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9 giugno 2025

Il poeta Giuseppe Di Tullio di Filetto.


Il poeta Giuseppe Di Tullio di Filetto

di Angelo Iocco

Giuseppe Di Tullio (4 settembre 1910 – 1 gennaio 1952) è uno di quei poeti abruzzesi che purtroppo sono scarsamente conosciuti, complice probabilmente la breve esistenza, stroncata da una brutta malattia a soli 42 anni. Pochi oggi lo ricordano, e fondamentale resta un saggio di Vittoriano Esposito nel suo Parnasso d’Abruzzo, alla relativa voce. Nativo della piccola Filetto, studiò al Liceo classico di Lanciano, successivamente proseguì gli studi universitari a Firenze, per poi tornare, imbevuto di toscanismo e patriottismo giolittiano, a Pescara, a insegnare. Seguì anche l’abilitazione musicale in violino presso il Conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli. scrisse su diversi giornali abruzzesi, come Il Messaggero, Il Tempo, Momento sera di Chieti, Rivista abruzzese. Oltre ai saggi sulla religione, Di Tullio si occupò anche di Gabriele d’Annunzio, Silvio Spaventa, Tommaso Campanella e umanisti abruzzesi. Nel 1933 pubblicò la silloge di poesie L’Eco delle fonti, e nel 1949 per l’editore Carabba di Lanciano, il poema Giano. Esso è ispirato alla figura mitica del dio della Creazione, e nel cantarlo, Di Tullio si riferisce a un’epoca felice, perduta, quello dei grandi classicisti dell’Ottocento, ma non solo, della letteratura italiana come Dante e Petrarca, celebra una società idilliaca felice, quella italiana, ancora non contaminata dagli orrori della guerra, che dal 1943 avrebbe martoriato l’Italia e la sua piccola patria quieta di Filetto, che ne uscì devastata, insieme alla vicina Orsogna. Il piccolo mondo fatto di cose semplici, rituali bucolici, per dirla alla Virgilio, è spazzato via per sempre dalla corrente della storia. Tra gli ultimi lavori di Di Tullio, figura una poesia in abruzzese, inedita, presentata al Concorso di poesia “Gennaro Finamore” di Lanciano del 1952, i di cui atti rimangono presso il Fondo “Cesare Fagiani” nella Biblioteca comunale di Lanciano.

“L’edificio sorgeva massiccio e quasi oscuro, simile a una vecchia roccaforte feudale. A quell’edificio mancavano i merli e il ballatoio per essere scambiato per una fortezza, ma bastava il campanile che sorgeva da un lato per dire subito che si trattava di una Chiesa. l’intera mole si ergeva superba sulla Rupe di San Rufino, dominando incontrastabilmente le case circostanti.

Ciò che addolciva quell’aspetto severo, che lo rendeva umano e familiare, era la presenza di colombi. Tutte le mura erano bucherellate di piccoli nidi, ed  in ogni momento della giornata i mansueti aligeri tubavano e volavano. A primavera poi la Chiesa sembrava rivestita a festa, perché da ogni parte era fiorente di viole romane: coloriture giallognole e rossastre, come lembi d’oro e di porpora, apparivano sul viso rugginoso delle mura vetuste. Tutta la Chiesa era costituita da due parti, l’una sovrapposta all’altra: nella prima, quella superiore, si officiava giornalmente, nella seconda, quella inferiore, si adunava la Congrega del S. Rosario o il Sodalizio della bella Sant’Agnese, ma si può dire che l’unica grande celebrazione ivi avvenisse nei giorni della Passione.

Se però nella parte superiore della Chiesa era dato cogliere qualche raro gioiello umanistico, nella parte inferiore si poteva ammirare una tela riferibile alla seconda metà del ‘500. Infatti nella parete di fondo della cripta, si vedeva raffigurata la Madonna del Rosario: lavoro di un tardo seguace di Raffaello, forse Luca Fornaci, che in quel tempo dipingeva a Chieti”[1]




Veduta della chiesa madre di Filetto, distrutta nel 1943, dal Corso S. Giacomo, oggi via Roma – Archivio Calendario Associazione “Ars Magistra” - Filetto


Luca Fornaci, Madonna coi Misteri del Rosario, chiesa di S. Maria ad Nives, Filetto

2 giugno 2025

IL CANTO POPOLARE ABRUZZESE NELLE TRADIZIONI DI IERI E DI OGGI – Capitolo VI: I Canti popolari di Sant’Antonio abate (Lu Sant’Antonie) in Abruzzo.

