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6 gennaio 2023

Federico Caffè, maestro di economia e di vita.

Federico Caffè, maestro di economia e di vita

di Elisabetta Mancinelli

Nella pagina dedicata ai personaggi illustri della città ci occuperemo questa volta di Federico Caffè grande maestro di economia e di vita, uomo di cultura ed intellettuale di grande spessore morale che ha posto sempre alla base del suo pensiero il disprezzo per lo sfruttamento degli emarginati e delle categorie più deboli. La sua visione economica non era infatti di tipo elitario ma attenta alle vicende della gente comune che produce e risparmia, alle fasce più deboli della società. Ma Caffè va ricordato soprattutto per aver lasciato ai giovani, fra i tanti insegnamenti, quello che la ricerca della conoscenza deve essere svincolata da ogni interesse di parte.

BIOGRAFIA
Federico Caffè nacque a Pescara il 6 gennaio 1914. Sulla sua data di nascita una volta scherzò sopra dicendo: la Befana mi ha lasciato in una calza, ma era piccola, piccola. Il professore fisicamente non era un gigante: arrivava a malapena al metro e mezzo.
Ma non ha mai dato segni di soffrire per la sua altezza. Anzi, a volte ci scherzava: al bar quando gli offrivamo un caffe', specificava "corto" o "ristretto".
Il padre uomo pratico, privo di titoli di studio, faceva l’assistente capo-merci delle Ferrovie dello Stato e fu il primo Caffè a pagare in maniera pesante le sfortune economiche che si erano abbattute una generazione prima su quella che era stata una famiglia di un certo rango. Suo padre, il nonno Federico, aveva posseduto una villa settecentesca nella parte storica di Pescara e una dimora signorile estiva in collina. Suo nonno si vantava della propria origine, anche se ormai aveva perduto tutto ed era sommerso dai debiti accumulati oltre che da lui stesso anche dai suoi avi. Avrebbe voluto fare il medico ma, dopo la licenza liceale fu costretto ad impiegarsi nelle Ferrovie dello Stato nelle quali farà poi entrare anche il figlio, il padre di Federico.
Il crollo era sopravvenuto per cattiva amministrazione: avevano preteso troppo dalle proprie rendite vivendo di padre in figlio soltanto di esse. Dalla ricchezza all’indigenza, i remoti splendori furono sempre soprattutto motivo di sorriso, tanto non restava più niente se non la casa in collina che il nonno era riuscito a proteggere dai creditori. Una Costanzella Caffè viene così ricordata in una delle “Novelle della Pescara” di Gabriele D’annunzio: La contessa di Amalfi: “ Costanzella Caffè la più agile e la più infaticabile fra le danzatrici e la più bionda, volava da un’estremità all’altra in un baleno…” Costanzella era una zia del bisnonno di Federico.
In casa nessuno lo chiamava Federico, sino alla fine lo chiameranno Vinicio, come a rimarcare una volta di più la differenza tra il Caffè professore e uomo pubblico e il Caffè delle mura domestiche.
Lo chiamavano Vinicio perché il nonno paterno Federico, quando lui nacque, pur mostrandosi soddisfatto che gli avessero dato il suo nome, disse in maniera secca che non era affatto morto, allora la madre, per rispetto verso il suocero, cominciò a chiamarlo con il suo secondo nome, perché di Federico doveva essercene uno solo.

