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12 agosto 2024

Sandro Gerbi, Raffaele Mattioli, banchiere e umanista.

 Raffaele Mattioli, banchiere e umanista

27 Luglio 2024

A parte qualche familiare, ormai sono ahimè tra le poche persone in vita che hanno conosciuto e frequentato Raffele Mattioli, per quasi un trentennio, dal 1948 al 1973 (anno della sua morte). Non per meriti personali, ma perché ero il figlio di uno dei più stretti collaboratori del banchiere, Antonello Gerbi, dal 1932 al 1970 capo dell’Ufficio Studi della Comit (a parte una parentesi decennale in Perù, fra il 1938 e il 1948, dovuta a motivi per così dire ‘razziali’). Vorrei inoltre ricordare il depositario di infinite storie, Gianni Antonini, già responsabile delle mattioliane edizioni Ricciardi, che poche settimane fa ha compiuto 98 anni e ha tuttora una salda memoria, cui mi capita di ricorrere spesso. 

Ho scritto molto di Mattioli e mio padre, e anche dei miei vari incontri con il primo, ma non ho mai messo uno in fila all’altro gli aneddoti più significativi che hanno caratterizzato il nostro rapporto. Chiedo scusa se, per affrontare questo argomento, dovrò necessariamente parlare anche di me.

I miei ricordi più antichi risalgono agli anni Cinquanta e sono in un certo senso riflessi, poiché coinvolgono mia madre Herma Schimmerling, viennese e quindi di madre lingua tedesca. Oltre a invitare occasionalmente Mattioli a pranzo, offrendogli sempre a fine pasto uno strudel casalingo, di cui era molto ghiotto, mia madre riceveva ogni tanto da Raffaele telefonate con quesiti di natura musicale. Non che fosse una super esperta, ma appassionata di musica sì e anche una discreta pianista dilettante. Una volta arrivò una chiamata di Mattioli che a bruciapelo le domandò: «Herma, come comincia il coro dei pellegrini nel Tannhäuser, quello famoso del terzo atto?». Lei glielo canta per qualche minuto; dopodiché lui ringrazia e chiude la conversazione. Viene presa per pazza dalla nostra collaboratrice domestica dell’epoca, che aveva sentito solo lo zufolare materno, per di più in una lingua inaudita, senza nemmeno uno scambio di parole.

Lo stesso fece altre volte Mattioli, interrogandola su arie delle operette viennesi più famose, che mia madre conosceva a memoria: ad esempio Sangue viennese (Wiener Blut) di Johann Strauss jr o La vedova allegra (Die lustige Witwe) di Franz Lehár: identica la scenetta al telefono.

E tanto per finire con mia madre – sempre nei miei ricordi di adolescente – un giorno mio padre, arrivando a casa dalla banca, le chiede un metro da sarta: vuole misurare la circonferenza delle caviglie di mia madre. Per quale motivo?  Perché Mattioli ha scommesso con mio padre che quelle di sua moglie, la signora Lucia, erano più sottili! Episodio spesso rievocato in famiglia con divertimento, ma senza tramandare purtroppo ai posteri il nome del vincitore (o vincitrice). 

Mattioli amava molto i giovani, tanto più se figli dei suoi amici più cari. Da buon abruzzese il capo della Comit mi dava del tu, come a chiunque. Io credo di avergli sempre dato del lei: dopotutto «il dr. Mattioli» incuteva una certa soggezione! Da ragazzino andavo talvolta in banca a trovare mio padre, il quale poi mi portava spesso da lui. Per raggiungere il suo grande ufficio che dava su Piazza della Scala, al secondo piano, seguivamo la felpata passatoia rossa stesa negli spaziosi ambienti interni (ideati da un altro suo fedelissimo, l’architetto Giuseppe De Finetti). Superate le robuste doppie porte in noce e salutati i due fedelissimi segretari, Emilio Brusa e Valentino Bona, venivo sempre da lui ricevuto molto affettuosamente. Ricordo che una volta – avrò avuto dieci o dodici anni – mi invitò a ingaggiare sulla sua scrivania un classico braccio di ferro. Mi diede l’illusione di riuscire a batterlo e poi con un gesto improvviso piegò ogni mia resistenza. Un gioco, ma anche un ammonimento: mai farsi illusioni prima di avere la vittoria in tasca!

