Padre Donatangelo Lupinetti
Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano:
Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano:
Le glorie francescane illuminano la storia del Convento della Santissima Annunziata del Poggio in Orsogna, sin dal XV secolo, quando fu fondato da S. Giovanni di Capestrano nel 1448.
Da un dattiloscritto inedito dell’orsognese
Vincenzo Simeoni (1904-1994), appassionato di storia patria, leggiamo degli
estratti che illustrano le biografie dei personaggi più illustri.
Contadini di Castel Frentano in abito popolare – lastra archivio Marco Cavacini
CANTI, LITANIE, NOVENE POPOLARI E LITURGICHE A CASTEL FRENTANO
Queste trascrizioni dal lavoro di Giuseppe Di Battista (Canti e racconti popolari di Castel Frentano e dell’area del Sangro-Aventino, postumo, Castel Frentano 2023, sono state eseguite dallo scrivente, ascoltando la voce di Zi’ Clemente Di Battista dalle audio-registrazioni su nastro. Esse sono state conservate dal nipote Aldo Angelucci, cui va il nostro ringraziamento, e attualmente sono state sbobinate e conservate presso l’Archivio Associazione teatrale “Di Loreto-Liberati” di Castel Frentano. Purtroppo i canti non hanno una regolare continuità, a causa delle varie interruzioni durante l’esecuzione, o per dimenticanza, o perché il dicitore passava immediatamente a un altro canto. Purtroppo di alcuni brani siamo riusciti a trascrivere solo qualche verso, a causa dell’audio rovinato o disturbato da alter frequenze e rumori.
1) ME SO’ STATE CARCIARATE
Si tratta di un lamento-serenata, che ha altri riscontri in altre località abruzzesi, nonché napoletane. Inizia con:
Me so state carciarate
Pe’ nu capricce, Mariè!
2) SANT’ANTONIO
Versione di zi’ Clemente Di Battista
Sant’Antonio
‘nnav’ a ccaccia di ciammajiche,
ma lu demonie malandrine
le jettètte ‘mmezz’a
le rettriche!
Sant’Antonie
ze bevé lu vine…
I Canti del Sant’Antonio in Abruzzo
quante
ne séte déntre e fore,
quante
ne séte déntre e avanti,
bona
sére a tutti quanti!
AREA FRENTANA 1 (Lanciano, Ortona, Treglio, San Vito,
Rocca San Giovanni, Castelfrentano contrada Crocetta, Mozzagrogna)
AREA FRENTANA 2 (Orsogna, Sant’Eusanio del Sangro,
Civitaluparella)
AREA FRENTANA – AVENTINO (Archi, Lama dei Peligni,
Colledimacine, Civitella Messer Raimondo, Villa Santa Maria).
Come approfondiremo più avanti, differenti sono le
versioni del Sant’Antonio di paese in paese, a distanza di pochi km l’uno
dall’altro: abbiamo riscontrato che gran parte di canti hanno una base che
affonda le radici nella tradizione orale, naturalmente di anonimo, e sono molto
brevi, anche se ipotizziamo che purtuttavia questi canti siano stati ispirati
dale letture delle agiografie del Santo di tradizione medievale. Torniamo a
noi. C’è la compagnia con gli strumenti che canta, di casa in casa, o per le
strade e le piazza, e non sempre si rappresenta la pantomima teatrale con i
personaggi Sant’Antonio, il Demonio e l’Angelo che interagiscono.
