Leone rampante dei Caracciolo di Santobono, posto sull'ingresso del Palazzo in via Carbonara a Napoli. |
Ferrante Caracciolo di Santobono, Duca di Castel di Sangro
di Antonio Mezzanotte
Scaltro, astuto, spavaldo, dotato del senso per gli affari, privo di scrupoli, ottimo spadaccino, con una naturale predisposizione al comando, Ferrante si considerava pari a chiunque e superiore a molti, intelligente più di tanti e quanto basta per essere un tipico esponente della grande feudalità seicentesca ed attraverso di lui si affermava il potere della sua Casata, quella dei Caracciolo principi di San Buono.
A dire il vero, egli era secondogenito, pertanto in un’epoca nella quale titoli e patrimoni venivano ereditati esclusivamente dal figlio primogenito, da giovane (nacque a San Buono, CH, nella Valle del Treste, il 09.12.1605) morse il freno, destinato ad una carriera ecclesiastica ma privo di mezzi economici, lo sosteneva solo una grande ambizione.
Fu così che nel 1630, a 25 anni, iniziò un’altra carriera, battendosi a duello in Napoli con Adriano Acquaviva, dei Duchi di Atri, che uccise. All’epoca portava ancora la tonaca di chierico e, ferito, riuscì a rifugiarsi nella chiesa di S.Antonio di Padova, dove rimase nascosto e protetto dall’arcivescovo di Napoli Boncompagni fino a che le acque non si furono placate. Negli anni a venire si diede a diverse operazioni finanziarie, fungendo anche da prestanome di personaggi di rilievo, quale, ad esempio, lo stesso Vicerè di Napoli, trafficando spregiudicatamente con le polizze degli appalti delle tasse, accumulando ingenti profitti e beffando spudoratamente il Regio Fisco.
Fu anche coinvolto in una faida familiare tra diversi rami dei Caracciolo: uccise un familiare di Tommaso Caracciolo dei principi di Forino; imprigionato in Castelnuovo ma subito dopo, libero, fu mandante di un altro omicidio, per tale motivo ancora imprigionato, stavolta torturato, ma alla fine la fece franca perché le accuse caddero. Suo braccio destro in queste scorribande ed avventure il fratello minore Gianbattista, anch’egli destinato a vestire l’abito ecclesiastico ed a far parlare molto di sé. Del resto, il fratello maggiore, Alfonso, non lo contrastò mai, anche perché Ferrante aveva una personalità fuori del comune, che affascinava e soggiogava chiunque gli fosse vicino: infatti, convinse Alfonso a cedergli il titolo di Duca di Castel di Sangro, ereditato dalla madre.
Dotato di una forza armata personale e di un pingue forziere, nel volger di pochi anni, tra il 1641 ed il 1644 riuscì ad acquistare San Vito Chietino, Agnone e, in ultimo, la stessa Chieti con tutti i suoi feudi, comprata all’asta il 7 luglio 1644 per la somma di 170mila ducati. Quello fu l’apice del successo: non solo riuscì a mettere le mani sulla più importante città degli Abruzzi dell'epoca, ma grazie alla compera di Rosciano, Alanno e Cugnoli creò una testa di ponte per espandere il proprio dominio anche verso l'area vestina. Poi, a causa della tracotanza dei suoi agenti ed emissari, i cittadini di Chieti gli si ribellarono una prima volta nell’aprile del 1646 ma ogni tentativo di sedizione venne strocato. L'anno successivo, il '47, nel giorno del Lunedì di Pasqua (22 aprile) Ferrante faceva ingresso solenne in città, spalleggiato dai fratelli e da 200 uomini armati.
Era però giunta l’ora fatale che colse tutti impreparati: la rivolta napoletana di luglio 1647, Masaniello. Ferrante fu sempre presente nella capitale del Regno, ovviamente dalla parte governativa. Per tale motivo il Palazzo Caracciolo di Santobono fu preso d’assalto dai rivoltosi per essere bruciato. Riuscì ad evitare il peggio consegnando loro le armi custodite nella ricca armeria. Tuttavia qualche giorno dopo, il 15 del mese, trovandosi alla presenza di Masaniello in persona si rifiutò di scendere dalla carrozza per omaggiarlo (Masaniello gli ordinò allora, a pena della vita, di baciargli i piedi pubblicamente in piazza, Ferrante gli fece sapere che avrebbe preferito morire fatto in mille pezzi piuttosto che essere vituperato con così tanta ignominia del proprio nome), quindi la folla dei lazzaroni gli assalì una seconda volta il palazzo e Ferrante riuscì ad aver salva la vita perché fuggì di nascosto, travestito da facchino, scalzo e con delle masserizie addosso, per rifugiarsi nel Monastero dei SS. Apostoli.
Deciso a mantenere le posizioni, tornò ancora ad installarsi nel palazzo di Napoli, ma dopo la morte di Masaniello avvenuta il giorno successivo (il 16) l'edificio venne di nuovo assaltato dai popolani e Ferrante si spostò a Castelnuovo. Mentre accadevano questi fatti, prima Guardiagrele e poi Chieti gli si ribellarono nuovamente e Chieti riuscì a riscattarsi al Demanio versando la cifra di 20mila ducati (per altro a rate, come mi pare di ricordare).
I tempi volgevano decisamente verso la fine. Ferrante fu assegnato con il fratello Gianbattista alla difesa di Nola, e, durante la repressione del paese di Cimitile fece strozzare un prete ritenuto santo dal popolo (ma secondo altre fonti pare che il sant'uomo fosse in realtà un capo massa), ricevendo la scomunica. Ferrante, però, non aveva tempo per contestare il provvedimento (e, forse, nemmeno se ne curava): il 27.12.1647 da Nola, alla testa di un manipolo di soldati, si diresse impavido alla volta del casale di Tufino, ma venne raggiunto da un colpo di moschetto alla tempia e morì. Aveva da poco compiuto 42 anni.
Le sue spoglie furono riportate a Nola e sepolte nel giardino dei Gesuiti e non in terra consacrata, a causa della scomunica che ancora gli pesava addosso. Lasciò erede di tutte le ricchezze e dei feudi il piccolo Marino, un bimbo di appena tredici mesi, che alla morte dello zio Alfonso divenne anche Principe di San Buono e visse tra lussi e agi, ignaro delle trame che lo zio e tutore Gianbattista tesseva subdolamente per accaparrarsi consistenti fette del patrimonio pupillare (ma questa è un’altra storia).
(Nella foto il leone rampante dei Caracciolo di Santobono posto sull'ingresso del grande Palazzo a Napoli, in via Carbonara, oggi trasformato in un lussuoso hotel).
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