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11 marzo 2024

Bernardino Scaramella di Palena e i suoi Madrigali, sec.XVI.


 


Bernardino Scaramella (Palena 1552 - ?)

Biografia
Il Maestro Bernardino Scaramella, Compositore originario di Palena nato nel 1552 (cittadina in provincia di Chieti), vissuto nel secolo XVI. Non si hanno precise notizie su un circolo culturale della famiglia Lannoy a Sulmona, più certa è l'attività di Bernardino Scaramella di Palena, con il Primo libro di madrigali a 5 voci del 1591, dedicato a Realto de Sterlich, feudatario di Penne.

Opere
"Il Primo Libro de Madrigali, a cinque voci (ALTO, BASSO, CANTO,TENORE, QUINTO) di Bernardino Scaramella di Palena. Nuovamente da lui composti, et dati in luce." In Venetia, appresso Giacomo Vincenti - Venezia, 1591.

Bernardino Scaramella di Palena e i suoi Madrigali, sec.XVI.

23 ottobre 2023

Clemente Antonio de Caesaris, patriota e carbonaro.


Clemente Antonio de Caesaris di Nicola e Maria Angelica Farina nacque a Penne, nel pescarese, il 23 agosto 1810, appartenne ad una famiglia di patrioti e partigiani dell'unità italiana, fu tra i più attivi carbonari d’abruzzo.
Studiò nei seminari di Penne e di Chieti. Nel 1838 fu arrestato per la partecipazione alla rivolta di Penne del 1837, la cosiddetta rivolta dei "Martiri Pennesi". 
Fu detenuto nelle carceri di Teramo, dove scrisse poesie e opere ed al termine venne condannato all'esilio a Chieti fino al 1840. 

Dopodichè si trasferì a Napoli dove pubblicò il volume “Pochi versi”.
Partecipò ai moti del 1848 per difendere la costituzione concessa da Ferdinando II e prese parte alla rivolta del 15 maggio a Largo Carità di Napoli. 
L'anno successivo fu nuovamente arrestato e processato a Teramo e stavolta condannato a 8 anni di carcere, di cui il primo trascorso a Teramo, gli altri a Pescara, Foggia, Brindisi ed infine a Nisida. 
In carcere scrisse tre raccolte di poesie “Agli amici ed ai compagni”, “Alla gioventù italiana”, “Sei Liriche”, e due epistole.
Nel 1859 fu confinato a Bovino dove rimase fino al 1860 scrivendo Inno al Piacere, Un confronto dall'esilio, Miei ricordi in Bovino.
L’anno dopo tornò a Penne e divenne Prodittatore degli Abruzzi, su nomina di Garibaldi. 

Nel 1861 fu eletto deputato, ma si dimise poco dopo. 
Morì a Penne il 28 novembre 1877, povero e malato nel convento del Carmine.

19 ottobre 2023

Storia del Risorgimento e della Massoneria in Abruzzo.

Storia del Risorgimento e della Massoneria in Abruzzo, Parte 1: Le origini, il 1799, la Restaurazione fino all'anno 1801.


Storia del Risorgimento e della Massoneria in Abruzzo, Parte 2: La Chiesa durante il periodo della Restaurazione.


Storia del Risorgimento e della Massoneria in Abruzzo, Parte 3: La Rivolta di Città Sant'Angelo, 1814.


Storia del Risorgimento e della Massoneria in Abruzzo, Parte 4: i Moti Carbonari dal 1813 al 1820.


Storia del Risorgimento e della Massoneria in Abruzzo, Parte 5: La Massoneria.


Storia del Risorgimento e della Massoneria in Abruzzo, Parte 6:
Chieti ai tempi di Monsignor Saggese

10 settembre 2023

Antonio Mezzanotte, Giorgio Castriota Skanderbeg.

Giorgio Castriota Skanderbeg, busto nella omonima piazza di Villa Badessa di Rosciano

GIORGIO CASTRIOTA SKANDERBEG
di Antonio Mezzanotte 

Si dice e si racconta che un giorno infuriava una feroce battaglia tra l'esercito cristiano e quello turco (più numeroso) e che i combattimenti si protrassero ben oltre il tramonto. Fu allora che il comandante dei cristiani mise in atto lo stratagemma che lo avrebbe portato a una strepitosa vittoria: fece radunare un grosso gregge di capre, ordinando di legare due torce accese sulle corna degli animali per farli sembrare uomini che si muovevano nella notte e spronò il gregge contro i turchi; quelli, nell’oscurità, pensarono che andasse loro incontro un immenso esercito di agguerriti soldati e scapparono senza combattere!
Testimonianza di quell'episodio la vediamo tutt'oggi nelle raffigurazioni del comandante cristiano, che indossa un copricapo a forma di testa di capra.
Chi era, quindi, questo personaggio? Giorgio Castriota.
Si dice e si racconta che dopo la sconfitta del padre Giovanni, principe albanese, ad opera del sultano Murad II, Giorgio venne condotto ostaggio ad Adrianopoli, presso la corte ottomana, e costretto a convertirsi all’Islam: per tale motivo, assunse il nome di “Iskander” (che in turco vuol dire “Alessandro” - il riferimento era ad Alessandro Magno) e tale era l’abilità, la forza e la lealtà nei confronti del Sultano che questi lo nominò “Beg” (nobile, principe), da cui l'appellativo "Skanderbeg" (che possiamo tradurre in "principe Alessandro").
Riportò numerose e importanti vittorie alla guida degli eserciti ottomani, divenne così popolare che lo stesso Sultano temeva che aspirasse a prendersi il trono, ma Giorgio pensava ad altro; poco alla volta sentiva il richiamo della propria terra e, in fondo, anche la conversione forzata all’Islam non era stata mai accettata del tutto nel suo cuore.
Si dice che alla vigilia della battaglia di Nis, combattuta il 28 novembre 1443, decise infine di abbandonare il campo (determinando così la disfatta dell'esercito ottomano) e di tornare in Albania con 300 esuli, riabbracciando la fede cristiana. Conquistò in poco tempo tutte le città e le fortezze della regione già occupate dagli invasori e si pose a capo del movimento insurrezionale albanese contro i Turchi.
Da quel momento divenne il più temibile nemico degli eserciti ottomani, i quali, benché di gran lunga superiori di numero e di mezzi, si infrangevano sempre contro le schiere albanesi, che erano favorite dalla conoscenza del territorio e abilmente guidate dal Castriota, il quale, nonostante il ritorno alla fede cristiana e ancorché fosse divenuto il più strenuo nemico degli ottomani, continuò a chiamarsi e a firmarsi sempre con l’appellativo Skanderbeg (forse per ricordare ai soldati turchi che stavano combattendo contro il loro antico, amato e invincibile comandante).
Raggiunta una tregua con il Turco, si alleò con Re Ferrante d’Aragona, che aiutò a difendere la Corona di Napoli dalle rivendicazioni angioine: per tale motivo il Re lo ringraziò investendolo di numerosi feudi in terra di Puglia.
Dovette però tornare ben presto in armi a difesa della sua Albania e si spense di malaria il 17 gennaio 1468.
La nipote più giovane di Skanderbeg, Maria, andò sposa ad Alfonso Leognani, dei baroni di Civitaquana. Da essi ebbe origine il ramo Leognani Castriota, dal quale derivò, per il matrimonio del loro discendente Giambattista con Porzia Fieramosca, sorella di Ettore, eroe della Disfida di Barletta, il ramo dei Leognani Fieramosca, le cui vicende sono da rinvenire nelle storie di Civitaquana, Rosciano, Alanno, Cugnoli, Penne dal XVI al XVIII sec., mentre un altro ramo dei Castriota possedeva Città Sant'Angelo.
Quando nel 1743 giunsero le 18 famiglie albanesi che fondarono Villa Badessa di Rosciano (la più recente e settentrionale colonia arbëreshe), questi territori erano in qualche modo già legati al nome dello Skanderbeg e probabilmente le vicende dei Castriota nell'Abruzzo vestino (ancora poco note e da studiare) stanno a confermare che lo stanziamento badessano non fu affatto casuale, ma diretto e mirato all’interno di una trama di relazioni e interessi fra potentati familiari e militari d’origine albanese o a essi affini, da secoli presenti nell’Italia meridionale, il cui peso fu determinante nelle scelte di Carlo di Borbone nel favorire la nascita proprio di Villa Badessa.

