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31 ottobre 2023

La Marsica e i riti di Ognissanti.

 

Popolazione in preghiera nel cimitero di Carsoli (1900/1910) © ICCD

Nel libro di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi dal titolo “Halloween: nei giorni che i morti ritornano” il capitolo sull’Abruzzo si apre così: Il folklore abruzzese e molisano è molto ricco di materiali che riguardano la nostra ricerca. Partiamo dalla credenza che i morti tornino nella dimensione terrena nella notte tra l’1 e il 2 novembre, raggiungendo le loro vecchie case (spesso processionalmente, in schiere dove morti «buoni» e morti «cattivi» occupano posizioni diverse e distinte), e dai riti di accoglienza a loro tributati, non privi di pericoli, e quindi di precauzioni e di forti timori.

A questa introduzione i due autori fanno seguire numerosi estratti dalle fonti storiche, in particolare quelli raccolti da Antonio De Nino e Gennaro Finamore nei loro celebri volumi dedicati agli usi e costumi abruzzesi. Nel capitolo di Finamore dedicato a Ognissanti è contenuta una storia ambientata a Pescina, in cui si intuisce perfettamente la commistione tra sacro e profano:

La messa de’ Morti, preceduta dall’ufficio, è celebrata dal parroco molto per tempo, per modo che al far del giorno la lunga funzione è terminata. Tutti coloro che hanno antenati sepolti nella chiesa in cui si celebrano gli uffizi, vanno o mandano ad accendere candele sulle sepolture; onde in nessun’altra festa dell’anno tutta la chiesa è così variamente e fantasticamente illuminata. Ma, prima che dai vivi, il divino uffizio è celebrato dai morti. Una fornaia, che non sapeva questo, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti a una chiesa, che vide illuminata, credette che vi uffiziassero, ed entrò. La chiesa era illuminata e piena di popolo. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si avvicina e dice: «Comare, qui non stai bene; va via. Siamo tutti morti, e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti». La comare ringraziò, e andò via subito; ma per lo spavento perdette la voce. (Pescina)

Credenze usi e costumi abruzzesi raccolti da Gennaro Finamore (1890)

In una piccola pubblicazione realizzata attraverso il contributo degli alunni dell’ultimo anno delle Scuole Medie C. Corradini di Avezzano nel 1988, si può leggere una testimonianza sui riti di Ognissanti nella Marsica. Molto interessante il rapporto con il fuoco del camino, spesso presente in altre fonti abruzzesi.

Tutti i morti

Una volta si usava nelle nostre parti cucinare abbondantemente nelle festività di Ognissanti in modo che il cibo che restava dopo il pranzo e la cena veniva messo in vari piatti ed esposti durante la notte sui balconi e nelle finestre del camino chiamate “buscelle”. Si diceva che i morti sarebbero tornati una volta l’anno, proprio nella notte fra il primo e il due Novembre, ed avrebbero partecipato al pranzo. Per tutta la notte dunque i più famosi mangiatori del paese erano occupati a fare delle scorpacciate con la legittima soddisfazione di chi, svegliandosi al mattino e trovando i piatti puliti, erano convinti che la sua casa fosse stata visitata dai parenti defunti. Nelle antiche case dove si accendeva il fuoco nel camino, si usava ogni sera coprire i carboni accesi con le ceneri in modo che al mattino i tizzoni restassero ancora accesi. La sera del primo Novembre, invece, i tizzoni venivano tutti spenti. Il fuoco è simbolo di vita ed è per questo che, almeno una volta l’anno, veniva soffocato come estinzione della vita stessa.

Si diceva che… Motti, proverbi, usi e costumi illustrati dagli alunni della III F – Scuola Media C. Corradini Avezzano 1988.

Ne “I racconti di Angizia” di Giuseppe Pennazza (1921), l’autore immagina di avere un dialogo costante con la Dea Angizia: insieme a lei ricorda le tradizioni scomparse e gli antichi usi delle famiglie di Avezzano e dintorni. Nel capitolo intitolato “Novembre” viene fatta una breve rassegna delle tradizioni nel giorno dei morti.

