciata della “Cacciata dei mercanti dal Tempio”; le pennellate simili, i colori leggermente sbiaditi, l’affresco orale di personaggi che si intrecciano in un turbinio di azioni, di giravolte, di scene concitate che inducono al movimento, a riguardare più volte la scena per adocchiarne i particolari.

Ludovico nel Duomo dipinse anche i tondi laterali con le figure degli Apostoli, e delle tele applicate ai pilastri della navata maggiore del Duomo, con le scene della Via Crucis.

 

Altre opere d’arte a San Leucio

Nel Duomo. Il pulpito in legno è della bottega Mascio di Atessa.

NAVATA DI SINISTRA, altare di San Michele che sconfigge Lucifero, è brutta copia di Francesco De Benedictis[3] del quadro di Guido Reni (sia De Benedictis che il suo predecessore Giuliano Crognale di Castelfrentano ne sfornarono di queste orride copie del quadro di Guido Reni per le chiese del chietino!), che però forse avrà copiato dal suo maestro Nicola Ranieri, per il san Michele presente nell’altare maggiore della chiesa di sant’Antonio di Lanciano, o da una stampa del quadro di Reni che circolava molto facilmente tra i disegnatori dei suoi tempi.

2° altare: Santa Lucia martire, quadro moderno di Ennio Bravo[4]

A seguire. Statua di san Pietro seduto, del XVI secolo, in pietra, dall’atteggiamento meditativo.

3° altare di San Giuseppe in cammino col Bambino, dell’800, autore locale, della scuola di Giacomo Falcucci

4° altare di San Bartolomeo martirizzato, opera dello stesso autore del precedente San Giuseppe col Bambino

CAPOALTARE NAVATA SINISTRA A CAPPELLA:  nicchie con statue del Sacro Cuore, San Donato e Madonna Immacolata, bottega locale. Il soffitto è stato rifatto da Bravo con i soliti cassettoni e fioroni.

Nella nicchia di controfacciata della seconda navata di sinistra, c’è il busto di San Leucio in argento di scuola napoletana datato 1857, e la costola del drago.

Ritratto del Prevosto Giandomenico Maccafani, presso la Sagrestia

NAVATA DESTRA: a muro in controfacciata, tela dell’Ultima Cena, autore ignoto, ma forse Giacomo Falcucci o di un suo seguace.

Altari laterali:

1° altare di Sant’Anna con Maria Bambina, tela di F. De Benedictis, di poco interesse.

2° altare con Martirio di San Sebastiano, con ex voto, forse di Giacomo Falcucci[5], è classificato come di anonimo dell’800.

3° altare di San Martino in gloria, con i putti che reggono le spighe. Ignoto, forse questo è un altro dipinto ignoto di Ludovico Teodoro; la postura è identica alla tela di san Leucio nell’altare maggiore. Il Santo con il braccio destro benedice, con l’altro regge il Vangelo e il pastorale. Accanto due angeli che reggono fasci di spighe. Quasi sempre Martino vescovo ha in mano un grappolo d’uva e un fascio di spighe di grano, per ricordare il suo protettorato sulle messi. A san Martino si rivolgevano preghiere per un raccolto prospero di grano, uva ed altro. Questa iconografia è presente in diverse opere pittoriche e scultoree che ritraggono il Santo. I due angeli hanno i volti tipici delle figure di Donato Teodoro, che riutilizzò questi modelli per diverse altre sue pitture, specialmente quello dell’angelo di destra che è di profilo, riutilizzato nei servitori delle pitture di Castelfrentano, Lanciano, Chieti. Interessante è anche la veduta in prospettiva di Atessa, dietro il santo, dal lato di Vallaspra, sulla destra vediamo il Duomo, con parte della facciata antica, privata nel 1935 delle volute laterali baroccheggianti, un restauro che forse ha restituito un aspetto troppo “razionalista” all’antica facciata gotica, a giudicare il periodo storico in cui venne recuperata. Sulla sinistra vediamo le mura di Porta Sant’Antonio, con il chiostro dell’antico convento dei Cappuccini e poi delle Clarisse di San Giacinto, demolito negli anni ’60, di cui resta una porzione con degli archi, e la torre massiccia della chiesa di Santa Croce.

