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21 ottobre 2022

Gabriele, Michele e Giacomo Falcucci, la dinastia degli scultori e pittori Atessani dell’800.

Giacomo Falcucci, Santa Filomena (1837), chiesa di Santa Maria del Popolo, Altino 

 
Gabriele, Michele e Giacomo Falcucci, la dinastia degli scultori e pittori Atessani dell’800
di Angelo Iocco

Giacomo Falcucci nacque in Atessa il 14 dicembre 1807 da Maria Rosa D’Onofrio e Pasquale; ebbe due figli, Michele Falcucci, nato nel 1831 (di cui si ignora la data di morte), e Gabriele Olivio Falcucci (1838-1895), nato con un grave difetto fisico, che lo lasciò a vita sordo-muto; Giacomo stesso nelle sue opere, si firmava così, facendo del suo difetto, allora considerato una vera e propria sciagura, una eccezione che lo rese il grande scultore che fu. Non si conosce come Giacomo Falcucci studiò disegno, forse andò a Napoli, prese a ispirazione dei modelli della Capitale del Regno, e una volta appresa l’arte e aperta una bottega in Atessa, insegnò disegno ai figli Michele e Gabriele, quest’ultimo supererà il padre nella maestria e seppe ben esercitare l’arte dell’affresco e lo scultore e pittore delle statue. Giacomo uscì dai confini dell’area chietina, e si spinse sino in Molise. Il Molise dell’area isernina era una zona di passaggio della via vecchia per Castiglione Messer Marino, onde arrivare a Napoli, e la sua fama si sparse per questi paesetti di montagna; una prima committenza a Giacomo la vediamo nella chiesa madre di Montenero di Bisaccia, la Madonna del Carmine, datata e firmata 1837. A seguire il Falcucci realizzò una statua del Santissimo Redentore benedicente per la chiesa madre di Tavenna, ben lodata dal parroco don Francesco Batescia.

Giacomo Falcucci, Madonna del Carmine (1837), chiesa omonima, Montenero di Bisaccia (CB)

Michele Pasquale nel descrivere le fattezze della statua, nota come Giacomo si fosse ispirato a un modello del paese, il rilievo della Madonna in trono col Bambino presso la campane della chiesa stessa di Montenero. A seguire realizzò un San Michele che configge il Demonio per la chiesa madre di Lucito; le due statue di Giacomo sono ben modellate, anche se soffrono ancora di un aspetto troppo rigido e poco fluido. Nel 1837 Giacomo realizzò la statua di Santa Filomena per la parrocchiale di Altino, non molto distante da Atessa. Anche qui notiamo con la cura del dettaglio per la statua sia abbastanza buono, il volto con l’espressione meditabonda e concentrata è ben riconoscibile, ormai Giacomo ha creato la sua scuola coi suoi modelli, ma ugualmente si denotano degli atteggiamenti di schematismo e rigidità nella postura eretta, e nelle braccia lievemente piegate in atteggiamenti di benedizione. Il panneggio con il suo colore toccante tuttavia rende la statua molto piacevole a vedersi, peccato per gli angioletti laterali con i simboli del martirio, ancora rozzi e ancorati a una tradizione popolaresca abruzzese, che non si curava troppo di decorare i due puttini. Per la chiesa madre di Fraine, sempre nell’area chietina, Falcucci realizzò un Sant’Alfonso dei Liguori. Altre sue importanti opere si trovano nelle chiese di Atessa, specialmente in quella di San Domenico o della Congrega del Rosario: una statua di Santa Lucia firmata e datata coi simboli del martirio, un San Sebastiano, un Sant’Antonio di Padova con il cartiglio: “A devozione di Angelo Damiani, 1853”, statua purtroppo scialbata dal restauro di Pasquale Bravo di Atessa. Un artista locale che imperversò per le chiese atessane e dei paesi circonvicini, fino a Bomba e Orsogna, ristrutturando statue “laccandole a lucido”, rendendole irriconoscibili e gommose, e realizzando soffitti moderni in stile falso soffitto barocco a cassettoni lignei dipinti, con ghirigori e fioroni dipinti di gusto falso manierista (evidentissimi i soffitti con bassorilievi di angeli e simboli del Tetramorfo “a didò e plastilina”) delle chiese di Santa Croce e del convento di San Pasquale in Atessa, con incassate le tele del cugino Ennio Bravo, e del santuario di San Mauro in Bomba. In questo santuario, il Falcucci realizzò una bella statua di San Mauro, molto venerato anche in Atessa, di cui esiste una bella statua nella chiesetta di Sant’Antonio, scolpita come reca il cartiglio, da Pasquale Giuliani di Atessa nel 1898 per conto del sacerdote Vittorio de Ritiis. Brevi cenni sul Giuliani, era atessano e forse si formò presso la bottega dei Falcucci, e ne fu in un certo senso il continuatore, anche se non con la stessa fama dei maestri, tanto che è censito principalmente in Atessa e nei dintorni; ad esempio nella vicina Paglieta gli fu commissionata come reca il cartiglio, una statua di San Nicola vescovo per la parrocchia. In Atessa invece abbellì la suddetta chiesetta di Sant’Antonio con la statua di S. Mauro, e nel cappellone dell’Addolorata, con la statua della Vergine dei Dolori e con la statua del Santo di Padova, firmate e datate. Benché tal Giuliani non ebbe modo di farsi conoscere assai, la sua arte dimostra come Atessa fosse, alla pari di Guardiagrele e Orsogna, terra di artigiani, i quali erano abbastanza quotati e coscienti del proprio mestiere da far scrivere il loro nome nelle loro opere, a testimonianza per una memoria futura.