Ho incontrato Angizia e mi ha fatto paura. Essa era ammantata di nero.
– Dove vai? Che fai fuori di casa, solo, a quest’ora?
– Vado in cerca dei Morti: domani è la loro festa.
– Credulo e superstizioso come tutta la tua razza! Scommetterei che anche tu, questa sera, metteresti alla porta della tua casa il lume coperchiato con una zucca vuota e coi soliti fori da somigliare occhi e naso di teschi; anche tu non toccheresti in questa sera la catena del camino per non disturbare i morti nella loro quiete; anche tu, come i monelli, anderesti a picchiare a tutte le porte delle case per avvertire che è resuscitato un morto della famiglia.

L’utilizzo della zucca come elemento simbolico è molto presente nelle tradizioni della Festa di San Martino. Sempre da Finamore:

Nel Pescarese e in alcuni paesi dell’Aquilano, come Balsorano, i ragazzi portano ancora in giro, su una specie di barella, una zucca svuotata, con i fori degli occhi, del naso e della bocca, con due corna colorate e una candela accesa dentro; si fermano dinanzi agli usci delle case e delle botteghe cantando: «S. Martino, S. Martino».

Antonio De Nino nel suo Usi e costumi abruzzesi (1879) dedica un intero capitolo alla simbologia delle zucche dal titolo Illuminazione con le zucche:

In Ortucchio, alla vuota zucca si fanno dei buchi a forma di occhi, bocca e naso.
Dentro vi si adatta una candela. Nel cocuzzolo si legano due corni più o meno lunghi.
L’ operazione si compisce con infilare a un palo la cornuta zucca.
Fatto notte, si accendono le candelette di questi strani lanternoni (forse i cerei dei saturnali), e si gira per paese al grido di “Viva San Martino! Viva le corna!”
E io con un corno vi caverei un occhio! se mi fosse lecito.

Nell’intero territorio abruzzese sono moltissime le storie legate al culto dei morti. Uno dei testi più importanti e suggestivi è sicuramente quello di Vittorio Monaco dal titolo “Capetièmpe – Capodanni in Abruzzo”, recentemente ristampato dalla Textus Edizioni. Le suggestioni della festività risuonano anche nei versi di Gabriele D’Annunzio e nel capolavoro di Francesco Paolo Michetti – La raccolta delle zucche, dove un teschio in primo piano si confonde tra i raccoglitori, sospesi in un’atmosfera magica.

Su le tegole brune riposano enormi
zucche gialle e verdastre, sembianti a de’ cranii spelati,
e sbadiglian da qualche fessura uno stupido riso
a ’l meriggio.

Gabriele D’Annunzio – Ottobrata (Versi d’amore e di gloria, Mondadori Meridiani, Milano 2004)

La Raccolta delle Zucche – Francesco Paolo Michetti (1873)

Zucche nel Convento Michetti fotografate da Francesco Paolo Michetti © ICCD

Da: PiccolaBibliotecaMarsicana.it

13 ottobre 2022

Antonio De Nino, Il Messia dell'Abruzzo (Oreste De Amicis).

Oreste De Amicis il frate eretico, di Rossano De Laurentiis.

Oreste De Amicis (Cappelle sul Tavo, 27 aprile 1824 – Cappelle sul Tavo, 20 settembre 1889), è stato un frate cappuccino, parroco e predicatore.

