Oreste De Amicis (Cappelle sul Tavo, 27 aprile 1824 – Cappelle sul Tavo, 20 settembre 1889), è stato un frate cappuccino, parroco e predicatore.
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Immaginario collettivo
Immortalato da D’Annunzio
nel Trionfo della morte (1894),
romanzo che narra in filigrana l’estate del 1889 trascorsa dal poeta con
l’amante Barbara Leoni sulla riviera adriatica tra l’eremo di San Vito Chietino
e il santuario di Casalbordino, Oreste da Cappelle proprio alla fine di
quell’estate dovette rendere l’anima al suo Dio. Il cosiddetto “Messia
d’Abruzzo” fu studiato dal demologo Antonio De Nino, di Sulmona, in una
biografia con un taglio socio-culturale uscita l’anno seguente (si veda qui
l'illustrazione della cop.). Avvertiva l’autore: «Quest’operetta non è già un
romanzo, come potrebbe far credere il titolo […] risulta di fatti documentati e
raccolti dalla viva voce di chi prese parte all’azione o ne fu testimonio» (p.
7), con qualche inevitabile concessione all’aneddotica.
È indubbio il fascino e la suggestione che Oreste De Amicis, «distinto forse da
caratteri più notevoli di quelli che Giacomo Barzellotti illustrò in Davide Lazzaretti» (Trionfo cit., nota
dannunziana ai libri IV e V, p. 1019), dovette esercitare sul Pescarese alla
ricerca di “documenti veramente umani” per caratterizzare le sue pagine
abruzzesi.
A un certo punto dell’esistenza di Oreste De Amicis si manifestarono delle
«compromesse condizioni mentali», tali da spingerlo in un paio di occasioni a
tentare il suicidio; e chissà che proprio per questi episodi biografici
D’Annunzio l’abbia usato come controfigura per gli istinti di morte di Giorgio
Aurispa, protagonista del romanzo ambientato negli stessi luoghi della
predicazione di De Amicis. Scrive De Nino, che pure era in contatto con
D’Annunzio e il cenacolo di Michetti: «lo studio dei fatti morbosi fa meglio
risaltare il meccanismo dei fatti normali».
Cenni biografici e cursus ecclesiastico
Oreste De Amicis nacque da
Agapito e Maria Raffaella De Philippis. La formazione scolastica di base gli
viene impartita in famiglia dallo zio materno, il parroco don Vincenzo.
Prosegue gli studi nel convento dei Minori osservanti di Rapino (Chieti),
ancora seguìto da uno zio, fra Tommaso da Tollo. Questi lo portò con sé negli
spostamenti presso i conventi di Francavilla e di Ripa Teatina. All’età di 17
anni, insomma, Oreste De Amicis era un predicatore bell’e pronto. Sulla
originaria vocazione al sacerdozio calò il velo di una «nuova leggenda come
s’era formata nella credenza delle popolazioni campestri» (Trionfo cit., p.
840), perché si disse che rifiutato come gendarme di cavalleria decidesse di
prendere i voti «ispirato da un’immagine della Madonna» (D’Este).
Divenne adepto dell’ordine cappuccino, prima a Ortona, poi a Sulmona come
novizio «col più stretto rigore» (De Nino). Nella valle peligna avvenne la
radicalizzazione in direzione del messianesimo; una svolta segnata
dall'incontro con un mistico esaltato di nome Simplicio Di Rienzo. Quest'ultimo
è ugualmente ricordato dall'Aurispa dannunziano, «nella cui memoria si
risvegliava il ricordo lontano e indistinto di quel Simplicio [in dial. Sembrì] sulmonese che
cadeva in estasi affisando il sole» (Trionfo cit.,
p. 840).
Oreste De Amicis, dopo aver pronunciato i voti col nome di fra Vincenzo da
Cappelle (1841), inizia a spostarsi tra la Marsica e il reatino. Trascorse tre
anni nel convento aquilano di San Giuseppe, dove coltivò idee liberali leggendo
Gioberti, Rosmini, Leopardi, Foscolo, Rossetti e avvicinandosi a riformisti
locali come Luigi Dragonetti (1791-1871).
Nel 1850 da frate cappuccino si fa prete. Don Oreste torna nel paese d’origine
per coadiuvare il parroco titolare, di cui prende il posto a partire dal 1856.