 

Ludovico Teodoro (?), San Martino in gloria, con paesaggio, Duomo di Atessa

25 novembre 2023

Yuri Moretti: San Mercurio Statopedarca di Cesarea o Protoconfessore della Terra D'Archi?


SAN MERCURIO STATOPEDARCA DI CESAREA O PROTOCONFESSORE DELLA TERRA D’ARCHI?
di Yuri Moretti

(Rielaborato da “Vergini, soldati e protoconfessori: indagini su alcuni culti palecristiani a cavallo di Monte Pallano” di Yuri Moretti)

Attorno alla figura di San Mercurio, la cui memoria è radicata ad Archi da secoli, sono andate via via stratificandosi storie ed interpretazioni. Cercare di ricostruirle, studiare le vicende che ne accompagnano le reliquie ed il culto, significa innanzi tutto indagare l’origine della penetrazione del Cristianesimo in Val di Sangro.


Qui, l’iconografia e la memoria storica del Santo sono tradizionalmente legate alla figura di San Mercurio martire di Cesarea, annoverato tra i cosiddetti “Santi militari”. Della sua vita sappiamo solo che fu soldato della compagnia dei Martenses, stanziata in Armenia nel periodo delle persecuzioni dei cristiani di Decio e Valeriano (249-260). Dopo il martirio, il suo culto si diffuse assai precocemente in Occidente, se è vero che già all’epoca di Costantino il Grande la sua immagine fu dipinta in molti luoghi della città di Roma. Nella “Traslatio Sancti Mercurii”, attribuita a Paolo Diacono, si racconta che fu l’imperatore bizantino Costante II a trasportare il corpo di San Mercurio da Cesarea in Italia (a Quintodecimo, oggi Quindici) affinchè lo proteggesse nella guerra contro i Longobardi del Ducato di Benevento. Sarà poi a sua volta il duca Arechi II, nel 768, a traslare queste reliquie da Quintodecimo a Benevento, nella chiesa di Santa Sofia, da lui pensata come una sorta di santuario del popolo longobardo. Secondo Borgia, il principe offrì al Santo le chiavi di tutte le porte della città, dichiarandolo suo patrono speciale.
Ad Aeclanum, antico sacello delle reliquie, tuttavia, già dal IV secolo era venerato un santo martire Mercurio e, legato allo stesso, esiste una tradizione agiografica occidentale. Nella Traslatio quindi riscontriamo una tipica sovrapposizione cultuale: il martire locale viene confuso con quello di Cesarea di Cappadocia e si attribuisce all’imperatore Costante II una immaginaria traslazione dell’oriente. Questo aspetto non può essere letto come un semplice errore interpretativo ma va contestualizzato nel tentativo di proporre un’immagine militante e militare di santità adatta alla situazione politica e sociale della Longobardia Minor di allora, nel quadro più ampio di una ridefinizione ideologica del potere. Dietro alle numerose traslazioni di corpi dei santi effettuate da Arechi sembrano nascondersi proprio dei tentativi di legittimazione celesti alle politiche e al potere longobardo.
E’ probabile che una dinamica simile abbia avuto luogo anche ad Archi. Non è chiaro infatti se la dominazione longobarda in questa terra costituì un momento fondativo per la venerazione verso San Mercurio o se sarebbe meglio parlare di una “rifondazione” di un culto preesistente.