 

IL CANTO POPOLARE ABRUZZESE NELLE TRADIZIONI DI IERI E DI OGGI – Capitolo VI: I Canti popolari di Sant’Antonio abate (Lu Sant’Antonie) in Abruzzo

di Angelo Iocco 

Vita di S. Antonio abate in breve 

S. Antonio Abate (Qumans, 12 gennaio 251 – Deserto della Tebaide, 17 gennaio 356) è stato un abate ed eremita egiziano. Contemporaneo di Paolo di Tebe, è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati; a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio. La sua vita è stata tramandata dal suo discepolo Atanasio di Alessandria. È uno dei quattro Padri della Chiesa d'Oriente che portano il titolo di "Grande" insieme allo stesso Atanasio, a Basilio e a Fozio di Costantinopoli. È ricordato nel Calendario dei santi della Chiesa cattolica e da quello luterano il 17 gennaio, ma la Chiesa ortodossa copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde, nel suo calendario, al 22 del mese di Tobi. Antonio nacque a Coma (l'odierna Qumans) il 12 gennaio del 251, figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent'anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, sentì ben presto di dover seguire l'esortazione evangelica: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi e dallo ai poveri".

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24 maggio 2025

Detti popolari dialettali abruzzesi raccolti da Luigi Polacchi.

Detti popolari dialettali abruzzesi raccolti da Luigi Polacchi
di Angelo Iocco

Luigi Polacchi di Penne (1894-1988) nel corso dei suoi studi filologici sulla storia del Risorgimento abruzzese, e negli intervalli di tempo, tra una composizione e l’altra, tra una novella pubblicata su L’Adriatico di Pescara e sulla rivista Tempo nostro, si dedicò allo studio del dialetto abruzzese. Polacchi, nonostante la sua formazione prettamente classicista, poneva lo studio della lirica abruzzese in rapporto al dialetto, alla parlata popolare, di cui anche il prozio e poeta Clemente De Caesaris (1810-1877) pennese, di cui Polacchi curò l’opera omnia, inficiò alcuni suoi carmi in versi liberi endecasillabi. La parlata abruzzese contagiò Polacchi, tanto da comporre poesie e canzonette come Brunetta mia simpatica o Rènnele, o ancora Lu pappagalle, edite nella ristampa dell’opera omnia ORGANO vol. I (1951, poi 1980). Mentre Polacchi si accingeva a raccogliere i detti popolari ascoltati tra l’area pescarese e pennese, scoppiò la Seconda guerra mondiale, e il progetto fu interrotto. Anzi, Candido Greco nel ricostruire la vita dello scrittore, ricorda che il Polacchi, nella traversata frettolosa del torrente Barricello, in località Torre del Duca a Penne con le casse delle carte messe alla meno peggio a dorso d’asino, il poeta perdé molto materiale per la strada. Tutto quel materiale che raccolse amorosamente, ascoltano i detti dialettali dalla madre Vincenzina Di Biase. Tutto però non è andato perso, poiché nel carteggio di Polacchi presso il Villino “Nonnina” di Pescara, grazie alla collaborazione con la dott.ssa Angela de Sanctis, abbiamo rinvenuto delle copie di un dattiloscritto, pieno di detti popolari.

Magari il progetto di raccolta doveva essere più ampio, ma quel che resta tanto basta a illustrare gli antichi detti dei nostri avi abruzzesi. Ce n’è per tutti, dall’amore alla satira, dal lavoro alla tipica sagacia abruzzese, che tanto ci rende caratteristici nella selva dei vari dialetti italiani.

ELENCO PROVERBI POPOLARI DI L. POLACCHI

  

1)                                Chi nasce quatre, nen more tonne.

2)                                 Mandrie e pecurale da le munde se n’arecàle.

3)                                La juvanezze è sempre allegre e nappe.

4)                             Ogne tratture porte a l’abiture.

5)                              Nu passante fannullone schiante e lasce penzulòne.

6)                             Panza piene nen dice male. Panza piene dai repose.

7)                             Pioggia juvanette li picciune sotte a lu tette.

8)                           Addusulète a me: facète lu bbene e perdete lu male.

