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27 agosto 2023

Il convento di Sant'Antonio a San Buono.


Il convento di Sant'Antonio a San Buono (CH)
di Antonio Mezzanotte

Giovannantonio II Caracciolo, dal 1566 marchese di Bucchianico e, tra gli altri, barone di Santobono, sapeva il fatto suo. Si dirà: eh, ma era un Caracciolo, onori e ricchezze. È vero, ma poteva accontentarsi di quello che aveva ereditato. Invece, Giovannantonio aveva due qualità di non poco momento: disciplina militare e capacità imprenditoriale.
La prima gli derivava dall'essere stato per anni al seguito del padre Marino III, governatore delle Calabrie (leggi: lotta contro la pirateria barbaresca, costruzione di torri difensive litoranee, edificazione di strade militari per raggiungere i più sperduti paesi di quella regione); l'esperienza acquisita fu determinante per la difesa degli Abruzzi dopo l'attacco turco del 1566.
La seconda lo dimostrò con l'organizzazione e la gestione del vasto stato feudale che all'epoca si stendeva dall'Alento al Trigno: fece costruire il palazzo marchesale di Bucchianico, centro amministrativo dell'importante feudo, dotandolo anche di una piazza d'armi (che è l'odierna piazza principale del paese); edificò il palazzo di famiglia a San Buono (Santobono, come si diceva a quei tempi), nella valle del Treste, trasformando il vecchio castello medievale e rimodellando la chiesa parrocchiale; a Napoli realizzò il grande palazzo alla Carbonara, nei pressi di Porta Capuana, ancora oggi uno dei più belli e imponenti della città.
Nel 1590 ottenne il titolo di principe di Santobono, non solo consolidando il potere dei Caracciolo, ma anche assestando la presenza in Abruzzo della famiglia, i cui massimi esponenti (il nipote Ferrante e il pronipote Carmine Nicola) vedranno la luce rispettivamente a San Buono e a Bucchianico.
Nel 1575 Giovannantonio Caracciolo (secondo a portare questo nome, in ricordo del nonno) fece edificare il convento di S. Antonio di Padova poco distante dal paese di San Buono, lungo un crinale alle pendici di Monte Sorbo, in un luogo ricco di acque sorgive. Il cenobio e l'annessa chiesa furono completati dal figlio Marino IV.
È la chiesa ad attirare l'attenzione. Vasta, imponente, dalla facciata scandita su tre livelli con finestrone centrale, lesene e timpano recante al centro la statua di S.Antonio di Padova. Lo stile tardo rinascimentale (del quale riaffiora un'eco nel campanile a doppia vela) fu del tutto soppiantato dalla ristrutturazione settecentesca. Il portale, riccamente ornato, presenta una iscrizione a rammentare che fu fatto realizzare nel 1750 dal padre guardiano Bonaventura da Furci.
L'interno è a navata unica composta da quattro campate con lunette a botte; sulla destra si aprono tre ampie cappelle, comunicanti tra loro quasi a formare una navata secondaria, dedicate a S.Antonio (la cui statua fu realizzata nel 1762 dallo scultore molisano Paolo Saverio Di Zinno), S. Francesco e S.Diego.
L'altare maggiore, con al centro il tabernacolo, contiene ai lati le statue di S.Giacomo della Marca e S. Bernardino da Siena.
L'origine francescana del complesso si rivela, quindi, non solo nella dedica al Santo patavino, ma anche nella presenza di rimandi a personaggi chiave della storia dell'Ordine, con la particolarità che trattasi di minori osservanti, i quali tra il 1400 e il 1500 metteranno salde radici nei principali centri del vastese.
Il convento di San Buono fu chiuso due volte: nel decennio francese (1811) e all'indomani dell'Unità d'Italia (1866), con dispersione inevitabile del ricco patrimonio artistico e documentale. I francescani lo poterono riacquistare soltanto nel 1937.
Il complesso conventuale di S.Antonio, nondimeno, continua ad essere ancora oggi, così come è stato per secoli, uno dei centri spirituali più rilevanti del territorio, immerso tra i boschi e i declivi della valle del Treste.

28 maggio 2023

Antonio Mezzanotte, Le mura saracene a Furci (CH).


Le mura saracene a Furci
di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che tanto tempo fa una schiera di predoni saraceni, risalendo la Valle del Treste, arrivarono a Colle Moro, sottostante al paese di Furci, e lì misero a ferro e a fuoco un antico monastero, passando a fil di spada (o di scimitarra) tutti i monaci. Poi, dopo che tutto fu macerie e desolazione, si apprestavano a muoversi verso l'abitato per saccheggiarlo. Ecco, però, che calò d'improvviso una fitta nebbia, ma così fitta che non si vedeva più nulla e gli invasori persero l'orientamento; subito dopo, altrettanto improvvisamente, riecheggiò un lugubre rintocco di campane proveniente dal convento appena distrutto e allora i Saraceni, spaventati, se ne fuggirono.

Ancora oggi quel luogo su Colle Moro, a mezza costa tra la Treste e il paese di Furci (CH), presenta i resti di tre imponenti costruzioni in mattoni, simili a pilastri, chiamate Mura Saracene in ricordo di quell'evento.

Un'altra versione della leggenda, meno nota, vuole che il monastero di Colle Moro fu distrutto da una invasione di formiche, le stesse che più a valle avevano devastato l'antica Lentella, un tempo posta alla confluenza della Treste con il Trigno, e che più a monte avevano demolito l'altro monastero della S.S. Trinità ad Duas Virgines nei pressi di San Buono e alle pendici di Monte Sorbo.