Sommario

Immaginario collettivo

Cenni biografici e cursus ecclesiastico

L’eterodossia

Rivalsa sociale

Bibliografia


Immaginario collettivo

Immortalato da D’Annunzio nel Trionfo della morte (1894), romanzo che narra in filigrana l’estate del 1889 trascorsa dal poeta con l’amante Barbara Leoni sulla riviera adriatica tra l’eremo di San Vito Chietino e il santuario di Casalbordino, Oreste da Cappelle proprio alla fine di quell’estate dovette rendere l’anima al suo Dio. Il cosiddetto “Messia d’Abruzzo” fu studiato dal demologo Antonio De Nino, di Sulmona, in una biografia con un taglio socio-culturale uscita l’anno seguente (si veda qui l'illustrazione della cop.). Avvertiva l’autore: «Quest’operetta non è già un romanzo, come potrebbe far credere il titolo […] risulta di fatti documentati e raccolti dalla viva voce di chi prese parte all’azione o ne fu testimonio» (p. 7), con qualche inevitabile concessione all’aneddotica.
È indubbio il fascino e la suggestione che Oreste De Amicis, «distinto forse da caratteri più notevoli di quelli che Giacomo Barzellotti illustrò in Davide Lazzaretti» (Trionfo cit., nota dannunziana ai libri IV e V, p. 1019), dovette esercitare sul Pescarese alla ricerca di “documenti veramente umani” per caratterizzare le sue pagine abruzzesi.
A un certo punto dell’esistenza di Oreste De Amicis si manifestarono delle «compromesse condizioni mentali», tali da spingerlo in un paio di occasioni a tentare il suicidio; e chissà che proprio per questi episodi biografici D’Annunzio l’abbia usato come controfigura per gli istinti di morte di Giorgio Aurispa, protagonista del romanzo ambientato negli stessi luoghi della predicazione di De Amicis. Scrive De Nino, che pure era in contatto con D’Annunzio e il cenacolo di Michetti: «lo studio dei fatti morbosi fa meglio risaltare il meccanismo dei fatti normali».

Cenni biografici e cursus ecclesiastico

Oreste De Amicis nacque da Agapito e Maria Raffaella De Philippis. La formazione scolastica di base gli viene impartita in famiglia dallo zio materno, il parroco don Vincenzo. Prosegue gli studi nel convento dei Minori osservanti di Rapino (Chieti), ancora seguìto da uno zio, fra Tommaso da Tollo. Questi lo portò con sé negli spostamenti presso i conventi di Francavilla e di Ripa Teatina. All’età di 17 anni, insomma, Oreste De Amicis era un predicatore bell’e pronto. Sulla originaria vocazione al sacerdozio calò il velo di una «nuova leggenda come s’era formata nella credenza delle popolazioni campestri» (Trionfo cit., p. 840), perché si disse che rifiutato come gendarme di cavalleria decidesse di prendere i voti «ispirato da un’immagine della Madonna» (D’Este).
Divenne adepto dell’ordine cappuccino, prima a Ortona, poi a Sulmona come novizio «col più stretto rigore» (De Nino). Nella valle peligna avvenne la radicalizzazione in direzione del messianesimo; una svolta segnata dall'incontro con un mistico esaltato di nome Simplicio Di Rienzo. Quest'ultimo è ugualmente ricordato dall'Aurispa dannunziano, «nella cui memoria si risvegliava il ricordo lontano e indistinto di quel Simplicio [in dial. Sembrì] sulmonese che cadeva in estasi affisando il sole» (Trionfo cit., p. 840).
Oreste De Amicis, dopo aver pronunciato i voti col nome di fra Vincenzo da Cappelle (1841), inizia a spostarsi tra la Marsica e il reatino. Trascorse tre anni nel convento aquilano di San Giuseppe, dove coltivò idee liberali leggendo Gioberti, Rosmini, Leopardi, Foscolo, Rossetti e avvicinandosi a riformisti locali come Luigi Dragonetti (1791-1871).
Nel 1850 da frate cappuccino si fa prete. Don Oreste torna nel paese d’origine per coadiuvare il parroco titolare, di cui prende il posto a partire dal 1856. Furono anni di intensa attività, trascorsi in «edificanti attività parrocchiali, prodigandosi nell’assistenza ai poveri, nell’insegnamento ai fanciulli e nell’animazione delle cerimonie religiose» (D’Este). De Amicis, favorevole all’Unità d’Italia, riuscì ad incontrare il re Vittorio Emanuele II, di passaggio a Silvi, per sottoporgli una supplica di sussidio monetario per la parrocchia.
Il definitivo ritiro a Cappelle ci mostra un De Amicis ormai contrito per gli anni vissuti in un'animosa predicazione: «Un simulatore astuto e cupido che tentava di trarre a suo profitto la credulità dei divoti?» (Trionfo cit., p. 848); ridotto a vivere di elemosine; e a implorare il sindaco perché gli fosse riservato un posto al manicomio di Teramo. Altri episodi bizzarri e pietosi, come la richiesta di un esorcista, caratterizzano gli ultimi anni di vita del predicatore, finché non si spense all’età di 65 anni «dopo aver fatto bruciare tutti i suoi scritti» (D’Este).

