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12 dicembre 2023

Antonio Mezzanotte, Santa Lucia di Rocca di Cambio (AQ).

Chiesa di S.Lucia a Rocca di Cambio
Affreschi
particolare degli affreschi

Santa Lucia di Rocca di Cambio (AQ)

di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che Ottone I di Sassonia (avete presente? Il tedesco di Germania, quello che diede una solenne batosta agli ungari e venne incoronato imperatore nell'anno 962), scese più volte in Italia e che a un certo momento si trovò a passare con la moglie Adelaide di Borgogna per l'altopiano delle Rocche, in Abruzzo. Tanto gli piacque il luogo (e si capisce perché, aggiungo io) che decise di edificare un palazzo nei pressi di Rocca di Cambio.
Accadde che venne a sapere di una storia raccontatagli dal vescovo di Valva-Corfinio, Grimoaldo, il quale giurò sul vangelo che qui in Abruzzo, a Prezza per l'esattezza, vi fossero conservate le vere reliquie di Santa Lucia!
"Santa Lucia chi?" chiese stupito l'imperatore. "Lucia di Siracusa" rispose il vescovo. Insomma, avete capito, proprio lei, la santa della luce, protettrice della vista.
Gli annali del tempo riferiscono che verso l'anno 718 le reliquie della Santa martire sarebbero state prelevate da Siracusa e portate a Prezza, luogo fortificato nei pressi della cattedrale di Corfinio, e lì custodite in segreto per circa 250 anni, fino a quando Ottone nel 969 decise di portarsele a Metz, ora in Francia, all'epoca una delle capitali del Sacro Romano Impero.
Nel tragitto da Prezza a Metz, le reliquie sostarono presso il palazzo imperiale sull'altopiano delle Rocche e di quel passaggio resterebbe il ricordo nell'edificio di culto dedicato proprio a santa Lucia, sorto in seguito sul luogo stesso del palazzo di Ottone, a Rocca di Cambio, che ancora oggi vediamo.
Com'è e come non è, tralasciando l'altra versione della storia, che individua in Venezia il luogo in cui sono custodite le reliquie della martire siracusana, la chiesa di Santa Lucia (detta abbazia, forse in ricordo di un antico insediamento monastico) presso Rocca di Cambio (AQ), sorge in una zona strategica dell’altopiano delle Rocche, lungo un braccio secondario della via consolare Claudia Nova, che collegava Forcona a Collarmele (l'antica Cerfennia) nella Marsica. La chiesa fu edificata tra l’XI e il XII secolo, probabilmente sui resti di una precedente costruzione rettangolare che ne costituisce oggi la cripta, di certo una cappelletta rurale ad uso dei pastori transumanti. La prima attestazione documentale risale al 1313, quando viene citata nell’inventario delle chiese della diocesi aquilana.
La facciata è sobria e squadrata, con un portale del XV secolo di stile romanico, un piccolo rosone sovrastante e campanile a vela. La facciata è stata intonacata nel 1930 per riparare i danni causati dal sisma del 1915, che aveva anche provocato il crollo della parete sinistra della chiesa. La copertura originaria a botte è stata sostituita da una in legno.
L’interno è a navata unica, con una serie di archi a tutto sesto che dividono lo spazio in quattro campate. L’abside è semicircolare e ospita l’altare maggiore, sormontato da una croce lignea del XV secolo. Sotto l’abside si trova la cripta, accessibile da due scale laterali, che conserva le tracce dell’antica costruzione rettangolare. La cripta è decorata con affreschi del XIII secolo, raffiguranti scene della vita di Cristo e dei santi.
Un altro ciclo di affreschi (restaurato dopo i disastri tellurici del 2009) ricopre le pareti della navata, realizzato tra il XII e il XIII secolo con rimandi a motivi giotteschi. Essi narrano episodi della vita di santa Lucia e di altri santi, come san Nicola, san Giorgio e san Michele. Tra gli altri, una Ultima Cena con Gesù seduto a capotavola (così come mi pare di aver visto anche a Fossa e a Bominaco) e non al centro del desco, per altro riccamente imbandito, insieme agli Apostoli (con Paolo al posto di Giuda) e, poco distante, all'angolo, un personaggio in abito pontificale, da più autori individuato come Celestino V (che si spogliò delle vesti papali proprio il 13 dicembre 1294 e il 13 dicembre è il giorno in cui si ricorda il martirio di Lucia: però, io personalmente a vedere l'affresco non saprei confermare se trattasi proprio di san Pietro Celestino).
La chiesa di Santa Lucia a Rocca di Cambio è un luogo di culto, di devozione popolare (la festa, spostata da dicembre a giugno per motivi.... climatici, richiama ogni anno tanti devoti, soprattutto dalla Marsica), ma anche di arte e di storia, testimone prezioso della vita individuale e comunitaria delle genti abruzzesi.

10 settembre 2023

Antonio Mezzanotte, Giorgio Castriota Skanderbeg.

Giorgio Castriota Skanderbeg, busto nella omonima piazza di Villa Badessa di Rosciano

GIORGIO CASTRIOTA SKANDERBEG
di Antonio Mezzanotte 

Si dice e si racconta che un giorno infuriava una feroce battaglia tra l'esercito cristiano e quello turco (più numeroso) e che i combattimenti si protrassero ben oltre il tramonto. Fu allora che il comandante dei cristiani mise in atto lo stratagemma che lo avrebbe portato a una strepitosa vittoria: fece radunare un grosso gregge di capre, ordinando di legare due torce accese sulle corna degli animali per farli sembrare uomini che si muovevano nella notte e spronò il gregge contro i turchi; quelli, nell’oscurità, pensarono che andasse loro incontro un immenso esercito di agguerriti soldati e scapparono senza combattere!
Testimonianza di quell'episodio la vediamo tutt'oggi nelle raffigurazioni del comandante cristiano, che indossa un copricapo a forma di testa di capra.
Chi era, quindi, questo personaggio? Giorgio Castriota.
Si dice e si racconta che dopo la sconfitta del padre Giovanni, principe albanese, ad opera del sultano Murad II, Giorgio venne condotto ostaggio ad Adrianopoli, presso la corte ottomana, e costretto a convertirsi all’Islam: per tale motivo, assunse il nome di “Iskander” (che in turco vuol dire “Alessandro” - il riferimento era ad Alessandro Magno) e tale era l’abilità, la forza e la lealtà nei confronti del Sultano che questi lo nominò “Beg” (nobile, principe), da cui l'appellativo "Skanderbeg" (che possiamo tradurre in "principe Alessandro").
Riportò numerose e importanti vittorie alla guida degli eserciti ottomani, divenne così popolare che lo stesso Sultano temeva che aspirasse a prendersi il trono, ma Giorgio pensava ad altro; poco alla volta sentiva il richiamo della propria terra e, in fondo, anche la conversione forzata all’Islam non era stata mai accettata del tutto nel suo cuore.
Si dice che alla vigilia della battaglia di Nis, combattuta il 28 novembre 1443, decise infine di abbandonare il campo (determinando così la disfatta dell'esercito ottomano) e di tornare in Albania con 300 esuli, riabbracciando la fede cristiana. Conquistò in poco tempo tutte le città e le fortezze della regione già occupate dagli invasori e si pose a capo del movimento insurrezionale albanese contro i Turchi.
Da quel momento divenne il più temibile nemico degli eserciti ottomani, i quali, benché di gran lunga superiori di numero e di mezzi, si infrangevano sempre contro le schiere albanesi, che erano favorite dalla conoscenza del territorio e abilmente guidate dal Castriota, il quale, nonostante il ritorno alla fede cristiana e ancorché fosse divenuto il più strenuo nemico degli ottomani, continuò a chiamarsi e a firmarsi sempre con l’appellativo Skanderbeg (forse per ricordare ai soldati turchi che stavano combattendo contro il loro antico, amato e invincibile comandante).
Raggiunta una tregua con il Turco, si alleò con Re Ferrante d’Aragona, che aiutò a difendere la Corona di Napoli dalle rivendicazioni angioine: per tale motivo il Re lo ringraziò investendolo di numerosi feudi in terra di Puglia.
Dovette però tornare ben presto in armi a difesa della sua Albania e si spense di malaria il 17 gennaio 1468.
La nipote più giovane di Skanderbeg, Maria, andò sposa ad Alfonso Leognani, dei baroni di Civitaquana. Da essi ebbe origine il ramo Leognani Castriota, dal quale derivò, per il matrimonio del loro discendente Giambattista con Porzia Fieramosca, sorella di Ettore, eroe della Disfida di Barletta, il ramo dei Leognani Fieramosca, le cui vicende sono da rinvenire nelle storie di Civitaquana, Rosciano, Alanno, Cugnoli, Penne dal XVI al XVIII sec., mentre un altro ramo dei Castriota possedeva Città Sant'Angelo.
Quando nel 1743 giunsero le 18 famiglie albanesi che fondarono Villa Badessa di Rosciano (la più recente e settentrionale colonia arbëreshe), questi territori erano in qualche modo già legati al nome dello Skanderbeg e probabilmente le vicende dei Castriota nell'Abruzzo vestino (ancora poco note e da studiare) stanno a confermare che lo stanziamento badessano non fu affatto casuale, ma diretto e mirato all’interno di una trama di relazioni e interessi fra potentati familiari e militari d’origine albanese o a essi affini, da secoli presenti nell’Italia meridionale, il cui peso fu determinante nelle scelte di Carlo di Borbone nel favorire la nascita proprio di Villa Badessa.