Erano tempi cupi, la Valle percorsa da scorrerie di barbari, ungari, saraceni, genti forestiere animate soltanto da intenzioni predatorie e il racconto popolare associò l'eco di quegli eventi lontani all'invasione di devastanti formiche.

Quelle incursioni furono fermate una prima volta intorno all'anno Mille da un leggendario soldato a cavallo di nome Buono, che avrebbe fondato il castello di San Buono, e, successivamente e in concreto, nel 1500 dai potenti principi Caracciolo di Santobono, che assicurarono stabilità e sicurezza in tutta la Valle per almeno tre secoli.

Le cosiddette Mura Saracene di Furci, che testimoniano quei fatti così lontani nel tempo, oggi costituiscono uno dei perni della rete sentieristica della Valle del Treste e intorno ad esse è stata allestita un'area di sosta.

Da: https://www.facebook.com/antonio.mezzanotte.756

6 marzo 2023

Antonio Mezzanotte, La Madonna della Misericordia a Chieti.


La Madonna della Misericordia a Chieti

Dice e racconta l'Avv. Girolamo Nicolino, vissuto nella Chieti del XVII sec., che la peste bubbonica arrivò in città il 4 agosto 1656. A portarla, da contagiata, pare che fu una donna di Giuliano Teatino.
Com'è e come non è, da quel momento e per i quattro mesi seguenti fu una finazione di mondo. Solo per avere un'idea di quello che accadde con la pandemia di allora: dodici anni prima, nel luglio 1644, quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta Chieti, vennero conteggiate 2000 famiglie fiscali, circa 10000 abitanti. Al termine della pestilenza, invece, si stima che tra morti e fuggiti dalla città, mancava all'appello metà della popolazione. In ogni caso, fu una strage.
Che poteva fare il popolo teatino di fronte a "che la sorte di sfraggelle", per usare le parole di Modesto della Porta? Non trovando rimedi, nel caos totale, dinnanzi all'impotenza delle Istituzioni (le Autorità, benvero, istituirono lazzaretti, limitarono la circolazione con dei cordoni sanitari con l'intento di fermare il contagio - lockdown e zone rosse che abbiamo vissuto recentemente non sono novità - ma invano), col morbo che sembrava inarrestabile mietendo decine e decine di vittime ogni giorno, a un certo punto il Camerlengo don Filippo de Letto in persona personalmente (ossia il Sindaco del tempo) propose un'unica soluzione: affidare la città alla Madonna!
"Alma Madre del popolo teatino, liberaci dal morbo, misericordia per i figli Tuoi": questa sarà stata la preghiera che con salmodiante e struggente fervore si levava dalla solenne processione che si svolse in città l'8 settembre 1656, giorno dedicato da sempre alla nascita della Beata Vergine Maria.
Passarono quattro mesi d'inferno. Poi, d'incanto, improvvisamente come era arrivata, altrettanto improvvisamente la peste cessò: era il 7 dicembre 1656, vigilia della Concezione di Maria.
La Vergine Santa aveva avuto pietà del popolo teatino e, a mo' di ringraziamento e in ricordo di quegli eventi, venne edificata la chiesetta intitolata proprio alla Madonna della Misericordia, probabilmente a opera dei Padri Crociferi (ossia dell'Ordine di San Camillo De Lellis), che utilizzarono l'edificio come ospedaletto extra moenia e xenodochio.
Ritroviamo la chiesa ancora oggi, sita a mezza costa tra la città storica e lo Scalo, lungo il crinale che corre parallelo al Fosso di Santa Chiara. Facciata intonacata con profilo a doppio spiovente, finestrelle basse e oculo centrale, timpano sorretto da due colonne che delimitano il portale. Il campanile è in laterizio parzialmente a vista. L'interno è ad aula unica con cappelle laterali.
Si suol affermare che per riconoscenza alla Madonna, che liberò Chieti dalla peste, nello stesso periodo sarebbero state edificate altresì le altre chiese rurali che fungono da corona alla città: in realtà, tutte quelle chiesette erano già preesistenti all'epidemia, alcune come semplici cappelle, e nella ripresa economica e sociale che seguì la pestilenza esse furono ingrandite e adattate al nuovo gusto barocco.
È probabile che anche nel luogo ove si eleva la chiesa della Misericordia un tempo sorgesse un qualche sacro edificio, legato, però, al culto di Sant'Eufemia (una statua della quale è esposta tutt'oggi nella chiesa).
Si dice e si racconta, infatti, che l'acqua del pozzo scavato nei pressi della chiesetta, detto appunto "pozzo di Sant'Eufemia", abbia la proprietà miracolosa di far tornare il latte alle puerpere e che ad essa ricorrevano tutte le donne delle campagne di Chieti.
Allora, la chiesetta della Madonna della Misericordia diventa punto identitario di questa porzione della città, da riscoprire e da tenere sempre in gran conto, così come tutte le chiesette rurali di Chieti, perché espressione della storia e della coscienza collettiva di questo articolato e composito territorio.

31 marzo 2022

Antonio Angelilli realizza i coppi in laterizio presso la Pincera settecentesca di San Buono (CH). Giornate FAI Vasto 2022.