Furono anni di intensa attività, trascorsi in «edificanti attività
parrocchiali, prodigandosi nell’assistenza ai poveri, nell’insegnamento ai
fanciulli e nell’animazione delle cerimonie religiose» (D’Este). De Amicis,
favorevole all’Unità d’Italia, riuscì ad incontrare il re Vittorio Emanuele II,
di passaggio a Silvi, per sottoporgli una supplica di sussidio monetario per la
parrocchia.
Il definitivo ritiro a Cappelle ci mostra un De Amicis ormai contrito per gli
anni vissuti in un'animosa predicazione: «Un simulatore astuto e cupido che
tentava di trarre a suo profitto la credulità dei divoti?» (Trionfo cit., p.
848); ridotto a vivere di elemosine; e a implorare il sindaco perché gli fosse
riservato un posto al manicomio di Teramo. Altri episodi bizzarri e pietosi,
come la richiesta di un esorcista, caratterizzano gli ultimi anni di vita del
predicatore, finché non si spense all’età di 65 anni «dopo aver fatto bruciare
tutti i suoi scritti» (D’Este).
L’eterodossia
Nel servizio per la casa
parrocchiale a Cappelle (allora sotto la diocesi di Penne) don Oreste comincia
a manifestare le prime manie ascetiche, anche stravaganti, che lo spinsero a
ricavare un ‘antro’, con tanto di giaciglio e nicchie votive: «in compagnia di
scheletri, portando il cilicio, percotendosi giorno e notte con la disciplina
[scil. mazzo di funicelle o di fili metallici]» (Trionfo cit., p. 840). Situato tra gli
spazi contigui del cimitero e di una chiesa del paese, il posto venne chiamato
“La Camaldola” e divenne il luogo di autoreclusione di De Amicis per sei-sette
anni.
La carica visionaria e monomaniacale lo portava a dichiararsi ispirato da Gesù
Cristo, visto in persona; a suggerire nuove pratiche devozionali: «Nei brevi [scil.
letterina ripiegata da portare al collo per devozione] o scapolari di sua
invenzione soleva scrivere parole ebraiche, e metteva anche copia di un novello
vangelo che uno Spirito gli aveva dettato in latino» (De Nino, p. 71).
Poi fu la volta di un peregrinaggio nell’Alta
Italia, con visite nei santuari più famosi e incontri con personaggi della
società civile. La capitale Torino fu la base di questi spostamenti, tra i
quali un viaggio in Svizzera. Al secondo ritorno a Cappelle, 1866, si ritrovò
estromesso dalla parrocchia per iniziativa dell’amministrazione comunale. Era
un assaggio delle ‘scomuniche’ dell’autorità ecclesiastica che lo avrebbero
costretto a continui trasferimenti, «sbattuto come l’acqua del mare» (secondo
le sue parole riportate da De Nino, p. 17). Reagì a questa decisione come un
martire, «cingendosi il capo con una corona di spine» (D’Este) e con invettive
rivolte al municipio, fino ad essere trascinato in giudizio e condannato
nell’agosto di quell'anno dal pretore di Città Sant’Angelo a tre mesi di
carcere, poi ridotti a una multa.
Decide così di riprendere l’attività di predicazione, partendo per una missione
in Corsica. Durante il viaggio, nel 1870, matura il proposito di farsi apostolo
di una radicale riforma religiosa, che si richiami agli aspetti primitivi del
Cristianesimo, quale il culto mariano e la semplificazione dei rituali della
fede, come l’abolizione del latino nelle funzioni religiose «perché
incomprensibile alle masse dei fedeli» (D’Este).
Tornando in continente nel 1871, sbarcò a Napoli; dove chiese udienza presso il
cardinale arcivescovo Sisto Riario Sforza per metterlo a parte delle sue idee
di religiosità senza preti né frati; con l’effetto che possiamo immaginare.
Altre visite egli fece presso la cattedrale di San Giustino a Chieti, e perfino
alla basilica di San Pietro a Roma.
Ormai sempre più spesso in preda a raptus di grandezza durante i quali si
dichiarava Apostolo d’Italia, d’Europa o Novello Messia, la tranquilla Cappelle
gli stava stretta.
Egli «peregrinava per le campagne vestito d’una tunica rossa e d’un manto
azzurro, con i capelli lunghi su le spalle e con la barba alla nazarena» (Trionfo cit., p.