(Nella foto: il busto di Giorgio Castriota Skanderbeg collocato nell'omonima piazza di Villa Badessa di Rosciano - PE, con l'epitaffio TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM (ossia: "a così gran nome nessun elogio è adeguato"), al quale, probabilmente, sarebbe opportuno dare una ripulita!

27 agosto 2023

Il convento di Sant'Antonio a San Buono.


Il convento di Sant'Antonio a San Buono (CH)
di Antonio Mezzanotte

Giovannantonio II Caracciolo, dal 1566 marchese di Bucchianico e, tra gli altri, barone di Santobono, sapeva il fatto suo. Si dirà: eh, ma era un Caracciolo, onori e ricchezze. È vero, ma poteva accontentarsi di quello che aveva ereditato. Invece, Giovannantonio aveva due qualità di non poco momento: disciplina militare e capacità imprenditoriale.
La prima gli derivava dall'essere stato per anni al seguito del padre Marino III, governatore delle Calabrie (leggi: lotta contro la pirateria barbaresca, costruzione di torri difensive litoranee, edificazione di strade militari per raggiungere i più sperduti paesi di quella regione); l'esperienza acquisita fu determinante per la difesa degli Abruzzi dopo l'attacco turco del 1566.
La seconda lo dimostrò con l'organizzazione e la gestione del vasto stato feudale che all'epoca si stendeva dall'Alento al Trigno: fece costruire il palazzo marchesale di Bucchianico, centro amministrativo dell'importante feudo, dotandolo anche di una piazza d'armi (che è l'odierna piazza principale del paese); edificò il palazzo di famiglia a San Buono (Santobono, come si diceva a quei tempi), nella valle del Treste, trasformando il vecchio castello medievale e rimodellando la chiesa parrocchiale; a Napoli realizzò il grande palazzo alla Carbonara, nei pressi di Porta Capuana, ancora oggi uno dei più belli e imponenti della città.
Nel 1590 ottenne il titolo di principe di Santobono, non solo consolidando il potere dei Caracciolo, ma anche assestando la presenza in Abruzzo della famiglia, i cui massimi esponenti (il nipote Ferrante e il pronipote Carmine Nicola) vedranno la luce rispettivamente a San Buono e a Bucchianico.
Nel 1575 Giovannantonio Caracciolo (secondo a portare questo nome, in ricordo del nonno) fece edificare il convento di S. Antonio di Padova poco distante dal paese di San Buono, lungo un crinale alle pendici di Monte Sorbo, in un luogo ricco di acque sorgive. Il cenobio e l'annessa chiesa furono completati dal figlio Marino IV.
È la chiesa ad attirare l'attenzione. Vasta, imponente, dalla facciata scandita su tre livelli con finestrone centrale, lesene e timpano recante al centro la statua di S.Antonio di Padova. Lo stile tardo rinascimentale (del quale riaffiora un'eco nel campanile a doppia vela) fu del tutto soppiantato dalla ristrutturazione settecentesca. Il portale, riccamente ornato, presenta una iscrizione a rammentare che fu fatto realizzare nel 1750 dal padre guardiano Bonaventura da Furci.
L'interno è a navata unica composta da quattro campate con lunette a botte; sulla destra si aprono tre ampie cappelle, comunicanti tra loro quasi a formare una navata secondaria, dedicate a S.Antonio (la cui statua fu realizzata nel 1762 dallo scultore molisano Paolo Saverio Di Zinno), S. Francesco e S.Diego.
L'altare maggiore, con al centro il tabernacolo, contiene ai lati le statue di S.Giacomo della Marca e S. Bernardino da Siena.
L'origine francescana del complesso si rivela, quindi, non solo nella dedica al Santo patavino, ma anche nella presenza di rimandi a personaggi chiave della storia dell'Ordine, con la particolarità che trattasi di minori osservanti, i quali tra il 1400 e il 1500 metteranno salde radici nei principali centri del vastese.
Il convento di San Buono fu chiuso due volte: nel decennio francese (1811) e all'indomani dell'Unità d'Italia (1866), con dispersione inevitabile del ricco patrimonio artistico e documentale. I francescani lo poterono riacquistare soltanto nel 1937.
Il complesso conventuale di S.Antonio, nondimeno, continua ad essere ancora oggi, così come è stato per secoli, uno dei centri spirituali più rilevanti del territorio, immerso tra i boschi e i declivi della valle del Treste.

13 agosto 2023

Antonio Mezzanotte, Andiamo a Cornaclano, andiamo al Beato.

Cornaclano, Beato Angelo da Furci

ANDIAMO A CORNACLANO, ANDIAMO AL BEATO
di Antonio Mezzanotte

Andiam, si parte, si va a Cornaclano, come ogni anno, com’è tradizione, come vuole la devozione. Che cos’è Cornaclano oggi? Un rudere di muro, un monolite sperso tra i boschi e le campagne della Treste, nel vastese; frinir di cicale e di grilli, guair di volpi, strider di falchi, non s’ode altro.
Ma la mattina del 13 agosto un insolito andirvien di auto e di genti, tutti s’affrettano verso uno spiazzo, tra due querce e l’antico muro, ove nel mezzo sta un altar.
È la Messa per “lu Sande Beate Angelo”, come dicono qui, che a Sant'Angelo in Cornaclano, antica e potente abbazia benedettina, poi agostiniana, poi commenda dei principi Caracciolo, da ragazzo si fece sapiente per spiccar il volo da Furci (CH), il paese natio, fino alla Sorbona di Parigi e ai cieli della santità.
Il Beato morì a Napoli nel 1327 e nell’agosto 1808 partì una delegazione di furcesi per chiedere al Re di poter riportare a casa le Sacre Reliquie. Quando si dice aiutati ché Dio t’aiuta! In quel frangente re Giuseppe Bonaparte stava facendo le valigie per la Spagna, lì destinato dal fratello Napoleone, e figuriamoci se aveva tempo per esaminare le istanze dei furcesi e... grazie a Dio! Infatti, cavilloso, prudente ma anche pavido com’era di certo avrebbe trovato qualche motivo di diniego (Giuseppe non era portato per fare il Re in quei tempi eccezionali, al più avrebbe potuto essere un buon ministro o ancora meglio un ottimo consigliere di stato).
Al suo posto Napoleone nominò il cognato Gioacchino Murat, gran testa calda, guascone, impulsivo, ambizioso, ma con due grandi qualità: sapeva condurre una carica di cavalleria come nessun’altro e, inoltre, undicesimo figlio di un oste, aveva un gran cuore che lo fece subito benvolere dal popolo napoletano. Fu proprio Murat a firmare il decreto che autorizzava i furcesi a riportarsi le spoglie del Beato in paese. In ricordo di quell’evento, il 13 agosto di ogni anno i devoti del beato Angelo si recano in pellegrinaggio ai resti dell’abbazia di Cornaclano.
Questo pellegrinaggio dal paese a scendere verso Cornaclano, che ancora qualcuno fa a piedi, è davvero un tornare indietro nel tempo: si scende lungo la strada che porta al fondovalle (una vecchia mulattiera trasformata in rotabile, una discesa, a tratti assai ripida, che mette a dura prova i freni delle autovetture, ma anche farsela a piedi non è uno scherzo e probabilmente pure i muli avrebbero protestato), costeggiando le Mura Saracene (i resti di un antico convento distrutto dai saraceni), si prende la strada di fondovalle all’altezza del vecchio mulino, poi si entra nell’exclave sanbuonese del Pantano, poco dopo l’incrocio per la Cena e al di sotto delle Morge si svolta a destra e ci si prepara ad attraversare la Treste.
Sono anni che ormai percorro questa strada, ma in quell’aveo d’estate non ho mai visto un rivo d’acqua e così ripenso a un atto giudiziario dell’Avv. Gaetano Celani in un processo del 1753, lì dove descrive il corso del fiume Treste, precisando che dalla grande abbondanza di acqua nei mesi invernali la portata si riduce nei mesi estivi fino a perdersi del tutto tra aridi sassi e disseccate arene.
Malgrado frane, erosioni e smottamenti una stradina guada il fiume e poi, tra vigne, frutteti e distese di campi mietuti, tra i quali già si iniziano i lavori di aratura, sale in direzione di Fresagrandinaria, al quale fa capo questo versante, e giunti a una vecchia casa colonica bisogna trovare un posteggio possibilmente riparato dal solleone sotto un ulivo o una quercia e affrettarsi a raggiungere la spianata di Cornaclano per conquistarsi una porzione d’ombra, magari vicino ai cespugli di more, che fanno gola...
La celebrazione della Santa Messa all’aperto con i devoti disposti a semicerchio riecheggia antiche litanie e la fervente attività dell’abbazia medievale, riallacciando una ideale continuità dai giorni del beato Angelo a oggi.
Il paese di Furci si scorge in lontananza appollaiato sul colle, boschi di querce fanno da sfondo a Cornaclano, nibbi reali volteggiano in cielo e più volte si avvicinano, forse incuriositi da questo insolito fermento.
A conclusione, cellipieni devozionali e panini alla ventricina e poi si ripercorre la stessa strada (oppure si riprende l'Istonia passando per Sodere di San Buono, più lunga ma anche più agevole) per risalire in paese; se avanza tempo, deviando alla Guardiola poco prima della Treste, si raggiunge la vicina chiesetta rurale di Sant’Antonio di Padova, sempre in territorio di Fresagrandinaria, con la sua grotticella e il ricordo di quei miracoli compiuti da uno sconosciuto pellegrino (si dice lo stesso S.Antonio) agli inizi del 1900.
Quando si viene nella Valle del Treste fede, tradizioni e storie di un tempo si fondono con una natura aspra e dura, che tempra gli animi, e quel che ne deriva è una devozione autentica per i Santi di qui, arcangeli, guerrieri, teologi, predicatori, Madonne arboree, e un rispetto atavico e corale verso il forestiero, il quale, superata l’iniziale e inevitabile reciproca diffidenza con i residenti, riceve da questi accoglienza sincera e ricetto, perché chi viene fin quaggiù è come un pellegrino che cerca di ritrovare sé stesso nel gran viaggio della vita.