16 ottobre 2022

Le pitture dei Bravo di Atessa.

Ennio Bravo, Incredulità di San Tommaso, chiesa madre di Perano
 
Le pitture dei Bravo di Atessa

di Angelo Iocco

Dopo il periodo glorioso dei Falcucci, scultori di statue per le chiese e congreghe attivi tra ‘800 e primo decennio del ‘900, Atessa ebbe un’altra bottega, certamente minore, e forse anche in vari aspetti scadente, ma che ebbe successo presso le parrocchie dei piccoli paesi del chietino. 
Il capostipite fu Pasquale Bravo, attivo tra fine ‘800 e primi anni del ‘900, restauratore di statue, e costruttore di nuovi simulacri per devozione popolare, e per commissione. Come artigiano è riconoscibile per il suo gusto kitch, per usare un eufemismo; nell’area tra le contrade di Atessa, Paglieta, Casalanguida, vediamo statuette di San Vincenzo Ferrere e Sant’Antonio abate realizzate per devozione popolare, datate tra il 1910 e il 1911. C’è veramente poco da dire sulla realizzazione plastica, sul volto rotondo come una palla da ping pong, sugli occhietti appena accennati, oscuri e anonimi come le oscure sfere dei buchi oculari di un pescecane! Il problema di Pasquale Bravo senior, come è stato rilevato, fu che venne chiamato a ristrutturare delle statue antiche, oltre a costruirne di nuove, e alcune le rovinò irrimediabilmente, come nel caso delle statue della chiesetta dei Santi Vincenzo e Silvestro in contrada Montemarcone di Atessa. Restaurò anche delle belle statue dei Falcucci, grattandone via il colore, oppure massacrando con del beverone di stucco la statua della Beata Vergine Maria della Selva nel santuario dell’Assunta di Castel Frentano, risalente al XIV sec. Statua fortunatamente restaurata di recente. 
Ennio Bravo, cugino di Gennaro, figlio di Pasquale, continuò l’attività, dedicandosi soprattutto alla pittura per le chiese, a realizzare quadri o pitture murali, o anche nell’ultima fase, negli anni ’80, statue intagliate da Gennaro. 
Pasquale Bravo, se è considerato bocciato nella scultura, nell’ultima fase della vita, quando dipinse negli anni ’30 e ’40, raggiunse un livello almeno mediocre. I suoi soggetti erano ispirati al gusto neoclassico, ma un neoclassicismo esageratamente illuminato, tipicamente tardo ottocentesco, delle stampe devozionali che andavano girando per i santuari. I dettagli non sono molto precisi, le figure sembrano statiche e senza tridimensionalità, gli occhi noiosamente rivolti sempre verso l’alto in contemplazione, senza originalità. Non c’è chiesa di Atessa che non abbia qualche suo quadro, la chiesa dell’Addolorata, il Duomo, secondo altare di sinistra nella terza navata, frutto dell’ampliamento ottocentesco dell’impianto, la chiesa di Santa Croce, la chiesa della Madonna della Cintura, la chiesa di San Rocco, con una brutta copia del quadro seicentesco di Felice Ciccarelli atessano, della Beata Vergine del Carmelo. E anche nei dintorni di Atessa Pasquale dipinse, ora a Perano per la chiesa madre, producendo altre due tele devozionali per i lati dell’altare maggiore, ad Archi, a Montazzoli, a Tornareccio, e si spinse anche in qualche altro paese della media valle del Sangro, come Bomba o Villa Santa Maria. 