La madre, donna creativa ed estrosa “quasi geniale” secondo il figlio, arrotondava le entrate ricamando, anzi dirigendo un vero e proprio laboratorio di ricamo nel quale lavoravano parecchie ragazze. Per la madre Caffè nutrirà un’autentica venerazione, così come lei ne nutrirà per questo figlio insopportabilmente piccolo, ma indubbiamente geniale, una sorta di orgogliosa predilezione, convinta di essere stata risarcita dalla vita attraverso di lui, di quello insoddisfatto bisogno di cultura che si portava dentro da sempre. Ma, comunque se la cavassero economicamente, le porte della casa si spalancarono subito all’arrivo di una ragazzina raccomandata dal parroco, Giulia che diverrà l’angelo custode della famiglia. Crebbe Mariannina la primogenita, Vinicio e Alfonso l’ultimogenito. Fu una seconda madre più che una “tata”, che morirà vecchissima assistita con grande amore e pazienza da Federico.
Sin dalla prima giovinezza Vinicio mostrò una natura orgogliosa e severa; a dieci anni la madre già gli affidava missioni da adulto: un giorno lo mandò a trattare la locazione di un appartamento: “Vedrai che te la caverai benissimo” gli disse dopo avergli dato le necessarie istruzioni. Il piccolo spiegò infatti alla proprietaria: i limiti insuperabili dell’eventuale affitto, la composizione della propria famiglia, le reciproche convenienze a stipulare quel contratto. La locatrice ne rimase talmente incantata da accettare in blocco tutte le sue condizioni.
Avrebbe voluto suonare il violino e fu lui stesso, ancora molto piccolo, a chiedere alla madre di ricevere lezioni private che gli consentissero di imparare il suo strumento preferito. Se ne era innamorato frequentando la sala cinematografica dello zio Antonio Di Silvestro che in Italia è stato uno dei pionieri dei fratelli Lumière. Mariannina a proposito di quel periodo ricorda che lei e Vinicio erano stregati dal cinema e dalla sala che riempiva la vita di entrambi ma soprattutto di Vinicio che dedicò parecchio tempo all’Excelsior staccando i biglietti al botteghino e tenendo a sera la contabilità. Frequentava regolarmente la sala Michetti: minuto di statura col pizzetto accompagnato da Annunziata sua moglie donna altissima.
Ogni volta che poteva il ragazzo vi si recava per i film certo, ma anche per ascoltare l’anziano violinista che sembrava facesse volare l’archetto sulle corde del suo strumento. Era capace di starlo a guardare con ammirazione per ore, tanto che un giorno il musicista gli chiese, se gli piaceva così tanto il violino, perché non lo diceva a sua madre, anzi che l’indomani sarebbe andato lui a chiederglielo. Così fece.
Il giovane Vinicio, dopo un paio d’anni di studio, però fu costretto a smettere in quanto la madre, preoccupata per la sua gracilità, si era rivolta ad un medico che le aveva suggerito di non sovraccaricare il figlio. Fu il padre a comunicargli la sentenza dicendogli che la vita non era un gioco e che gli studi di ragioneria gli avrebbero permesso sbocchi professionali futuri e soprattutto un reddito.
Pescara allora si poteva racchiudere in un guscio di noce: compatta, visibile in ogni sua parte col porto dei pescherecci, i villini distanziati sul lungomare, la linea curva del Bagno borbonico. Dalle finestre della casa della nonna materna, che abitava a Colle di Mezzo, Vinicio (lo ha raccontato lui stesso a Nadia Tarantini, autrice di un suo ritratto) girando lo sguardo "poteva godersi tutta la cornice di mezza costa da Colle Telegrafo a Colle Innamorati".
Dopo le elementari Mariannina e Vinicio furono iscritti all’Istituto Tecnico “Tito Acerbo”; una necessità dato che, a quei tempi a Pescara non esisteva altro tipo di scuola, il Liceo sarà istituito soltanto nel 1930. Caffè divenne dunque economista suo malgrado, visto che prima la musica e poi gli studi umanistici, che avrebbe preferito, gli furono interdetti.
Ma al “Tito Acerbo” in quegli anni non si studiava soltanto ragioneria: si respirava un’atmosfera culturale diversa grazie al preside il prof. fiorentino Ugo Fazzini che incitava alla lettura e organizzava concerti di musica classica nell’aula magna che erano di stimolo per studenti e genitori.
A scuola la sua intelligenza e preparazione gli valsero ben presto una rispettosa popolarità: i compagni non facevano niente che lui non volesse. Quando Vinicio sostenne la prova di maturità il commissario d’esame, arrivato a Pescara da un’altra città, rimase fortemente impressionato dalla sua maturità e preparazione. Gli chiese allora quale Università avesse deciso di frequentare ma lui rispose “Non credo che andrò all’Università: ho bisogno di lavorare.” Il commissario incredulo si presentò di persona alla Stazione di Pescara per parlare con papà Caffè: caschi il mondo il suo ragazzo deve continuare a studiare. La questione fu risolta la sera stessa da sua madre che confessò di essere già in trattativa per la vendita di un piccolo terreno che aveva conservato proprio a questo scopo.
E Federico partì per Roma giurando in cuor suo di riacquistare la proprietà al più presto il che (testimonia Giovanna la nipote figlia di Mariannina) avvenne pochi anni dopo. Si laureò nel 1936 con lode in Scienze Economiche e Commerciali e dal 1939 fu assistente volontario alla cattedra di politica economica e finanziaria. Dopo un periodo di servizio militare nel 1945 fu consulente del Ministro della Ricostruzione M. Ruini durante il governo Parri. Nell’anno 1946-1947 vinse una borsa di studio presso la London School of Economics. Tornato in Italia, ebbe incarichi in varie università: Bologna, Messina e Roma. Visse solo pur compiendo frequenti viaggi e lunghi soggiorni a Pescara fino al 1959 quando diventò professore ordinario di Politica economica. Prese allora in casa la “tata” Giulia, la madre rimasta vedova e Piero, figlio di Mariannina, che aveva gravi problemi di salute. Si era infatti ammalato per ragioni oscure forse per un danno avvenuto alla nascita prodotto dal forcipe. Morirà all’età di tredici anni. Il ragazzo rimase a casa dello zio pochi anni durante i quali lui fece tutto quello che era umanamente possibile per alleviare le sue sofferenze con grande cura e dedizione.
Racconta Giovanna la nipote, che era un uomo dolcissimo e che la sua brillante conversazione riempiva di allegria e intelligenza le loro domeniche e i giorni festivi quando venivano da Pescara gli zii. Ricorda anche la dedizione all'insegnamento, alla ricerca e ai giovani, ai poveri e agli emarginati, ma e soprattutto la sua umanità, dalla quale discendevano gli altri aspetti del suo carattere e la sua condotta, sia nel suo luogo di lavoro, l'università, che nella società. Era questa umanità coerente che lo portava ad interpretare la professione di pubblico impiegato nel modo più pieno e attivo, con orari che egli definiva "da metalmeccanico".
Occupò la cattedra di Politica economica e finanziaria dell'Università “La Sapienza di Roma, dove rimase fino al compimento dei 73 anni.