9)                            Lu lette nnè li rose, si ‘ngi si dorme ci s’arpose.

10)                      Chi te’ lu celle ‘mmane e nen le splume, je scappe sempre da la vite la furtune.

11)                      Si a Rrome sème ardùtte ognune penze a ssè e Ddij pe’ tutte.

12)                      Currève anninze gne nu sciòltavante.

13)                      A la zappe e a la traje tutte jurne nghe la paje.

14)                      Casce e ricotte, raggione a cà torte.

15)                      Lu harbìne fére distante da lu mare a la vallate.

16)                      Bianche e nire li ciaudèlle sembre tante muncacelle.

17)                      Chi belle vo’ paré tutte l’usse ja da dulé!

18)                      A lu cante de lu halle fatte jurne è na la valle.

19)                      Quanne cchiù splenne lu sole, stinne bbone ssì lenzòle.

20)                      A piante nu cellette tra le fronne rise e cante va pe’ lu monne.

21)                      L’amore quant’è belle, sempre cchiù è litigarelle.

22)                      A Santa Croce si vatte la noce.

23)                      Cioppe a ballà e ciavaje a cantà.

24)                      Corpe sazie: dajje repose!

25)                      Quande ‘nci sta la hatte, lu sorge abballe.

26)                      L’albere che nin frutte, attizze.

27)                      Chi je piace lu lette lu ‘spizie l’aspette.

28)                      Chi di ferre fére, di ferre pére.

29)                      Li quatrine fa j ‘acque a monte e a bballe.

30)                      L’ucchie de lu patrone ‘ngrasse lu cavalle.

31)                      A Natale si magne li caciune, a Pasque se magne li fiadune.

32)                      Piagne lu morte: è lacrime perse.

33)                      L’acque chenna piòvete ‘ncìle sta.

34)                      La farine de lu diavele ariò tutte ‘ncanìje.

35)                      Chi joche a lu lotte e spere di vince, lasse le stracce e pije li cince!

36)                      Chi troppe li tire, troppe li stucche.

37)                      Sott’all’acque ci sta la féme, sott’ a la neve ci sta lu pane.

38)                      Ecche lu curallare, femmene: accàttete pepe, carofene, ‘ranète fine, 

                rabbèerbere e chine!

39)                      Abbìje ssi faciule a’rmonne, abbiticchià ssi fronne!

40)                      Donna belle a marità, ‘n Paradise arrivète e a tre jurne maritata na ‘halline                    scinnicàte!

41)                      Meje nu giovine ‘n camiciole che cente vicchie aricamate d’ore.

42)                      Chi te’ rogne carpe, chi te tigne gratte.

43)                      Metté lu cule a lu tommele!

44)                      Lu medeche pietose fa la piaghe cancrenose.

45)                      La mannattare de le monache nnarvinèje.

46)                      Chi te’ pètre nnin pate, chi te’ mamme nnin plagne.

47)                      Ddo’ sta na terra tra muntagne e mare, la nature divente la cchiù care.

48)                      La ggente celebrate de l’Abbruzze ‘ncontre simpatie ogne perlustre.

49)                      L’ammore è nu dolce suspire, c’ogne cchiù bella femmene ammìre.

50)                      Ma lu vere tradetore è nu sguarde de l’ammore?

51)                      Chi dilitte nen ha, de la Corte nin treme.

52)                      Dumane e pisdumàne, passa-vie ca ve’ dumane!

53)                      Chi nnin te’ bona cocce, tè bbone pìte!

54)                      Rénnele ca turnate pare tutt sturdullite!

55)                      Vracce a carijà, vocche a magnà.

56)                      A core stracche, pinzìre fiacche.

57)                      Chiù truve gente gesse, chiù ‘nci pù ma’ cummatte.

58)                      Quanne piagnème, nisciune n’hà pìte!

59)                      Ugne pappahalle si pose arruffate, pronte a la battaje.

60)                      Chi àveze lu varile e se li d scole, jà ‘rmaste pe’ campà poc’anne sole.

61)                      La femmene che lu cule abballe, se puttane nen è regula falle!

62)                      Se l’ommene fa’ funzionà la mente, s’artrove ogne jurne cchiù cuntente.

63)                      Quande l’amicizie t’à scurdate, cunvé cacche vote esse artruvate.