I figli Pasquale ed Ennio Bravo, attivi negli anni ’20 e ’50, continuarono l’attività paterna, estendendo il campo alla pittura murale, a volte riempiendo letteralmente la chiesa di loro opere. Non si scostarono molto dal soggetto di scene bibliche corali, dalle tinte molto chiare, di quell’inconfondibile gusto roseo, quasi da chiesa Mormonista, ossia uno stile falso-antico, che in Abruzzo continuava ad essere riproposto anche in epoca di trasformazioni artistiche nel secondo dopoguerra (si vedano i cantieri religiosi di Pescara, si vedano le pitture di Peppe Candeloro a Lanciano, in cui lui “trasponeva il classico nel contemporaneo” sulla base del modello di Michelangelo), e che verrà spazzato via qualche decennio dopo. I fratelli Bravo furono attivi in quelle chiese che o erano prive di arredi sacri a causa della povertà, o che erano state appena ricostruite dopo le distruzioni belliche. La loro opera più interessante è il cantiere della chiesa madre di San Nicola di Orsogna, appena rinata dalle ceneri della furia devastatrice dei cannoni e dei mortai. La chiesa è un tipico esempio di ricostruzione ex novo del Genio Civile di Chieti, un falso antico, completata nel 1952, come recita una iscrizione appena entrati, a monito e memoria. 

Orsogna, chiesa di S.Nicola, catino absidale con dipinti dei Fratelli Bravo, 1952 c.

I Bravo furono chiamati a indorare il catino absidale, mostrando la scena dell’Agnus Dei, di Cristo che è l’Alfa e l’Omega, con il Sacrificio dell’Agnello, e sullo sfondo la città di Gerusalemme. Anche la seconda delle due cupole della navata unica, fu dipinta dai Bravo, con scene bibliche dell’Antico e Nuovo Testamento, e ai quattro pennacchi, il solito Tetramorfo degli Evangelisti; un lavoro però realizzato abbastanza bene, che verrà ricordato. 
Ennio Bravo, che lavorò in proprio, è il migliore della famiglia nel disegno, è l’unico che fa assumere espressione e gravità ai suoi soggetti, tra i più belli, il San Tommaso della chiesa matrice di Perano. 
Gennaro continuò l’attività dei Bravo, scolpendo e dipingendo statue, di fattura appena sufficiente, e sarà lui il maestro del pittore di Atessa che attualmente la rappresenta, il prof. Gaetano Minale di Agnone.

Mosè e il vitello d’oro, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna

Caino uccide Abele, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna



Il sogno di Giacobbe, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna



Mosè  e i 10 Comandamenti, Fratelli Bravo, chiesa di San Nicola, Orsogna


27 luglio 2022

Marino Valentini: Nel chietino furono gettate le basi per l’invenzione della TV.


Nel chietino furono gettate le basi per l’invenzione della TV
di Marino Valentini.