(Nella foto: il busto di Giorgio Castriota Skanderbeg collocato nell'omonima piazza di Villa Badessa di Rosciano - PE, con l'epitaffio TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM (ossia: "a così gran nome nessun elogio è adeguato"), al quale, probabilmente, sarebbe opportuno dare una ripulita!

6 settembre 2023

Giuseppe Lamberti, un tardo-solimenesco in Abruzzo.

Giuseppe Lamberti, La Madonna e San Girolamo eremita, 
chiesa di San Gaetano (oggi in Arcivescovado), Chieti.

Giuseppe Lamberti, un tardo-solimenesco in Abruzzo
di Angelo Iocco

Giuseppe Lamberti, nato a Ferrara intorno al 1700 e morto nel 1763, fece parte di quella schiera di pittori della scuola del Solimena, che si sparpagliarono, per committenze varie, nelle varie province del Regno di Napoli. 
Dopo aver dipinto qualche tela nella sua provincia d’origine, Lamberti si spostò nel chietino, insieme ad altri pittori stranieri, quali Giambattista Gamba e Nicola Maria Rossi, ma anche Ludovico e Paolo de’ Majo, Paolo de Mattheis, Francesco de Mura, molto più vicini all’Abruzzo, originari del napoletano. 
In quel tempo le due principali diocesi dell’Abruzzo Citeriore, quella di Chieti nel periodo di Mons. Michele de Palma, e quelle di Lanciano e Ortona-Campli, rette rispettivamente da:
· Giuseppe Falconi † (20 dicembre 1717 - 16 marzo 1730 deceduto)
· Giovanni Romano † (11 settembre 1730 - 26 settembre 1735 nominato vescovo di  Catanzaro)
· Marcantonio Amalfitani † (26 settembre 1735 - 11 novembre 1765 deceduto)
· Arcangelo Maria Ciccarelli, O.P. † (30 aprile 1731 - 19 dicembre 1738 nominato arcivescovo, titolo personale, di Ugento)
· Domenico De Pace † (26 gennaio 1739 - marzo 1745 deceduto)
Risultavano tra le più influenti, insieme alle locali Confraternite, nel territorio. 
Memori dei rinnovamenti pittorici apportati nel napoletano da Luca Giordano, Mattia Preti (anch’egli attivo in Abruzzo), Domenico Antonio Vaccaro e seguaci, nonché appunto seguaci della lezione solimenesca, Lamberti e la cerchia degli altri pittori citati si misero al servizio dei vari committenti, per la realizzazione di qualche dipinto, a richiesta di un vescovo o di un priore.

Giuseppe Lamberti, da Ferrara in Abruzzo

Poche sono le opere attribuite a questo pittore, operante in Abruzzo e del quale sono note alcuni dipinti collocati in chiese di Guardiagrele, Penne e Lanciano dove nella chiesa del Suffragio è conservata, proveniente dalla Cattedrale, una tela raffigurante l’Incoronazione della Vergine. 
Questa pittura è collocata nel secondo altare di destra, voluto dalla Confraternita della Madonna del Suffragio, il Lamberti, come erano soliti fare altri pittori minori, riciclò un quadro precedentemente commissionato da Mons. De Palma a Chieti per la chiesa di San Gaetano da Thiene, di cui affrescò anche il cupolino: “Visione di San Girolamo e la Vergine Maria”, nell’altare maggiore sormontato dallo stemma in stucco della famiglia Frigerj-Durini, che aveva il diritto di patronato; nel cupolino affrescò invece la “Gloria di San Gaetano in Paradiso tra schiere angeliche”, molto simile alla cupola del cappellone del Sacramento della Basilica di Santa Maria di Pescocostanzo, con rimandi alla pittura del Gamba. 
L’ultima tela incastonata nell’altare a macchina templare greco-classica con ai lati le Allegorie delle Virtù a guardia, opera dell’architetto Giambattista Gianni del Canton Ticino (il quale progettò diversi altri altari delle chiese teatine, all’attuale San Domenico al Corso, a San Francesco al Corso, alla Cappella del Sacro Monte dei Morti del Duomo, ecc.), risulta “San Girolamo eremita”.