A partire dalla metà del 1700, le fornaci di laterizi in Abruzzo hanno costituito un patrimonio di eccezionale valore ed hanno contribuito alla crescita ed allo sviluppo del territorio regionale a livello storico, economico e culturale. Poche e preziose sono le testimonianze sopravvissute delle cosiddette “Pincere”, il cui nome deriva da "pince", termine dialettale che designa i coppi utilizzati per la copertura dei tetti, ed una di esse si trova nel piccolo comune di San Buono, situato nell'area collinare dell'entroterra vastese. Complice la potenzialità del territorio, ovvero l'ampia disponibilità di materiale argilloso, il laterizio “cotto” divenne l'elemento essenziale nelle costruzioni e, per secoli, le tecniche ed i sistemi di produzione, introdotti dai romani, rimasero invariati.
Le strutture delle fornaci antiche sono definite a “pignone” e, di questa tipologia, nel territorio di San Buono, ne esistevano sette: quattro in contrada Maranna, e tre in contrada Macchie. La loro attività iniziò gradualmente a rallentare successivamente l'Unità d'Italia e, precisamente, in seguito allo sviluppo della rete ferroviaria in Abruzzo, che favorì il progredire dell'economia del territorio e che portò, quindi, ad un'inevitabile richiesta di un ciclo produttivo maggiore e più veloce, che solo le fornaci a fuoco continuo, tecnologicamente più avanzate, potevano offrire. Le strutture antiche, quindi, divennero definitivamente in disuso intorno agli anni '50 dello scorso secolo, non riuscendo a reggere la concorrenza.
Una fornace della tipologia a fuoco continuo, del marchio tedesco “Hoffmann”, fu costruita in contrada Cantarelli, ma nel 1943, un bombardamento aereo ne abbatté la ciminiera che non fu più ricostruita e di conseguenza la stessa non fu più utilizzata. Altre fornaci moderne sorsero in prossimità della costa ed i maestri fornaciai di San Buono, richiesti per la loro preparazione e contrattualizzati, vi portarono la loro esperienza.

La Pincera di San Buono, di proprietà del signor Antonio Angelilli è un interessantissimo esempio di archeologia industriale in quanto unico ed ultimo esemplare superstite di un'antica fornace, nel territorio abruzzese, del tipo "a pignone". Esiste una correlazione geografica tra aree ricche di materie prime e strutture produttive che le utilizzano, ed è il caso della Pincera di San Buono, che sorge a poca distanza dal centro abitato, precisamente in una traversa di via XXIV Maggio e, di certo non casualmente, in un'area caratterizzata dalla presenza di terreno argilloso, che consentiva di reperire direttamente in situ il necessario alla realizzazione dei laterizi. Alla presenza naturale di argilla si lega la storia della famiglia Angelilli e quella di altre famiglie di piccoli fornaciai che si adoperarono ad estrarla, curarla e lavorarla, a modellarla formando a mano mattoni e coppi che venivano cotti all'interno delle Pincere. La piccola struttura muraria a pianta circolare, si presenta in buona parte scavata nel terreno, al fine di garantire una minor dispersione del calore, ed è costituita da una camera di combustione (inferiore) ed una camera di cottura (superiore), separate da un piano forato intermedio. Dopo l'accurata lavorazione manuale da parte degli artigiani e la successiva fase di essiccazione, i manufatti crudi venivano accuratamente accatastati sul piano forato, attraverso il quale veniva sprigionato il calore del fuoco dalla camera di combustione sottostante. La delicata fase della cottura, a cura degli esperti fuochisti, prevedeva il raggiungimento di una temperatura fino a 1000°C. Infine, lo sfornaciamento del materiale cotto avveniva dopo alcuni giorni, successivamente al raffreddamento dello stesso. Le Giornate FAI di Primavera offriranno ai visitatori un'occasione unica, la possibilità di scoprire questo monumento di archeologia industriale e di rivivere le varie fasi di produzione dei laterizi, attraverso il racconto diretto del proprietario, custode ed ultimo testimone di questa antica attività, alla quale la sua famiglia si è dedicata dalla metà del 1700. Grazie alla cura del proprietario, si presenta oggi in ottimo stato di conservazione ed è ancora idonea, se messa in funzione, alla produzione dei laterizi. Antonio Angelilli, oggi novantenne, ha appreso dal padre Nicola Giacomo l'arte del fornaciaio - divenendo un eccezionale fuochista - che poté esercitare fino all'anno 1966, quando lavorò nella fornace dei fratelli Petroro a Vasto, mettendo a disposizione le competenze acquisite in tanti anni presso la pincera di sua proprietà e tramandatagli dai suoi predecessori. Il suo sogno, più volte espresso ma finora non ancora concretizzato, sarebbe quello di poter avviare un laboratorio permanente del laterizio fatto a mano, affinché non vada perduto un presidio della storia della costruzione in Abruzzo. Chissà se attraverso le nostre Giornate riusciremo a dare un nuovo impulso alla realizzazione di questo bellissimo sogno!

16 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, La forma dell’acqua (ovvero la causa per il mulino di San Buono).