Un nostro incontro, per me importante, avvenne poco dopo che mi ero laureato stancamente in Giurisprudenza, verso la fine del 1967, e non sapevo che fare di me stesso. Non potevo comunque entrare nella Comit perché allora – oggi non so – vigeva la regola che non più di due parenti stretti potessero convivere nell’istituto. E in banca c’erano già mio padre e mio fratello Daniele, che da poco aveva iniziato la sua breve carriera alla Comit, prima di optare per un lavoro più indipendente.

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Raffaele Mattioli nella biblioteca della sua abitazione con Riccardo Bacchelli, Milano, novembre 1969. Fotografia di Giovanna Borgese; Archivio Storico Intesa Sanpaolo.

Andai dunque da Mattioli in Piazza della Scala per chiedergli lumi sul mio futuro: «Caro Sandro, se non hai scoperto la tua vocazione all’età di dodici o tredici anni, non potrai certo scoprirla oggi. Del resto, credi forse che io avessi la vocazione del banchiere? Un giorno, per caso, ho cominciato e poi sono semplicemente andato avanti. Con abbondante Sitzfleisch». «Sitzfleisch haben» in yiddish significa «avere carne sulle terga», ovvero «resistere al tavolino», «mettere radici»: un elogio della perseveranza, virtù essenziale – secondo il boss della Comit – per portare a compimento un progetto qualsiasi. 

Continuò poi Mattioli: «Parlerò con Lionello Adler, presidente delle Cartiere Burgo, potresti fare un po’ di pratica da lui, come ha fatto Maurizio» (il suo secondogenito). «E mi raccomando, leggi Lombard Street di Walter Bagehot» [direttore dell’“Economist” dal 1861 al 1877] se vuoi capire qualcosa sul mercato dei capitali». Non andai da Adler, ma lessi Lombard Street, un suggerimento utilissimo per la mia prima attività, quella di giornalista finanziario, assistente di Renato Cantoni, a sua volta autorevole commentatore di Borsa della «Stampa». Grazie a Cantoni, cominciai a collaborare nel 1971 al settimanale «Il Mondo», diretto allora da Arrigo Benedetti.  

Nel 1972, il timoniere della Comit mi fece un dono particolare, la cui importanza compresi solo anni dopo. Sabato 22 aprile si era svolta, a Milano, l’assemblea annuale degli azionisti Comit, che si era conclusa con l’estromissione di Mattioli dalla banca e la presidenza assegnata all’ex ragioniere generale della Stato, Gaetano Stammati. Un evento traumatico, voluto dal duo democristiano Andreotti (presidente del Consiglio) e Colombo (ministro del Tesoro), cui assistetti nella mia qualità di giornalista. Mi venne allora in mente un gesto audace e chiesi a Mattioli di rilasciarmi un’intervista. Accettò, non un’intervista (e pensare che nel pomeriggio di sabato avevo faticosamente preparato una serie di domande scritte), bensì un incontro nel suo studio l’indomani mattina, domenica 23 aprile, alle 11. Non aveva parlato con nessun altro giornalista. Si era solo intrattenuto nel pomeriggio di sabato con Eugenio Scalfari, il cui articolo per «L’Espresso» sarebbe però apparso il giovedì seguente, mentre «Il Mondo» usciva di mercoledì. Stetti con lui un paio d’ore. Alternava la conversazione alla lettura ad alta voce dei giornali, sorridendo alle sciocchezze che qualcuno aveva scritto su di lui («Tutto fa brodo!», commentava con bonario cinismo) e rispondeva ad alcune telefonate di simpatia. Al termine gli chiesi se avrebbe voluto rivedere l’intervista, ma lui rispose: «Non è necessario: basta che la rilegga Antonello!» L’articolo uscì puntualmente tre giorni dopo. Senza nemmeno rendermene conto, avevo realizzato il primo scoop della mia ‘carriera’: e lo dovevo all’affettuosa generosità di Mattioli.