30 luglio 2023

Antonio Mezzanotte, Quando i Turchi attaccarono Pescara.


QUANDO I TURCHI ATTACCARONO PESCARA
di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che al mattino del 30 luglio 1566 (era un sabato), appena cominciava ad albeggiare, le sentinelle di vedetta sui bastioni della piazzaforte di Pescara si trovarono di fronte ad uno spettacolo bello e terribile insieme: 105 galee turche stavano avvicinandosi dal mare e di certo le intenzioni non erano pacifiche.
Le guardie non lo sapevano ancora, ma a comandare la flotta e i settemila uomini che essa trasportava era Piyale Paşa in persona personalmente, ammiraglio in capo della marina militare ottomana, un croato convertitosi all'islam, che veniva giusto giusto dal fallito assedio di Malta dell'anno precedente per far bottino (e per far terra bruciata, facilitandosi, così pensava, la conquista delle isole Tremiti dopo aver strappato l'isola di Chio ai genovesi).
Probabilmente i turchi non conoscevano del tutto lo stato dei luoghi e ignoravano o sottovalutavano che Pescara stava diventando (i lavori all'epoca non erano ancora conclusi) la più moderna piazzaforte del Regno di Napoli, costituita da 7 bastioni a punta e rivellino, oltre due chilometri di mura alte mediamente 10 metri, spesse 8 metri alla base, 4 alla sommità, mura di scarpa ed un fossato, la cui conquista avrebbe però spalancato agli invasori le porte dell'Abruzzo verso le ricche città di Chieti e Penne.
"Mamma li turchi e mo che facciamo?" pensavano preoccupati i militari della guarnigione pescarese (probabilmente lo pensavano in spagnolo, ma tant'è...)
Ma a comandar la piazzaforte ci stava un abruzzese che sapeva il fatto suo: Giovan Girolamo I Acquaviva, duca di Atri.
Che fece il duca? Organizzò un grande bluff, una messinscena, un colpo di teatro "a sorte di Dio"! Se i turchi fossero sbarcati, infatti, non vi sarebbe stato scampo, poichè contro settemila scimitarre i pochi difensori di Pescara ci avrebbero rimesso le penne (e con essi, la popolazione tutta di circa 800 anime).
Quindi, non bisognava far sbarcare lo nemico!
Ma come? Pensa e ripensa, ecco il geniale piano del duca: ordinò di spostare tutta l'artiglieria della fortezza sui bastioni che guardavano il mare e di dar fuoco alle polveri in un botto solo.
La flotta turca venne così investita da un gran fuoco di bombardamento, come se oggi all'improvviso partisse il finale dei fuochi pirotecnici della festa di Sant'Andrea a Pescara!

28 maggio 2023

Antonio Mezzanotte, Le mura saracene a Furci (CH).


Le mura saracene a Furci
di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che tanto tempo fa una schiera di predoni saraceni, risalendo la Valle del Treste, arrivarono a Colle Moro, sottostante al paese di Furci, e lì misero a ferro e a fuoco un antico monastero, passando a fil di spada (o di scimitarra) tutti i monaci. Poi, dopo che tutto fu macerie e desolazione, si apprestavano a muoversi verso l'abitato per saccheggiarlo. Ecco, però, che calò d'improvviso una fitta nebbia, ma così fitta che non si vedeva più nulla e gli invasori persero l'orientamento; subito dopo, altrettanto improvvisamente, riecheggiò un lugubre rintocco di campane proveniente dal convento appena distrutto e allora i Saraceni, spaventati, se ne fuggirono.

Ancora oggi quel luogo su Colle Moro, a mezza costa tra la Treste e il paese di Furci (CH), presenta i resti di tre imponenti costruzioni in mattoni, simili a pilastri, chiamate Mura Saracene in ricordo di quell'evento.

Un'altra versione della leggenda, meno nota, vuole che il monastero di Colle Moro fu distrutto da una invasione di formiche, le stesse che più a valle avevano devastato l'antica Lentella, un tempo posta alla confluenza della Treste con il Trigno, e che più a monte avevano demolito l'altro monastero della S.S. Trinità ad Duas Virgines nei pressi di San Buono e alle pendici di Monte Sorbo.

Erano tempi cupi, la Valle percorsa da scorrerie di barbari, ungari, saraceni, genti forestiere animate soltanto da intenzioni predatorie e il racconto popolare associò l'eco di quegli eventi lontani all'invasione di devastanti formiche.

Quelle incursioni furono fermate una prima volta intorno all'anno Mille da un leggendario soldato a cavallo di nome Buono, che avrebbe fondato il castello di San Buono, e, successivamente e in concreto, nel 1500 dai potenti principi Caracciolo di Santobono, che assicurarono stabilità e sicurezza in tutta la Valle per almeno tre secoli.

Le cosiddette Mura Saracene di Furci, che testimoniano quei fatti così lontani nel tempo, oggi costituiscono uno dei perni della rete sentieristica della Valle del Treste e intorno ad esse è stata allestita un'area di sosta.

Da: https://www.facebook.com/antonio.mezzanotte.756

6 marzo 2023

Antonio Mezzanotte, La Madonna della Misericordia a Chieti.