La forma dell’acqua (ovvero la causa per il mulino di San Buono)
di Antonio Mezzanotte

È difficile spiegare in poche parole, per aggiunta qui su Facebook, che cos’è stato il feudalesimo. 
Esso ha costituito attraverso diversi profili e per circa mille anni l’ossatura della società europea, avendo efficacia nei territori del Regno di Napoli fino agli inizi del 1800. 
È vero che durante il periodo del riformismo borbonico qualcuno già cominciò a pensare di superarlo (tra gli altri, è da menzionare il nostro Melchiorre Delfico, teramano), ma per l'abolizione si dovettero attendere le leggi eversive del 1806-1808, emanate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, durante il c.d. decennio francese.
Per dirimere e giudicare tutte le controversie provocate dalla legge eversiva del 2 agosto 1806, con decreto dell’11 novembre 1807 fu istituita una Commissione feudale, che funzionò come tribunale straordinario per la materia fino all’agosto del 1810.
L’abolizione del feudalesimo fu davvero una “rivoluzione legale” per i nostri paesi, che, di colpo, si trovarono a contendere ai vecchi Signori terre, diritti, esazioni e quant’altro.
Purtroppo, tutti gli atti processuali, per un totale di 1062 faldoni, sono andati distrutti nell'incendio del 1943 appiccato dai tedeschi alla Villa Montesano di San Paolo Belsito (NA), presso la quale erano stati trasferiti gran parte dei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli. Tra le poche carte superstiti, vi è un “Bullettino delle sentenze” emanate dalla Commissione, che raccoglie le oltre tremila sentenze pubblicate in tre anni.
Il 18 maggio 1810 venne emessa, così, la sentenza che metteva fine al contenzioso promosso dal Comune di San Buono (CH) nei confronti dell’ex feudatario Principe Caracciolo per l’utilizzo del mulino ad acqua che si trovava lungo il fiume Treste.
Era accaduto che questo mulino, l’unico presente in paese, era di proprietà dei Caracciolo, i quali probabilmente avevano proibito ai propri sudditi non solo di costruirne un altro che potessero utilizzare liberamente, ma anche di andare a macinare presso altri mulini collocati fuori paese.
Abolita la feudalità e riformata la vecchia Università con la costituzione del Comune, i sanbuonesi ebbero l’idea di chiedere al Principe non solo di abbassare il prezzo preteso per la molitura, ma anche di liberarli dall’obbligo di macinare in quel mulino. 
Inoltre, siccome la forma dell’acqua (ossia la gora, detta anche formale, cioè il canale artificiale che alimentava il mulino) transitava sul territorio comunale, il Comune pretendeva dall'ex feudatario una percentuale sui proventi delle moliture!
Aperto il processo davanti alla Commissione feudale, il Comune era difeso dall’Avv. Felice Santangelo, il Caracciolo dall’Avv. Vincenzo Canofilo, che già alla fine del Settecento veniva considerato esperto nel diritto feudale e degli usi civici, nonché sostenitore della storicizzazione del diritto (in buona sostanza, egli cercava di interpretare la norma giuridica ricostruendo il contesto nel quale aveva operato il Legislatore).
La sentenza della Commissione acclarò quanto segue: il mulino era di proprietà esclusiva del Caracciolo; quindi, non si poteva obbligare giudizialmente il proprietario a calmierare il prezzo della molitura, né il Comune poteva vantare alcun diritto sui ricavi del mulino per il solo fatto del passaggio della forma sul territorio comunale. L’unica decisione possibile per legge era quella di obbligare il Caracciolo a garantire la solita prestazione della molitura ancora per un anno, a parità di prezzo, lasciando nella facoltà del Comune l'eventuale costruzione di un nuovo mulino per i bisogni dei propri cittadini, i quali avrebbero così potuto scegliere liberamente se utilizzare il mulino Caracciolo ovvero quello comunale.
Nella stessa sentenza furono assunti anche provvedimenti migliorativi per i coloni dei due ex feudi di Moro e della Guardiola.
Il mulino di San Buono era solo uno dei tanti opifici sparsi lungo la Valle del Treste, come quello di Furci, di Liscia o di Roccaspinalveti. 
So che ci si sta prodigando per la riscoperta di questi antichi mulini: un altro esempio positivo delle potenzialità offerte dai luoghi "della Treste", ancora poco conosciuti.

28 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?


I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?
di Antonio Mezzanotte

I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro? Una delle più antiche famiglie nobili del Regno di Napoli, che riuscì a creare un vasto stato feudale tra Abruzzo e Molise dal XV sec. in poi: dal centro di San Buono, nella Valle del Treste, ad Agnone, Castel di Sangro, Capracotta, San Vito Chietino, Bucchianico, Roccaraso, Castiglione Messer Marino, Rosciano, Alanno, Cugnoli, Fraine, Roccaspinalveti, Guardiagrele e tanti altri luoghi. Ad un certo momento, la loro ascesa sembrava inarrestabile, la stessa città di Chieti finì soggiogata al dominio dei Santobono. Ferrante (nato a San Buono) fu l'antagonista di Masaniello, suo nipote Carmine Nicola (di Bucchianico) ebbe incarichi internazionali di primo piano divenendo Viceré del Perù ed il figlio di questi, Giovanni Costanzo, cardinale, fu l'artefice della più famosa fontana al mondo, quella di Trevi a Roma. L'archivio dei Santobono, conservato in parte nell'Archivio di Stato di Napoli, è una miniera di informazioni su tanti profili di storia economica, sociale, politica e culturale abruzzese, molisana, napoletana. Ho la sensazione, però, che, contrariamente ai Valignani di Chieti, ai d’Avalos del Vasto ed agli Acquaviva di Atri (tanto per citare altre famiglie nobili che pure hanno inciso profondamente sulle vicende dei propri feudi abruzzesi e non solo), i Caracciolo di Santobono sono ancora poco studiati.
Uno degli infiniti, possibili approcci per auspicabili ricerche potrebbe essere verificare in che modo ed in che misura le abitudini alimentari abruzzesi siano state indirizzate dall’utilizzo di particolari varietà di grano, come la "carosella", ad esempio, che nei domini dei Caracciolo, a San Buono ed a Monteferrante, era largamente prevalente e, da lì, diffusasi in tutta la regione ed anche oltre.
Per tale motivo, a chiusura (per ora) di queste veloci escursioni domenicali sui Caracciolo di Santobono (escursioni divulgative e senza pretesa alcuna), voglio riproporre un post di qualche tempo fa avente ad oggetto proprio il grano detto "carosella".