In alcune varianti i personaggi che mimano la scena
parlano, ma con brevi interventi, come nel canto di Civitaluparella. Gli
antropologi locali, come la Gandolfi, preferiscono questi Canti brevi eseguiti
in coro, che sono più scarni, essenziali, concentrate sulla resa pantomimica
dei personaggi, senza contaminazioni operettistiche. Il secondo ciclo di questi
Canti infatti, come ha ben scritto anche Padre Lupinetti (che nella sua opera
cita anche una rappresentazione degli anni ’30 eseguita al Teatro di Chieti), è
quello dei Canti Teatrali, cioè le sceneggiate che a volte durano anche
mezz’ora, o di più, arrivando a stancare il pubblico. Sulla base del testo
popolare, ovvero:
INTRODUZIONE EREMITI + ANNUNCIO EREMITI DI SANT’ANTONIO +
ARRIVO E ASSOLO DI SANT’ANTONIO + ARRIVO DEL DIAVOLO (a volte arriva prima la
Femmina bella, come si vedrà nei Canti) + DIALOGO-SCONTRO TRA SANT’ANTONIO E IL
DIAVOLO + ASSOLO II DI SANT’ANTONIO (specialmente questa parte nei Canti di
Lama) + RITORNO DEL DIAVOLO + INVOCAZIONE E ARRIVO DELL’ANGELO SALVATORE +
USCITA DI SCENA DEL DIAVOLO, COMMIATO FINALE DEGLI EREMITI.
Come abbiamo voluto riportare in questa Appendice, e in Appendice II, questi Canti recitati teatrali sono frutto di elaborazioni del poeta locale, oppure del parroco, in sostanza di qualcuno che mastica un po’ di musica, e che è in grado di farne anche parodie, citando un brano teatrale famoso o un pezzo di lirica. Ma a volte il brano d’operetta è utilizzato per carattere sacro, modificato per il gusto del popolo! E per questo campo, anche se non ne parleremo, citiamo le Sette Novene Cantate a Sant’Antonio in Fara Filiorum Petri, nei 6 giorni che precedono il 16 gennaio, e il giorno stesso di Sant’Antonio[1].
di
Angelo Iocco
Giuseppe Di Tullio (4 settembre 1910 – 1 gennaio 1952) è uno di quei poeti abruzzesi che purtroppo sono scarsamente conosciuti, complice probabilmente la breve esistenza, stroncata da una brutta malattia a soli 42 anni. Pochi oggi lo ricordano, e fondamentale resta un saggio di Vittoriano Esposito nel suo Parnasso d’Abruzzo, alla relativa voce. Nativo della piccola Filetto, studiò al Liceo classico di Lanciano, successivamente proseguì gli studi universitari a Firenze, per poi tornare, imbevuto di toscanismo e patriottismo giolittiano, a Pescara, a insegnare. Seguì anche l’abilitazione musicale in violino presso il Conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli. scrisse su diversi giornali abruzzesi, come Il Messaggero, Il Tempo, Momento sera di Chieti, Rivista abruzzese. Oltre ai saggi sulla religione, Di Tullio si occupò anche di Gabriele d’Annunzio, Silvio Spaventa, Tommaso Campanella e umanisti abruzzesi. Nel 1933 pubblicò la silloge di poesie L’Eco delle fonti, e nel 1949 per l’editore Carabba di Lanciano, il poema Giano. Esso è ispirato alla figura mitica del dio della Creazione, e nel cantarlo, Di Tullio si riferisce a un’epoca felice, perduta, quello dei grandi classicisti dell’Ottocento, ma non solo, della letteratura italiana come Dante e Petrarca, celebra una società idilliaca felice, quella italiana, ancora non contaminata dagli orrori della guerra, che dal 1943 avrebbe martoriato l’Italia e la sua piccola patria quieta di Filetto, che ne uscì devastata, insieme alla vicina Orsogna. Il piccolo mondo fatto di cose semplici, rituali bucolici, per dirla alla Virgilio, è spazzato via per sempre dalla corrente della storia. Tra gli ultimi lavori di Di Tullio, figura una poesia in abruzzese, inedita, presentata al Concorso di poesia “Gennaro Finamore” di Lanciano del 1952, i di cui atti rimangono presso il Fondo “Cesare Fagiani” nella Biblioteca comunale di Lanciano.