La Madonna della Misericordia a Chieti

Dice e racconta l'Avv. Girolamo Nicolino, vissuto nella Chieti del XVII sec., che la peste bubbonica arrivò in città il 4 agosto 1656. A portarla, da contagiata, pare che fu una donna di Giuliano Teatino.
Com'è e come non è, da quel momento e per i quattro mesi seguenti fu una finazione di mondo. Solo per avere un'idea di quello che accadde con la pandemia di allora: dodici anni prima, nel luglio 1644, quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta Chieti, vennero conteggiate 2000 famiglie fiscali, circa 10000 abitanti. Al termine della pestilenza, invece, si stima che tra morti e fuggiti dalla città, mancava all'appello metà della popolazione. In ogni caso, fu una strage.
Che poteva fare il popolo teatino di fronte a "che la sorte di sfraggelle", per usare le parole di Modesto della Porta? Non trovando rimedi, nel caos totale, dinnanzi all'impotenza delle Istituzioni (le Autorità, benvero, istituirono lazzaretti, limitarono la circolazione con dei cordoni sanitari con l'intento di fermare il contagio - lockdown e zone rosse che abbiamo vissuto recentemente non sono novità - ma invano), col morbo che sembrava inarrestabile mietendo decine e decine di vittime ogni giorno, a un certo punto il Camerlengo don Filippo de Letto in persona personalmente (ossia il Sindaco del tempo) propose un'unica soluzione: affidare la città alla Madonna!
"Alma Madre del popolo teatino, liberaci dal morbo, misericordia per i figli Tuoi": questa sarà stata la preghiera che con salmodiante e struggente fervore si levava dalla solenne processione che si svolse in città l'8 settembre 1656, giorno dedicato da sempre alla nascita della Beata Vergine Maria.
Passarono quattro mesi d'inferno. Poi, d'incanto, improvvisamente come era arrivata, altrettanto improvvisamente la peste cessò: era il 7 dicembre 1656, vigilia della Concezione di Maria.
La Vergine Santa aveva avuto pietà del popolo teatino e, a mo' di ringraziamento e in ricordo di quegli eventi, venne edificata la chiesetta intitolata proprio alla Madonna della Misericordia, probabilmente a opera dei Padri Crociferi (ossia dell'Ordine di San Camillo De Lellis), che utilizzarono l'edificio come ospedaletto extra moenia e xenodochio.
Ritroviamo la chiesa ancora oggi, sita a mezza costa tra la città storica e lo Scalo, lungo il crinale che corre parallelo al Fosso di Santa Chiara. Facciata intonacata con profilo a doppio spiovente, finestrelle basse e oculo centrale, timpano sorretto da due colonne che delimitano il portale. Il campanile è in laterizio parzialmente a vista. L'interno è ad aula unica con cappelle laterali.
Si suol affermare che per riconoscenza alla Madonna, che liberò Chieti dalla peste, nello stesso periodo sarebbero state edificate altresì le altre chiese rurali che fungono da corona alla città: in realtà, tutte quelle chiesette erano già preesistenti all'epidemia, alcune come semplici cappelle, e nella ripresa economica e sociale che seguì la pestilenza esse furono ingrandite e adattate al nuovo gusto barocco.
È probabile che anche nel luogo ove si eleva la chiesa della Misericordia un tempo sorgesse un qualche sacro edificio, legato, però, al culto di Sant'Eufemia (una statua della quale è esposta tutt'oggi nella chiesa).
Si dice e si racconta, infatti, che l'acqua del pozzo scavato nei pressi della chiesetta, detto appunto "pozzo di Sant'Eufemia", abbia la proprietà miracolosa di far tornare il latte alle puerpere e che ad essa ricorrevano tutte le donne delle campagne di Chieti.
Allora, la chiesetta della Madonna della Misericordia diventa punto identitario di questa porzione della città, da riscoprire e da tenere sempre in gran conto, così come tutte le chiesette rurali di Chieti, perché espressione della storia e della coscienza collettiva di questo articolato e composito territorio.

27 novembre 2022

Antonio Mezzanotte, La leggenda di San Leucio e il drago.

La leggenda di San Leucio e il drago

di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che un tempo, lì dove oggi si stende l'altura a forma di mezzaluna di Atessa (CH), si trovavano due villaggi: Ate, sorto intorno alla chiesa di San Michele, dalla parte del colle che guarda verso oriente e il mare, e Tixa, dalle parti di Santa Croce, sulla rupe che si affaccia verso occidente e le montagne. I due paesi erano separati dalla valle paludosa e mefitica del Rio Falco, tra i fiumi Osente e Pianello (oggi Osento e Sangro) nella quale dimorava, all’interno di una grotta da cui si poteva raggiugere ogni luogo d’Abruzzo, un feroce drago. Questa bestia non solo impediva la riunificazione dei due abitati, ma si satollava anche di carne umana, uccidendo tutti coloro che si avventuravano nella palude (almeno un cristiano al giorno).
Giunse allora Leucio (il cui nome, dal greco Leukios, vuol dire luce bianca, pura), egiziano di Alessandria, ma da qualche tempo santo vescovo di Brindisi, località pugliese dalla quale aveva scacciato un mostro simile a quello che pasceva tra Ate e Tixa. Egli raggiunse la tana del drago, lo nutrì per tre giorni di carne rendendolo sazio, lo incatenò e dopo sette giorni di preghiere lo uccise con la spada. Ne conservò il sangue, utilizzato per la popolazione a scopo terapeutico, e una costola, consegnata agli abitanti di questi luoghi perché serbassero memoria dell'accaduto. Altre versioni della leggenda vogliono che avvenne un combattimento tra Leucio e il drago.
Com’è e come non è, il fosso venne colmato permettendo l'unione dei due paesi dai quali nacque la città di Atessa e lì dove prima viveva il mostro venne eretta la Cattedrale, la quale conserva ancora oggi in una teca un osso di animale preistorico, lungo circa due metri.
La chiesa di San Leucio (definita cattedrale poiché un tempo prepositura nullius diocesis, ossia dipendente direttamente dalla Santa Sede) è davvero notevole: vi si accede tramite una imponente scalinata; la facciata con articolati portali ogivali, il pregiato rosone del 1312 ricco di arcate, trafori, colonnine radiali e decori, attribuito a Francesco Perrini di Lanciano (o a qualche altro architetto a lui vicino), autore anche del grande portale con San Leucio, l’Agnello crucifero e i simboli degli Evangelisti. L’interno è straordinario: cinque navate, tutte rivestite di stucchi e decorazioni barocche, dai colori dorati e rosso bruno, con altari e numerosi dipinti votivi di pregio e, tra l'altro, un ostensorio in argento del 1418, opera di Nicola da Guardiagrele.
Una curiosità: salendo verso Atessa dalla Val di Sangro, si incontra la località Monte Marcone, un tempo detta Monte San Silvestro. Papa Silvestro fu il primo santo non martire e si racconta che a Roma riuscì ad ammansire un drago feroce dall’alito pestilenziale che viveva in una grotta sul Palatino. La leggenda dice che San Silvestro passò da queste parti durante un viaggio verso le Calabrie. Chissà se pure a Monte San Silvestro viveva un dragone...
Storie di draghi e di santi, che narrano, a chi le sa interpretare, le vicende del paziente lavoro di bonifica del territorio, della prima evangelizzazione di questa comunità, della lenta e progressiva urbanizzazione del contado, fino alla crescita di una delle cittadine più caratteristiche, operose e vitali d'Abruzzo.
(Nella foto: la cattedrale di San Leucio in Atessa - CH)

Da: https://www.facebook.com/groups/1375662556004456/user/1257557049/

3 luglio 2022

Jacovella da Celano

Il castello di Celano

JACOVELLA DA CELANO
di Antonio Mezzanotte

Avete mai provato a declinare al femminile la storia d'Italia tra 1400 e 1500, associando le caratteristiche dell'età rinascimentale ai nomi di grandi donne? Proviamoci: la Ragione e l'Arte del Buon Governo (Isabella d'Este, marchesa di Mantova), la Bellezza e le dinamiche del Potere (Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, troppo a lungo infondatamente marchiata con l'aura venefica di suo fratello Cesare), la Poesia (Vittoria Colonna, marchesa di Pescara), l'Arte della Guerra (Caterina Sforza, contessa di Imola e Forlì). E ancora Clarice Orsini (moglie di Lorenzo il Magnifico: dietro a un grande uomo vi è sempre una grande donna), Bianca Maria Visconti, Eleonora Gonzaga e via discorrendo.
Donne straordinarie ed inimitabili, le cui qualità sono state tutte espresse in anticipo sui tempi da un'altra figura femminile, abruzzese, immeritatamente poco ricordata:

Jacovella da Celano.