A questa seconda ipotesi afferiscono per esempio gli scritti di Girolamo Nicolino che nella sua “Historia della Città di Chieti” del 1657 fa menzione di un antico calendario della Chiesa Teatina che assegnava al 25 Novembre la memoria di un San Mercurio, non indicato però con il titolo di martire. Oltre a lui, l’autore di una storia dell’arcidiocesi chietina, contenuta nell’opera di Giuseppe Cappelletti sull’origine delle chiese particolari italiane, risalente al 1870, affianca figure locali di santità come Cetteo, Aldemario Abate, Nicola greco, Valentino e Damiano duo diacono, a quella di San Mercurio di Archi, sostenendo, di fatto, l’autoctonia del culto.
In realtà, la prima menzione di una chiesa in zona dedicata a San Mercurio risale all’829. In questo documento, contenuto nel Chronicon Farfense, essa risulta di pertinenza del Monastero di Santo Stefano di Lucana, situato nei pressi dell’attuale contrada Torricchio di Tornareccio, che venne aggregato dagli imperatori Ludovico il Pio e Lotario all’Abbazia di santa Maria di Farfa in Sabina. La larga dotazione (che comprende peraltro centri come San Martino in Valle a Fara San Martino, San Pancrazio a Roccascalegna…) sembra configurarsi come una ampia terra fiscale longobarda. Secondo Sciarretta, la chiesa di San Mercurio, assieme a quelle di San Silvestro e di San Pietro in Oliveto, sono da collocare nel territorio di Archi, poiché le stesse si ritrovano nelle decime del 1324 redatte da Sella. Se questa ipotesi venisse confermata, ciò costituirebbe non solo la prima menzione in assoluto del culto ad Archi, ma lo collocherebbe in una compagine cultuale di fondazione longobarda, alla quale apparteneva anche il castellum de Attissa, anch’esso bene del monastero di Santo Stefano. Anche ad Atessa, come ad Archi, la prima cristianizzazione del territorio appare legata al un santo longobardo e beneventano, San Leucio di Brindisi, le cui reliquie, assieme a quelle del martire di Cesarea, si conservavano proprio nel santuario Santa Sofia a Benevento. Il culto di San Leucio per Atessa e di San Mercurio per Archi sono quindi da ricollegare alla penetrazione dell’ideologia longobarda nel nostro territorio, che fu, come abbiamo visto, accompagnata da una politica cultuale che aveva avuto il suo centro di irradiazione nella Benevento di Arechi II.


Per quanto riguarda i secoli successivi, la presenza di un luogo di culto dedicato al Santo compare nella numerazione dei fuochi di Archi, del 1447, riportata da Faraglia. In essa è menzionata per la prima volta la Parrocchia di San Mercurio, retta da don Giacomo Borrelli. In una apprezzo della Terra d’Archi del 1649, redatto in Atessa, in casa di Francesco Cardone, si nomina una parrocchia “sotto titolo di Santa Maria dell’Olmo … e vi è il corpo intiero di Santo Vitale Martire, un altra sotto titolo di Santo Mercurio dove siede il glorioso Corpo di detto Santo similmente Parrocchia”. Della fine del secolo è quella che può essere considerata una ricognizione canonica del corpo santo: il 19 aprile del 1690 il vicario foraneo Don Antonio Grello visita, nella Chiesa del Rosario (o di San Mercurio), l’altare in cui erano custodite le reliquie del Santo in uno stipo protetto da una cancellata di ferro, le cui chiavi erano detenute dal Barone della terra e dal curato della Parrocchia. Il vicario si dilunga in una descrizione minuziosa delle parti del corpo santo, conservate in una cassetta di cipresso, intagliata e mosaicata: la ricognizione avviene alla presenza dello scriba Francesco Cieri e del testimone Don Francesco Persiani.


