di Antonio Mezzanotte
Avete mai provato a declinare al femminile la storia d'Italia tra 1400 e 1500, associando le caratteristiche dell'età rinascimentale ai nomi di grandi donne? Proviamoci: la Ragione e l'Arte del Buon Governo (Isabella d'Este, marchesa di Mantova), la Bellezza e le dinamiche del Potere (Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, troppo a lungo infondatamente marchiata con l'aura venefica di suo fratello Cesare), la Poesia (Vittoria Colonna, marchesa di Pescara), l'Arte della Guerra (Caterina Sforza, contessa di Imola e Forlì). E ancora Clarice Orsini (moglie di Lorenzo il Magnifico: dietro a un grande uomo vi è sempre una grande donna), Bianca Maria Visconti, Eleonora Gonzaga e via discorrendo.
Donne straordinarie ed inimitabili, le cui qualità sono state tutte espresse in anticipo sui tempi da un'altra figura femminile, abruzzese, immeritatamente poco ricordata:
Jacovella da Celano.
La famiglia era quella dei Berardi, discendenti di Carlo Magno in terra marsicana. Alla morte del Conte di Celano Nicola nel 1418, gli subentrò il figlio Pietro III, che però morì poco dopo, lasciando per testamento la Contea alla sorella minore Jacovella.
Papa Martino V Colonna (sovrano feudale del Regno di Napoli) obbligò Jacovella, ancora molto giovane, a sposare il nipote Odoardo Colonna. Che poteva fare la povera Jacovella orfana di padre, senza l'appoggio di un fratello, con la madre che si era rifatta una vita sposando Muzio Attendolo Sforza, sola e intimorita? Subì inizialmente questo matrimonio, combinato dal papa soltanto perché i Colonna suoi parenti mettessero le mani sulla Contea di Celano.
Il marito te lo raccomando, non era uno stinco di santo. A Jacovella proprio non piaceva (si dice e si racconta che fosse pure deforme), ma soprattutto non sopportava l'idea che Celano fosse governato da un estraneo il cui fine era solo arricchirsi. Non gliela diede, letteralmente... la Contea!
Dopo tre anni di convivenza lontano dalla Marsica, nel castello Colonna di Genazzano (RM), alla morte del papa Martino V Jacovella scrisse una lettera accorata al nuovo pontefice Eugenio IV per chiedere l'annullamento del matrimonio non consumato.
Santità - scrive in buona sostanza Jacovella - l'amore viene prima delle questioni politiche ed economiche e se io non amo l'uomo che sposo nemmeno è giusto che, oltre a me stessa, gli dia anche la terra dei miei antenati!
Roba da capogiro, mai nessuna donna fino ad allora aveva osato riprendersi in mano il proprio destino in nome della felicità, dei sentimenti e dell'amore per il proprio paese.
Com'è e come non è, Jacovella abbandonò il marito tornandosene a Celano, ottenne l'annullamento del matrimonio e si riprese il governo delle proprie terre. Ma era ancora troppo giovane per esser padrona assoluta della propria vita; inoltre, come ultima discendente dei Berardi, era considerata sempre un partito più che appetibile.
Tra i tanti pretendenti, si impose l'uomo forte del momento, Jacopo Caldora, valoroso condottiero, che però aveva 50 anni in più di Jacovella, appena ventenne. Fu una unione calcolata per difendere Celano dalle mire espansionistiche dei Colonna, ai quali beninteso nulla importava di Jacovella, ma che volevano riprendersi a tutti i costi la Contea. Jacopo non visse mai con la moglie, impegnato in continue campagne militari, e morì nel 1439 dopo soli tre mesi dalle nozze.
Ancora una volta sembrava che intorno a Jacovella ed alla sua Celano si scatenassero le ambizioni dei soliti approfittatori, ma stavolta la ragazza ragionò con la propria testa e col proprio cuore, scegliendo Leonello Accrocciamuro, figlio della sorella di Jacopo Caldora.
Coetaneo di Jacovella, bello, aitante, valoroso, arguto, dotato di plurimi e variegati interessi, era l'uomo ideale da sposare; soprattutto, si trattava del giovane di cui la nostra Jacovella era davvero innamorata e dal quale veniva sinceramente ricambiata.
La coppia aveva ricevuto la benedizione ed i suggerimenti di fra Giovanni da Capestrano, che vegliava sulla nuova unione, dalle quale nacquero tre figli.
Si aprì un periodo di grande prosperità per la Contea: riforme amministrative, economiche, sviluppo del commercio e dell'industria della lana, fioritura delle arti e della cultura umanistica, abbellimento di chiese e palazzi, lo stesso Castello fu ristrutturato e vennero edificate le quattro torri d'angolo, grossi donativi furono indirizzati per la realizzazione della basilica di San Bernardino a L'Aquila, così come per il nuovo convento dei francescani a Capestrano.
Tutto questo periodo di pace e prosperità finì con la morte di Leonello nel 1458. Jacovella rimase al governo di Celano in nome del figlio primogenito e minore Ruggero, ma questi ben presto venne preso dalla smania del potere, subdolamente consigliato da Jacopo Piccinino, di parte angioina (mentre Jacovella tenne sempre per gli aragonesi). Accadde l'impensabile: Ruggero tradì la madre e, con l'aiuto del Piccinino, la assediò mentre quella si trovava nel castello di Gagliano Aterno. Jacovella resistette fino allo stremo, incitando i suoi soldati sulle mura del castello. Ruggero alla fine prevalse, sembra grazie al tradimento di un suo seguace che gli aprì le porte della fortezza, Jacovella cadde prigioniera del Piccinino, che non solo trafugò il tesoro della Contea, ma pretese anche un riscatto di 120mila ducati perché Jacovella potesse riottenere la libertà (salvo poi confinarla a Castelvecchio Subequo).
La Marsica, nel frattempo, veniva invasa dall'esercito regio guidato da Federico da Montefeltro, che ebbe la meglio sulle truppe del Piccinino. Soltanto a quel punto il figlio di Jacovella, Ruggero, trattato quasi come un ostaggio dal Piccinino, si rese conto dell'enorme sciocchezza che aveva fatto e chiese perdono alla madre, al Re e al Papa Pio II Piccolomini, il quale non aspettava altro che estromettere i Berardi dalla Contea di Celano, la quale, infatti, nel 1463 fu ceduta proprio alla famiglia Piccolomini.
A Jacovella venne imposto di ritirarsi nel proprio possedimento di Venafro, in Molise, e lì morì intorno al 1471, senza avere più la possibilità di tornare nell'amata Marsica.