La famiglia era quella dei Berardi, discendenti di Carlo Magno in terra marsicana. Alla morte del Conte di Celano Nicola nel 1418, gli subentrò il figlio Pietro III, che però morì poco dopo, lasciando per testamento la Contea alla sorella minore Jacovella.
Papa Martino V Colonna (sovrano feudale del Regno di Napoli) obbligò Jacovella, ancora molto giovane, a sposare il nipote Odoardo Colonna. Che poteva fare la povera Jacovella orfana di padre, senza l'appoggio di un fratello, con la madre che si era rifatta una vita sposando Muzio Attendolo Sforza, sola e intimorita? Subì inizialmente questo matrimonio, combinato dal papa soltanto perché i Colonna suoi parenti mettessero le mani sulla Contea di Celano.
Il marito te lo raccomando, non era uno stinco di santo. A Jacovella proprio non piaceva (si dice e si racconta che fosse pure deforme), ma soprattutto non sopportava l'idea che Celano fosse governato da un estraneo il cui fine era solo arricchirsi. Non gliela diede, letteralmente... la Contea!
Dopo tre anni di convivenza lontano dalla Marsica, nel castello Colonna di Genazzano (RM), alla morte del papa Martino V Jacovella scrisse una lettera accorata al nuovo pontefice Eugenio IV per chiedere l'annullamento del matrimonio non consumato.
Santità - scrive in buona sostanza Jacovella - l'amore viene prima delle questioni politiche ed economiche e se io non amo l'uomo che sposo nemmeno è giusto che, oltre a me stessa, gli dia anche la terra dei miei antenati!
Roba da capogiro, mai nessuna donna fino ad allora aveva osato riprendersi in mano il proprio destino in nome della felicità, dei sentimenti e dell'amore per il proprio paese.
Com'è e come non è, Jacovella abbandonò il marito tornandosene a Celano, ottenne l'annullamento del matrimonio e si riprese il governo delle proprie terre. Ma era ancora troppo giovane per esser padrona assoluta della propria vita; inoltre, come ultima discendente dei Berardi, era considerata sempre un partito più che appetibile.
Tra i tanti pretendenti, si impose l'uomo forte del momento, Jacopo Caldora, valoroso condottiero, che però aveva 50 anni in più di Jacovella, appena ventenne. Fu una unione calcolata per difendere Celano dalle mire espansionistiche dei Colonna, ai quali beninteso nulla importava di Jacovella, ma che volevano riprendersi a tutti i costi la Contea. Jacopo non visse mai con la moglie, impegnato in continue campagne militari, e morì nel 1439 dopo soli tre mesi dalle nozze.
Ancora una volta sembrava che intorno a Jacovella ed alla sua Celano si scatenassero le ambizioni dei soliti approfittatori, ma stavolta la ragazza ragionò con la propria testa e col proprio cuore, scegliendo Leonello Accrocciamuro, figlio della sorella di Jacopo Caldora.
Coetaneo di Jacovella, bello, aitante, valoroso, arguto, dotato di plurimi e variegati interessi, era l'uomo ideale da sposare; soprattutto, si trattava del giovane di cui la nostra Jacovella era davvero innamorata e dal quale veniva sinceramente ricambiata.
La coppia aveva ricevuto la benedizione ed i suggerimenti di fra Giovanni da Capestrano, che vegliava sulla nuova unione, dalle quale nacquero tre figli.
Si aprì un periodo di grande prosperità per la Contea: riforme amministrative, economiche, sviluppo del commercio e dell'industria della lana, fioritura delle arti e della cultura umanistica, abbellimento di chiese e palazzi, lo stesso Castello fu ristrutturato e vennero edificate le quattro torri d'angolo, grossi donativi furono indirizzati per la realizzazione della basilica di San Bernardino a L'Aquila, così come per il nuovo convento dei francescani a Capestrano.
Tutto questo periodo di pace e prosperità finì con la morte di Leonello nel 1458. Jacovella rimase al governo di Celano in nome del figlio primogenito e minore Ruggero, ma questi ben presto venne preso dalla smania del potere, subdolamente consigliato da Jacopo Piccinino, di parte angioina (mentre Jacovella tenne sempre per gli aragonesi). Accadde l'impensabile: Ruggero tradì la madre e, con l'aiuto del Piccinino, la assediò mentre quella si trovava nel castello di Gagliano Aterno. Jacovella resistette fino allo stremo, incitando i suoi soldati sulle mura del castello. Ruggero alla fine prevalse, sembra grazie al tradimento di un suo seguace che gli aprì le porte della fortezza, Jacovella cadde prigioniera del Piccinino, che non solo trafugò il tesoro della Contea, ma pretese anche un riscatto di 120mila ducati perché Jacovella potesse riottenere la libertà (salvo poi confinarla a Castelvecchio Subequo).
La Marsica, nel frattempo, veniva invasa dall'esercito regio guidato da Federico da Montefeltro, che ebbe la meglio sulle truppe del Piccinino. Soltanto a quel punto il figlio di Jacovella, Ruggero, trattato quasi come un ostaggio dal Piccinino, si rese conto dell'enorme sciocchezza che aveva fatto e chiese perdono alla madre, al Re e al Papa Pio II Piccolomini, il quale non aspettava altro che estromettere i Berardi dalla Contea di Celano, la quale, infatti, nel 1463 fu ceduta proprio alla famiglia Piccolomini.
A Jacovella venne imposto di ritirarsi nel proprio possedimento di Venafro, in Molise, e lì morì intorno al 1471, senza avere più la possibilità di tornare nell'amata Marsica.

26 giugno 2022

Calascio: La leggenda di Re Marrone.

 
La leggenda di Re Marrone
a cura di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che ai tempi dei tempi viveva a Rocca Calascio il Re Marrone. Immense le sue ricchezze: trentasei castelli nella piana di Foggia e oltre cento nella Baronia di Carapelle. Possedeva più di cento morre di pecore, le più belle mai viste, dal cui latte il mastro caciaro ricavava il formaggio più saporito di tutti gli Abruzzi e la cui lana era la più bianca e soffice, tant'è che non solo da Napoli venivano per comprare panni, pezze e ricotte, ma addirittura il Re del Portogallo ogni anno nel mese di maggio mandava i suoi tre figli a Calascio per procurarsi la lana della prima tosatura, la migliore, l'unica degna di riempire i cuscini del Re.
Ma l'invidia è una brutta bestia ed ecco allora che il Re delle Corone, che comandava sulla Piana di San Marco (presso Castel del Monte) e possedeva pure lui castelli, greggi e ricchezze, prese a malvolere Re Marrone e con la scusa dello sconfinamento di una pecora mosse guerra al suo vicino.
Fu una guerra spietata, che portò morte e desolazione, ogni fazzoletto di terra veniva conteso ferocemente tra i due eserciti, finché il Re Marrone fu costretto a rinchiudersi a Rocca Calascio, assediato per dieci, lunghi anni dal Re delle corone.
La Rocca era imprendibile, le torri più robuste e le mura più massicce di tutte le montagne proteggevano il Re Marrone e la sua gente, ma anno dopo anno le provviste iniziarono a scarseggiare, così come l'acqua delle grandi cisterne. Re Marrone, pertanto, comandò di mangiare prima tutti i formaggi dei capienti magazzini, poi i cavalli, le mucche, le capre, infine le pecore. Ai suoi soldati, intanto, erano cresciute lunghe barbe bianche.
Fu allora che mastro Nicola, il più vecchio e saggio caciaro del paese, osò rivolgersi al Re e gli disse: "Maestà, qua siamo tutti condannati, ma, se vuoi salvare il Regno e vincere la guerra, mo ti dico come fare!". E fu così che il caciaro espose l'ingegnoso piano al Re.
Appena che l'ebbe ascoltato, Re Marrone ordinò tosto che si mungessero le poche pecore e capre rimaste ma il latte era davvero poco, allora chiese a tutte le puerpere di versare il latte dei loro seni in un grande calderone. Mastro Nicola da quel latte seppe ricavare dodici pezze di formaggio, così bianche e tonde come mai si era visto prima. Il Re ordinò quindi ai soldati di salire sulla torre più alta della Rocca e di far rotolare a valle le dodici forme di cacio, mentre donne, vecchi e bambini avrebbero dovuto andar su e giù lungo le mura del castello e cantare e danzare come se ci fosse stata una gran festa.
Più in basso, ai piedi della montagna, il Re delle corone non se la passava tanto meglio. Anzi. Dopo quei dieci anni di assedio l'esercito era allo stremo e i magazzini ormai vuoti.
Quand'ecco che le sentinelle dell'accampamento cominciarono a sentire un gran vociare proveniente dagli spalti di Rocca Calascio e, sporgendosi dalle trincee, videro tanta gente che si divertiva sulle mura e rimasero a bocca aperta.
E in men che non si dica l'accampamento dell'esercito assediante fu colpito da .... dodici pezze di cacio proveniente dalla Rocca.
"N'è possibile!" urlò il Re delle corone. Tutta quella gente a ballare e cantare e le caciotte che rotolavano a valle. "Vuoi vedere che lassù, nonostante dieci anni di assedio, se la passano ancora bene e scialano tra banchetti e feste?" disse tra se.
Allora, si convinse che il Re Marrone fosse invincibile, che avesse scorte abbondanti di cibo per resistere ancora a lungo, mentre lui e i suoi soldati erano ormai alla fame, e subito levò l'assedio e inviò gli ambasciatori per trattare la pace.
Ecco dunque la storia del Re Marrone di Rocca Calascio e di come vinse la guerra che gli fece per invidia il Re delle corone della Piana di San Marco.
Questo racconto fu tramandato nella famiglia di mastro Nicola il caciaro di generazione in generazione, finché qualcuno non lo ha detto a qualcun altro, che l'ha detto a qualcun altro che l'ha detto pure a me...

20 febbraio 2022

Antonio Mezzanotte, Carlo Tapia da Lanciano.


