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I CANTI DEL MANDRIANO ABRUZZESE
Mons. Francesco Bruni, pugliese nato a Bisceglie il 12 luglio 1802 era vescovo della diocesi di Ugento (provincia di Lecce) dal 19 maggio 1835. Per contrasti con i Savoia, che avevano confiscato i beni della Chiesa, e per i metodi adottati, nel 1862 venne arrestato e rimosso dalla cattedra di Ugento e trasferito senza incarico a Lecce, dove morì l'anno successivo, il 17 gennaio. La sede vescovile di Ugento rimase vacante per undici anni, sino all’elezione di mons. Salvatore Luigi Zola il 21 marzo 1873.
Il vescovo mons. Bruni nel 1854 fece stampare dalla Tipografia di Filippo Cairo (Roma) una lettera al vescovo di Teramo. mons. Pasquale Taccone, calabrese nativo di Mileto, provincia di Vibo Valentia, vescovo di Teramo dal 30 settembre 1850, datata 1 dicembre 1854, “intorno agli abusi che taluni fanno delle risposte date dalla S. Sede sulle usure” chiedendo scusa per aver tardato alquanto ad adempiere una sua promessa e scusandosi con il dire che un Vescovo non poteva “disporre ad arbitrio del suo tempo”. Questo mostra che tra i due vescovi c’era una relazione e una corrispondenza che probabilmente erano collegate ai due terminali dei tratturi della transumanza dei pastori abruzzesi nelle Puglie. L’anno dopo della messa a stampa della lettera, nel 1855, mons. Bruni fece stampare in Napoli dalla Stamperia del Vaglio nel 1855 i “Canti del mandriano abruzzese”, con dedica datata febbraio 1855 al commendator Niccola Nicolini, abruzzese nativo di Tollo, in provincia di Chieti, nato il 30 settembre 1772, da Giambattista e da Teresa de Horatiis, nipote del celebre giurista Girolamo (detto Nicolino) Nicolini (1604-1664), che, con decreto del 20 marzo 1854 era stato nominato primo presidente della Suprema Corte di Giustizia di Napoli ed era in rapporti epistolari con i maggiori esponenti della cultura giuridica europea. Morirà a Napoli il 4 marzo 1857.
Nella sua dedica, mons. Bruni spiegava che era venuto per caso in possesso di alcuni canti di un mandriano nel loro vernacolo originale. Aggiungeva di averli “portati in lingua italiana”, e lo aveva fatto “il meglio” che aveva potuto. Nella dedica non usava il termine “mandriano”, come nel titolo, ma il termine pastore, esplicitando così che i canti non erano di un guardiano di mandrie bovine, ma di un gregge di pecore, un “pastore”, come scriveva. Un pastore abruzzese dunque, “obbligato ad errare con le sue mandre otto mesi di ciascun anno lungi dalla sua patria, ed a vivere per ciò una vita affatto eccettuativa nello stato presente delle civili associazioni”. Non sapeva dire, continuava il vescovo, se la sua versione in italiano risultasse di buona qualità, certo era che non vi aveva aggiunto nulla di suo e nulla aveva tolto, sì che l’unico divario era nella “rappresentazione”, cosa che avrebbe potuto riscontare chi avesse confrontato la sua versione con quella originale in dialetto abruzzese, di cui possedeva il manoscritto.
Purtroppo il manoscritto in dialetto abruzzese non ci è pervenuto e abbiamo solo la versione italiana di mons. Francesco Bruni. Peccato. Sarebbe, a leggerlo oggi, uno strumento di conoscenza prezioso sul dialetto abruzzese, forse teramano, dei primi anni dell’Ottocento. Invece non lo abbiamo, ne abbiamo solo il testo tradotto in italiano. Si potrebbe provare ri-fare la traduzione in dialetto abruzzese? Si potrebbe, ma senza avere a disposizione lo strumentario linguistico e lessicale del tempo, tanto più che lo stesso monsignore dice che i canti erano espressione di una cultura e di un linguaggio popolari e dal 1855 ad oggi moltissimi termini e fonemi del dialetto abruzzese sono andati perduti, specie quelli legati al mondo della pastorizia. Già nel 1881 nel suo dizionario di vocaboli teramani Giuseppe Savini segnalava alcuni vocaboli dicendo che erano del tutto desueti e tanti altri lo sono diventati da quell’epoca ad oggi.