IL GRANO DEL PRINCIPE

Agostino Giannone era un bravo avvocato amministrativista di fine Settecento e tra i suoi assistiti figurava Gregorio Caracciolo, principe di Santo Bono, duca di Castel di Sangro, marchese di Bucchianico (solo per ricordo, i Caracciolo di San Buono possedevano o avevano posseduto nel tempo mezza provincia di Chieti, l'Alto Sangro, parte del Molise e vari territori del pescarese, tra i quali Rosciano, Alanno e Cugnoli).
Il Giannone ebbe vari incarichi pubblici: fu nominato segretario dell'Accademia siciliana di agricoltura, arti e commercio (una antesignana delle moderne Camere di Commercio) e, grazie al favore del Caracciolo, anche segretario della Real Deputazione delle nuove strade degli Abruzzi (ossia dell'ente - una ANAS ante litteram - al quale i Borboni affidarono la realizzazione di nuovi collegamenti tra la capitale, Napoli, e la nostra regione, in particolare della strada che da Venafro saliva a Sulmona, quella che i francesi chiamarono Napoleonica e che, in buona sostanza, è oggi un tratto della S.S. 17 dell'Appennino abruzzese).
Nel predisporre la relazione sullo stato finanziario delle opere stradali necessarie per collegare Venafro a Sulmona e da lì proseguendo per L'Aquila e Chieti, il Nostro Avvocato annotò con minuziosi particolari le caratteristiche salienti del territorio abruzzese di fine Settecento (1784).
In particolare, l'Avv. Giannone si sofferma sulla coltivazione del grano, indicando dapprima le località a spiccata vocazione granaria (soprattutto del teramano), per poi aggiungere che la varietà di grano detta Carosella, inizialmente coltivata soprattutto a San Buono e Monteferrante (entrambi feudi dei Caracciolo) era diventata la più diffusa nell'intero Abruzzo Citeriore, tanto che essa stava espandendosi in quasi tutte le località dell'Ulteriore ed era molto commercializzata anche fuori dei confini nostrani.
Com'era e com'è la Carosella? Un grano tenero, risalente direttamente all'epoca dei romani, a stoppia lunga fino ad un metro, il cui nome deriverebbe dal siciliano "caruso" per indicare il chicco piccolo ed allungato, leggero, di aspetto dorato e lucido.
La farina di Carosella (a basso contenuto di glutine) era ricercata per le qualità di tenere la pasta a cottura e per il pane.
Con l'avvento della trebbiatura meccanica i grani a paglia lunga furono sostituiti con le varietà a paglia corta, di natura ibrida, tanto ibrida che sovente sono causa di insorgenza di allergie alimentari, prima di tutte quella al glutine.
In varie zone del Meridione (Cilento e Basilicata) si sta riscoprendo questa antica varietà.
Sarebbe cosa buona e giusta ed utile, allora, studiare la storia del territorio anche per riscoprire una sana alimentazione e il grano del principe Caracciolo, un tempo coltivato in tanti paesi della nostra regione, potrebbe essere riscoperto ed accostato alle altre varietà autoctone abruzzesi, come la Solina e la Saragolla, ma io aggiungerei per la qualità anche il Senatore Cappelli, per una scelta alimentare genuina e salutare.

21 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, L'atroce morte della principessa Caracciolo di Santobono.