“L’edificio sorgeva massiccio e quasi oscuro, simile a una vecchia roccaforte feudale. A quell’edificio mancavano i merli e il ballatoio per essere scambiato per una fortezza, ma bastava il campanile che sorgeva da un lato per dire subito che si trattava di una Chiesa. l’intera mole si ergeva superba sulla Rupe di San Rufino, dominando incontrastabilmente le case circostanti.
Ciò
che addolciva quell’aspetto severo, che lo rendeva umano e familiare, era la
presenza di colombi. Tutte le mura erano bucherellate di piccoli nidi, ed in ogni momento della giornata i mansueti
aligeri tubavano e volavano. A primavera poi la Chiesa sembrava rivestita a
festa, perché da ogni parte era fiorente di viole romane: coloriture
giallognole e rossastre, come lembi d’oro e di porpora, apparivano sul viso
rugginoso delle mura vetuste. Tutta la Chiesa era costituita da due parti,
l’una sovrapposta all’altra: nella prima, quella superiore, si officiava giornalmente,
nella seconda, quella inferiore, si adunava la Congrega del S. Rosario o il
Sodalizio della bella Sant’Agnese, ma si può dire che l’unica grande
celebrazione ivi avvenisse nei giorni della Passione.
Se
però nella parte superiore della Chiesa era dato cogliere qualche raro gioiello
umanistico, nella parte inferiore si poteva ammirare una tela riferibile alla
seconda metà del ‘500. Infatti nella parete di fondo della cripta, si vedeva
raffigurata la Madonna del Rosario: lavoro di un tardo seguace di Raffaello,
forse Luca Fornaci, che in quel tempo dipingeva a Chieti”[1]
Vita di S. Antonio abate in breve
S. Antonio Abate (Qumans, 12 gennaio 251 – Deserto della Tebaide, 17 gennaio 356) è stato un abate ed eremita egiziano. Contemporaneo di Paolo di Tebe, è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati; a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio. La sua vita è stata tramandata dal suo discepolo Atanasio di Alessandria. È uno dei quattro Padri della Chiesa d'Oriente che portano il titolo di "Grande" insieme allo stesso Atanasio, a Basilio e a Fozio di Costantinopoli. È ricordato nel Calendario dei santi della Chiesa cattolica e da quello luterano il 17 gennaio, ma la Chiesa ortodossa copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde, nel suo calendario, al 22 del mese di Tobi. Antonio nacque a Coma (l'odierna Qumans) il 12 gennaio del 251, figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent'anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, sentì ben presto di dover seguire l'esortazione evangelica: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri".
Luigi
Polacchi di Penne (1894-1988) nel corso dei suoi studi filologici sulla storia
del Risorgimento abruzzese, e negli intervalli di tempo, tra una composizione e
l’altra, tra una novella pubblicata su
L’Adriatico di Pescara e sulla rivista Tempo
nostro, si dedicò allo studio del dialetto abruzzese. Polacchi, nonostante
la sua formazione prettamente classicista, poneva lo studio della lirica
abruzzese in rapporto al dialetto, alla parlata popolare, di cui anche il
prozio e poeta Clemente De Caesaris (1810-1877) pennese, di cui Polacchi curò
l’opera omnia, inficiò alcuni suoi carmi in versi liberi endecasillabi. La
parlata abruzzese contagiò Polacchi, tanto da comporre poesie e canzonette come
Brunetta mia simpatica o Rènnele, o ancora Lu pappagalle, edite nella ristampa dell’opera omnia ORGANO vol. I
(1951, poi 1980). Mentre Polacchi si accingeva a raccogliere i detti popolari
ascoltati tra l’area pescarese e pennese, scoppiò la Seconda guerra mondiale, e
il progetto fu interrotto. Anzi, Candido Greco nel ricostruire la vita dello
scrittore, ricorda che il Polacchi, nella traversata frettolosa del torrente
Barricello, in località Torre del Duca a Penne con le casse delle carte messe
alla meno peggio a dorso d’asino, il poeta perdé molto materiale per la strada.