La bellissima tela della Madonna del Rosario con Santi, oggi conservata nella Parrocchiale di Santa Maria dell’Olmo, risale proprio all’epoca e mostra in basso a destra un santo in paludamenti militari, che potremmo identificare con il martire di Cesarea, che condivise con la Vergine, di fatto, dal 500, il patronato sulla antica Parrocchia del Rione Castello.
Per concludere, risulta chiaro come nella Traslatio beneventana, al culto per un martire locale omonimo, di Aeclanum del IV secolo, si sovrapponga quello di Mercurio di Cesarea di Cappadocia: tutto questo risponde al tentativo di Arechi II di diffondere un culto guerresco, reinterpretazione in chiave cristiana del dio della guerra longobardo Wotan. Per favorire una legittimazione politica del potere, Arechi e i suoi successori diffondono il culto del santo soldato in tutto il Ducato di Benevento, di cui Archi faceva parte. Qui, dove esso sembrerebbe attestato già dal IX secolo, potrebbero essere giunte parte delle reliquie da Benevento. L’evento potrebbe aver innescato una dinamica simile a quella testimoniata della Traslatio: ad un precedente culto per un santo omonimo locale, potrebbe essersi sovrapposta quello del santo militare longobardo. Rimane, comunque, allo stato attuale della ricerca, una ipotesi ragionevole e suggestiva.
In ogni caso, dalla Benevento di Arechi alla Archi dei Cardone il Santo statopedarca e clavigero fu sempre invocato come difensore delle mura: a lui il duca beneventano offri tutte le chiavi delle porte della città e una delle chiavi del suo venerato sacello di Archi erano, nel 600, custodite gelosamente dal Barone di quella Terra.

22 agosto 2023

La bottega di Nunzio e Antonio Ferrari da Guardiagrele.

Nunzio Ferrari, statua di Sant’Antonio abate, chiesa di San Rocco, Guardiagrele

La bottega di Nunzio e Antonio Ferrari da Guardiagrele
di Angelo Iocco

L’uno era il padre di don Filippo Ferrari, prevosto di Santa Maria Maggiore a Guardiagrele, l’altro lo zio. Don Filippo era nato nel 1867, e morì nel 1943, fu attivo nel parrocato della chiesa madre di Guardiagrele, e soprattutto nei primi del ‘900, produsse varie opere di carattere storico-divulgativo sulla storia della stessa chiesa, sulle opere di Nicola “Gallucci” da Guardiagrele, partecipò alla Mostra Regionale d’Arte Abruzzese di Chieti nel 1905, fece scavi archeologici nella necropoli italica di Comino vicino il paese, ma spesso fu tacciato di campanilismo, e di scrivere notizie false, o interpolazioni volute delle fonti per far risaltare maggiormente la sua patria. Avremo modo di interessarci di don Filippo, e delle sue indagini storico-archeologiche e delle sue travagliate vicende di istituire a Guardiagrele un museo civico-archeologico in altri articoli. Tornando ai fratelli Ferrari, erano parenti della famosa bottega di orafi Ferrari, che tanto lustro dette alla piccola Guardiagrele, e che ugualmente nel 1905 partecipò alla Mostra d’arte a Chieti con dei pezzi di vario gusto, e che furono recensiti anche in un numero del 1930 della serie “Città d’Abruzzo”, proprio nella monografia su Guardiagrele. Molto fini nella realizzazione della scultura lignea, in pietra e scagliola, i Ferrari realizzarono alcune statue nelle chiese del loro paese, ad esempio nella chiesa di San Rocco sotto il Duomo di Santa Maria, si conservano un Sant’Antonio abate e un San Rocco, di fine fattura, tanto da farle sembrare del XVIII sec. la loro produzione ben presto superò i confini provinciali, e la bottega sfornò statue per diverse chiese, anche a Sulmona, dove ci sono alcune figurine datate 1907; qui però notiamo come la plastica sia meno elaborata, e si riconosca che le opere siano dei prodotti moderni che cercano di imitare l’antico barocco, non eguagliando altri modelli leccesi, che nelle parrocchie minori abruzzesi erano sovente richieste in quei tempi.
Emigrarono in America, dove ebbero comunque modo di farsi valere con la loro arte. La bottega dei Ferrari si può inserire in quel contesto di revival della scultura plastica abruzzese dell’Ottocento che imitava i fasti del Barocco, a iniziare alla fine del Settecento con Luigi e Filippo Tenaglia di Orsogna, i quali trovarono nel chietino degni epigoni nella bottega Falcucci di Atessa.