64)                      Matalene, Matalene, nen lassà chi te vo’ bbene, ti vo’ bbene quande Padre, 

                 Fije e Spirte Sante!

65)                      Ciampicune ciampicune arrivé nu puver’ume, le femmene a le porte jome 

                 devé ‘mpo’ di gnocche.

66)                      La hatte che n’arrive a lu larde, dice che è rance!

67)                      Li solde de l’avare se le magne lu sciampagnone.

68)                      Maje sabbate senza sole, maje femmene senza amore.

69)                      Mandricchie e mandricchione fa lu còmete de la patrone!

70)                      Chi fa le facce a fronte, sente ‘ngolle rossore prufunne.

71)                      Maje a la Terra me’ a carpì chi a quelle dill’itre a mète.

72)                      Povere a chi more, c’armàne cambe.

73)                      Fa’ na fatija a patte e stucche.

74)                      Cent’anne e cente mise ognune arvà a lu paese se’.

75)                      Patrie, famije e Ddie pe’ Mazzine ha fatte trie!

76)                      Ddie, Patrie e Mazzine, Patraterne une e trine!

77)                      Gne nu Capudanne arvé nu fije, tutte cose vicchie porte vie!

78)                      Triste è lu discipule che nnavanze lu mastre.

79)                      La femmene è gne lu mare: quande è calme ‘nganne!

80)                      Casa quante nu nide, terre quante ne vide.

81)                      A chi nin piace la cocche e lu vine, pozza murì dumane matine!

82)                      Le Moneche di Santaustìne: ddu cocce e nu cuscine[1].

83)                      Sabbatine, Sabbatine tre piducchie arrète a la schine, une saie, une cale, n’atre 

                 fa da Capurale!

84)                      Pummadore e pipidune l’ardicrie de li cafune.

85)                      Chi te’ cente fijje l’allòche, chi ne te une l’affòche!

86)                      Casa quante nu nide, terre quante ne vide.

87)                      Ggenta triste numunàte e viste!

88)                      Ame l’amiche t’ ‘nche li difetta suo’.



[1] Riferito all’Ordine delle Monache che abitavano ai tempi di Polacchi nel convento di S. Agostino di Penne.

16 maggio 2025

Vincenzo Galante, un Orsognese a Napoli.

 
Vincenzo Galante, un Orsognese a Napoli

di Angelo Iocco

Nacque a Orsogna nel 1869 e morì il 18 febbraio 1912 a Napoli nella sua casa del corso Vittorio Emanuele, figlio di Silvio e  Gemma Cerretani. Dopo gli studi classici a Chieti, si trasferì a Napoli, laureandosi in Giurisprudenza nel 1891, entrando in Magistratura nel 1893, conseguendo la docenza a Napoli, con relazione di Lodovico Mortara. Quest’ultimo, nativo di Mantova (1855), si fece le ossa in Giurisprudenza all’Università della città lombarda, e si laureò nel 1874, esercitò la professione di avvocato. Nel 1882 si spostò a Bologna, nel 1855 pubblicò Lo Stato moderno e la Giustizia, con successo, nel 1888 si spostò a insegnare giurisprudenza all’Università di Pisa. Nel 1901 fondò l’Università popolare a Napoli, conoscendo il Galante. Nel 1906 insegnò Giurisprudenza alla Facoltà di riferimento dell’Università di Napoli, succedendo al Prof. Chiovenda, ma il Galante a causa di un male morì prematuramente. 

Dopo la sua morte, fu curata l’opera degli scritti, dal titolo Scritti giuridici di Vincenzo Galante pubblicati a cura del Comitato per le onoranze alla memoria di lui, a cura del figlio Pio Galante e Carlo Fadda, Napoli, Jovene.

Il Galante fu anche letterato e poeta, fu commemorato dal compaesano Beniamino Costantini in un articolo nel numero della Rivista abruzzese di Teramo del 1914. Il Galante scrisse diversi articoli sul tema di Giurisprudenza, ad esempio un articolo sull’illiceità del patto di violazione del buon costume circa il tema dell’illiceità della causa per negare efficacia ai patti che prevedevano interessi di usura, tale articolo è Le nuove correnti della Giurisprudenza per la repressione dell’usura, in Rivista critica di diritto e giurisprudenza, VIII, 1910, I, pp.1-19.

Napoli, Corso Vittorio Emanuele, cartolina