Qualche mese dopo – Mattioli si era ormai ritirato, ma disponeva di un ufficio in banca – io ricevetti nello studio di Cantoni, dove lavoravo, una sua chiamata: «Corri a casa perché Antonello sta male». Quel giorno mio padre, diabetico, aveva avuto una grave crisi ipoglicemica. E mia madre non era in casa. La nostra fantesca – non sapendo che fare – aveva allora telefonato al dottor Mattioli, pensando si trattasse del nostro medico di famiglia. Quando giunsi trafelato a casa, mia madre era rientrata e il medico vero, il dottor Luciano Supino, era già al capezzale di mio padre. Dopodiché Mattioli mi aveva ingiunto: «Chiamami ogni giorno per darmi notizie». Cosa che feci. E quando una volta gli dissi che mio padre stava peggiorando, rispose. «Non è ancora giunto il suo momento! Te lo dico io che sono uno stregone!». Fu buon profeta.

Vidi per l’ultima volta Mattioli, una visita di cortesia, proprio in quel periodo (inizio 1973). Mancavano pochi mesi alla sua scomparsa (27 luglio). Era presente anche il cognato Antonio Monti, all’epoca direttore centrale della Comit, che immagino si consultasse ancora con lui per alcune faccende di banca. Raffaele indossava un’ampia veste da camera e appariva fisicamente stanco, tra fastidiose febbriciattole e volto mal rasato; ma la mente era come sempre prontissima. Si parlava, quando all’improvviso volle fare una telefonata (come si sarà capito dai racconti che ho appena fatto, il telefono era il suo vero instrumentum regni). Prese dunque la cornetta e domandò alla centralinista della banca di chiamare Gianluigi Gabetti, all’epoca amministratore delegato dell’IFI, finanziaria degli Agnelli (Gabetti era stato in precedenza vice direttore della filiale Comit di Torino e presidente dell’Olivetti Underwood a New York).

Questo il colloquio tra i due:

centralino IFI: «Il dottor Gabetti in questo momento è in riunione, non posso disturbarlo per alcun motivo».

Mattioli: «Gli dica che lo cerca il dottor Mattioli».

Gabetti (pochi secondi dopo): «Eccomi. Come sta, dottor Mattioli?». 

Mattioli: «Ciao, caro. Bene. Scusami se ti disturbo, ma stanotte ho fatto un sogno. Salivo in macchina su per la collina sopra Torino, dove abiti tu, e in prossimità della tua villa osservavo ai bordi della strada dei grossi mucchi di ghiaia. Allora mi sono domandato: che ci stanno a fare?».

Gabetti: «In effetti, dottor Mattioli, il viale d’accesso era piuttosto malandato, così ho deciso di rimetterlo a nuovo; e proprio in questi giorni i lavori sono in corso».

Mattioli: «Grazie, caro, avevo proprio bisogno della tua conferma per essere sicuro che le mie capacità stregonesche fossero rimaste intatte. Ti saluto, e a presto».

Dopodiché, se la memoria non mi inganna, ebbi ancora solo un’occasione di ascoltarne al telefono la voce calda e suadente. Un giorno di aprile mio padre, tornando da una visita all’amico, mi riferì che un mio articolo sulla Comit era piaciuto molto a Mattioli. Io: «Digli che il suo giudizio è un dolce vellicamento alla mia vanità». Mio padre: «No, vuole chiamarti lui stesso». Il che avvenne puntualmente qualche ora dopo, a riprova di una natura effusiva non comune. 

Oggi, dopo tanti anni, non posso che concludere con le parole scritte da mio padre il 18 luglio del 1974, sempre sul «Mondo», per ricordare l’amico a un anno dalla morte: «Nessuno che l’abbia trovato sulla sua strada ha proseguito il cammino con lo stesso passo. Non è stato più lo stesso dopo averlo conosciuto. A nessuno, che non abbia goduto di quell’autentico privilege, si potrà mai spiegare il come e il perché di questa sua elementarissima, semplicissima e pur trasfigurata umanità».