L’eterodossia

Nel servizio per la casa parrocchiale a Cappelle (allora sotto la diocesi di Penne) don Oreste comincia a manifestare le prime manie ascetiche, anche stravaganti, che lo spinsero a ricavare un ‘antro’, con tanto di giaciglio e nicchie votive: «in compagnia di scheletri, portando il cilicio, percotendosi giorno e notte con la disciplina [scil. mazzo di funicelle o di fili metallici]» (Trionfo cit., p. 840). Situato tra gli spazi contigui del cimitero e di una chiesa del paese, il posto venne chiamato “La Camaldola” e divenne il luogo di autoreclusione di De Amicis per sei-sette anni.
La carica visionaria e monomaniacale lo portava a dichiararsi ispirato da Gesù Cristo, visto in persona; a suggerire nuove pratiche devozionali: «Nei brevi [scil. letterina ripiegata da portare al collo per devozione] o scapolari di sua invenzione soleva scrivere parole ebraiche, e metteva anche copia di un novello vangelo che uno Spirito gli aveva dettato in latino» (De Nino, p. 71).
Poi fu la volta di un peregrinaggio nell’Alta Italia, con visite nei santuari più famosi e incontri con personaggi della società civile. La capitale Torino fu la base di questi spostamenti, tra i quali un viaggio in Svizzera. Al secondo ritorno a Cappelle, 1866, si ritrovò estromesso dalla parrocchia per iniziativa dell’amministrazione comunale. Era un assaggio delle ‘scomuniche’ dell’autorità ecclesiastica che lo avrebbero costretto a continui trasferimenti, «sbattuto come l’acqua del mare» (secondo le sue parole riportate da De Nino, p. 17). Reagì a questa decisione come un martire, «cingendosi il capo con una corona di spine» (D’Este) e con invettive rivolte al municipio, fino ad essere trascinato in giudizio e condannato nell’agosto di quell'anno dal pretore di Città Sant’Angelo a tre mesi di carcere, poi ridotti a una multa.
Decide così di riprendere l’attività di predicazione, partendo per una missione in Corsica. Durante il viaggio, nel 1870, matura il proposito di farsi apostolo di una radicale riforma religiosa, che si richiami agli aspetti primitivi del Cristianesimo, quale il culto mariano e la semplificazione dei rituali della fede, come l’abolizione del latino nelle funzioni religiose «perché incomprensibile alle masse dei fedeli» (D’Este).
Tornando in continente nel 1871, sbarcò a Napoli; dove chiese udienza presso il cardinale arcivescovo Sisto Riario Sforza per metterlo a parte delle sue idee di religiosità senza preti né frati; con l’effetto che possiamo immaginare. Altre visite egli fece presso la cattedrale di San Giustino a Chieti, e perfino alla basilica di San Pietro a Roma.
Ormai sempre più spesso in preda a raptus di grandezza durante i quali si dichiarava Apostolo d’Italia, d’Europa o Novello Messia, la tranquilla Cappelle gli stava stretta.
Egli «peregrinava per le campagne vestito d’una tunica rossa e d’un manto azzurro, con i capelli lunghi su le spalle e con la barba alla nazarena» (Trionfo cit., p. 841), impugnando una mazza di ferro dal grosso pomo (D’Este), in modo simile alle compagnie di pellegrini dirette verso il santuario della Madonna di Casalbordino, «addossati gli uni agli altri per modo che dal folto non emergevano se non le alte mazze in forma di croci» (Trionfo cit., p. 844).
In questo modo riuscì ad attirare degli adepti tra le classi più umili, come i contadini: «questa è una contrada trista – ripeteva Candia scotendo il capo. – Ma deve venire il Messia di Cappelle a purgare la terra…» (Trionfo cit., p. 839); insieme agli artigiani, ai braccianti e alle donne del popolo, nel circondario di Cappelle ma anche fuori regione. Il proselitismo poteva portare alla nomina, seduta stante, nelle processioni e durante le “messe”, di “apostoli”: «uomini che avevano abbandonato la vanga e l’aratro per dedicarsi al trionfo della nuova fede» (Trionfo cit., p. 841); di «novelle reginelle della Chiesa» (D’Este): «Anche le donne ricevevano il segno. Una donna […] per dimostrare al Messia l’ardenza della sua fede, aveva voluto rinnovellare il sacrificio di Abramo appiccando il fuoco a un pagliericcio su cui giacevano i figliuoli» (Trionfo cit., pp. 841-42).
Fino a tutto l’Ottocento «soltanto nelle chiese si poteva soddisfare la disposizione allo spettacolo che l’uomo ha innata» (Flaiano). E anche il Messia di Cappelle non fece mancare agli adepti una nuova liturgia con confessione pubblica prima della messa e il Credo recitato in italiano. «Sempre, all’alba, comparendo egli su la porta della casa dove aveva albergato, vedeva una gran turba in ginocchio aspettante»; «Le moltitudini traevano [scil. accorrevano] sul suo passaggio dai più lontani luoghi della marina e della montagna» (Trionfo cit., p. 842) per avere un consulto.