Giuseppe Lamberti, Gloria di San Gaetano, cupola della chiesa di San Gaetano, Chieti. Foto Marco Vaccaro

La chiesa del Purgatorio di Lanciano, nel rione Borgo, possiede la già citata opera di Lamberti, che risente di parecchi ricicli del dipinto della chiesa di San Gaetano di Chieti, cui Michele De Palma era assai devoto, essendosi fatto seppellire proprio nella cappella del braccio destro del transetto del Duomo, dove figura un ulteriore dipinto della “gloria di San Gaetano” di Ludovico de’ Majo; altra pittura nella chiesa lancianese, si trova nella cappella privilegiata del SS.mo Rosario, e raffigura la “Vergine del Rosario, tra San Giuseppe, San Gennaro con le ampolle del sangue, e Papa Pio V”, che volle la Lega Santa per la celeberrima Battaglia di Lepanto, 1570, anno in cui fu solennizzata la festa del Rosario. 
Questo dipinto risente di alcune imperfezioni, la Madonna troppo schematica e rappresentata in proporzioni più piccole, per comunicare l’effetto di spazialità della scena, rispetto alle figure in primo piano di San Gennaro e Pio V, il cui volto di quest’ultimo è un ulteriore prestito del Lamberti da un suo dipinto di Chieti.

5 giugno 2023

Luigi Polacchi e la casa della poesia di Pescara.

Luigi Polacchi e la casa della poesia di Pescara

di Angelo Iocco

Tra le case antiche della Pescara novecentesca, qualche sparuta testimonianza resiste ancora nella Riviera castellammarese, e parliamo del Villino Nonnina, noto anche come Casa della Poesia, in via Tassoni, a pochi passi dal lungomare Matteotti. Questa piccola abitazione in mattoni a vista, di un solo piano, fu tra le prime, come ricorda Maria Antonietta, figlia del poeta Luigi Polacchi, ad essere costruita sulla Riviera nel Novecento, e lo stesso Polacchi in una intervista del 1987 per la TV, ricorda come la famiglia si trasferì lì da Penne. Il padre Gerardo era titubante all’inizio, mal sopportando quella cittadina di provincia con paludi e persone poco raccomandabili: pregiudizi nobiliari della Città sui colli vestini? Fatto sta che i Polacchi vi si trasferirono nel 1907. Dopo il 1927 la casa fu modificata con l’aggiunta di un secondo piano per esigenze della famiglia.

La vita scorreva tranquilla, ma il Poeta aveva grandi progetti culturali per la fiorente Pescara, allora in ascesa. Iniziò a diventare circolo di amici e intellettuali, primo fra tutti Alfredo Luciani da Pescosansonesco, grande amico di Polacchi, e nel 1933 nacque il progetto di far diventare il villino una Casa della Poesia, un istituto di cultura che avesse risonanza non solo provinciale, ma nazionale. Come possiamo vedere nelle lettere di Polacchi, conservate nell’archivio dello Studio vecchio nel villino, il Poeta ebbe contatti con diversi nomi della cultura italiana: E.A. Mario, Trilussa, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Tommaso Cascella, Armando Cermignani, Giacomo Acerbo, Modesto Della Porta, Cesare de Titta, Eugenio Cirese. L’elenco è interminabile! Alcune lettere sono piuttosto brevi, altre, come quelle ad esempio di Modesto al Polacchi, più appassionate, piene di progetti infranti e di rimpianti. Diverse volte Polacchi nel villino tenne incontri di poesia, Trilussa stesso andò a trovarlo diverse volte a Pescara, allora Castellammare, unificata con Pescara nel 1927, nonché a Penne.

3 giugno 2023

Domenico Vallarola da Penne, un pittore poco noto del Settecento.


 

Domenico Vallarola da Penne, un pittore poco noto del Settecento
di Angelo Iocco

Poco si sa di lui, e fu ignorato dagli scrittori abruzzesi sull’Arte, come ad esempio il De Nino e il Bindi. Tuttavia il Vallarola si firmò per le sue opere più importanti, se si eccettua un trascurabile dipinto del Cristo crocifisso di gusto solimenesco. Vale a dire il ciclo di pitture a secco della chiesa di San Francesco di Bucchianico, e la cupola della chiesa di Santa Chiara di Penne. Nella prima chiesa dal 1769 al 1774 circa, il Vallarola dipinse le volte nelle cornici realizzate dalla bottega di Rizza e Piazzoli; una scena dell’allegoria della Speranza con ragazze e puttini alati, un’altra scena dell’allegoria della Fede e quella della Carità, con i vari simboli delle Virtù Cardinali; a seguire la grande cupola a scodella, e un’ultima rappresentazione per la volta dell’altare maggiore, il Trionfo di Davide con la testa di Oloferne davanti a re saul, ispirata chiaramente al dipinto di Donato Teodoro di Chieti, che oggi si trova conservato nel Museo d’arte Barbella a Chieti, eseguito e firmato nel 1730. Quello di Teodoro è un dipinto più corale e più bello rispetto alla imitazione abbastanza fedele, ma di maniera, del Vallarola, dove come sempre si mostra re Saul seduto sul trono, con fare stupito, insieme alla sua corte, mentre osserva Davide con la grade testa infilzata sulla picca. L’attenzione del Vallarola si concentra tutta sul punto focale del capo mozzato, di proporzioni leggermente maggiori alla norma, per sottolineare la sua possenza; cosa non eseguita da Teodoro nella sua opera, dove cerca di mantenere abbastanza equilibrate le regole della prospettiva e delle grandezze dei volumi. Vallarola invece concentra tutto sul trofeo, simbolo del trionfo della Virtù ebraica, e sembra voler rimpicciolire tutti i personaggi attorno, riducendoli a macchiette.



Le opere della cupola, presso i pennacchi, illustrano i 4 Evangelisti, la scodella illustra l’Apoteosi di Mosè sorretto da Aronne e Cur, tra schiere di angeli e cherubini verso il Paradiso. Anche in questo contesto nulla di nuovo, pitture napoletaneggianti, già eseguite largamente in Abruzzo da Giambattista Gamba a Sulmona e Pescocostanzo, e dal Teodoro a Castel Frentano e Colledimezzo, tuttavia le proporzioni restano accettabili, e il tutto si concentra sulla figura patriarcale di Mosè che sopra una nuvola, ascende al Paradiso.

12 maggio 2023

Il processo dei Templari in Abruzzo contro frate Cecco Nicola da Lanciano e frate Andrea da Monteodorisio, 1305.

Il processo dei Templari in Abruzzo contro frate Cecco Nicola da Lanciano e frate Andrea da Monteodorisio, 1305

di Angelo Iocco e Marino Valentini

Nell’immaginario collettivo il venerdì 13, per gli scaramantici, è il giorno da evitare per l’assunzione di decisioni rilevanti e per fare qualsiasi cosa d’importante, perché è il giorno iellato per eccellenza. Molti ritengono che questo giorno maledetto sia da legare all'infausto venerdì 13 ottobre 1307, quando Filippo IV “il Bello” di Francia diede l’ordine di arrestare tutti i templari presenti nel suo regno. Ma come si arrivò a tale decisione e perché?