(rielaborazione di un intervento letto a Firenze il 21 giugno 2024, in occasione di un convegno su «Raffaele Mattioli: il banchiere, l’intellettuale, il politico», organizzato dalle Fondazioni Cesifin e Spadolini)  

Da: https://www.doppiozero.com/raffaele-mattioli-banchiere-e-umanista

3 maggio 2024

“Dalla Montedison a Baghdad. Dal ginepraio della finanza alle eterne crisi del Medio Oriente”, il libro di Lino Caldarelli un grande manager dalle origini abruzzesi.

Lino Caldarelli

Conversando di illustri vastesi contemporanei con l’amico Sandro Gerbi, giornalista e storico, nonché abruzzese di adozione, oltre al noto Raffaele Mattioli - di cui suo padre Antonello è stato uno stretto collaboratore alla Comit e da lui salvato dalle leggi razziali - mi ha parlato del suo amico Lino Caldarelli e del legame con l'Abruzzo e con Vasto, sua terra di origine.

Lino Caldarelli è nato a Parma nel 1934 da mamma vastese e padre pescarese. 
Il papà, dipendente delle Ferrovie dello Stato, fu perseguitato dal regime fascista a causa delle sue idee sturziane e subì frequenti trasferimenti di sede, fino a stabilirsi a Parma.
In questa città emiliana Lino si è formato negli studi economici per poi iniziare la sua lunga carriera fino a diventare protagonista nell’ambito industriale e finanziario, top manager pubblico e privato, dirigente in gruppi bancari, capitano d’industria, Amministratore Delegato del Gruppo Montedison, figura di rilievo nazionale ed internazionale.


Caldarelli a Baghdad, foto Il Sole 24 Ore

Questa brillante avventura Lino Caldarelli l'ha raccontata nel libro “Dalla Montedison a Baghdad. Dal ginepraio della finanza alle eterne crisi del Medio Oriente”, Guerini & Associati Editore, 2022, dove parlando della sua vita ci riferisce uno spaccato della politica industriale italiana e internazionale.
Attualmente vive alternando periodi a Parma ad altri in Svizzera.
F.M.


Riporto il breve profilo tratto dall’editore del suo libro:

Una vita al vertice di grandi gruppi e banche
internazionali. Fino alla responsabilità
di ruoli istituzionali nella ricostruzione dell’Iraq
e per il riordino del Mediterraneo

Sullo scenario dell’industria italiana del Novecento dominata dalle grandi dinastie degli Agnelli, dei Falck, dei Pirelli, degli Olivetti, solo per citare le più note, la figura di Lino Cardarelli si presenta senz’altro come una curiosa quanto eloquente anomalia. Figlio di un ferroviere, personalità dall’eccezionale riserbo ma di adamantina determinazione, Cardarelli è stato uno dei protagonisti in diverse delle vicende industriali e finanziarie in Italia tra gli anni Sessanta e Novanta, dalle esperienze in Agip, Olivetti, Hill & Knowlton e Snia Viscosa ai vertici di primarie banche internazionali (Gruppo Bnl, Bankers Trust) e soprattutto del Gruppo Montedison. Un talento manageriale innovativo prestato anche al servizio dello Stato, per la costituzione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e per la ricostruzione dell’Iraq fra Baghdad, Kuwait City, Amman e Roma ai vertici dell’Unione per il Mediterraneo fra Barcellona e Bruxelles nella prima decade del terzo millennio.

Ripercorrendo una vita condotta lontano dalle effimere notorietà dei canali mediatici, l’autore si racconta ai nipoti in alcuni dei capitoli più importanti per la storia sulle eterne crisi del Medio Oriente, nel campo di tenzone tra pubblico e privato, tra progetti di crescita e trampolini per il potere nel contesto internazionale.

Lino Cardarelli (Parma, 1934) è stato prima direttore pianificazione, finanza e controllo, poi amministratore delegato del Gruppo Montedison negli anni Ottanta. Sono seguiti incarichi dirigenziali nel Gruppo Bnl, in Bankers Trust, in Legler e in altri gruppi industriali. Segretario generale ad interim nella fase di costituzione del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti dal 2001 al 2003, viene poi chiamato ai vertici del Project Management Office, la struttura responsabile a Baghdad dell’avvio del progetto di ricostruzione dell’Iraq, di cui coordina anche la Task Force in Italia fino al 2010. È stato inoltre segretario generale vicario dell’Unione per il Mediterraneo dal 2011 al 2014.