Modesto Faustini, "L'arresto di Luisa Sanfelice", 1877

L'atroce morte della principessa Caracciolo di Santobono
di Antonio Mezzanotte

Raccontare su un breve post domenicale di facebook la Rivoluzione Napoletana del 1799 è impresa ardua e impossibile, ma se ne deve parlare, perlomeno di alcuni profili, perché di storia se ne parla poco, ovvero troppo e male (ed i programmi ministeriali ci mettono del loro). Se ne deve parlare, però, non fosse altro per comprendere che il nostro Risorgimento è stato iniziato, preparato e forgiato anche dall’illuminismo napoletano, dalla scuola del Filangieri, del Genovesi e del Galiani. Per la prima volta, infatti, affievolite le speranze di una monarchia riformatrice (anche per l’ostilità della regina Maria Carolina dopo la morte della sorella Maria Antonietta di Francia), quegli insegnamenti trovarono concretezza di idee (ma purtroppo non di piena azione politica) nei tanti giovani avvocati, medici, funzionari, letterati, ecclesiastici e militari che aderirono alle idee rivoluzionarie e sognarono di trasformare le genti meridionali, soggiogate per secoli dall’oppressione feudale e straniera, in un popolo dotato di coscienza civica, di strutture statali moderne ed aperte al cambiamento.
Non ci riuscirono, un po’ per colpa dei Francesi invasori (per i quali, a parte rare eccezioni, Napoli era soltanto terra di conquista), un po’ per la loro stessa incapacità di tradurre le idee in pratica e di comprendere le aspirazioni del popolo. Contrariamente, però, a quello che la storiografia tradizionale ci ha insegnato, furono davvero in tanti a Napoli, nelle province e nei piccoli centri a aderire a quella esigenza di cambiamento, segno di una diffusa volontà di partecipazione al processo di miglioramento della società meridionale. La successiva, violenta restaurazione borbonica ha cancellato gran parte dei ricordi di quella formidabile stagione, durata solo alcuni mesi, nei quali per la prima volta anche le donne hanno avuto un ruolo da protagoniste nell’imprimere una visione per il futuro della società.
Tutti (sono ottimista!) ricorderanno Eleonora Fonseca Pimetel, Luisa Sanfelice, Giulia Carafa Cantelmo di Serra di Cassano e sua sorella Maria Antonia duchessa di Popoli (le Madri della Patria), Teresina Ricciardi, Vittoria Pellegrini insieme alle altre meno conosciute, che, in nome della libertà, sono state umiliate, morte suicide, esiliate o incarcerate o che, in silenzio e di nascosto, hanno dato il loro contributo a quella breve esperienza repubblicana.
Erano giorni maledetti, le bande del Cardinale Ruffo avevano ripreso ormai la città di Napoli, spalleggiate da contingenti austriaci, russi, inglesi, perfino ottomani, ed i francesi erano fuggiti. Re Ferdinando ancora in Sicilia, nessuno aveva più fiducia e rispetto di alcuno, si scatenò un’ondata di violenza senza paragoni. In quel turbine di sangue, di uccisioni e di macabra crudeltà che sfociò anche in episodi di cannibalismo, è doveroso ricordare la tragica fine della principessa Caracciolo di Santobono, una delle tante vittime innocenti della barbarie sanfedista.
Il 18 febbraio 1799 si sparse per tutta Napoli la voce che il generale Jean Etienne Championnet, il comandante in capo del corpo di spedizione francese (colui che aveva offerto un anello di diamanti a San Gennaro per ripagarlo del trafugamento del tesoro portato dal Re a Palermo, gesto apprezzato dal Santo che compì per tre volte il miracolo della liquefazione, e che alloggiava nel Palazzo Caracciolo alla Carbonara) avesse sposato la bellissima figlia del Principe Ferdinando di Santobono. La notizia venne smentita, però, il mattino successivo: non vi era stato alcun sposalizio, ma solo una dichiarazione d’amore del Generale, follemente innamorato della giovane, e forse una richiesta di fidanzamento.
Pochi giorni dopo, Championnet fu richiamato in Francia. Gli eventi precipitarono, a fine giugno del 1799 ormai la Repubblica partenopea non esisteva più e si scatenò la caccia al giacobino.
Fu allora che la massa abietta dei lazzari rammentò quella voce di vento, quel sentimento del Generale francese verso la giovane figlia del principe di Santobono (del tutto estranea alle vicende della rivoluzione), che fu rapita da una turba penetrata nel Palazzo Caracciolo e trascinata in pubblico per la città completamente nuda fino alla chiesa dello Spirito Santo in Via Toledo e lì, proprio sulla soglia del portone della basilica, venne dapprima stuprata innumerevoli volte e poi orrendamente e lentamente seviziata fino alla morte.
Lo stesso Cardinale Ruffo, dinnanzi ad un crimine così efferato di una vittima innocente, volle in qualche modo prendere le distanze dai lazzari, sostenendo che egli aveva a che fare con gente violenta, feroce ed ignorante, che ormai non riusciva più a trattenere.

(Nella foto: Modesto Faustini, "L'arresto di Luisa Sanfelice", 1877, olio su tela. La particolarità del dipinto sta, tra l'altro, nelle truci figure dei gendarmi, visibili soltanto nell'immagine riflessa allo specchio)

14 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, "Giovanni Costanzo Caracciolo di Santobono, il Cardinale della Fontana di Trevi".

Il Leone dei Caracciolo di Santobono e un ritratto di Giovanni Costanzo Caracciolo 
Giovanni Costanzo Caracciolo di Santobono, il Cardinale della Fontana di Trevi
di Antonio Mezzanotte

Fontana di Trevi
Chi non conosce la celebre Fontana di Trevi a Roma? Ma probabilmente pochi hanno notato i due stemmi che vi campeggiano: il primo è quello di papa Clemente XII (committente e finanziatore dell'opera), in alto. L’altro, scolpito vicino al cosiddetto Asso di Coppe, ossia al vaso in travertino posto a sinistra del monumento, raffigura il leone rampante dei Caracciolo di San Buono sovrastato dal cappello dei prelati della curia pontificia dell'epoca. Vediamo come sono andati i fatti. In un mio precedente post ho narrato le vicende di Carmine Nicola Caracciolo, principe di San Buono (nonché Duca di Castel di Sangro, Marchese di Bucchianico e padrone feudale di tanti altri paesi posti tra l'Abruzzo ed il Molise), il quale, come premio per la sua fedeltà alla casa dei Borbone di Spagna e per i servizi resi, fu nominato Vicerè del Perù. 
Da Bucchianico (CH), paese natio, a Lima capitale del Perù (ossia di tutta l’America meridionale spagnola) ebbe una vita movimentata e ricca di soddisfazioni, ma anche di grandi amarezze, come quando, dopo esser salpato da Cadice con tutta la famiglia il 13.11.1715, attraversò l’Oceano Atlantico in poco più di un mese e mezzo, ma prima di giungere a destinazione, quando ormai la piccola flotta era entrata nel Mar dei Caraibi, al largo delle coste colombiane di Cartagena l’amata moglie Costanza morì di parto dando alla luce il piccolo Giovanni, al quale venne aggiunto il nome Costanzo in memoria della madre. Era il 19.12.1715.
Dopo gli anni trascorsi in Sudamerica, nel 1721 Carmine Nicola Caracciolo (che nel frattempo si era risposato) tornò in Europa con parte della propria famiglia, per spegnersi a Madrid nel 1726.
Il figlio Giovanni Costanzo fu avviato presto alla carriera nell’amministrazione pontificia e ricoprì vari incarichi: fu segretario generale della Fabbrica di San Pietro, uditore presso la Camera Apostolica e, dal 1732 al 1762 divenne Procuratore delle Acque di Roma, in buona sostanza il capo dell’organo gestore degli acquedotti romani. In tale veste, fu presidente della Commissione che esaminò i progetti di rinnovamento della Fontana di Trevi, attribuendo l’appalto al romano, ma forse di origini aquilane, Nicola Salvi (il cui progetto, tra l'altro, era il più economico tra i 16 presentati, preferito anche a quello del Vanvitelli, che pure piacque molto al Papa). Come gestore delle acque di Roma, il Caracciolo seguì assiduamente i lavori per la nuova Fontana di Trevi.