Intanto va detto che l’Ordine dei cavalieri templari, in circa due secoli dalla sua costituzione, aveva accumulato così tante ricchezze, da diventare un innegabile strumento di potere economico e politico in Europa. Allo stesso tempo il re di Francia si trovava a fronteggiare una pesante situazione finanziaria, ereditata dal predecessore, fortemente incisa da un indebitamento tale da far svalutare la moneta del Paese. Di fronte a siffatta situazione, il sovrano pensò bene di risolvere il problema delle finanze e risanare le casse di Stato, guardando nell’orto dei templari, verso i quali si trovava in uno stato di preoccupante indebitamento, a causa di prestiti contratti anche da chi lo aveva preceduto.

Bisognava trovare però un pretesto per incastrare l’ordine monastico e lo stesso venne offerto da un cavaliere pentito (sic!) che avallò le voci e le dicerie che da tempo circolavano sulle strane usanze dei templari. Filippo diede credito al fuoriuscito dall’Ordine e vennero pronunciate le prime tre formali accuse:

1) IL RINNEGAMENTO DI CRISTO E GLI SPUTI SULLA CROCE (ERESIA);

2) L’OMOSESSUALITÀ E LA SODOMIA (SODOMIA);

3) L’ADORAZIONE DI IDOLI (IDOLATRIA).

 

La caduta dei Templari sotto Clemente V

Con la perdita di San Giovanni d'Acri, i cristiani furono costretti a lasciare la Terra Santa. Nemmeno gli ordini religiosi poterono evitare tale esodo e i Templari scelsero di ripiegare verso Cipro dove insediarono la loro sede centrale. Tuttavia, una volta che questi ebbero abbandonato la Terrasanta, con pochissime probabilità di poterla un giorno riconquistare, in occidente sorse la questione dell'utilità dell'Ordine del Tempio il cui scopo originario per cui erano stati fondati, difendere i pellegrini diretti a Gerusalemme sulla tomba di Cristo, si era oramai reso irrealizzabile.

Per diversi decenni, il popolo aveva percepito i cavalieri anche come signori orgogliosi e avidi, che conducevano una vita disordinata (le espressioni popolari "bevi come un templare" o "giura come un templare" sono rivelatrici a questi sintomi), tanto che dal 1274 al concilio di Lione II i più alti dignitari dell'ordine dovettero produrre un libro di memorie per giustificare la loro esistenza. Abitualmente si parlava dei Templari come di un covo di eretici e di viziosi; voci probabilmente alimentate dal fatto che molti peccatori erano in effetti approdati all'Ordine per riceverne protezione a fronte di un, non sempre sincero, pentimento.

Papa Clemente V

17 novembre 2022

Amelio Pezzetta: La Chiesa e la vita religiosa in Abruzzo durante Il Viceregno Spagnolo (1503-1707).

1.      Stato, Chiesa e vita religiosa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il dominio spagnolo dell’Italia Meridionale iniziò nel 1503 con Ferdinando il Cattolico e si concluse il 7 luglio 1707 quando le truppe austriache entrarono a Napoli e il Regno passò agli asburgici.

Durante i due secoli di dominio, i monarchi spagnoli delegarono l’amministrazione del Regno a un viceré, non favorirono lo sviluppo del paese, lo appesantirono con un’esosa pressione fiscale e conservarono la sua natura di stato feudale. Nell’epoca in considerazione i baroni vecchi e nuovi conservarono l’ampio potere amministrativo-giudiziario di cui godevano e ampliarono i possedimenti feudali; la chiesa rafforzò il suo potere e prestigio morale e politico; i rappresentanti della borghesia iniziarono la loro ascesa acquisendo prestigio nell’amministrazione civica, l’economia e le libere professioni; i ceti più umili continuarono a vivere in generalizzate condizioni di asservimento e d’indigenza.

Il Regno di Napoli era uno stato vassallo della Chiesa che il papa assegnava a chi assecondava i suoi piani di potere temporale e le sue finalità spirituali. Al momento dell'investitura Ferdinando il Cattolico riconobbe lo stato di vassallaggio con tutte le condizioni a esso connesse tra cui il versamento al pontefice del censo annuale di 8000 once d’oro e l’omaggio della chinea. Ai fini di conservazione del potere, per gli spagnoli l'alleanza con la Chiesa era indispensabile nonostante la condizione di asservimento e il suo alto costo in termini economici.

Nel Regno di Napoli gli spagnoli assunsero nei confronti della Chiesa due atteggiamenti: da un lato se ne servirono per rafforzare il potere; dall'altro pur riconoscendole privilegi e diritti, non assecondarono tutte le sue pretese e talvolta anziché respingerle frontalmente, le attaccarono di fianco. In particolare gli spagnoli non si opposero alle pretese della Chiesa quando erano enunciate nei concili o con le bolle, ma ostacolavano la loro attuazione se contrastavano con gli interessi dello Stato. Un esempio in tal senso è costituito dall'atteggiamento che assunsero nel 1568 con la pubblicazione della bolla "In coena Domini" con cui il papa Pio V voleva riaffermare il primato della chiesa e far presente che le ingiuste imposizioni fiscali erano moralmente perseguibili. In realtà per i suoi particolari contenuti era un chiaro tentativo di violazione dei diritti sovrani di uno Stato laico e fu utilizzata per la difesa dei privilegi e interessi clericali dalle autorità civili. Infatti, la bolla consentiva alle autorità clericali di ricorrere all’arma della scomunica anche nei confronti degli amministratori zelanti che volendo far applicare le norme statali in materia tributaria minacciavano il patrimonio ecclesiastico. In particolare essa minacciava di scomunica coloro che: appoggiavano gli eretici; sostenevano la superiorità dei concili rispetto al sommo pontefice; imponevano nuove tasse al clero o aumentavano quelle già esistenti senza l'approvazione della Camera apostolica; violavano le immunità ecclesiastiche sulla base del principio  che non si fondavano sul diritto divino; impedivano agli ecclesiastici l'esercizio della loro giurisdizione anche contro i laici, l'esecuzione dei rescritti di Roma e l'esazione delle tasse della Chiesa. Il governo spagnolo, nel rispetto dell’atteggiamento politico verso la chiesa precedentemente delineato, quando la bolla fu promulgata non si oppose, ma in seguito cercò di ostacolarne la diffusione e conoscenza.

