di
Angelo Iocco
Giuseppe Di Tullio (4 settembre 1910 – 1 gennaio 1952) è uno di quei poeti abruzzesi che purtroppo sono scarsamente conosciuti, complice probabilmente la breve esistenza, stroncata da una brutta malattia a soli 42 anni. Pochi oggi lo ricordano, e fondamentale resta un saggio di Vittoriano Esposito nel suo Parnasso d’Abruzzo, alla relativa voce. Nativo della piccola Filetto, studiò al Liceo classico di Lanciano, successivamente proseguì gli studi universitari a Firenze, per poi tornare, imbevuto di toscanismo e patriottismo giolittiano, a Pescara, a insegnare. Seguì anche l’abilitazione musicale in violino presso il Conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli. scrisse su diversi giornali abruzzesi, come Il Messaggero, Il Tempo, Momento sera di Chieti, Rivista abruzzese. Oltre ai saggi sulla religione, Di Tullio si occupò anche di Gabriele d’Annunzio, Silvio Spaventa, Tommaso Campanella e umanisti abruzzesi. Nel 1933 pubblicò la silloge di poesie L’Eco delle fonti, e nel 1949 per l’editore Carabba di Lanciano, il poema Giano. Esso è ispirato alla figura mitica del dio della Creazione, e nel cantarlo, Di Tullio si riferisce a un’epoca felice, perduta, quello dei grandi classicisti dell’Ottocento, ma non solo, della letteratura italiana come Dante e Petrarca, celebra una società idilliaca felice, quella italiana, ancora non contaminata dagli orrori della guerra, che dal 1943 avrebbe martoriato l’Italia e la sua piccola patria quieta di Filetto, che ne uscì devastata, insieme alla vicina Orsogna. Il piccolo mondo fatto di cose semplici, rituali bucolici, per dirla alla Virgilio, è spazzato via per sempre dalla corrente della storia. Tra gli ultimi lavori di Di Tullio, figura una poesia in abruzzese, inedita, presentata al Concorso di poesia “Gennaro Finamore” di Lanciano del 1952, i di cui atti rimangono presso il Fondo “Cesare Fagiani” nella Biblioteca comunale di Lanciano.
“L’edificio sorgeva massiccio e quasi oscuro, simile a una vecchia roccaforte feudale. A quell’edificio mancavano i merli e il ballatoio per essere scambiato per una fortezza, ma bastava il campanile che sorgeva da un lato per dire subito che si trattava di una Chiesa. l’intera mole si ergeva superba sulla Rupe di San Rufino, dominando incontrastabilmente le case circostanti.
Ciò
che addolciva quell’aspetto severo, che lo rendeva umano e familiare, era la
presenza di colombi. Tutte le mura erano bucherellate di piccoli nidi, ed in ogni momento della giornata i mansueti
aligeri tubavano e volavano. A primavera poi la Chiesa sembrava rivestita a
festa, perché da ogni parte era fiorente di viole romane: coloriture
giallognole e rossastre, come lembi d’oro e di porpora, apparivano sul viso
rugginoso delle mura vetuste. Tutta la Chiesa era costituita da due parti,
l’una sovrapposta all’altra: nella prima, quella superiore, si officiava giornalmente,
nella seconda, quella inferiore, si adunava la Congrega del S. Rosario o il
Sodalizio della bella Sant’Agnese, ma si può dire che l’unica grande
celebrazione ivi avvenisse nei giorni della Passione.
Se
però nella parte superiore della Chiesa era dato cogliere qualche raro gioiello
umanistico, nella parte inferiore si poteva ammirare una tela riferibile alla
seconda metà del ‘500. Infatti nella parete di fondo della cripta, si vedeva
raffigurata la Madonna del Rosario: lavoro di un tardo seguace di Raffaello,
forse Luca Fornaci, che in quel tempo dipingeva a Chieti”[1]
Così
il poeta Di Tullio scriveva nel suo memoriale Sancta Maria ad Nivis, a proposito della processione della chiesa
di S. Maria ad Nives. Leggiamo invece cose scrisse di lui l’amico orsognese
Vincenzo Simeoni (1904-1994) nel suo dattiloscritto inedito sulla Storia del Convento dell’Annunziata di
Orsogna, presso la biblioteca dell’omonimo cenobio minoritico.