7 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, Da Bucchianico al Perù: Carmine Nicola Caracciolo di Santobono.

Carmine Nicola Caracciolo nel giorno del suo ingresso a Lima, capitale del Perù,
il 5 ottobre 1716, di artista anonimo
.

Da Bucchianico al Perù: Carmine Nicola Caracciolo di Santobono
di Antonio Mezzanotte

Suo nonno, Ferrante, era stato una gran testa calda: opportunista, spavaldo, attaccabrighe, ottimo spadaccino. Si scontrò varie volte a duello, fece da prestanome in operazioni finanziarie poco chiare, qualche tempo dopo riuscì a comprarsi all’asta la città di Chieti, poi rifiutò di levarsi il cappello dinnanzi a Masaniello, scappò per un pelo alla folla che voleva linciarlo (e che gli saccheggiò il palazzo di Napoli), fu colpito a morte da una archibugiata a Nola mentre, alla testa dei propri soldati, andava all'assalto dei rivoltosi. Una vita movimentata.
Carmine Nicola fu apparentemente l’esatto contrario dell'antenato: riflessivo, di buona cultura, anche un po’ piacione e bravo oratore. Aveva una inclinazione tutta particolare per gli studi letterari, compose numerose poesie, opere buffe, favole, anche un compendio storico della propria famiglia.
Non si trattava, però, di una famiglia qualunque: parliamo dei Caracciolo Principi di San Buono, Duchi di Castel di Sangro, Marchesi di Bucchianico e feudatari di mezza provincia di Chieti, dell’Alto Sangro, dell’Alto Molise e titolari di feudi anche nel pescarese.
Carmine Nicola nacque proprio a Bucchianico (CH) il 5 luglio 1671, rampollo di cotanta progenie. Da ragazzo visse in paese, con qualche puntata a Castel di Sangro e a San Buono, nella Valle del Treste. La madre curò molto la sua istruzione e, quando da adulto arrivò a Napoli, si circondò di poeti e giuristi, frequentò i circoli culturali più esclusivi della Capitale (le famose Accademie) e ne creò altrettanti, tutti accumunati dallo splendore della sua corte. Amava la bella vita e le belle donne (ci fu un mezzo scandalo per aver messo gli occhi su una cantante, che però era la favorita del viceré Medinaceli).

Antonio Mezzanotte, Storia di una truffa, di uno zio spendaccione e di un giudizio durato 109 anni.

"Il Tribunale della Vicaria" di Napoli, presso Castel Capuano,
olio su tela, sec. XVII, attribuito a Carlo Coppola ovvero ad Ascanio Luciani
 
Storia di una truffa, di uno zio spendaccione e di un giudizio durato 109 anni
di Antonio Mezzanotte

Un bambino di tredici mesi, rimasto orfano di padre, morto in guerra, viene affidato alla tutela dello zio paterno. Questo zio, amante della bella vita, ma notoriamente con le tasche bucate, in pochi anni svende buona parte del patrimonio che ha ereditato il nipote: terreni, case, mobili, preziosi, industrie ed intasca i soldi senza dichiarare nulla al Fisco. I compratori, che conoscono il carattere del personaggio, fanno finta di credere di acquistare beni di modico valore, terreni improduttivi, case in rovina. Invece l’affare è davvero lucroso: lo zio tutore realizza subito un bel gruzzolo, i compratori con poco prezzo si impadroniscono di grasse aziende agricole, palazzi, mobili d’arte e dei beni immobili così acquistati nulla trascrivono nei Pubblici Registri, sicché gli stessi continuano a figurare come intestati al minore.
Quando lo zio muore, il nipote, divenuto maggiorenne, scopre che molto probabilmente è stato frodato: in primo luogo dallo zio, che non ha mai avuto una contabilità separata del patrimonio amministrato per conto del nipote (e che, ovviamente, gli ha lasciato in eredità solo debiti), ma anche dal notaio, dai testimoni delle compravendite, dai periti che hanno attestato il falso e forse anche dal Giudice tutelare, che ha concesso con interessata e remunerata leggerezza le autorizzazioni per disporre del patrimonio intestato ad un minore. Così decide di promuovere un'azione legale contro i compratori ed i loro aventi causa per chiedere l’annullamento dei contratti e per rientrare in possesso di tutto.
Sembra una vicenda giudiziaria che potremmo leggere sui giornali di oggi; invece, risale a circa 350 anni fa e vide come protagonista una delle più potenti e influenti famiglie nobili che dominavano buona parte dell’Abruzzo: i Caracciolo, principi di San Buono, duchi di Castel di Sangro, marchesi di Bucchianico, nonché feudatari di numerosi paesi, tra cui Rosciano, Alanno, Cugnoli, ma anche Guardiagrele, Filetto, San Martino sulla Marrucina, Monteferrante e buona parte dell'Alto Sangro, dell'Alto Vastese e dell'Alto Molise.
Il bambino rimasto orfano era Marino V Caracciolo, figlio di quel Ferrante, avventuriero e brillante spadaccino, il quale riuscì persino a comprarsi la città di Chieti ma che perse la vita durante la rivolta di Masaniello, e lo zio era Gianbattista, cavaliere di Malta e, come tale, Priore di Messina. I compratori di immobili e feudi furono Ludovico de Pizzis di Ortona (uomo ambizioso e spregiudicato, il suo motto era: “chi non s’arrischia, non acquista”) e Marc’Antonio Leognani Fieramosca di Civitaquana (un personaggio calcolatore e con il fiuto per gli affari, di lui si diceva che “faceva valere per ducato il suo carlino”).