Tenuto conto degli aspetti generali enunciati, il presente saggio prosegue con l’esposizione sintetica di alcuni significativi aspetti del rapporto Stato-Chiesa nel Regno di Napoli durante il XVI secolo.

Il 29 giugno 1529 il papa Clemente VII e il re Carlo V firmarono il trattato di Barcellona in cui al sovrano spagnolo fu concesso il diritto di presentare i vescovi di 24 diocesi di regio patronato del viceregno napoletano. L’accordo prevedeva che nell’Italia Meridionale l’amministrazione diocesana potesse essere affidata anche a presuli non indigeni e di conseguenza alcune di esse iniziarono a essere rette da prelati d’origine spagnola.

Nel 1541 un decreto della Regia Camera della Sommaria[1] deliberò che i chierici avevano diritto alle esenzioni fiscali sui seguenti beni stabili e di consumo: 1) i territori ecclesiastici e gli animali utilizzati nel lavoro agricolo o come cavalcatura dai chierici e i loro famigliari; 2) l'acquisto di generi alimentari e capi d'abbigliamento. Nello stesso anno, un altro decreto fissò le quantità massime di merci che i chierici potevano acquistare in franchigia: un rotolo di carne giornaliero (circa 0,9 kg), 2,5 tomoli di grano l'anno (1250 kg), 30 rotoli di formaggio l'anno (circa 27 kg), 3 staia d'olio annui (circa 30,2 litri), due botti di vino annui (circa 1047 litri e 40 rotoli di carne da salare annui (circa 36 kg)[2]. Le immunità fiscali furono elargite anche ai coloni delle chiese e agli oblati che donavano beni ai monasteri, non ne riservavano per loro stessi e vi andavano a vivere. Siccome i sacerdoti non pagavano le tasse, i vescovi che favorivano le ordinazioni al di sopra delle necessità delle diocesi che governavano, furono ritenuti dei benefattori. Molti ecclesiastici nel corso del secolo grazie ai privilegi accumulati, incentivarono l'evasione fiscale e cercarono di coinvolgere anche i laici nelle esenzioni da loro godute. Un esempio in tal senso è rappresentato dalle donazioni fittizie di beni immobiliari che i laici facevano agli ecclesiastici allo scopo di non pagare le tasse sul patrimonio. Conseguenza dei fatti accennati è che aumentarono a dismisura gli ecclesiastici nel Regno di Napoli, mentre si contrassero i beni passibili di tassazione e le rendite dello Stato. Contro questo stato di cose le autorità civili cercarono di limitare il numero delle ordinazioni, gli amministratori locali presero numerose iniziative e inoltrarono numerosissimi ricorsi alle autorità centrali affinché prendessero opportuni provvedimenti tendenti a limitare il fenomeno. Purtroppo tutti i tentativi per porre rimedi alla situazione non portarono ai risultati sperati, poiché l'azione del governo non fu molto decisa e di conseguenza gli abusi continuarono a essere perpetrati.

Nel XVI secolo i chierici del Regno di Napoli percepivano rendite molto diverse: la congrua, i diritti di stola, le decime e i redditi censuari da terreni, da fabbricati, beneficiali, da messe, ecc. Nonostante questi benefici e vari provvedimenti favorevoli, molti chierici delle campagne dell’Italia Meridionale non avevano un adeguato benessere economico e talvolta coltivavano i terreni in loro possesso.

La religione nel secolo è un aspetto importantissimo dell'attività statale e amministrativa. I re di Spagna si considerarono ardui difensori del cattolicesimo e in tutti le istituzioni statali dei loro domini fecero obbligarono i funzionari a esercitarsi in pratiche di culto. Infatti, gli ufficiali pubblici intervenivano in forza alle funzioni sacre, i giudici prima di entrare in seduta ascoltavano la messa, i reggimenti avevano i loro cappellani, nelle carceri dovevano esercitarsi pratiche di culto, la bestemmia era considerata un reato e lo Stato ordinava che si facessero pubbliche preghiere. A livello locale le Università[3] possedevano il diritto di patronato di cappelle laicali e chiese, fornivano alle chiese stesse indumenti sacri, cera ed ostie e pagavano al clero le messe celebrate pro populo.

Con una prammatica del 5 gennaio 1571 il viceré De Rivera ordinò ai parroci di registrare tutti i battezzati in un libro e la parrocchia iniziò ad assolvere anche a funzioni d'anagrafe civile[4].

26 ottobre 2022

Storie di streghe in Abruzzo.

Storie di streghe in Abruzzo


Spulciando negli archivi storici diocesani come quelli di Stato di Chieti, L’Aquila e Napoli, due ricercatori hanno ricostruito fatti, trascritto testimonianze, recuperato atti processuali: dando nome e cognome alle streghe e ai maghi dell’epoca, nonché ai loro persecutori.
"In Abruzzo - avvertono i due autori - non operano tribunali inquisitoriali. Furono pertanto i vescovi ad intervenire nei confronti delle stregonerie, delle angherie e dei sortilegi, spesso agendo in modo autonomo, ma a volte, nei casi più delicati, sotto la direzione della Congregazione romana del Sant'Uffizio”.
Il primo rogo multiplo fu quello di Penne, nel 1584. Un lungo processo per stregoneria, sollecitato dalla dispotica Margherita d’Austria, figlia dell’imperatore Carlo V e moglie del duca di Parma Ottavio Farnese. E’ proprio in alcune lettere al vescovo scritte da Margherita, feudataria anche in questo lembo d’Abruzzo, che si fa accenno ai “diavoli di Penne”: Cristina Malospirito, Caltelmo della Corvara, Annibale di Montegallo e “altri complici forestieri incantatori”. Finiti tutti sul rogo, e “incenerati”. Non uno dei piccoli paesi dell’Abruzzo si salvò da allora in poi dal sospetto e dal lutto. Come in ogni parte dell’Europa cattolica e protestante, il delirio collettivo contagiò prelati e nobili, popolani e curati, giovani donne e vecchie. Sortilegi e patti con il diavolo si registrano, atti alla mano, a Villa San Giovanni come a Tagliacozzo, a Città Sant’Angelo come a Teramo, a Chieti come a Giulianova. Ma forse è la storia di Orsolina Di Pasquale, la più emblematica di tutte. Anno di grazia 1612, in quel di Miano.