LA POLITICA ECONOMICA
Caffe', a volte definito "riformista radicale", era di formazione keynesiana e fece sempre una coerente opposizione all'ondata liberista e monetarista che dominava la scena all'inizio degli anni '90. La sua concezione economica è in netto contrasto con la cosiddetta "cultura dell'imprenditoria" thatcheriana e reaganiana degli anni '80. Sostenitore della centralità dello Stato Sociale, quindi convinto che le sue disfunzioni dipendano solo dal malcostume del clientelismo, riteneva che l'economia ha il dovere di risolvere le condizioni di vita dei più deboli favorendo l'assottigliamento delle disuguaglianze.
Caffe' era un liberale ma riteneva che il partito liberale avrebbe potuto essere lo strumento migliore di progresso solo con una guida forte e il programma giusto.
Era un liberale aristocratico e progressista come il Keynes di cui colse gli elementi di novità. Di lui amava ricordare che: “presto o tardi sono le idee e non gli interessi costituiti che sono pericolose sia in bene che in male
Ma fu un liberale che scriveva soltanto su un quotidiano comunista. Una spiegazione probabile è che Caffe' vedeva nel "Manifesto" l'unico giornale, il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto, e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero e soprattutto per mantenere una assoluta indipendenza di giudizio. Egli era contro il mercato fine a se stesso, contro la dottrina che affida alla cosiddetta “mano invisibile” il governo del mondo. Ma la sua battaglia più dura fu contro il mercato finanziario.
E’ memorabile la sua definizione della “borsa” che egli considera “un gioco spregiudicato che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori...”. Ma egli fu anche un uomo delle grandi istituzioni dello Stato alla cui funzioni credette fermamente, è noto a questo proposito il suo legame con la Banca d’Italia. Significativo il ricordo di Carlo Azeglio Ciampi : “… nella relazione annuale ..era sempre presente, seduto in silenzio, Federico Caffè. I suoi interventi erano i più misurati… la sua presenza era utilissima, perché spesso gli animi si scaldavano e quando c’erano contrasti o critiche, contraddizioni molto forti, Caffè, con la sua matitina, vergava sul margine delle bozze la soluzione che accontentava tutti. Era un forte elemento di moderazione anche linguistica, proprio lui che veniva considerato di sinistra…”.