Della “pastorizia errante”, mons. Bruni diceva che era “una delle piaghe più verminose e altrettanto nocive che vergognose pe’ popoli civili”. Della sua versione, che egli stesso dice essere uguale quanto all’originale, salvo la traduzione dal dialetto abruzzese alla lingua italiana, risulta un elenco di canti, separati, non brevi, ciascuno con un proprio titolo: I. La vita del mandriano, II. La partenza, III. Il ritorno, IV. Ad una rondinella, V. Alla luna, VI. Il pastore arabo, VII. Il sogno, VIII. Al cane, IX. La preghiera d’ogni dì, X. Sulla sua donna, XI. Alla zampogna, XII. Stando sulla montagna, XIII. Alla fontana, XIV Il camposanto, XV. Alla campana.
Seguiva un componimento più lungo, il primo canto de “Il mandriano abruzzese”, composto di cinque canti, ristampa del testo pubblicato sul “Giornale Abruzzese”, n. LXVI, LXVII e LXVIII p. 160, come veniva precisato in una nota a pie’ di pagina. Il testo era inframmezzato dalla cantilena “La spigolatrice”, che era stata pubblicata nella Strenna “L’Aterno” del 1847 a cura di Francesco Vicoli (Tipografia di Francesco Del Vecchio). Vicoli, poligrafo, giornalista, era nato il 5 dicembre 1819 in una famiglia della buona borghesia locale che lo aveva avviato agli studi del locale Seminario, dove era stato condiscepolo di Bertrando e Silvio Spaventa e di Gian Vincenzo Pellicciotti. Uscito dal seminario a 19 anni, era andato a studiare a Napoli, dove nel 1844 aveva conseguito la laurea in legge. Nel frattempo aveva anche approfondito le sue conoscenze letterarie e filosofiche e ben presto aveva cominciato a pubblicare raccolte di liriche, cui seguirono novelle, saggi, articoli di rievocazioni storiche e di illustrazioni artistiche. La produzione più estesa di Vicoli concerneva tuttavia quello di soggetto sacro destinata alla musica e alla pubblica esecuzione in occasione di ricorrenze religiose. Dal 1842 fin quasi alla vigilia della sua morte, per circa 40 anni scrisse i testi di cantate, azioni sacre,oratorii, inni, in onore di Madonne e Santi venerati a Chieti e nei paesi vicini. Il compositore che più spesso ne musicava i testi era Giuseppe Liberali, Maestro di Cappella. Vicoli morì nel 1882.
Non sappiamo chi fosse l’anonimo pastore poeta, certamente acculturato al punto da poter comporre versi in vernacolo abruzzese, non sappiamo di quale area geografica. Ma se ne deve provare ammirazione, insieme con il rammarico per non essere pervenuto fino a noi i suoi versi originali, ma solo una traduzione in italiano, che tuttavia è stata ristampata in edizione anastatica dall’editore abruzzese Adelmo Polla nel gennaio 2000. Per avere un’idea dell’opera, provo a ri-tradurre in dialetto abruzzese i primissimi versi della versione italiana di mons. Bruni, conservandone la struttura metrica e le rime:
Da quande che facce chesta vite
la pace de lu core se n’à jìte,
e viste l’hinne che m’avanze
ormaje me s’à ‘rdutte la speranze.
Ugne anne luntàne je sò state
otto misce da lu puste duhua so’ nate.
Pajàse mi’, mi si care tante tante,
pe’ mmè tu sì come ‘nu sante.
Eppure ‘nu jurne je te lascive
e pe’ deventà ricche me ne jìve.
Llù jurne che je me ne partive
mi facive curagge e nen piagnive
e tutte avesse fatte ‘mmèce de partì,
m’avesse piaciùte pure de murì.
Lu core mi a li pite mese ne calò
quande ‘nghe le làcreme me salutò
moje e fìje e ‘n case ne n’arndrò.