 


Orsolina: “fama trista”, secondo i testimoni del processo, è meretrice, perché aveva partorito più volte senza aver mai avuto marito. Orsolina, che conosce i segreti delle erbe, ha una figlia da mantenere, e forse si è procurata qualche aborto, in quella situazione di degrado e miseria. Orsolina, che è sempre pronta ad accudire gli alti, compresa Francesca, “spiritata da un anno”. Le basta sussurrarle poche parole all’orecchio, e la donna si acquieta. Lo fa davanti a tutti, Orsolina. Non va forse in chiesa ogni domenica a recitare le orazioni? Ma le crisi di Francesca, qualche tempo dopo, riprendono più forti di prima. E’ un maleficio! Orsolina si ritrova ad essere accusata di stregoneria da un giorno all’altro. Viene chiusa in carcere, processata, invano si proclama innocente. Spiega che le parole dette erano quelle pronunciate dal prete a messa (“Adoremus te, Criste”). Che non saprebbe nemmeno tradurre, ma che certo non possono far male. Ammonita dal vescovo ad abbandonare “sotterfugi e menzogna” e a confessare la verità, Orsolina non ritratta. Non ha fatto nulla di male. Viene torturata: spogliata, legata e tirata con la fune (“elevata”). Ma dalla sua bocca non escono che lamenti e preghiere, non nomi di diabolici complici. E’ rimandata in carcere. E mesi dopo, condannata. Non al rogo, ma “a stare in ginocchio con un cero in mano davanti alla porta della cattedrale di Teramo un giorno festivo, mentre si celebra la messa, e all’esilio da Miano e da tutta la diocesi di Teramo per un anno”.

Strega Melinda

L’ultimo identikit della strega abruzzese l’ha forse tracciato lo scrittore Dino Buzzati che, in cerca dell’Italia misteriosa per i suoi reportage sul “Corriere della sera”, si è fermato a Teramo nel 1965 ed ha avuto dal suo amico Franco Manocchia le informazioni sulla “strega Melinda”, morta a 93 anni, tre anni prima nella sua casupola in uno sperduto paese di povera gente sul piedistallo del Gran Sasso”. Sedotta e abbandonata a 15 anni da un giovanotto di Penne partito militare, Melinda prepara la sua prima fattura, appresa da una “commara”, con una ciocca dei suoi capelli, un bottone del suo corpetto e un pezzo di stoffa imbevuto del suo sangue mestruale, lasciandola sul letto per il ritorno dal fronte del seduttore; la fattura colpisce a segno, ma il giovane riparte e muore in guerra. Inizia così la sua vita miserabile con due piccoli da sfamare, decide di darsi alle arti magiche e va ad apprendere da un magarone di Forcella il mestiere di fare le fatture buone e da un altro di Montepradone, in provincia di Ascoli Piceno, quelle cattive. Così Melinda, strega per nascita ma anche per miseria, per oltre 70 anni, odiata e temuta dalla gente, vive facendo i suoi sortilegi, senza tariffe per le fatture buone, accontentandosi di quanto il cliente dava a volontà, qualche carta da cento lire, un mazzo d’agli, chiedendo anche mezzo maiale di compenso per le fatture a male. Una vita miserevole e triste che spinge i due figli, appena giovani, ad emigrare e a non dare più notizie alla madre, che conduce la sua vita “applicando l’antico codice della stregoneria locale tramandato a voce di strega in strega: una che sa benissimo quando fa il bene e quando fa il male, che non si illude e sa di non poter evitare l’inferno. C’è per lei una sola salvezza: se al momento della morte, quando in diavolo aspetta alla porta, qualcuno apre un buco nel tetto per dove l’anima possa fuggire”. E… sembra proprio che qualcuno abbia fatto il buco nel tetto alla sua morte! Melinda ha fatto migliaia di fatture, per far impazzire d’amore trafiggendo con spilli e chiodi le fotografie o preparando “polverine” con erbe speciali da versare nel caffè delle vittime, o trasferendo una malattia da una persona all’altra, ma anche opere buone, vivendo sempre sola ed evitando ogni anno di farsi vedere per la messa di natale perché sarebbe finita sicuramente ammazzata… La sua storia è emblematica di tutti i racconti di streghe ed folklore abruzzese.

Angela Occhio d’Vrocca

Questa storia è tratta da un vero e proprio processo per magia contro la “notoria maga, strega e fattucchiera Angela alias occhio di vrocca, autrice di malie contro certo Ignazio Rapattuni, ex amante della figlia Giovanna, il quale da “sette anni circa si ritrova malato stroppio dentro d’un fondo di letto” e diverse volte aveva minacciato la strega di denunciarla al santo Ufficio se non avesse guastato la fattura o lo avesse reso libero, ottenendo solo promesse non mantenute. Alla fine il povero Rapattuni, “più travagliato che mai”, e dopo che la fattucchiera gli ha fatto intendere “che mai sarrà che vogli guastargli detta malia e che morirà esso supplicante dato al demonio”, denunzia tutto al Commissario del Santo Ufficio, invocandolo “in visceribus christi” di prendere a cuore il suo caso e di punire la strega. I fatti sono accaduti a Chieti dal1661 al 1668, anno in cui, il 3 dicembre, c’è la supplica di Rapattuni corredata, però, dai verbali degli interrogatori di alcuni testimoni, avvenuti tutti nell’agosto precedente, che occupano 9 delle 11 carte di cui si compone il documento. I testimoni, quasi tutti vicini di casa, sono Giuseppe Celentani, Antonio della Tucca alias Lanuto, Pasquale Cinquina con la moglie Geronima, Tonto di Caramanico con la moglie, Domenico Roccioli, Vegilia Centobeni, Angela Dolce Canto, e concordano nei particolari riportati nelle testimonianze. Inizia Giuseppe Celentani, risedente a Chieti, vicino a casa di Angela occhio di vrocca (cioè occhio di gallina) nei pressi di “Porta Pescara”, di cui dichiara di aver sentito in giro che è una “malissima donna e tiene nome di pubblica fattucchiera e donna di malissimo vita… che cel’ habbia fatta (la fattura) per cause che detto Ignatio conosceva carnalmente detta Giovanna sua figlia e perché sempre bastonava e maltrattava essa Angela…”.
Il Cementai dichiara anche di aver ricevuto l’incarico dal Rapattuni di intercedere presso Angela perché sciogliesse la fattura; la donna promise di interessarsene una sua amica schiavona capace di queste operazioni magiche, ma questa nel frattempo era morta e perciò non se ne fece nulla. Le altre testimonianze concordano tutte con questa versione: Rapattuni era immobilizzato a letto per una fattura di Angela la quale si era così voluta vendicare dei maltrattamenti subiti e perché, a causa dei litigi, egli aveva anche lasciato la figlia Giovanna, sua amante; quest’ultima era stata sentita da più d’uno rimproverare alla madre di aver affatturato il suo amante. Il fascicoletto intitolato “Inquisizione di stregoneria contro Angela della occhio di vrocca di Chieti, 1668”, non aggiunge altro ai verbali delle testimonianze che spesso parlano dell’inquisita come di famosa fattucchiera e “per la gente e fra la gente della città di Chieti” si diceva pubblicamente della fattura che teneva immobilizzato il povero Rapattuni. Si è svolto il processo? E’ stata condannata la strega oppure è nel frattempo deceduta, per cui non si è più potuto procedere? E l’affatturato, per quanto tempo ancora è rimasto paralizzato sotto gli effetti della malia? Nessuno lo saprà mai, a meno che non vengano trovate altre carte successive a quelle della fase istruttoria, se ve ne uno. Un fatto è certo: Angela non doveva essere una donna morigerata, ma….. le capacità stregonesche le venivano attribuite, probabilmente, perché aveva gli occhi simili a quelli della gallina.