Video delle presentazioni.

Associazione Il Borgo, Parma. Presentazione del libro di Lino Caldarelli


Imago Museum, Pescara. Presentazione del libro di Lino Caldarelli

18 dicembre 2023

Raffaele Mattioli, Il banchiere della modernità - La formazione dei giovani talenti: una vera missione. "Il Sole 24 Ore" 17.12.2023.



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ECONOMIA E SOCIETA
Domenica
17 dicembre 2023

Raffaele Mattioli/1. Francesca Pino ricostruisce il percorso intellettuale dell’economista che ha trasformato la Comit da soggetto finanziario a infrastruttura culturale dello sviluppo italiano

Paolo Bricco

Esistono libri che sono aspettati con ansia dalla comunità italiana interessata al Novecento, ai suoi snodi e alle sue personalità. Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale è uno di questi. Francesca Pino, a lungo responsabile degli archivi storici di Intesa Sanpaolo, è stata dagli anni 80 l’appassionata depositaria della memoria di Mattioli e ha scritto, prima di questo tanto atteso opus magnum di una vita, non pochi articoli scientifici sul banchiere umanista.

Pino dichiara subito il suo metodo e la sua linea interpretativa. Mattioli è considerato soprattutto nel suo pensiero e nella sua influenza appunto intellettuale, che è stata così vasta e profonda da trasformare la banca – la “sua” Banca Commerciale – da un soggetto finanziario in una specie di infrastruttura culturale e sociale dello sviluppo italiano nel Secondo dopoguerra. Evidenzia l’autrice: «Anche se denso di fatti e avvenimenti, questo mio lavoro non risponde ai canoni della storia d’impresa e della banca, pur indicando alcuni tratti dell’imprenditorialità che sono ben riconoscibili in Mattioli. Ho limitato l’uso di modelli, schemi e comparazioni, e l’attualizzazione con rimandi a problematiche dei nostri giorni, cercando piuttosto di illuminare gli aspetti che permettono di collocare Raffaele Mattioli tra i “classici” cui si è tanto dedicato, e di dare alle nuove generazioni la possibilità di scoprirne il pensiero e il temperamento».

Questa biografia osserva il canone della narrazione temporale lineare. L’incipit apre uno squarcio sulle origini di Mattioli, che appartiene a una generazione di giovani provinciali arrivati da adulti a Milano: «Il ramo paterno della famiglia di Raffaele Mattioli era ben radicato a Vasto: il nonno Francesco Paolo è descritto come “negoziante” di pelli grezze e “pizzicagnolo” in un Indicatore generale del commercio del 1881».

Sui primi anni in Abruzzo, lo scrittore Alberto Vigevani riporterà così le confidenze ricevute da Mattioli: «A volte, con abbandono, mi raccontava memorie della propria infanzia, ricordi della giovinezza. L’inverno a Vasto faceva un gran freddo, Mattioli bambino usciva a spasso col nonno che portava un pesante mantello di panno nero. Quando nevicava, lo prendeva sotto l’ala del mantello e il bambino, con la mano, ne sollevava appena una falda: in quello spiraglio, quasi fosse praticato nel sipario di un palcoscenico, s’incantava allo spettacolo delle strade, delle case, del mercato con le sue bancarelle, della chiesa illuminata».

Ma il filo rosso più consistente e robusto che si dipana nel libro è, appunto, quello intellettuale.

Intellettuale nel senso della tecnica economica. E intellettuale nel senso della cultura umanistica. Sul primo versante – dopo l’esperienza esistenziale e politica, nel 1919, nella città occupata di Fiume, dove svolge la mansione di addetto stampa – Mattioli a Milano diventa caporedattore della «Rivista bancaria» e, nel 1920, scrive alla fidanzata Emilia: «La mia Rivista va sempre meglio. Mi è giunta oggi da Vilfredo Pareto una lettera che mi ha fatto molto piacere. Tu non sai chi è Vilfredo Pareto? È il più grande economista italiano, e senza dubbio uno dei più grandi del mondo».