 Carlo Tapia da Lanciano
di  Antonio Mezzanotte

Negli atti giudiziari delle tante controversie tra i piccoli comuni rurali ed i rispettivi feudatari, spesse volte gli avvocati comunali per sostenere le proprie ragioni facevano riferimento allo “Stato discusso” di Carlo Tapia, indicato quale “prova indubitata”, cioè quella che, al di là di ogni ragionevole dubbio, era degna di rappresentare il vero stato delle cose.
Lo “Stato discusso” altro non era che il bilancio dei comuni, che doveva essere sottoposto all’esame della Regia Camera della Sommaria per l’approvazione. Fu Carlo Tapia agli inizi del XVII sec. a volere che i Comuni dovevano munirsi di un resoconto delle entrate e delle uscite, per snellire i pagamenti e ridurre gli sprechi e, per l’epoca, fu una decisione davvero innovativa. E non fu la sola!
Chi era Carlo Tapia? Nacque a Lanciano (CH) nel 1565, figlio di Egidio (magistrato, anch'egli lancianese di nascita), la cui famiglia era di origini spagnole (di Salamanca), e di Isabella Ricci, appartenente alla piccola feudalità frentana (dei Baroni di Pietraferrazzana). Sul letto di morte il padre lo affidò alla tutela di due suoi colleghi magistrati e a soli 18 anni si laureò in giurisprudenza, si avviò nella professione di avvocato e pubblicò un trattatello di diritto pubblico che riscontrò una vasta eco per la profondità della cultura giuridica manifestata.
Per tale motivo, venne presto avviato alla carriera nell’amministrazione vicereale, con incarico presso la regia udienza di Salerno. Qui diede prova di grandi abilità amministrative, combattendo il brigantaggio, contrastando lo strapotere dei baroni locali e svolgendo con efficienza l’incarico di Commissario per il rifornimento di grano della città di Napoli.
A 31 anni divenne giudice della Gran Corte della Vicaria, a 32 entrò nel Sacro Regio Consiglio, uno dei massimi organi dell’amministrazione giudiziaria e finanziaria del Regno di Napoli, nel quale sarebbe rimasto per un quindicennio, distinguendosi per le posizioni rigidamente ostili al ceto baronale.
Tapia si occupò quasi di tutto: di finanza locale, di sanità, di lavori pubblici, di approvvigionamenti, di questioni patrimoniali pubbliche, di diritto ecclesiastico.

13 febbraio 2022

Antonio Mezzanotte, La cena del Purgatorio a Carunchio (CH).

affresco dell'Ultima Cena

LA CENA DEL PURGATORIO A CARUNCHIO (CH)
di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che un nobile cavaliere attraversava a cavallo la Valle del Treste, questo straordinario pezzo d'Abruzzo posto quasi al confine con il Molise. Com’è e come non è, accadde che fu costretto a fermarsi poiché al cavallo si era rotto uno zoccolo. Pare che, allora, il nobiluomo, affranto, esclamò: “Caro unghio del mio cavallo!”. L’animale purtroppo morì e gli venne data tosto solenne sepoltura. Il cavaliere (rimasto senza cavallo), fondò un villaggio nei pressi della tomba dell’amato destriero, al quale, in sua memoria e dell’incidente occorso, diede il nome di “Carunchio”.
In verità, il toponimo sembrerebbe derivare da “carunculum”, diminutivo di “carunca”, ossia “carrunca”, che potrebbe significare sia aratro, sia terreno arato ed ha origini precedenti all’anno Mille, quando l'abitato era probabilmente situato più a valle, forse in località Taverna.
L'impianto urbanistico di Carunchio segue l’andamento del declivio e dalla sommità del colle, su cui svetta imponente la monumentale chiesa di San Giovanni Battista con l’alta torre campanaria (il sagrato è uno scenografico balcone panoramico verso le terre del Molise), si scende a cerchi concentrici in un dedalo di viuzze fino alla Piazza Vittorio Emanuele, nella quale troviamo la chiesa di Maria SS. Incoronata, altrimenti detta “del Purgatorio” (un tempo collocata extra moenia, ossia fuori le mura, forse con funzioni cimiteriali).
Facciata a capanna, portale medievale a sesto rialzato con colonnine tortili, rosone, campaniletto a vela ed una data, 1504, incisa sull’architrave (a ricordo di una lontana ristrutturazione). La lunetta, in legno, riproduce l'Ultima Cena.
È il coro, con volta a crociera di probabile derivazione cistercense, a suscitare attenzione e curiosità per la presenza di un grande ciclo di affreschi (autore ignoto, risalente forse alla seconda metà del Quattrocento), rappresentante scene della Passione di Cristo, ben scandite da finte colonnine, cornici e fregi.

23 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, L'appalto-truffa per la scafa di Rosciano.

 
L'APPALTO - TRUFFA PER LA SCAFA DI ROSCIANO

di Antonio Mezzanotte

Il toponimo Scafa, che oggi è riferito ad un noto paese della Val Pescara, un tempo indicava un tipo di imbarcazione con la quale si guadava il corso di un fiume: era una sorta di zattera, spesso fornita di due parapetti laterali formati da catene di ferro, a fondo piatto e priva di prua. Nella direzione dell’attraversamento della scafa veniva posta una fune, manovrata facendo perno su due pali conficcati nelle sponde opposte, così che era consentito tirare la scafa nell’andata ed al ritorno. La scafa era adibita al trasporto di persone, di animali, qualche volta anche di carretti trainati da buoi, di merce varia.
La ‎«scafa di San Valentino», appunto, era riferita alla chiatta che si trovava dove oggi sorge il paese di Scafa, fino al 1948 tenimento del Comune di San Valentino in Abruzzo Citeriore, e che veniva utilizzata per il passaggio sul Pescara, un fiume che prima di essere imbrigliato in salti, dighe e condotte forzate aveva un alveo naturale ben maggiore dell’attuale.
Il Pescara veniva attraversato anche in altri punti, ad esempio presso Villanova (a mezzo della cosiddetta "barca da piedi") e lì dove ora troviamo il c.d. Ponte delle fascine, in località Villareia, in coincidenza del guado del Tratturo Magno ("barca da capo", ovviamente, come l'altra rispetto alla città di Chieti).
Fino ad oggi, nessuno ha mai dato rilievo alla scafa di Rosciano. In verità, la presenza di una chiatta era già indicata nel Catasto onciario del 1743 (il servizio era a carico del Comune, che corrispondeva un balzello annuo al Connestabile Fabrizio II Colonna per l’appoggio all’altra riva) e all’epoca entrambe le rive erano comprese nel tenimento dell’Università di Rosciano (la sponda opposta, ora appartenente al Comune di Manoppello, fino al 1811 era terra roscianese, indicata concretamente nella documentazione catastale e notarile come «Terra de là dalla Pescara»).
Nel 1853 la scafa era ancora presente, sebbene malridotta, ed affidata in appalto ad un privato.
Secondo la testimonianza di Pasquale Castagna, storico angolano, la vecchia scafa (che l'atlante Rizzi Zannoni del 1808 colloca dalle parti di Contrada Lavatoio) fu abbandonata quando venne ammodernata la via Salara (come veniva chiamata l’antica strada consolare Tiburtina Valeria).
Sembra che sia stato proprio Re Ferdinando II nel 1847 ad ordinare il ripristino del servizio. Fu quindi bandita una gara d’appalto dalla Provincia di Abruzzo Ulteriore Primo (alla quale era stata trasferita la competenza in materia), ma il capitolato prevedeva che l’appaltatore sarebbe stato pagato (seppur a prezzo ridotto) anche qualora la scafa fosse stata rotta, danneggiata e/o non avesse potuto assicurare il servizio.
Ovviamente, a quelle condizioni l’appaltatore truffaldino non si curava affatto né del servizio di traghettaggio, né della manutenzione della chiatta, in quanto, in ogni caso, ci avrebbe guadagnato qualcosa!
Riferisce il Castagna (per l'occasione giornalista d'inchiesta) che a seguito di alcune segnalazioni le Autorità avevano diffidato l’appaltatore al rispetto del contratto. Per tutta risposta, accadde che quegli non solo offrì un ribasso dell’80% sul costo del servizio (probabilmente in combutta col preposto Ufficio provinciale), ma nemmeno si preoccupò di ripristinarlo, cosicché continuò ad intascare il prezzo del traghettaggio per l’utilizzo di un battello inesistente, forse da realizzare in futuro, ma che la Provincia pagava come se l’imbarcazione fosse esistente ed il servizio svolto regolarmente!
La scafa, o quella che ne era rimasta, fu poi sostituita nel 1886 dal ponte di legno fatto realizzare dall’Ing. Enrico Santuccione in adiacenza al ponte ferroviario che precede la Stazione di Rosciano. Quel ponte negli anni Venti del secolo scorso fu a sua volta sostituito con l’attuale ponte in muratura (danneggiato durante l’ultima guerra e poi ricostruito).

(Sul n. 1/2021 della Rivista Abruzzese ne parlo diffusamente. Nella foto: Filippo Hackert, “La scafa di Persano”, 1782, pittura a tempera)


16 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, La forma dell’acqua (ovvero la causa per il mulino di San Buono).