Nella
fine di settembre del 1920, un fanciullo decenne salì questo Poggio per
accostarsi la prima volta alla Mensa eucaristica nella Chiesetta tutta raccolta
e mistica. Era Giuseppe Di Tullio di Filetto, il quale il giorno dopo si recò a
Lanciano per proseguire gli studi. Nel 1922 si laureò in Lettere e Filosofia
all’Università di Firenze con una brillante tesi sul Paradiso, la terza cantica
della Divina Commedia, che ottenne il massimo dei voti, la lode e la stampa.
Presto egli si rivelò bravo poeta, professore, critico letterario, storico,
brillante polemista, conferenziere, pubblicista, scrittore e violinista.
Veroli, Pescara, Siena, Firenze, Roma in un crescendo continuo, furono le tappe
della sua breve carriera mortale, ma tanto densa di opere! Oltre a innumerevoli
poesie, articoli e saggi di vario genere apparsi su giornali e riviste,
pubblicò il poema Giano, il suo
capolavoro, che riscosse il generale plauso della critica. Inoltre vinse 2
concorsi nazionali di poesia. L’ultimo suo lavoro fu il poema Cantastro (il
Canto degli Astri), la cui pubblicazione avvenne pochi giorni prima della sua
fine improvvisa. In una sua poesia, egli cantava trionfalmente come un inno
alla gloria: “Offro al Sole di Dio la mia vittoria
In
nome della Legge che governa
Ogni
atto mio di fede e di memoria.
Offro
al Sole di Dio ogni lucerna
Che
accesi sull’altare della Gloria.
Offro
al Sole di Dio l’anima eterna.
Col
Sole, per il Sole, dentro il Sole
Io
grido sempre: Sole, Sole, Sole!”
A
Siena fu soggiogato dalle luminose figure toscane che gli ispirarono alcuni articoli:
S. Bernardino il più grande Predicatore
medioevale, Il mistico Sole, S. Caterina la Giuditta senza ferro, che
riportò il papato a Roma nel 1337 e fu proclamata da Pio XII Dottore della
Chiesa insieme a S. Teresa d’Avila. Ma più di tutti lo colpì S. Francesco tutto
Serafico in ardore, “il più Italiano dei Santi e il più Santo degli Italiani!”,
verso la di cui mirabile Figura provava grande devozione e ammirazione.
Infatti
il contatto con il vicino Convento di Orsogna, e l’indimenticabile rito della
Prima Comunione, svolto nelle mistiche aure di queste sacre mura, ispirarono al
Di Tullio questa lunga poesia giovanile, inneggiante alla “perfetta letizia”
francescana:
“Scendea
d’Alvernia coagulata il Frate,
distrutto
sì che il capestro pendeva
pieno
di nodi. Egli era tutto saio.
Frate
Leone, pecora di Dio,
l’accompagnava
per la via d’Ascesi:
l’ultima
via che già fu la prima.
E
passo passo, il Frate poverello
col
suo dolore sospirava:
“Frate Leone, umile creatura
di Bon Signore, in verità rimembri
che in questi lochi, tra gli
amoramenti,
cavalcai con liuto e con la daga,
gittando oro alle dame, e pei
conviti.
Se tu provassi il cor d’ogni
Madonna
bella, o strappassi negli
accampamenti
l’ultimo velo della fortuna pensa
che dov’è gola trovi come un fosso
sempre aperto la fame, né si gode”.