La dimensione analitica permane nella costruzione di una idea di banca: sulla sua rivista compare assiduamente l’attività svolta a favore delle imprese dalle banche americane nel commercio estero, con lo studio dei mercati, della produzione e della distribuzione dei diversi settori.

Qui si coglie l’antica radice riflessiva da cui si genererà la Comit di Mattioli, capace di edificare il mito di sé stessa sul suo servizio studi e sulla sua funzione di bussola delle imprese italiane, dal boom economico, sui mercati internazionali.

Nella cultura umanistica, Mattioli è l’espressione della ricerca di una modernità nell’idealismo, nel senso di Benedetto Croce, e nel tentativo di contribuire alla sprovincializzazione della cultura italiana, resa senza respiro e senza visione da vent’anni di fascismo, attraverso l’organizzazione e la promozione culturale di istituti (per esempio l’Istituto Italiano per gli Studi Storici), di biblioteche, di gruppi di lavoro intellettuali.

L’elemento interessante – nella fusione di queste due accezioni di pulsione culturale – è il compromesso che il pensiero fa con la realtà e che, nella biografia di Mattioli, si traduce – già sotto il fascismo della recessione post crisi del 1929 e poi nella democrazia della ricostruzione – nella continua e assidua attività di elaborazione di strategie sistemiche a beneficio del Paese.

Nel suo dialogo serrato con l’establishment – di cui è una sorta di mago, di organizzatore e di incantatore – propone in una lettera del 28 maggio 1947 un manifesto di politica economica a Palmiro Togliatti, in risposta alla richiesta del capo carismatico e politico del Partito Comunista Italiano di avere un aiuto per capire la situazione monetaria e finanziaria.

Ricostruisce Pino: «L’invito del banchiere a Togliatti era quello di guardare ai fondamentali dell’economia del Paese, a “fare i conti” (come si continuava a dire e pensare nel suo entourage), e a non disinteressarsi della “sana finanza” che è un “interesse nazionale – di tutta la nazione – e se a qualcuno deve importare più che ad altri è proprio a quei ceti a cui più particolarmente il Suo partito si dirige”».

Pensiero e realtà, politica e finanza, tecnocrazia e umanesimo. Tutto nella vita del nipote del negoziante di pelle grezze di Vasto, Abruzzo, Italia.


Francesca Pino
Raffaele Mattioli.
Una biografia intellettuale
Il Mulino, pagg. 404, € 34

https://www.ilsole24ore.com/



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Raffaele Mattioli è stato un economista capace di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia durante tutto il Novecento. È ricordato come il banchiere umanista nel libro edito dal Mulino e scritto da Francesca Pino, consigliere dell’International Council on Archives dell’UNESCO. Il suo ritratto nel nostro longform domenicale


                di Francesca Pino, 10.12.2023

Economista di formazione, Raffaele Mattioli resse dal 1933 al 1972 la Banca Commerciale Italiana, da lui salvata al tempo della Grande crisi e rilanciata verso una nuova espansione con criteri manageriali d’avanguardia. A partire da documenti, scritti e carteggi in gran parte inediti, Francesca Pino ne compone la biografia intellettuale, evidenziandone la grande capacità di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia, e di favorirne l’apertura internazionale. A emergere è il costante impegno sociale e culturale come un filo rosso che collega lo studente Raffaele Mattioli, attento a far propri gli insegnamenti di maestri quali Attilio Cabiati, Luigi Einaudi e Benedetto Croce, al convinto antifascista e promotore della vita economica e intellettuale del nostro paese. Un estratto (pp. 375 ss.) da Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale, Bologna, Il Mulino, 2023.