Rivalsa sociale

Il carisma che il Messia di Cappelle sprigionava destò preoccupazione nei rappresentanti dell’ordine costituito, non solo quello religioso, a causa delle aspettative di giustizia coltivate e fomentate nel popolo dei diseredati. «Arevà Criste pe’ lu munne» esclama il vecchio contadino Cola «con una voce calda d'intima fede» (Trionfo cit., p. 842). Ovviamente non mancarono episodi di scetticismo e diffidenza verso il suo verbo, come quella volta che a Spoltore fu preso a sassate dai paesani. Il declino della parabola del messia Oreste inizia nel 1877, quando viene arrestato a Tocco Casauria dai «gendarmi e condotto nelle carceri di San Valentino con alcuni suoi seguaci» (Trionfo cit., p. 957), dopo aver tenuto una predica, per evitare che «dal continuo affluire di persone in detto luogo, potessero nascere spiacevoli inconvenienti e suscitare un fanatismo religioso sulla classe proletaria» (si legge nel verbale). E il solito Cola commenta: «Anche Nostro Signore Gesù Cristo patì l'odio dei Farisei. - Era venuto Uno nelle campagne a portare la pace e l'abondanza; ed ecco, l'hanno carcerato!» (ibid.).
Questa condizione di eccentrico, di uno “spostato” – come ce ne sono sempre stati nei villaggi e nei paesi –, diventa un'opportunità per Oreste De Amicis di uscire dall’anonimato della storia, intercettando – forse senza neanche volerlo – alcuni fermenti di natura più sociale che religiosa tra gli strati umili della popolazione. Attraverso un accenno di proselitismo gli riuscì di gettare luce sulle condizioni materiali di vita dei più umili, in una prospettiva almeno di denuncia o di emersione di certe realtà, se non di lotta vera e propria. D’altronde già De Nino parlò di «natura epica del racconto» delle vicende di De Amicis. Non dimentichiamo che alla fine di quello scorcio di secolo che vide don Oreste autoproclamarsi “messia” ci fu la strage del generale Bava Beccaris per reprimere i moti del 1898 a Milano.