Fratelli Ferrari, Sant’Ambrogio, statua della Basilica cattedrale di Lanciano, 1885

Presso gli eredi, come ricorda un numero del giornale guardiese “Aelion”, Piccola “Madonna della Pietà” in pietra. Tra le opere che maggiormente hanno caratterizzato in Abruzzo la loro produzione, ricordiamo quelle per la città principale del circondario del Sangro ovvero Lanciano; nel 1874 Nunzio Ferrari firma una statua di San Francesco Saverio che predica, per la cappella omonima della chiesa di Santa Lucia al Borgo, di bella fattura. Una tela coeva della “Predica di S. Francesco Saverio agli Indiani” fu realizzata da Francesco Paolo Palizzi per la chiesa di Santa Chiara. La devozione lancianese per questo santo, per San Filippo Neri e per San Pompilio Pirrotti, è dovuta proprio alla predicazione di quest’ultima tra Chieti e Lanciano, presso la famiglia Capretti del Borgo, il quale impiantò le Scuole Pie dell’Ordine degli Scolopi. Ecco spiegata la devozione del quartiere per San Francesco nella chiesa di Santa Lucia.

Nunzio Ferrari, San Francesco Saverio, chiesa di Santa Lucia, Lanciano, 1874

Altre opere di rilievo dei Ferrari in Lanciano, sono il gruppo delle quattro statue monumentali di Sant’Ambrogio, Sant’Anastasio, Sant’Agostino e San Girolamo, presso le nicchie della navata della Basilica cattedrale di Lanciano- già lo storico Luigi Renzetti, contemporaneo dei fratelli Ferrari, e testimone oculare del lavoro eseguito nel 1885, ne parlò nella sua monografia sul Santuario di Nostra Signora del Ponte, lodando la bella opera. Le statue sono severe, ricche di particolari, i quattro Dottori della Chiesa sono rappresentanti mentre leggono o redigono i loro famosi Scritti, Sant’Agostino guarda in alto, ispirato da Dio, San Girolamo è più grave, leggendo il suo cartiglio, con la testa canuta, sono figure che danno gravità e severità alla grande basilica rococò lancianese, e che danno testimonianza di come Guardiagrele sia sempre stato centro di arti orafe, scultoree, e pittoriche con la bottega di Nicola Ranieri.

6 maggio 2023

Lanciano e i privilegi regi di Napoli, in un manoscritto di Giuseppe Ravizza del 1735.

Lanciano e i privilegi regi di Napoli, in un manoscritto di Giuseppe Ravizza del 1735.

di Angelo Iocco

I Ravizza, scrive Massimiliano Carabba Tettamanti in Quattrocento anni sotto la protezione di San Filippo Neri a Lanciano, 2008, giunsero in città dalla Lombardia nel ‘600, stabilitisi nel rione Borgo, nel palazzo di famiglia che ancora oggi guarda verso via Ravizza. Noti per la professione forense, e ricordiamo i lancianesi Domenico Ravizza, scrittore illustre, e Gennaro Ravizza, giureconsulto a Chieti, che scrisse diverse opere storiche, di Giuseppe Ravizza sappiamo che nel 1692 lasciò un legato alla moglie; a Lanciano fu Dottore di Legge, e mastrogiurato nel 1735, e istituì la Cancelleria presso una sala del convento di San Francesco dove aveva sede il Municipio, riunendovi tutte le scritture pubbliche. In quel tempo la figura del mastrogiurato in città era notevolmente diminuita di prestigio, date le ingerenze e le forti limitazioni inflitte dal governatore della città per conto del Viceré spagnolo, nonché dei feudatari di Casa d’Avalos, che ebbero sotto il loro controllo la città sino al rientro a Napoli di Carlo III di Borbone.

Il Ravizza riunì nel 1735 in un fascicolo, tutte le scritture che era riuscito a rintracciare circa i privilegi regi di Lanciano, probabilmente per perorare la causa della città di rientrare nel regio demanio, ma soprattutto per riottenere i privilegi dei re angioini e aragonesi, e soprattutto i feudi, in particolar modo il Porto di San Vito, che tanto lustro dette a Lanciano. I privilegi raccolti da Ravizza sono andati dispersi nel 1944 con l’incendio di Villa Montesano dove si trovava l’archivio di Stato di Napoli, sicché si possono ricostruire leggendo i Registri della Cancelleria Angioina compilati da Riccardo Filangieri.