Quasi un secolo fa, nell’ottobre del 1925 per l’esattezza, nasceva un’invenzione che avrebbe cambiato il mondo: la televisione.
In quell’autunno l’ingegnere scozzese John Logie Baird riusciva a realizzare la prima trasmissione televisiva dal suo laboratorio alla stanza a fianco. L’immagine trasmessa era il viso di un ignaro fattorino del laboratorio dello scienziato britannico. Tre mesi dopo, nel gennaio del 1926, Baird trasmetteva da una stanza all’altra il viso della sua socia in affari, stavolta alla presenza di studiosi e della stampa: la TV era ufficialmente nata!
Ciò che invece molti ignorano è che se non si fosse combattuta la Prima guerra mondiale, probabilmente l’invenzione sarebbe stata un vanto dell’Italia e del chietino in particolare.
Prima di parlare di questa storia, occorre fare un salto indietro nel tempo fino al 1892, quando dalla famiglia dei baroni Franceschelli di Montazzoli, in provincia di Chieti, nacque Tommaso che sin da giovanissimo si dedicò agli studi di elettronica, perfezionandosi presso il Politecnico di Napoli e nel 1915 lo stesso pubblicò su una rivista nazionale di elettronica le sue importanti ricerche, sotto il nome di teleidografo con e senza fili, un dispositivo in grado di realizzare la trasmissione radiotelegrafica delle immagini che, in concreto, rappresentava un prototipo di TV, ben dieci anni prima che la stessa venisse battezzata.
L’errore del giovane barone Franceschelli, per non aver tutelato da brevetto il dispositivo, ma sarebbe più opportuno parlare di sfortuna, si lega alla quasi contemporanea entrata in guerra del nostro Paese nel conflitto che indusse l’abruzzese, già allievo dell’Accademia navale di Livorno, ad arruolarsi volontario nella Regia Marina e a partire subito per il fronte della guerra marittima in Adriatico, mettendo le sue importanti ricerche al servizio della Patria.
Ad appena due mesi di distanza dall’entrata in guerra dell’Italia, con la flotta italiana impegnata a occupare alcune isole della Dalmazia meridionale e a creare uno sbarramento nel canale d’Otranto, per impedire il passaggio delle navi della Kriegsmarine austro-ungarica, il barone Tommaso Franceschelli, forte delle sue preziose conoscenze, si trovava a Brindisi, poiché adibito al servizio semaforico marittimo: in pratica una stazione di vedetta e segnalazione della marina militare, posta in alto e ben visibile dal mare, munita di apparecchiature radiotelegrafiche, che costituiva il collegamento fra le navi e la terra, per dare e ricevere segnali, informazioni e ordini.
Il 29 luglio 1915 nella stazione di segnalazione semaforica brindisina della Regia Marina, Franceschelli stava perfezionando un dispositivo in grado di inviare immagini via radio telegrafo, in pratica una sorta di odierno fax, ma la torre all’interno della quale stava lavorando, venne bombardata da una nave della flotta austriaca e, mentre la guarnigione italiana stava abbandonando l’edificio, il giovane barone abruzzese, ricordandosi di essere pure tiratore scelto, non esitò a raggiungere la cima del fabbricato per avere una visione migliore al tiro di precisione del suo fucile, ma un paio di granate lanciate dai nemici gli caddero accanto, ferendolo mortalmente al capo e al petto.
Per dirla tutta, Franceschelli aveva effettivamente depositato, contemporaneamente all’entrata in guerra dell’Italia, un regolare attestato di privativa industriale della durata di un anno, che scadeva a fine marzo del 1916, otto mesi dopo la sua morte.
L’Italia e l’Abruzzo perdevano così un valoroso soldato ma soprattutto un geniale inventore e, qualora il barone di Montazzoli fosse sopravvissuto alla Grande Guerra, quasi certamente il mondo avrebbe parlato dell’invenzione della televisione a opera di un figlio della nostra terra d’Abruzzo.

Tratto dal saggio: Romanzo bigotto, di Marino Valentini.