FEDERICO CAFFE’ E IL MISTERO DELLA SUA SCOMPARSA
La notte tra il 14 aprile e il 15 aprile 1987 Federico Caffè uscì in punta di piedi dalla sua casa romana di via Cadiolo, 42, a Monte Mario e fece perdere ogni traccia. Aveva 73 anni. Il giallo della sua scomparsa iniziò a un'ora imprecisata ma avvenne all'insegna dell'ordine e della disciplina che aveva caratterizzato tutta la sua vita: indossò pantaloni grigi, giacca scura e leggero soprabito blu, tipico di certe nottate primaverili romane; sul tavolo lasciò in bella vista orologio, passaporto, libretto degli assegni, portafoglio, chiavi di casa , quasi avesse voluto operare una cesura con la sua identità precedente di studioso e di uomo.
Si chiuse alle spalle la porta di quella stanzetta ammobiliata dell'indispensabile, senza neppure quadri alle pareti, al di fuori della riproduzione di un crocefisso di Giotto. E scivolò all'esterno come un'ombra, senza che nessuno lo notasse. C'erano i netturbini ad affaccendarsi per le strade, una nuova alba si preparava a sorgere su Roma. Solo intorno alle sette il fratello Alfonso notò il letto vuoto, mai pensando che da quel 15 aprile lo sarebbe rimasto per sempre.
Amici e conoscenti li chiamavano "i due Caffè" con l'affetto e la simpatia che si può avere per due fratelli che sin da giovani avevano deciso di non sposarsi, vivendo sotto lo stesso tetto e dividendo per decenni, abitudini, discussioni, progetti. La sorella che viveva a Pescara e i loro nipoti più volte avevano insistito affinché si trasferissero sull'Adriatico o quantomeno andassero a trascorrere molti dei loro mesi al mare. D'altronde Federico Caffè non aveva più i suoi impegni fissi all'Università. E anche Alfonso aveva lasciato l'Istituto "Massimo" dei Gesuiti dov'era stato professore di lettere. Ma i due non riuscivano a immaginarsi lontani da Roma. Ed erano rimasti nella capitale nonostante continuassero a fare una vita molto appartata. Insieme avevano visto morire l'ormai anzianissima madre. Insieme avevano accompagnato all'ultima dimora anche la tenera “tata” Giulia. Logico pensare che "i due Caffè", persone distinte e perbene, si sarebbero fatti compagnia sino alla fine dei loro giorni. Invece, quel 15 aprile del 1987, ecco quel letto vuoto.
"Era lucidissimo, ma chiaramente in preda alla depressione", disse qualcuno. Per il Professore la lontananza dalle aule universitarie, la tanto sospirata pensione non era diventata "l'agognato riposo di una vita di lavoro" ma era vissuta quasi come un esilio.
Ad aggravare certi suoi stati d'animo la tragica perdita in un paio d'anni di tre discepoli: Ezio Tarantelli massacrato dalle Brigate Rosse, Fausto Vicarelli morto in un incidente stradale e Franco Franciosi in un lettino d'ospedale, ucciso dal cancro. Erano i tre discepoli che stravedevano per la sensibilità, la preparazione e la cultura del Professore.
E il Professore li ripagava con uguale stima e amore. Ma il sentirsi sempre più solo, con quel suo unico fratello che adorava e da cui era adorato, poteva valere quella scomparsa all'improvviso? Chi però avrebbe potuto dirsi sicuro che la decisione fosse davvero maturata senza che nulla la preannunciasse? Quando, quattro giorni prima della sua scomparsa, il discorso era caduto sul suicidio dello scrittore Primo Levi (gettatosi si pensa dalla tromba delle scale) si racconta che Caffè se ne sarebbe uscito con questa frase: "Che gran brutta maniera di uccidersi. Che spettacolo straziante farsi trovare così dai parenti". Un indizio da far sospettare che anche l'economista pensasse al suicidio, ma in un modo meno clamoroso e meno pubblico. Comunque la sua silenziosa scomparsa e la mancanza del cadavere non poteva che alimentare ipotesi e congetture. Il "caso Caffè" entrava tra "i misteri d'Italia.
Bruno Amoroso, nel suo libro: “La stanza rossa” ripercorre l´avventura intellettuale ed esistenziale del suo maestro e ne rivela le tensioni profonde, gettando una luce inedita sulla sua scelta finale. Non è un caso che Caffè fosse rimasto colpito dalla fuga di Tolstoj. L’economista, che per tutto il libro racconta in prima persona, giudicava positivamente l'usanza degli indiani vecchi di andarsene a morire lontano dalla tribù o degli anziani eschimesi di allontanarsi verso nord scomparendo tra i ghiacci.
Il ritratto di Caffè che emerge dalle pagine di questo libro, dalle numerose lettere inedite del maestro all´allievo e amico, è quello di uno studioso attento alla vita quotidiana della gente, che preferiva fare in autobus il tragitto fra l'abitazione e l'università per poter osservare la varia umanità che l'autobus inglobava al suo interno. Sono davvero toccanti le pagine in cui Amoroso racconta la simpatia di Caffè ‹‹per quelle migliaia di persone di cui non si parla mai, delle quali si sa poco o nulla›› e che il grande economista osservava con occhio attento e con partecipe simpatia. L´autobus era per lui il punto d'osservazione per studiare il mutamento dell´Italia degli anni del boom economico. È sorprendente questo cattedratico che preferisce le escursioni domenicali nelle borgate romane agli incontri accademici e che è cosciente del “ghetto di privilegi” in cui vivono gli intellettuali.
Anche Ermanno Rea, napoletano giornalista che ebbe a vivere vent'anni fa la strage di piazza Fontana e la morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, con stile scrupoloso e paziente ha ricostruito l'ultimo periodo della vita di Caffè nel suo libro “L’ultima lezione” .
Non è una biografia ma la storia di un caso umano, di un grande economista diventato un "uomo guardingo", nel senso che si serviva della riservatezza, e della naturale timidezza, "come di uno schermo dietro il quale nascondersi". Quando fuggì, era anche "fisicamente debilitato", per cui non appariva in grado di affrontare lunghi percorsi; d'altronde nessun taxi andò a prelevarlo, nessun conducente di autobus lo ricorda.