La forma dell’acqua (ovvero la causa per il mulino di San Buono)
di Antonio Mezzanotte

È difficile spiegare in poche parole, per aggiunta qui su Facebook, che cos’è stato il feudalesimo. 
Esso ha costituito attraverso diversi profili e per circa mille anni l’ossatura della società europea, avendo efficacia nei territori del Regno di Napoli fino agli inizi del 1800. 
È vero che durante il periodo del riformismo borbonico qualcuno già cominciò a pensare di superarlo (tra gli altri, è da menzionare il nostro Melchiorre Delfico, teramano), ma per l'abolizione si dovettero attendere le leggi eversive del 1806-1808, emanate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, durante il c.d. decennio francese.
Per dirimere e giudicare tutte le controversie provocate dalla legge eversiva del 2 agosto 1806, con decreto dell’11 novembre 1807 fu istituita una Commissione feudale, che funzionò come tribunale straordinario per la materia fino all’agosto del 1810.
L’abolizione del feudalesimo fu davvero una “rivoluzione legale” per i nostri paesi, che, di colpo, si trovarono a contendere ai vecchi Signori terre, diritti, esazioni e quant’altro.
Purtroppo, tutti gli atti processuali, per un totale di 1062 faldoni, sono andati distrutti nell'incendio del 1943 appiccato dai tedeschi alla Villa Montesano di San Paolo Belsito (NA), presso la quale erano stati trasferiti gran parte dei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli. Tra le poche carte superstiti, vi è un “Bullettino delle sentenze” emanate dalla Commissione, che raccoglie le oltre tremila sentenze pubblicate in tre anni.
Il 18 maggio 1810 venne emessa, così, la sentenza che metteva fine al contenzioso promosso dal Comune di San Buono (CH) nei confronti dell’ex feudatario Principe Caracciolo per l’utilizzo del mulino ad acqua che si trovava lungo il fiume Treste.
Era accaduto che questo mulino, l’unico presente in paese, era di proprietà dei Caracciolo, i quali probabilmente avevano proibito ai propri sudditi non solo di costruirne un altro che potessero utilizzare liberamente, ma anche di andare a macinare presso altri mulini collocati fuori paese.
Abolita la feudalità e riformata la vecchia Università con la costituzione del Comune, i sanbuonesi ebbero l’idea di chiedere al Principe non solo di abbassare il prezzo preteso per la molitura, ma anche di liberarli dall’obbligo di macinare in quel mulino. 
Inoltre, siccome la forma dell’acqua (ossia la gora, detta anche formale, cioè il canale artificiale che alimentava il mulino) transitava sul territorio comunale, il Comune pretendeva dall'ex feudatario una percentuale sui proventi delle moliture!
Aperto il processo davanti alla Commissione feudale, il Comune era difeso dall’Avv. Felice Santangelo, il Caracciolo dall’Avv. Vincenzo Canofilo, che già alla fine del Settecento veniva considerato esperto nel diritto feudale e degli usi civici, nonché sostenitore della storicizzazione del diritto (in buona sostanza, egli cercava di interpretare la norma giuridica ricostruendo il contesto nel quale aveva operato il Legislatore).
La sentenza della Commissione acclarò quanto segue: il mulino era di proprietà esclusiva del Caracciolo; quindi, non si poteva obbligare giudizialmente il proprietario a calmierare il prezzo della molitura, né il Comune poteva vantare alcun diritto sui ricavi del mulino per il solo fatto del passaggio della forma sul territorio comunale. L’unica decisione possibile per legge era quella di obbligare il Caracciolo a garantire la solita prestazione della molitura ancora per un anno, a parità di prezzo, lasciando nella facoltà del Comune l'eventuale costruzione di un nuovo mulino per i bisogni dei propri cittadini, i quali avrebbero così potuto scegliere liberamente se utilizzare il mulino Caracciolo ovvero quello comunale.
Nella stessa sentenza furono assunti anche provvedimenti migliorativi per i coloni dei due ex feudi di Moro e della Guardiola.
Il mulino di San Buono era solo uno dei tanti opifici sparsi lungo la Valle del Treste, come quello di Furci, di Liscia o di Roccaspinalveti. 
So che ci si sta prodigando per la riscoperta di questi antichi mulini: un altro esempio positivo delle potenzialità offerte dai luoghi "della Treste", ancora poco conosciuti.

9 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, Quando il Marchese D'Avalos del Vasto fece causa al Comune di Furci.


Quando il Marchese D'Avalos del Vasto fece causa al Comune di Furci.
di Antonio Mezzanotte

Molti ricorderanno la famigerata tassa sul macinato, imposta all’indomani dell’unità d’Italia per il risanamento del bilancio statale e negli stessi anni è ambientato uno dei più interessanti romanzi storici di Andrea Camilleri, “La mossa del cavallo”, che ha ad oggetto, appunto, una indagine su un mulino itinerante abusivo controllato dalla mafia.
All’interno di ogni mulino veniva applicato un contatore meccanico che conteggiava i giri effettuati dalla ruota macinatrice. La tassa era così dovuta in proporzione al numero dei giri, che, secondo la previsione di legge, doveva corrispondere alla quantità di macinato.
Quanto sopra per rammentare la centralità del mulino nella vita sociale delle comunità in ogni epoca e intorno ai mugnai e ai mulini vi è tutta una letteratura di racconti, leggende, tradizioni… e contenziosi!
Accadde, così, che alla fine del 1752 un’alluvione travolse l’antico mulino comunale ad acqua collocato lungo le sponde del fiume Treste, nel territorio di Furci, nel vastese.
L’utilizzo del mulino non era annoverato tra i diritti feudali vantati dalla Casa d’Avalos, alla quale era stata investita la Contea di Monteodorisio, di cui Furci costituiva una delle tredici Terre. L’Università (come veniva definito il Comune nell’antico regime), pertanto, a spese proprie e senza chiedere alcuna autorizzazione al feudatario, si accinse a riedificare il mulino, ma con ricorso datato 13.03.1753 il Marchese Diego II d’Avalos si rivolgeva alla Regia Camera della Sommaria con sede in Napoli al fine di impedirne la ricostruzione, sostenendo di avere per tutta la Contea di Monteodorisio la giurisdizione delle acque e dei mulini con il diritto proibitivo nei confronti delle stesse Università e che i furcesi erano obbligati da sempre a macinare solo ed esclusivamente nel mulino baronale.
I Furcesi, però, non si lasciarono intimorire dalle pretese del Marchese e nominarono due avvocati per sostenere le proprie ragioni: Gaetano Celani, celebre giurista napoletano (difese il Duca di Modena in una complessa questione di eredità e sarà anche consulente giuridico del Consiglio di Reggenza durante la minore età di Re Ferdinando), e Francesco Giacomucci, di probabili origini vastesi.
La richiesta di sospensiva dei lavori fu rigettata con decreto presidenziale del 15.06.1753 e il fascicolo processuale venne trasmesso alla Regia Udienza di Chieti per l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio in rogatoria a mezzo del perito Gerardo Lanti, affinché, attraverso un sopralluogo, relazionasse sui fatti di causa e sullo stato dell’arte.
Il CTU Lanti si recò a Furci e nei luoghi limitrofi, raccogliendo dodici testimonianze di persone che avevano conosciuto i fatti: furono ascoltate sei persone residenti in San Buono e Carpineto Sinello (ossia in località non annoverate tra i possedimenti dei d’Avalos) e altre sei residenti in Liscia e Casalanguida (ossia in due feudi del Marchese d’Avalos), le quali confermarono tutte che i furcesi avevano sempre goduto della libertà di macinare nel proprio e in altri mulini, senza chiedere alcuna autorizzazione al Marchese, così come aveva attestato anche lo "Stato discusso" di Carlo Tapia nel secolo precedente.
Con successivo decreto presidenziale del 17.08.1753 la Sommaria concesse provvisoriamente all’Università di Furci la libertà di macinare in qualsivoglia mulino senza impedimenti o richieste di pagamento da parte del feudatario. Nelle more, i Furcesi avevano completato la riedificazione del mulino e con un nuovo decreto presidenziale fu autorizzato l’utilizzo delle acque del Treste.
Finiva così la fase cautelare del giudizio, con il pieno riconoscimento del libero diritto degli abitanti di Furci di costruire il proprio mulino, di macinare in esso e di utilizzare le acque del fiume Treste senza alcun peso feudale da parte della Casa d’Avalos.
Nello stesso anno si incardinò la fase processuale di merito ed il 10.07.1756 gli avvocati di Furci stamparono a Napoli la propria memoria conclusionale, nella quale ripercorrevano la vicenda e, soprattutto, offrivano svariati spunti inediti per la ricostruzione della storia locale, della geografia di quei territori, del diritto feudale e degli usi civici, delle magistrature del Regno di Napoli.
Nel 2015 ho scoperto quel libello defensionale presso la Biblioteca dell’Abbazia di Casamari e ne ho dato un ampio commento sul n.1/2016 della Rivista Abruzzese (per chi ne vuol sapere di più).
Chi vinse la causa? Non abbiamo la sentenza, ma l'orientamento della giurisprudenza, anche relativa ad analoghe questioni sorte tra feudatari e altre comunità della Valle del Treste, ci fanno ipotizzare che la spuntarono i Furcesi, il cui mulino continuò a macinare nei secoli successivi, almeno fino al 1943/44, come mi hanno raccontato gli anziani del paese.
(Nella foto: Antonio Fontanesi, "Il mulino", 1858-1859, olio su tela)

1 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, La Madonna di Costantinopoli a Furci.