Seguono una serie di testimonianze raccolte sulla stregoneria in Abruzzo:

Antonio Anello n.1923 Atri (TE)

Una ragazza strega, una notte, andò a trovare il suo fidanzato che, sentito il vento vicino al letto, prese il coltello e colpì nell’aria e apparve la ragazza tutta nuda, nuda. Il ragazzo chiamò il padre e la madre, la vestirono con dei panni di casa e la riportarono a casa sua. Da quel giorno non tornò più strega perché con la goccia di sangue dalla marcatura se ne era andata la virtù.

Leonello Di Nardo n.1928 Bucchianico (CH)

Mia cugina era nata la notte di Natale e, per questo, dall’età di due anni, certe notti spariva; se la venivano a prendere le streghe. Questo è successo, finchè non l’hanno marcata con un ago arroventato; è stata la levatrice a farlo, sotto il piede sinistro, le fece uscire un po’ di sangue; così la bambina perse quella virtù e non uscì più la notte con quella compagnia. Allo stesso orario in cui spariva la bambina, spariva anche il cavallo di un vicino di casa; forse serviva per portare lei.

Santina Astrologo n.1925 San Valentino (PE)

Una donna, tutte le mattine, ritrovava la tela tessuta: allora per vedere se era qualche strega a tesserla, la notte appresso, prese uno spiedo e lo arroventò nel fuoco. Quando, a una certa ora ha sentito il telaio tessere, fece passare quel ferro per un buco che era nel muro, giusto nella direzione della spola, così colpì la mano della strega, la “marcò”; come è uscito un pò di sangue, apparve una bellissima ragazza (perché prima era invisibile) che disse: “Povera veneziana, sono venuta tanto di lontano; chi mi riporta alla Venezia mia?”

Maria Di Pompeo n.1960 Castel del monte (AQ)

Tutte le notti, una donna sentiva il telaio lavorare su e giù nella stalla; il giorno appresso, mise un segno sulla tela e, quando la mattina dopo tornò a vedere, lo trovò cresciuta. Raccontò il fatto al marito e fecero un buco nel muro per vedere chi era che tesseva la notte. Andarono a dormire, ma, a un certo punto arriva una donna che accende il lume, si siede e comincia a tessere. Allora, quelli prendono un ferro, lo arroventano e la colpiscono sulla man, esce il sangue e questa si mette a dire: “Povera giovane di Perugina, povera giovane di Perugina!”. Allora, la moglie e marito scendono sotto e si fanno dire dove abitava e di chi era figlia e così la mattina dopo la riportarono a casa sua: il padre per la contentezza che gli avevano “salvato” la figlia, gli fece per regalo un sacchetto pieno di marenghi d’oro.

Raffaele D’Onofrio, n.1928 Vacri (CH)

Una bambina di sei, sette anni, veniva portata in giro la notte dagli stregoni perché era nata “vestita” (e la mamma la “camicia” l’aveva conservata). Allora, la gente disse alla mamma che quando sentiva la bambina strillare perché se la venivano a pigliar, lei con un ferro arroventato la doveva “marcare” per farla uscire un po’ di sangue, così non ci poteva andare più, perché perdeva quella virtù. La mamma così fece, però gli stregoni per dispetto fecero ammalare la bambina e, per guarirla la dovettero portare da diverse “magare”.

Pasquale Di Girolamo, n.1931 Carpineto Nora (PE)

Un pastore, in montagna era sempre seguito da una gatta che gli andava dietro dietro; improvvisamente appariva e spariva, gli miagolava, non si capiva che voleva; finché un giorno, il pastore prese il coltello e le fece uscire un po’ di sangue; allora, gli apparve la fidanzata che lo ringraziò per avergli levato il “destino di strega”.

Ernestina Nelli, n.1905 Bomba (CH)

Una donna che conoscevo aveva una bambina che veniva sempre disturbata da qualche strega; in questo modo a questa poverina erano già morti tre o quattro figli. Allora, fece la veglia per nove notti vicino alla culla, finché entrò in casa una gatta (quella era la strega), la prese e la fece “nera di botte”, come si insanguinò ridiventò una persona, una donna normale (che pure conosceva, era dello stesso paese), questa se ne scappò fuori e così la bambina fu salva.

Testi tratti da:

- “Le superstizioni degli Abruzzesi” di Emiliano Giancristofaro

-Opuscolo informativo “Streghe: dramma, emozione, turbamento in un mondo che ci appartiene” di Franco Di Silverio.

  

Da:  http://portalecultura.egov.regione.abruzzo.it/abruzzocultura/data//Abruzzesi%20illustri/Storie_di_streghe_in_Abruzzo.pdf

https://www.academia.edu/3847567/Storie_di_streghe_in_Abruzzo?email_work_card=thumbnail

28 aprile 2021

Angelo Iocco, Sulle tracce dei Templari in Abruzzo, tra storia e leggenda.