841), impugnando una mazza di ferro dal grosso pomo (D’Este), in modo simile
alle compagnie di pellegrini dirette verso il santuario della Madonna di
Casalbordino, «addossati gli uni agli altri per modo che dal folto non
emergevano se non le alte mazze in forma di croci» (Trionfo cit., p. 844).
In questo modo riuscì ad attirare degli adepti tra le classi più umili, come i
contadini: «questa è una contrada trista – ripeteva Candia scotendo il capo. –
Ma deve venire il Messia di Cappelle a purgare la terra…» (Trionfo cit., p. 839);
insieme agli artigiani, ai braccianti e alle donne del popolo, nel circondario
di Cappelle ma anche fuori regione. Il proselitismo poteva portare alla nomina,
seduta stante, nelle processioni e durante le “messe”, di “apostoli”: «uomini
che avevano abbandonato la vanga e l’aratro per dedicarsi al trionfo della
nuova fede» (Trionfo cit.,
p. 841); di «novelle reginelle della Chiesa» (D’Este): «Anche le donne
ricevevano il segno. Una donna […] per dimostrare al Messia l’ardenza della sua
fede, aveva voluto rinnovellare il sacrificio di Abramo appiccando il fuoco a
un pagliericcio su cui giacevano i figliuoli» (Trionfo cit., pp. 841-42).
Fino a tutto l’Ottocento «soltanto nelle chiese si poteva soddisfare la
disposizione allo spettacolo che l’uomo ha innata» (Flaiano). E anche il Messia
di Cappelle non fece mancare agli adepti una nuova liturgia con confessione
pubblica prima della messa e il Credo recitato
in italiano. «Sempre, all’alba, comparendo egli su la porta della casa dove
aveva albergato, vedeva una gran turba in ginocchio aspettante»; «Le
moltitudini traevano [scil. accorrevano] sul suo passaggio dai più lontani
luoghi della marina e della montagna» (Trionfo cit.,
p. 842) per avere un consulto.
Rivalsa sociale
Il carisma che il Messia di
Cappelle sprigionava destò preoccupazione nei rappresentanti dell’ordine
costituito, non solo quello religioso, a causa delle aspettative di giustizia
coltivate e fomentate nel popolo dei diseredati. «Arevà Criste pe’ lu munne» esclama il vecchio
contadino Cola «con una voce calda d'intima fede» (Trionfo cit., p. 842). Ovviamente non
mancarono episodi di scetticismo e diffidenza verso il suo verbo, come quella
volta che a Spoltore fu preso a sassate dai paesani. Il declino della parabola
del messia Oreste inizia nel 1877, quando viene arrestato a Tocco Casauria dai
«gendarmi e condotto nelle carceri di San Valentino con alcuni suoi seguaci» (Trionfo cit., p.
957), dopo aver tenuto una predica, per evitare che «dal continuo affluire di
persone in detto luogo, potessero nascere
spiacevoli inconvenienti e suscitare un fanatismo religioso sulla classe
proletaria» (si legge nel verbale). E il solito Cola commenta: «Anche Nostro
Signore Gesù Cristo patì l'odio dei Farisei. - Era venuto Uno nelle campagne a
portare la pace e l'abondanza; ed ecco, l'hanno carcerato!» (ibid.).
Questa condizione di eccentrico, di uno “spostato” – come ce ne sono sempre
stati nei villaggi e nei paesi –, diventa un'opportunità per Oreste De Amicis
di uscire dall’anonimato della storia, intercettando – forse senza neanche
volerlo – alcuni fermenti di natura più sociale che religiosa tra gli strati
umili della popolazione. Attraverso un accenno di proselitismo gli riuscì di
gettare luce sulle condizioni materiali di vita dei più umili, in una prospettiva
almeno di denuncia o di emersione di certe realtà, se non di lotta vera e
propria. D’altronde già De Nino parlò di «natura epica del racconto» delle
vicende di De Amicis. Non dimentichiamo che alla fine di quello scorcio di
secolo che vide don Oreste autoproclamarsi “messia” ci fu la strage del
generale Bava Beccaris per reprimere i moti del 1898 a Milano.
Bibliografia
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Lettere e Filosofia, a.a. 1979-80 [in appendice sono riprodotti vari
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- Alberto
Scarselli, Tipi
dell'Ottocento: messia o avventuriero in veste talare, Tip. Il
Progresso, Teramo 1949.
Da: Ereticopedia.it
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