Bibliografia

  • Associazione culturale Flaiano, Il Messia d’Abruzzo. Atti del Convegno, Pescara, 4 maggio 1985; in appendice: Il messia dell’Abruzzo di Antonio De Nino, [Tipolit. G. Fabiani], Pescara 1986. [Introduce e coordina Raffaele Colapietra] (infra come Atti 1986).
  • Ivanos Ciani, "Il Messia dell'Abruzzo" di A. De Nino nel "Trionfo della morte" di G. d'Annunzio, in Atti 1986, pp. 27-38.
  • Gabriele D’Annunzio, Trionfo della morte (1894), in Id., Prose di romanzi, vol. I, a cura di Annamaria Andreoli, Mondadori, Milano 1988, pp. 637-1019.
  • Antonio De Nino, Il Messia dell’Abruzzo: saggio biografico-critico, Lanciano, R. Carabba editore, 1890 (ora online su Gallica); poi rist. in Id., Tradizioni popolari abruzzesi, vol. II, Japadre, L’Aquila 1972; e in appendice agli Atti 1986 (supra).
  • Stefano De Sanctis, Il Novello Messia d’Abruzzo, Presentazione di Eide Spedicato Iengo, Tabula Fati, Chieti s.a.
  • Carlo Maria D’Este, “Abruzzesi illustri”, Oreste De Amicis (1824-1889), religioso, online su CRBC - Centro Regionale Beni Culturali, 27 genn. 2016.
  • Alea di Artemisia, rec. a “Il Messia” di Ennio Flaiano, 22 febb. 2014, online su "Il Pickwick.it: culture, critica e narrazioni".
  • Remo Di Leonardo, Il messia dell’Abruzzo, s.n., 2011.
  • Alfonso M. Di Nola, Il Messia d'Abruzzo: un episodio all'interno dei conflitti ideologici e cristiani del secolo XIX, in Atti 1986, pp. 21-25.
  • Nicola Angelo Falcone, Un caso di epidemia mistica in Abruzzo, Nasuti, Lanciano 1910.
  • Ennio Flaiano, Don Oreste ovvero la vocazione eccessiva, in Id., Autobiografia del blu di Prussia, Rizzoli, Milano 1974; poi Adelphi, Milano 2003.
  • Ennio Flaiano, Il Messia, a cura di Emma Giammattei, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1982.
  • Luigi e Alessandra Gasparroni, David Lazzaretti, il profeta del Monte Labbro; Oreste De Amicis, il messia dell’Abruzzo: due vite parallele, sta: In Maremma: atti del 47. congresso A.M.S.I. (Associazione medici scrittori italiani), Grosseto 20-24 maggio 1998, (Palestrina, Industria tipografica laziale), suppl. a "La serpe", n. 4, 1998.
  • Emma Giammattei, Flaiano, il 'popolare' e l'esotico, in Atti 1986, pp. 39-46.
  • Ottaviano Giannangeli, Il popolo riconosce i suoi profeti, in Atti 1986, pp. 47-48.
  • Mario Quinto Lupinetti, De Amicis Oreste, in Gente d’Abruzzo. Dizionario Biografico, vol. III, Andromeda, Castelli 2006.
  • Mario Quinto Lupinetti, I processi penali contro Oreste De Amicis il “Messia d’Abruzzo”, L’Aquila, "Bollettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria", 101, 2010, pp. 295-328.
  • Umberto Russo, Il "Messia dell'Abruzzo" nella realtà storica, in Atti 1986, pp. 9-17.
  • A. Santoro, Messia e popolo. Un caso di millenarismo nell'Abruzzo postunitario: Oreste De Amicis, tesi di laurea, Università di Chieti, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1979-80 [in appendice sono riprodotti vari documenti tratti dagli Archivi di Stato di Pescara e di Teramo].
  • Alberto Scarselli, Tipi dell'Ottocento: messia o avventuriero in veste talare, Tip. Il Progresso, Teramo 1949.

Article written by Rossano De Laurentiis

Da: Ereticopedia.it 
       Academia.edu

28 ottobre 2020

Antonio De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol.5. Malattie e rimedi, vol.6. Giuochi fanciulleschi.

Antonio De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol.5. Malattie e rimedi.


Antonio De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol.3. Fiabe, vol 4. Sacre leggende.








Antonio De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol.2.


Antonio De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol.2.
Da: Archive.org


Antonio De Nino, Usi abruzzesi, vol.1.


Antonio De Nino, Usi abruzzesi, vol.1.
Da: Archive.org


17 giugno 2020

Antonio De Nino, vita e opere di un folklorista abruzzese: "Usi e costumi abruzzesi".

 

Il dialetto abruzzese.







Il dialetto abruzzese.