Tutto quel materiale che raccolse amorosamente, ascoltano i detti dialettali
dalla madre Vincenzina Di Biase. Tutto però non è andato perso, poiché nel
carteggio di Polacchi presso il Villino “Nonnina” di Pescara, grazie alla
collaborazione con la dott.ssa Angela de Sanctis, abbiamo rinvenuto delle copie
di un dattiloscritto, pieno di detti popolari.
Magari
il progetto di raccolta doveva essere più ampio, ma quel che resta tanto basta
a illustrare gli antichi detti dei nostri avi abruzzesi. Ce n’è per tutti,
dall’amore alla satira, dal lavoro alla tipica sagacia abruzzese, che tanto ci
rende caratteristici nella selva dei vari dialetti italiani.
ELENCO
PROVERBI POPOLARI DI L. POLACCHI
1) Chi nasce quatre, nen more tonne.
2) Mandrie e pecurale da le munde se n’arecàle.
3) La juvanezze è sempre allegre e nappe.
4) Ogne tratture porte a l’abiture.
5) Nu passante fannullone schiante e lasce penzulòne.
6) Panza piene nen dice male. Panza piene dai repose.
7) Pioggia juvanette li picciune sotte a lu tette.
8) Addusulète a me: facète lu bbene e perdete lu male.
9) Lu lette nnè li rose, si ‘ngi si dorme ci s’arpose.
10)
Chi te’ lu celle
‘mmane e nen le splume, je scappe sempre da la vite la furtune.
11)
Si a Rrome sème
ardùtte ognune penze a ssè e Ddij pe’ tutte.
12)
Currève anninze
gne nu sciòltavante.
13)
A la zappe e a
la traje tutte jurne nghe la paje.
14)
Casce e ricotte,
raggione a cà torte.
15)
Lu harbìne fére
distante da lu mare a la vallate.
16)
Bianche e nire
li ciaudèlle sembre tante muncacelle.
17)
Chi belle vo’
paré tutte l’usse ja da dulé!
18)
A lu cante de lu
halle fatte jurne è na la valle.
19)
Quanne cchiù
splenne lu sole, stinne bbone ssì lenzòle.
20)
A piante nu
cellette tra le fronne rise e cante va pe’ lu monne.
21)
L’amore quant’è
belle, sempre cchiù è litigarelle.
22)
A Santa Croce si
vatte la noce.
23)
Cioppe a ballà e
ciavaje a cantà.
24)
Corpe sazie:
dajje repose!
25)
Quande ‘nci sta
la hatte, lu sorge abballe.
26)
L’albere che nin
frutte, attizze.
27)
Chi je piace lu
lette lu ‘spizie l’aspette.
28)
Chi di ferre
fére, di ferre pére.
29)
Li quatrine fa j
‘acque a monte e a bballe.
30)
L’ucchie de lu
patrone ‘ngrasse lu cavalle.
31)
A Natale si
magne li caciune, a Pasque se magne li fiadune.
32)
Piagne lu morte:
è lacrime perse.
33)
L’acque chenna
piòvete ‘ncìle sta.
34)
La farine de lu
diavele ariò tutte ‘ncanìje.
35)
Chi joche a lu
lotte e spere di vince, lasse le stracce e pije li cince!
36)
Chi troppe li
tire, troppe li stucche.
37)
Sott’all’acque
ci sta la féme, sott’ a la neve ci sta lu pane.
38) Ecche lu curallare, femmene: accàttete pepe, carofene, ‘ranète fine,
rabbèerbere e chine!
39)
Abbìje ssi
faciule a’rmonne, abbiticchià ssi fronne!
40)
Donna belle a
marità, ‘n Paradise arrivète e a tre jurne maritata na ‘halline scinnicàte!
41)
Meje nu giovine
‘n camiciole che cente vicchie aricamate d’ore.