I Privilegi raccolti da Ravizza si trovavano nella casa del Magnifico Bernardino De Luca, come attestato nel foglio finale; non sono elencati seguendo un ordine cronologico, ma sembra che li regestasse in base a quello che trovava; tuttavia un filo logico lo si ritraccia, anche per quanto riguarda la collocazione temporale, dato che l’ultimo è del 1608, regnando Filippo II di Spagna, e uno degli ultimi è quello di Carlo V suo padre. Il fascicolo originale si trova nella Biblioteca della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, mentre la biblioteca comunale di Lanciano, sul cui esemplare ho tratto questo studio, ne ha una fotocopia.

Sono interessanti alcuni privilegi, che permettono di ricostruire i rapporti della città con la Corte di Napoli, per mezzo del regio giustiziere che risiedeva nel palazzo del Giustiziere, passato nel 1646 in mano al Marchese Pignatelli giustiziere d’Abruzzo, e poi al Marchese d’Avalos di Vasto, fino al tempo in cui fu acquistato dai de Crecchio, su cui edificarono il nuovo palazzo, che affaccia sulla via dei Frentani in Lancianovecchia. Tuttavia questa documentazione, su cui fecero gli studi l’Antinori, il Bocache e il Romanelli, e il Maranca, presenta qua e là dei dubbi. Il primo, il privilegio di Federico II ai Lancianesi; Loredana Cirulli in suo studio sugli Statuti di Lanciano, edito nel 2001, attacca il precedente studio di Nicola La Morgia del 1979 sugli Statuti Lancianesi, riporta in fotografia il privilegio federiciano trascritto da Bocache, e ne  attesta l’autenticità, sostenendo che Lanciano in quel tempo godeva di una certa autonomia, dai tempi dei Normanni, sebbene non si facciano nel tal privilegio, riferimenti ad altri ipotetici privilegi o documenti rilasciati dai conti Normanni, che solitamente sono ricordati tra un privilegio e l’altro, e che non mancano quasi mani nella successione dei seguenti privilegi raccolti dal Ravizza. A seguire, dando una rapida letta al testo trascritto del presunto privilegio federiciano, non si fa riferimento a uno specifico governo della città, ma si loda la fedeltà e la fiducia dei lancianesi, che mai è venuta meno alla Casa Sveva, sicché in virtù dei precedenti accordi sul governo libero della città, anche Federico II dà il suo placet. Una tesi abbastanza debole per affermare che Lanciano fosse sotto le grazie dello Svevo, occorre sempre procedere con le pinze in queste situazioni di scarsa documentazione. Tantoché di recente è stato smentito anche il Privilegio di Federico con cui egli dava autorizzazione alla costruzione di Aquila, che sarebbe stato piuttosto approvato dal figlio Corrado IV nel 1254. Un’altra falsificazione, denunciata da Michele Scioli nell’editare i Manoscritti di Antinori sui Documenti delle Chiese di Lanciano, nel 1995, riguarda un dispaccio del conte Ugone Malmozzetto di Manoppello, il quale nel 1062 impartiva al “sindaco” di Lanciano di restaurare le mura, ecc. ecc. I Comuni iniziano a svilupparsi nella metà del XIII secolo, come sappiamo, e in queste città appaiono anche le figure dei sindaci; nel caso dell’Abruzzo, su cui spesso incombe il vuoto più totale circa l’amministrazione delle città, sia libere che infeudate, lascia abbastanza perplessi leggere certe cronache di storiografi patri, i quali con assoluta certezza esibiscono copie di documenti che attestano la presenza di questo monumento antico o di quest’altro privilegio, come nel caso di un sindaco a Lanciano, sotto il controllo di chi, di quale signore?, durante la tirannia dei Normanni, specialmente dei Conti di Loritello e del loro scagnozzo Ugone che imperversavano da Chieti a Loritello, da Penne al Trigno!