Documentari di Angelo Iocco sul DIALETTO ABRUZZESE, storia, fonetica, morfologia, sintassi, esempi con lettura di brani di poeti d'Abruzzo.
Con l'espressione dialetti d'Abruzzo si definiscono le varietà linguistiche romanze parlate nella regione italiana dell'Abruzzo (con dialetto si intende, a seconda dell'uso, una lingua contrapposta a quella nazionale o una varietà di una lingua). Tale territorio non si presenta unitario dal punto di vista linguistico, in quanto dette varietà appartengono a due gruppi diversi delle lingue italoromanze:

il dialetto sabino, che appartiene al continuum dei dialetti italiani mediani o italiano centrale il gruppo abruzzese dei dialetti italiani meridionali identificati anche come lingua napoletana o napoletano-calabrese. 

Distribuzione geografica 
L'isoglossa fondamentale (indebolimento delle vocali atone) che serve, secondo la più parte degli autori a distinguere i dialetti italiani meridionali da quelli mediani attraversa l'Abruzzo, partendo da Campotosto, toccando le frazioni dell'estrema periferia della città dell'Aquila, cioè Assergi (già ascrivibile però al dominio abruzzese), Camarda, Paganica e Pianola, per poi scendere più a sud ed attraversare alcune frazioni di Avezzano, cioè San Pelino, Antrosano e Cese, fino a giungere intorno a Canistro al confine con l'area laziale centro-settentrionale. 

Raggruppamenti delle lingue e dei dialetti d'Italia.
Come detto, i dialetti d'Abruzzo possono essere suddivisi in due gruppi, a loro volta articolati in otto aree complessive. 

Gruppo sabino 
Copre l'area sud-occidentale della regione e sconfina in Lazio, articolandosi nelle seguenti zone: 
aquilano-reatina, nell'antico contado amiternino, cioè a nord e ad ovest della città dell'Aquila, essa inclusa, salvo la frazione di Assergi, che però linguisticamente parte da Accumoli, nel reatino, comprende la valle del Velino, con i centri di Amatrice, Antrodoco, Cittaducale, fino ad inoltrarsi, con alcune variazioni, in tutta la provincia di Rieti ed in minima parte di quella di Terni; carseolana, attorno a Carsoli fra la Marsica e la valle dell'Aniene (Lazio); tagliacozzana, limitato a Tagliacozzo e alle località del suo circondario (Castellafiume, Scurcola Marsicana), ed esteso fino alle frazioni periferiche di Avezzano (San Pelino, Antrosano e Cese). Il confine dialettale passa all'interno del comune di Rocca di Mezzo) e il secondo, ad est della città dell'Aquila, a partire dalla frazione di Assergi, e a Bagno (antico contado forconese). Tratto qualificante di questo gruppo dialettale è la conservazione delle vocali finali atone. In particolare nel dominio reatino-aquilano, area tradizionalmente conservativa, viene tuttora mantenuta la distinzione fra -o ed -u finali, a seconda dell'originaria matrice latina: ad esempio all'Aquila si ha cavaju per "cavallo" (latino volgare *CABALLU(M)), ma scrio per "io scrivo" (lat. volg. *SCRĪBŌ). Ad occidente del suddetto dominio si estendono le parlate dei Piani Palentini, con centri di irradiazione quali Carsoli e Tagliacozzo, la cui punta più a sud, a contatto con l'area abruzzese della Marsica, è San Pelino, frazione di Avezzano: a ridosso dell'area laziale, queste parlate sono caratterizzate dalla confluenza delle vocali originali latine -u ed -o nell'unico esito -o (cavajo, fijo), ma come il sabino possiedono il medesimo sistema vocalico, fonetico e morfologico. Questi dialetti appartengono al continuum linguistico mediano assieme ai confinanti dialetti dell'Umbria e del Lazio, privo di confini interni apprezzabili. 

Gruppo abruzzese 
Il gruppo italiano meridionale è diffuso nelle aree: abruzzese adriatica, relativamente omogeneo fino alla dorsale appenninica, parlato nel grosso delle province di Teramo, Pescara e Chieti, che presenta le maggiori differenze nel campo della pronuncia vocalica, al punto che può essere ulteriormente suddiviso in: Teramano-Atriano (tra Rocca Santa Maria, Campli, Sant'Omero, Martinsicuro, Isola del Gran Sasso e Silvi).