Antonio Mezzanotte, Quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta la città di Chieti.

Particolare del frontespizio della "Historia della Città di Chieti" di Girolamo Nicolino, 1657
 
Quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta la città di Chieti
di Antonio Mezzanotte

L’importanza della città di Chieti nelle vicende storiche abruzzesi è ben nota o perlomeno dovrebbe esserlo, considerato che nel 1558 veniva costituita Metropoli delle Provincie dell’Abruzzo con sede di Regia Udienza ed altri uffici governativi. Il Palazzo di Giustizia odierno, in piazza San Giustino, è stato costruito proprio dove in antico era la sede del Preside e Governatore Generale delle provincie abruzzesi.
Accadde però, agli inizi del XVII sec., che la cronica penuria di denaro nella casse dell’Erario spagnolo (sempre più impegnato a sostenere sfibranti guerre, senza che, per altro, la Corona di Spagna ne traesse particolari benefici) ed un debito di re Filippo IV nei confronti del re di Polonia, costrinsero il Governo Vicereale di Napoli a vendere i gioielli di famiglia, ossia le Città demaniali.
Com’è e come non è, il 7 luglio 1644 la città di Chieti fu venduta all’asta (metodo della candela vergine) per la somma di 81 ducati a fuoco (inteso come nucleo familiare fiscale), operazione che, per la ragione di 2000 fuochi più le spese, portò nelle casse dell’Erario la somma di 170mila ducati. All'epoca solo un personaggio poteva permettersi di sborsare una somma così ingente: il Duca di Castel di Sangro, Ferrante Caracciolo, della Casata dei Santobono (in un mio precedente post ne ho tracciato un breve ritratto), il quale, essendo già padrone della confinante Bucchianico, aveva da tempo accarezzato l'idea di mettere le mani proprio su Chieti.
Non starò qui a narrare tutte le vicende della infeudazione di Chieti e dei tentativi dei nobili teatini, capeggiati dai Valignani, di scongiurarne la vendita, degli episodi di rivolta e del riscatto al Regio Demanio durante le epiche giornate dell'insurrezione napoletana del 1647, nel corso delle quali Ferrante Caracciolo trovò la morte.

Antonio Mezzanotte, Ferrante Caracciolo di Santobono, Duca di Castel di Sangro.

Leone rampante dei Caracciolo di Santobono,
 posto sull'ingresso del Palazzo in via Carbonara a Napoli.
 
Ferrante Caracciolo di Santobono, Duca di Castel di Sangro
di Antonio Mezzanotte

Scaltro, astuto, spavaldo, dotato del senso per gli affari, privo di scrupoli, ottimo spadaccino, con una naturale predisposizione al comando, Ferrante si considerava pari a chiunque e superiore a molti, intelligente più di tanti e quanto basta per essere un tipico esponente della grande feudalità seicentesca ed attraverso di lui si affermava il potere della sua Casata, quella dei Caracciolo principi di San Buono.
A dire il vero, egli era secondogenito, pertanto in un’epoca nella quale titoli e patrimoni venivano ereditati esclusivamente dal figlio primogenito, da giovane (nacque a San Buono, CH, nella Valle del Treste, il 09.12.1605) morse il freno, destinato ad una carriera ecclesiastica ma privo di mezzi economici, lo sosteneva solo una grande ambizione.
Fu così che nel 1630, a 25 anni, iniziò un’altra carriera, battendosi a duello in Napoli con Adriano Acquaviva, dei Duchi di Atri, che uccise. All’epoca portava ancora la tonaca di chierico e, ferito, riuscì a rifugiarsi nella chiesa di S.Antonio di Padova, dove rimase nascosto e protetto dall’arcivescovo di Napoli Boncompagni fino a che le acque non si furono placate. Negli anni a venire si diede a diverse operazioni finanziarie, fungendo anche da prestanome di personaggi di rilievo, quale, ad esempio, lo stesso Vicerè di Napoli, trafficando spregiudicatamente con le polizze degli appalti delle tasse, accumulando ingenti profitti e beffando spudoratamente il Regio Fisco.