Mentre l’Italia andava migliorando la propria situazione economica, non era mutata nella diagnosi di Mattioli la valutazione del problema storico della carenza di uomini competenti e responsabili, per «la gestione degli affari del paese» nei vari campi. Il banchiere aveva allevato nuove leve non solo nella Banca Commerciale, ma anche nei campi del giornalismo e della politica, muovendosi nella prospettiva dell’alta formazione, con l’Istituto Croce in primis e con il sostegno dato ad altri centri di formazione come l’Ispi di Milano, la Sioi e vari istituti universitari. Un canale importante per l’educazione alla politica e alla democrazia fu quello delle riviste militanti da lui promosse («La Cultura», tra il 1929 e il 1934, «La Nuova Europa», 1944-1946, e «Lo Spettatore italiano», 1948-1956). Una chiara manifestazione del suo pensiero si trova espressa nel 1955, quando Mattioli si sentì tentato di rispondere a un’indagine della rivista fondata da Giulio Andreotti «Concretezza», sui problemi della pubblica amministrazione: pletorica e inefficiente, costituiva (e costituisce) un annoso problema. Preparò una bozza che probabilmente non venne spedita, nella quale di proposito non si soffermava sull’ipotesi di una razionalizzazione organizzativa (che pure, date le dimensioni della azienda-stato, avrebbe permesso «soluzioni più audaci, più drastiche e più economiche»), ma si concentrava piuttosto sugli aspetti politici della questione, mettendo in evidenza le motivazioni che lo Stato aveva per «creare dei posti di lavoro»: «nel suo interesse di amministratore per poter effettuare la selezione dei migliori su una massa più vasta, nel suo interesse di politica economica per ridurre la disoccupazione, e nell’interesse della stabilità sociale per assorbire, fissare ed imborghesire un certo numero di intellettuali più o meno mancati». Restando nel quadro dell’ideologia liberal-democratica, non mancavano «esempi flagranti di sprechi, di abusi, di ingerenze che sarebbero ridicoli se non si giustificassero con una finalità fiscale, con un residuo di mentalità poliziesca o con la necessità di far fare qualcosa a qualcuno». Era vano sperare di estirpare questi mali così radicati, senza una rigorosa riaffermazione degli ideali della nostra res publica, ossia senza una vera e propria riforma morale che riaccenda in tutti i cittadini la coscienza della loro solidarietà con lo stato. Finché c’è l’amministrazione da una parte e gli amministrati dall’altra, il fisco da un lato e dall’altro il contribuente, il governo e i governati, il tutore dell’ordine e della moralità e il minorenne da guidare e correggere, – le riforme dell’amministrazione resteranno benefici parziali o effimeri omaggi a questa o quella ideologia. (Archivio storico di Intesa Sanpaolo, patrimonio BCI, Carte Mattioli, cart. 218, fasc. Note, n. 35).

Raffaele Mattioli.  Ritratto realizzato in studio fotografico a New York durante la missione economica italiana negli Stati Uniti, novembre 1944 – marzo 1945.

Come ideologie, aveva passato rapidamente in rassegna l’estremo liberalismo, il comunismo assoluto e l’ideologia liberal-democratica. […] Un passo dalle relazioni annuali di bilancio della Banca Commerciale Italiana sintetizza le sue preoccupazioni per l’immobilismo del paese: Che cosa è dunque successo in Italia dopo il 1962-63? A nostro parere è successo qualcosa di più serio e di meno nocivo che la fase negativa di uno dei soliti cicli economici. Lo slancio produttivo degli anni antecedenti ha urtato contro un complesso di strutture e di infrastrutture antiquate e rigide: le norme tributarie, gli ordinamenti amministrativi, l’organizzazione previdenziale, l’apparato scolastico, tutta l’armatura delle comunicazioni, la rete distributiva, le tecniche dell’agricoltura, gran parte del sistema giuridico e la mentalità stessa di molti imprenditori, son rimasti quel che erano cinquanta e più anni fa, e impacciano l’impeto di rinnovamento e di progresso economico che in tanti settori già si è affermato e tenta di farsi luce (Banca Commerciale Italiana, Raccolta delle relazioni di bilancio 1945-1965, esercizio 1965, pp. 334-335).