Lascia qualche perplessità anche la questione, al tempo di Federico e successori, fino almeno a Carlo II, circa la rivalità secolare tra Chieti e Lanciano, che ha dato adito a tante controversie… e falsificazioni e ricostruzioni storiche!, circa il distaccamento amministrativo di Lanciano e relative pertinenze dalla Contea di Chieti, quasi la città vivesse in una oasi felice a parte dalle vicende dell’Abruzzo chietino, quando proprio Federico II cercava di stroncare tutti quei germogli di autonomie e di governi feudali che potessero frapporsi al suo piano politico accentratore! Lanciano, a detta di certi storiografi patri, per la “sua fedeltà”, non rientrava tra tutti questi altri feudi, ed era un caso isolato….

Notiamo, dalla metà del ‘400, leggendo questi privilegi, come dal tempo di Alfonso d’Aragona, inizi a parlarsi di Capitoli e Statuti. Dallo studio della Cirulli apprendiamo come i Capitoli civici di Lanciano abbiano subito diverse traversie; quelli più antichi del 1541 sono una copia-riassunto fatta dallo storico Uomobono Bocache, tramandataci dunque grazie a lui, di altri Capitoli precedenti andati dispersi, per un totale di 27 norme; gli Statuti del 1592 sono 201. Nei primi nel cap. 4 ci sono riferimenti alla facoltà di non pagare la prigionia se un lancianese venga incarcerato ingiustamente da forestieri, nel cap. 17 si fa riferimento all’assoluta osservanza, da parte dei cittadini e figure amministrative, di detti Capitoli.

Negli Statuti del 1592, più corposi di materiale, vediamo alcune norme circa l’elezione del sindaco: solamente un cittadino lancianese può essere eletto, al contrario ad esempio di altri Statuti abruzzesi, come quelli di Teramo, in cui si dà facoltà anche agli stranieri di esser nominati sindaci; a Lanciano invece, ricorda la Cirulli, da una norma del 1494 c’era il divieto per tutti i forestieri di assurgere a cariche politiche, il potere di elezione è attribuito ai quartieri, non al consiglio amministrativo, e dunque ai capifamiglia gentiluomini di ciascun rione. Questo è ricordato anche nel manoscritto su Lanciano di Giacomo Fella, nl cap. “De honorum distributione patrum pobisque” ecc., in cui figuravano 30 decurioni di Lancianovecchia, e aveva gli onori del magistrato, eccetto ogni quarto semestre, la cui carica passava ai gentiluomini del Borgo, e nel quinto anno in cui i gentiluomini della Sacca prendevano la carica. Fella ricorda poi le variazioni del collegio dei magistrati in città, dovuto alle disposizioni regie, nel 1515 re Ferdinando aumentò a 72 il numero dei senatori, tra patrizi e plebei, situazione che rimase così sino al 1564, quando ci fu una rivolta da parte dei tribuni della plebe che accusarono i patrizi di corruzione e peculato. Nel 1562 Lanciano fu obbligata a pagare le imposte arretrate per conto del procuratore regio Antonio Piscicelli, poi il re mandò Gaspare Pincino, e trovò la città indebitata per 22.700 ducati e altri debiti.

24 aprile 2023

Canti e suoni d'Abruzzo, MI TE' SETE, canzoni abruzzesi.

Da: Abruzzo Forte e Gentile 95

CORALE "SANT'ANDREA " - PESCARA CORO CANTORI DI ORTONA CORO DI LETTOMANOPPELLO CORO GIOVANI VOCI DIJORIANE - ATESSA CORO "VITO OLIVIERI" SAN VITO CHIETINO ALL'ORTE popolare VOLA VOLA VOLA di Luigi Dommarco - Guido Albanese A CCOR' A CCORE di Eduardo Di Loreto - Pierino Liberati MI TE' SETE di Nino Saraceni - Antonio Di Jorio DIN DON di Cesare de Titta - Antonio Di Jorio LA CANZONE DE LU GRANE di Nicola Mattucci - Antonio Di Jorio L'AMORE ME' CHE VO' di Emilio Spensieri - Lino Tabasso QUANDE LA FIJA ME' popolare VIVA VIVA VIVA di Espedito Ferrara - Aniello Polsi, dall'operetta CORE ME' A LU CANNETE di Nino Saraceni - Antonio Di Jorio MARE NOSTRE di Luigi Illuminati - Antonio Di Jorio TANTE SALUTE! di Eduardo Di Loreto - Vito Olivieri PAESE ME' di Antonio Di Jorio