42)
Chi te’ rogne
carpe, chi te tigne gratte.
43)
Metté lu cule a
lu tommele!
44)
Lu medeche
pietose fa la piaghe cancrenose.
45)
La mannattare de
le monache nnarvinèje.
46)
Chi te’ pètre
nnin pate, chi te’ mamme nnin plagne.
47)
Ddo’ sta na
terra tra muntagne e mare, la nature divente la cchiù care.
48)
La ggente
celebrate de l’Abbruzze ‘ncontre simpatie ogne perlustre.
49)
L’ammore è nu
dolce suspire, c’ogne cchiù bella femmene ammìre.
50)
Ma lu vere
tradetore è nu sguarde de l’ammore?
51)
Chi dilitte nen
ha, de la Corte nin treme.
52)
Dumane e
pisdumàne, passa-vie ca ve’ dumane!
53)
Chi nnin te’
bona cocce, tè bbone pìte!
54)
Rénnele ca
turnate pare tutt sturdullite!
55)
Vracce a carijà,
vocche a magnà.
56)
A core stracche,
pinzìre fiacche.
57)
Chiù truve gente
gesse, chiù ‘nci pù ma’ cummatte.
58)
Quanne piagnème,
nisciune n’hà pìte!
59)
Ugne pappahalle
si pose arruffate, pronte a la battaje.
60)
Chi àveze lu
varile e se li d scole, jà ‘rmaste pe’ campà poc’anne sole.
61)
La femmene che
lu cule abballe, se puttane nen è regula falle!
62)
Se l’ommene fa’
funzionà la mente, s’artrove ogne jurne cchiù cuntente.
63)
Quande
l’amicizie t’à scurdate, cunvé cacche vote esse artruvate.
64) Matalene, Matalene, nen lassà chi te vo’ bbene, ti vo’ bbene quande Padre,
Fije e Spirte
Sante!
65) Ciampicune ciampicune arrivé nu puver’ume, le femmene a le porte jome
devé ‘mpo’ di
gnocche.
66)
La hatte che
n’arrive a lu larde, dice che è rance!
67)
Li solde de
l’avare se le magne lu sciampagnone.
68)
Maje sabbate
senza sole, maje femmene senza amore.
69)
Mandricchie e
mandricchione fa lu còmete de la patrone!
70)
Chi fa le facce
a fronte, sente ‘ngolle rossore prufunne.
71)
Maje a la Terra
me’ a carpì chi a quelle dill’itre a mète.
72)
Povere a chi
more, c’armàne cambe.
73)
Fa’ na fatija a
patte e stucche.
74)
Cent’anne e
cente mise ognune arvà a lu paese se’.
75)
Patrie, famije e
Ddie pe’ Mazzine ha fatte trie!
76)
Ddie, Patrie e
Mazzine, Patraterne une e trine!
77)
Gne nu Capudanne
arvé nu fije, tutte cose vicchie porte vie!
78)
Triste è lu
discipule che nnavanze lu mastre.
79)
La femmene è gne
lu mare: quande è calme ‘nganne!
80)
Casa quante nu
nide, terre quante ne vide.
81)
A chi nin piace
la cocche e lu vine, pozza murì dumane matine!
82)
Le Moneche di
Santaustìne: ddu cocce e nu cuscine[1].
83) Sabbatine, Sabbatine tre piducchie arrète a la schine, une saie, une cale, n’atre
fa da
Capurale!
84)
Pummadore e
pipidune l’ardicrie de li cafune.
85)
Chi te’ cente
fijje l’allòche, chi ne te une l’affòche!
86)
Casa quante nu
nide, terre quante ne vide.
87)
Ggenta triste
numunàte e viste!
88) Ame l’amiche t’ ‘nche li difetta suo’.
[1] Riferito
all’Ordine delle Monache che abitavano ai tempi di Polacchi nel convento di S.
Agostino di Penne.