E
passo passo, il frate poverello
col
suo dolore lieto sospirava:
“Frate Leone, che se’ come agnello,
per questi luoghi venni rilasciando
vesti e calzari, e mi coprii la
schiena
di pietre per empire un fondamento.
Tutta la gente si meravigliava.
Venivan meco lupanari e uccelli.
Che gemiti! Che trilli! Quanti
voli!
Frate Sole con nubilo o in sereno
E Sora Luna in chiarità di pace
Il canto udir da me in loro onore,
e ne portò la voce Frate Vento.
Pur se innalzi ed innalzi un’alta
torre,
e terra e cielo vuoi discoprire,
se tu componi i cantici più belli
e ti risponde ogni creatura, pensa
che il core cerca un altro
gioimento.”
Basso
basso veniva il Poverello,
e
con dolor lieto sospirava:
“Frate Leone, agnello del Signore,
da questi luoghi uscimmo in altri
mondi
e innante allo spavento d’un
crudelo
tra foco e spada feci vedere
Cristo.
Conversi il foco in guisa di
radice,
ogni spada siccome un verde stelo
ed ogni spina in colorita rosa.
Frate Leone, e non vedesti quando
Mi balenò e mi s’inchiodò la Croce:
da tre parti la luce trasse sangue:
un raggio mi passò dentro a lo core
come la luce appare sul mattino.
Ora m’ascolta, Frate mio Leone:
ritorneresti tu nella foresta?
O Frate mio, che se’ fatto agnello,
se fra le tigri e i pardi fai
ritorno
tu patiresti tribolazioni
molte, ma avresti piena
l’allegrezza.
Tu l’avresti nel mondo dei tuoi
giorni,
a te vicino, ancor da me lontano,
ove Dio passa e non si stanca mai!”
Passo
passo veniva il Poverello,
Frate
Leone che ascoltava sempre:
“Tue son le grazie – disse a bassa
voce –
Ora m’è gioia farti da compagno!””
Le
mistiche note di questa ispirata lauda medioevale, permeata di vero spirito
francescano, risuonano ancora trionfalmente fra le dolci aure della Chiesetta
per cantare nei secoli il primo incontro del fanciullo Di Tullio con Gesù, il
Maestro Divino, il Poeta dell’anima. Possiamo quindi affermare che il poeta
filettese fu un vero innamorato del glorioso Cantore dell’Universo, primo Poeta
d’Italia. Sentendo prossima la sua fine (1 gennaio 1952), egli rivolse al
Signore l’interminabile appassionata e ansiosa “implorazione” in un supremo
anelito di Fede, Pace, Misericordia:
“Per
un attimo, o Dio, mi ti rivela.
Fa’
che io sappia chi sei, dove sei.
Strappa
dagli occhi miei l’opaca tela.
Ch’io
vegga e senta e oda ove Tu sei,
ch’io
ti vegga uno, o Altissimo, Potente,
in
nulla simile ai terrestri dei….
Quale
mistero vuoi che in me maturi?
O
Signor, te ne prego, dammi posa:
fa’
che alfin venga la stagione bella
ed
il mio prun feroce abbia la rosa.
Squarcia
il tuo Cielo, anche se qualche stella
muoversi
debba per aprirmi strada.
Salva,
se vuoi, quest’anima ribella
prima
ch’io cada su la propria spada!”
Il
poeta Di Tullio compose l’incantevole Cantastro
(Il Canto degli Astri), S. Francesco invece elevò al Cielo la stupenda sinfonia
cosmica di ineguagliabile bellezza, il Cantico di Frate Sole!
[1] In effetti, la critica è concorde ad attribuire la tela della Madonna coi Misteri del Santo Rosario al detto Fornaci. La tela oggi è l’unica parte superstite della chiesa, gravemente danneggiata dai bombardamenti del 1943, e poi demolita; la tela è conservata nella nuova parrocchia di S. Maria ad Nives di Filetto.
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