Lo statuto dell’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita

Nel tentativo di contrastare queste derive, Mattioli convocò nel 1970 un gruppo di storici contemporanei per formare l’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unitaallo scopo di raccogliere, vagliare e coordinare le ricerche – in corso e future – prodotte dalle diverse scuole «ideologiche» (cattolica, comunista ecc., che non dialogavano tra loro), e di pubblicare una rivista dal foscoliano titolo «Ipercalisse» (supremo nascondimento), affiancata da una collana di saggi. Fu scelto un motto in greco, Mantis aristos ostis eikazei kalos («È buon profeta chi congettura bene») che correva lungo un cerchio nel quale era riprodotto un ritratto di gusto ottocentesco e romantico del Foscolo. Il libello dell’Ipercalisse era stato composto nel 1815, con l’uso di chiavi e occultamenti di identità, per polemizzare contro l’arrendevolezza degli intellettuali nei confronti dei «Governanti». Alle riunioni domenicali, convocate in casa Mattioli e coordinate da Brunello Vigezzi insieme a Giorgio Rumi ed Enrico Decleva, furono invitati studiosi già affermati, giovani ricercatori e alcuni dei «consiglieri culturali» di Mattioli. Un Quaderno di ricerca promosso dalla Fondazione Rafaele Mattioli per la storia del pensiero economico (Sulla formazione della classe dirigente. L’ultimo progetto di Raffaele Mattioli, Torino, Aragno, 2023, a cura di chi scrive) ricostruisce in dettaglio la vicenda e il network degli studiosi partecipanti all’iniziativa.

A casa tra i libri, primi anni Sessanta, (articolo di Antonello Gerbi, Una sedia vuota a Milano, in «Il Mondo», 18 luglio 1974, p. 29).

Lo spettro delle ricerche si configurava come molto ampio, perché nel termine di classe dirigente erano inclusi tutti coloro che, al governo o all’opposizione, nel parlamento o fuori di esso, muovendosi in una sfera ufficiale ovvero entro spazi propri ed autonomi o addirittura alternativi, abbiano svolto, svolgano, o si preparino a svolgere compiti che vanno al di là del puro esercizio d’un mestiere, d’una professione, d’una funzione, per contribuire invece, nelle forme e nei settori propri ad ognuno (politico, economico, amministrativo, militare, religioso, culturale, sindacale…) a quella che è, di periodo in periodo e ai diversi livelli, la «gestione degli affari del paese». Mattioli era interessato alla finalità «politica» del progetto, per studiare come incanalare verso riforme utili al paese le agitazioni innescate dal Sessantotto. Dopo la sua scomparsa, avvenuta il 27 luglio 1973, il progettò si arenò.

«Mattioli, il volto inatteso della banca ironicamente umana» Così Guido Piovene lo qualificò, congedandosi dalla tappa milanese del suo Viaggio in Italia: «Qui, nella rigorosa difesa dell’interesse e del lucro, le muse attorniano Mercurio». E a proposito della Banca Commerciale osservava: «se è in parte il prodotto dell’ambiente, in parte non minore questo ambiente è stato modellato e animato da lui». La Comit aveva contribuito a formare alcuni tra gli uomini politici più in vista, Malagodi, Merzagora, La Malfa, «egualmente nutriti di spiriti laici e progressistici, aperti alle idee e non pavidi dei fatti». La loro impronta comune era l’ultima eredità del Risorgimento. […] Non senza qualche accento, in taluni, di un radicalismo paradossale in una banca: la sempre risorgente querela contro le scarse capacità di riforma, in senso politico e religioso, della società italiana. Che però in Mattioli si vela di umanesimo e di ironia. Proprio quest’ultima caratteristica, l’ironia, contraddistingueva il banchiere: «un’irriverenza che ricorda Galiani (o, come egli preferisce dire, “di stampo galianeo”), tanto più esplicita quando travolge la sua stessa persona» (citazioni da G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1957, p. 79). […] È sorprendente – in un civil servant che sentiva profondamente il valore delle istituzioni – la presenza tanto spiccata di un côté iconoclasta, di un’ironia dionisiaca e carnale, molto abruzzese nel buon senso paesano, napoletana e meridionale nella fantasia, negli esorcismi e nella fedeltà alle radici. Il riserbo da banchiere che si tramutava nel suo contrario, l’impertinenza, era un espediente per sciogliere la tensione e per contenere una natura calda di affetti e di generosità, partecipe delle disgrazie civili della «patria» e orientata sempre alla difesa della parte sana della società: i lavoratori di ogni ordine e grado e, come si legge nella biografia appena edita dal Mulino, gli oppressi da ingiustizie e persecuzioni.

Da: startupitalia.eu