Di Jorio senza parole. Fiori d'Abruzzo. Canti abruzzesi di Antonio Di Jorio per quintetto di fiati.


 
Da: Abruzzo Forte e Gentile 95

19 aprile 2023

Antonio Di Jorio. Musiche originali per Banda, Concerto bandistico Vittorio e Bruno Celli di Casoli di Atri.


 

Concerto bandistico "Vittorio e Bruno Celli" Casoli di Atri dir. Concezio Leonzi

VISERBELLA marcia militare
BELLARIA marcia militare
TORRE PEDRERA marcia militare
COVIGNANO marcia militare
CUCCU' paso doble
LAURETANA marcia militare
SOGNO DI BIMBI sinfonietta overture
SOGLIANO marcia militare
VISERBA marcia militare
NUVOLETTA marcia militare
RIVAZZURRA marcia militare
IGEA marcia militare
PIANTO ETERNO marcia funebre
NUVOLE valzer
MIRAMARE marcia militare
CHECCHINA marcia sinfonica.

Venticelle d'Abruzze. Canti popolari abruzzesi, Coro Antonio Di Jorio di Atri.

Venticelle d'Abruzze. Canti popolari abruzzesi, Coro Antonio Di Jorio di Atri.
Da: Abruzzo Forte e Gentile 95



ANTONIO DI JORIO, il meglio delle Canzoni Abruzzesi.

4 febbraio 2023

Domenico Ciampoli, Studi letterari, 1891.


Domenico Ciampoli

Domenico Ciampoli
Domenico Ciampoli (Atessa, 23 agosto 1852 – Roma, 21 marzo 1929) fece i primi studi ad Atessa, poi a Vasto e a Lanciano, concludendo il liceo a L'Aquila. 
Laureatosi in Lettere all'Università di Napoli, dal 1881 insegnò in diversi licei finché, trasferitosi a Roma e ottenuta la libera docenza in Lingua italiana e Letterature slave, dal 1884 insegnò nell'Università di Sassari e dal 1887 al 1891 in quella di Catania. 
Intanto aveva scritto diverse raccolte di novelle popolari d'impronta verista: Bianca del Sangro (1878), Fiori di monte (1878), Fiabe abruzzesi (1880), Racconti abruzzesi (1880), Trecce nere (1882), Cicuta (1884), Fra le selve (1891), alle quali seguirono, dal 1884 al 1897, cinque romanzi influenzati dal D'Annunzio: Diana, Roccamarina, Il Pinturicchio, L'invisibile e Il Barone di S. Giorgio. 
Oltre a curare diverse traduzioni di canti epici e popolari slavi e di racconti e romanzi di classici russi dell'Ottocento (di autori come Tolstoj, Gogol', Puškin, Lermontov e Turgenev), nel 1891 pubblicò gli Studi letterari e le Letterature slave, nel 1896 una ricerca erudita sull'opera poetica dell'Aleardi, Plagi aleardiani, e nel 1904 i Saggi critici di letterature straniere. 
Nel 1892 lasciò l'insegnamento per passare alla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II di Roma e poi alla Marciana di Venezia. 
Dal 1899 diresse diverse Biblioteche italiane: la Biblioteca Universitaria di Sassari, ancora la Biblioteca Nazionale di Roma, poi dal 1907 la Biblioteca Casanatense, la Biblioteca Lancisiana, l'Angelica e infine, dal 1918 ancora la Lancisiana: quest'attività gli consentì di studiare, tradurre e pubblicare diversi codici. 
Pensionato nel 1923, morì a Roma nel 1929.