 Sulle tracce dei Templari in Abruzzo, tra storia e leggenda.

di Angelo Iocco


Anche l'Abruzzo, terra ancora "misteriosa" e idilliaca, ha le sue leggende sul Sacro Graal, su monasteri perduti, castelli diroccati, personaggi oscuri, tutto materiale che ha sapore di leggenda, campato in aria di sana pianta. Invece ciò che poco si conosce è una pubblicazione degli anni '80, che ha cercato di fare vera luce sulla presenza dei Templari in Abruzzo, essendo la documentazione scarseggiante, tanto che gli stessi storici di fiducia abruzzesi, Antonio Antinori e Nunzio Fraglia, hanno scritto ben poco in merito, pur rimettendosi ai documenti da loro citati nelle opere pubblicate. Mi riferisco allo studio A. GILMOUR-BRYSON, "The Trial of the Templars in the Papal State and the Abruzzi", Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1982, che è al momento la raccolta più completa dei processi inerenti l'anno 1310, scritti in un tribunale della Basilica di Santa Maria di Collemaggio in Aquila, contro alcuni cavalieri Templari macchiatisi di sacrilegio e ignominia, come frate Cecco Nicolai Ragonis da Lanciano, e frate Andrea Armanni da Monteodorisio, che nel XIV secolo, all'epoca del processo, era sede di una contea.

Da questi atti del processo, pescati dalla Gilmour-Bryson da un faldone conservato nell'Archivio Segreto Vaticano, si apprende dalla confessione di questi due uomini, i cui capi d'accusa erano stati affissi presso le porte vescovili di Chieti, Sulmona e Penne, come fosse organizzato il sistema di magioni Templari nel Territorio di Abruzzo e Puglia, con un unico Gran Maestro, monasteri e relative grance.

 


Apprendiamo che probabilmente, per maggiore vicinanza al mare Adriatico, e ai porti abruzzesi quali Pescara, Ortona, Buca del Vasto, Punta Penna, i Templari nell'Abruzzo preferirono, come riportato in un altro documento del 1320 dal Faraglia, essere insediati nell'Apruzzo Citeriore al fiume Pescara, ossia il territorio di Chieti, anche per un collegamento più agevole con la Puglia attraverso il tratturo Magno. Papa Urbano predicò alla fine del Mille nella Cattedrale di Chieti (1097), e dopo di lui Enrico VI figlio di Federico Barbarossa in San Giovanni in Venere la Crociata per la Terra Santa, e dalla vicina Aterno oggi Pescara, molti cavalieri Crociati si imbarcarono per il Santo Sepolcro da liberare dagli infedeli. Per San Giovanni in Venere abbiamo notizie di cavalieri crociati imbarcatisi da lì anche grazie al Chronicon di Santo Stefano in Rivomaris redatto da un tal Berardo; anche se l'unico esemplare di quest'opera, che proverrebbe dalla distrutta abbazia di Santo Stefano in tenimento di Casalbordino, fu trascritto nelle Antichità dei Frentani dal noto abate falsario Pietro Polidori da Fossacesia nel XVIII secolo, e dunque la fonte va vagliata con tutte le pinze; soprattutto per quanto riguarda il carme del "Plangite" scritto dal monaco, quando si menziona il disordine e il numero di saccheggi causati nel Porto di Pennaluce vicino Vasto, per l'imbarco dei Templari, durante la presenza di Enrico VI negli Abruzzi.

A proposito di Vasto, lo storico Marchesani, prendendo anche dal suo predecessori Nicolafonso Viti, ricorda la presenza a Vasto di due chiese dedicate al Santissimo Salvatore, una dentro le mura di Guastum Aymonis (rione San Pietro), e l'altra nel casale San Salvatore de Linari, oggi distrutto. Anche nei documenti Vaticani dei possedimenti Templari in Abruzzo questa proprietà è menzionata, e qualcuno ha congetturato, leggendo "Sancti Salvatoris de Linari propre Guastum", ossia "vicino Vasto", che il territorio menzionato doveva essere l'attuale Casalbordino, ricordando che nei documenti del XIII secolo, questo feudo iniziò ad essere chiamato con il nome del feudatario, ovvero  Roberto Bordinus, e per la presenza di una parrocchia oggi del XVIII secolo, dedicata al Salvatore. Ma la congettura non regge. Regge piuttosto la menzione nei documenti della presenza di un monastero dei Cavalieri di Gerusalemme dedicato a San Giovanni, che era nel rione Guasto d'Aimone, all'altezza dell'incrocio di Corso Plebiscito con Corso Dante, antica strada del Bando, dove si trova pressappoco la chiesa del Carmine; monastero citato in documenti insieme ad altri possedimenti Templari Abruzzesi in una bolla di Papa Alessandro III nel 1173, che rimase integro sino alla metà del XIX secolo, quando ridotto a fienile, venne demolito.

 

S.Giovanni, Vasto, coll.F.Marino

Probabilmente grance Templari nei dintorni dovevano essere anche presso la scomparsa chiesa di San Martino con torre fortificata a Pennaluce, poi ad Atessa in località Castelluccio, come menzionato sempre nei documenti Vaticani, e a Monteodorisio, patria di frate Andrea, processato e interrogato nel palazzo vescovile di Chieti. Inoltre altra località, che la leggenda locale vuole di proprietà dei Templari, è Colle Flocco di Atessa, per la presenza della chiesa di San Nicola; giudicando l'aspetto novecentesco della chiesa, a meno che non si compiano scavi archeologici, non è possibile stabilire presenza di questi cavalieri in situ. Piuttosto interesserebbe l'assonanza, in queste località, tra presenza di Monaci Templari e Monaci dell'Ordine dei Celestini di Pietro da Morrone, con l'edificio rappresentativo della Badia di Santa Maria di Collemaggio, per cui si è scritto tanto anche sulla presenza templare in questo sito; a Monteodorisio il santuario della Madonna delle Grazie era anticamente un monastero celestino, e sopravvive ancora oggi il torrione di difesa dei Celestini nel centro storico, a Vasto i Celestini avevano sede nel monastero di Santo Spirito presso Torre Del Moro, dove oggi sorge il teatro Rossetti, in parte ricavato dalle sue rovine; ad Atessa esisteva il monastero dei Celestini presso il colle della Colonna di San Cristoforo, oggi scomparso; e così anche a Chieti, i Celestini avevano due possedimenti dentro le mura, Santa Maria della Civitella presso l'anfiteatro romano, e la chiesa poi passata alle Monache Clarisse nel XVI secolo, che si trasferirono dalla vecchia chiesa di San Giovanni, che ospitò invece l'ordine dei Cappuccini, a Porta Sant'Anna.