LA MADONNA DI COSTANTINOPOLI A FURCI (CH)
di Antonio Mezzanotte

I nostri paesi d'Abruzzo conservano tesori d’arte, purtroppo spesso sconosciuti.
Merita un rilievo del tutto particolare la tela della "Madonna di Costantinopoli", di autore ignoto, probabilmente tardo secentesca, che è conservata nel santuario del Beato Angelo a Furci (CH), nel vastese.
Il dipinto è parzialmente coperto da incrostazioni e muffe. In ogni caso, si evidenziano alcuni elementi caratterizzanti, quali, ad esempio, la Madonna col Bambino, coronata ed ammantata da un drappo blu con una stella disegnata sulla spalla sinistra (da cui l'altro nome attribuito alla tela di "Madonna della Stella"), assisa sulle nubi al centro della composizione e, ai lati, due angeli che versano acqua dalle anfore su una città fortificata, posta alla base dell'insieme, munitissima di torri e bastioni, che sembra preda di un incendio; inoltre, sempre in basso ma verso l’angolo destro rispetto all’osservatore, pare scorgersi una nave alla rada.
L’impianto complessivo degli elementi pittorici rinvenibili è quello del tipo iconografico di Santa Maria di Costantinopoli, che ritrae la città turrita e cinta di mura in preda alle fiamme di un imponente incendio conseguente, secondo gli storici, ad un assedio di arabi o persiani nell'VIII sec.
Si dice e si racconta che la città fu salvata dal prodigioso intervento di Maria Santissima.
Non è peregrino ipotizzare che il dipinto doveva in origine fungere da pala d'altare per la chiesa di Santa Maria, andata distrutta con la grande frana del 1935.
Perché questo dipinto si trova a Furci? Probabilmente come ex voto per la liberazione del paese da un flagello naturale (ad esempio la peste) o da una incursione turca. Non mancano nemmeno ipotesi di richiami alle comunità schiavone e albanesi del vicino Molise (presso le quali è forte il culto per la Madonna di Costantinopoli), storicamente in contatto con il paese di Furci, sia per il passaggio del tratturo Centurelle - Montesecco che tocca questi territori, sia per la comune devozione al Beato Angelo presso quelle comunità molisane.
Un'opera d'arte di sicuro interesse (che andrebbe sottoposta a urgente restauro prima che l'usura del tempo la comprometta irreparabilmente) e la pongo in evidenza oggi, che è il Primo dell’anno, giorno dedicato proprio alla Madre di Dio, già patrona di Costantinopoli e dell'Impero d'Oriente, affinché non vada persa l’attenzione su questi nostri straordinari beni culturali (che in qualche modo dovrebbero essere salvaguardati, studiati, ricordati, valorizzati), specialmente quelli celati nelle piccole comunità, come quella furcese, una delle perle della Valle del Treste.
E l'Anno Nuovo inizia così.
Auguri!



28 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?


I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?
di Antonio Mezzanotte

I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro? Una delle più antiche famiglie nobili del Regno di Napoli, che riuscì a creare un vasto stato feudale tra Abruzzo e Molise dal XV sec. in poi: dal centro di San Buono, nella Valle del Treste, ad Agnone, Castel di Sangro, Capracotta, San Vito Chietino, Bucchianico, Roccaraso, Castiglione Messer Marino, Rosciano, Alanno, Cugnoli, Fraine, Roccaspinalveti, Guardiagrele e tanti altri luoghi. Ad un certo momento, la loro ascesa sembrava inarrestabile, la stessa città di Chieti finì soggiogata al dominio dei Santobono. Ferrante (nato a San Buono) fu l'antagonista di Masaniello, suo nipote Carmine Nicola (di Bucchianico) ebbe incarichi internazionali di primo piano divenendo Viceré del Perù ed il figlio di questi, Giovanni Costanzo, cardinale, fu l'artefice della più famosa fontana al mondo, quella di Trevi a Roma. L'archivio dei Santobono, conservato in parte nell'Archivio di Stato di Napoli, è una miniera di informazioni su tanti profili di storia economica, sociale, politica e culturale abruzzese, molisana, napoletana. Ho la sensazione, però, che, contrariamente ai Valignani di Chieti, ai d’Avalos del Vasto ed agli Acquaviva di Atri (tanto per citare altre famiglie nobili che pure hanno inciso profondamente sulle vicende dei propri feudi abruzzesi e non solo), i Caracciolo di Santobono sono ancora poco studiati.
Uno degli infiniti, possibili approcci per auspicabili ricerche potrebbe essere verificare in che modo ed in che misura le abitudini alimentari abruzzesi siano state indirizzate dall’utilizzo di particolari varietà di grano, come la "carosella", ad esempio, che nei domini dei Caracciolo, a San Buono ed a Monteferrante, era largamente prevalente e, da lì, diffusasi in tutta la regione ed anche oltre.
Per tale motivo, a chiusura (per ora) di queste veloci escursioni domenicali sui Caracciolo di Santobono (escursioni divulgative e senza pretesa alcuna), voglio riproporre un post di qualche tempo fa avente ad oggetto proprio il grano detto "carosella".

IL GRANO DEL PRINCIPE

Agostino Giannone era un bravo avvocato amministrativista di fine Settecento e tra i suoi assistiti figurava Gregorio Caracciolo, principe di Santo Bono, duca di Castel di Sangro, marchese di Bucchianico (solo per ricordo, i Caracciolo di San Buono possedevano o avevano posseduto nel tempo mezza provincia di Chieti, l'Alto Sangro, parte del Molise e vari territori del pescarese, tra i quali Rosciano, Alanno e Cugnoli).
Il Giannone ebbe vari incarichi pubblici: fu nominato segretario dell'Accademia siciliana di agricoltura, arti e commercio (una antesignana delle moderne Camere di Commercio) e, grazie al favore del Caracciolo, anche segretario della Real Deputazione delle nuove strade degli Abruzzi (ossia dell'ente - una ANAS ante litteram - al quale i Borboni affidarono la realizzazione di nuovi collegamenti tra la capitale, Napoli, e la nostra regione, in particolare della strada che da Venafro saliva a Sulmona, quella che i francesi chiamarono Napoleonica e che, in buona sostanza, è oggi un tratto della S.S. 17 dell'Appennino abruzzese).
Nel predisporre la relazione sullo stato finanziario delle opere stradali necessarie per collegare Venafro a Sulmona e da lì proseguendo per L'Aquila e Chieti, il Nostro Avvocato annotò con minuziosi particolari le caratteristiche salienti del territorio abruzzese di fine Settecento (1784).
In particolare, l'Avv. Giannone si sofferma sulla coltivazione del grano, indicando dapprima le località a spiccata vocazione granaria (soprattutto del teramano), per poi aggiungere che la varietà di grano detta Carosella, inizialmente coltivata soprattutto a San Buono e Monteferrante (entrambi feudi dei Caracciolo) era diventata la più diffusa nell'intero Abruzzo Citeriore, tanto che essa stava espandendosi in quasi tutte le località dell'Ulteriore ed era molto commercializzata anche fuori dei confini nostrani.
Com'era e com'è la Carosella? Un grano tenero, risalente direttamente all'epoca dei romani, a stoppia lunga fino ad un metro, il cui nome deriverebbe dal siciliano "caruso" per indicare il chicco piccolo ed allungato, leggero, di aspetto dorato e lucido.
La farina di Carosella (a basso contenuto di glutine) era ricercata per le qualità di tenere la pasta a cottura e per il pane.
Con l'avvento della trebbiatura meccanica i grani a paglia lunga furono sostituiti con le varietà a paglia corta, di natura ibrida, tanto ibrida che sovente sono causa di insorgenza di allergie alimentari, prima di tutte quella al glutine.
In varie zone del Meridione (Cilento e Basilicata) si sta riscoprendo questa antica varietà.
Sarebbe cosa buona e giusta ed utile, allora, studiare la storia del territorio anche per riscoprire una sana alimentazione e il grano del principe Caracciolo, un tempo coltivato in tanti paesi della nostra regione, potrebbe essere riscoperto ed accostato alle altre varietà autoctone abruzzesi, come la Solina e la Saragolla, ma io aggiungerei per la qualità anche il Senatore Cappelli, per una scelta alimentare genuina e salutare.