Caffè si sentiva comunque un uomo solo: "Diceva: ecco, guarda come tutto finisce... Oppure: ma perché la sorte si è accanita contro di loro, così giovani, e non contro di me, così vecchio e malandato?"››. Il libro è scritto come un giallo: perché Caffè scomparve e che cosa accadde di lui? L'ipotesi del suicidio è stata tacitamente accettata dalla maggior parte delle persone che conoscevano l'economista, ma Rea prende anche in considerazione la possibilità che Caffè abbia scelto la segregazione tra le mura di un convento. Il sottosegretario della congregazione che si occupa degli istituti "di vita consacrata" da lui interpellato, ha spiegato, infatti, che la Chiesa è disponibile a dare protezione a chi desidera isolarsi dal mondo, entrando come laico in una comunità di monaci o di eremiti: "E’ certo che nessuno saprà più niente di lui".
La vicenda di Caffè è stata avvicinata a quella del fisico nucleare Ettore Maiorana anche lui misteriosamente scomparso (si imbarcò da Napoli la sera del 25 marzo 1938 e non arrivò mai a Palermo) e anche per lui si ipotizza che abbia scelto di rifugiarsi in un convento. Questo evento viene trattato da Sciascia nel suo libro: “La scomparsa di Ettore Majorana”. Caffè amava Sciascia e , fatto curioso, sembra che dalla libreria del professore mancasse proprio quel libro”.
La vicenda Di Federico Caffè e della sua misteriosa scomparsa è stata raccontata anche nel film di Francesco Rosi, “L’ultima lezione” liberamente tratto dal libro omonimo di Ermanno Rea.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
I documenti e le immagini sono tratti da “L’ultima lezione” di Ermanno Rea, “Federico Caffè” a cura di Nicola Mattoscio e Silvestro Profico, “La stanza rossa “ di Bruno Amoroso, “La scomparsa di Ettore Maiorana” di Leonardo Sciascia.

4 gennaio 2023

La Befana e la sua storia.


 LA BEFANA E LA SUA STORIA
di  Elisabetta Mancinelli 

L’EPIFANIA : ORIGINI
Il ciclo dei festeggiamenti legati al Natale non si conclude  con la fine dell'anno solare, ma il 6 gennaio, giorno dell'Epifania, che nella saggezza popolare "tutte le feste porta via".

La dodicesima notte dopo il Natale, ossia dopo il solstizio invernale, era ritenuta una notte speciale dedicata alla luna, di qui il termine “epifania” dal greco 
“Tà epiphaneia” cioè apparizione, rivelazione della divinità e “manifestazione” della luce lunare. A differenza del Natale che era una festa solare, l’Epifania si viene a connotare come una festa della luna, un astro, questo, intimamente connesso a Madre Natura ed al suo ciclo di rinnovamento. Anticamente, infatti, si celebrava la morte e la rinascita della natura, attraverso la figura pagana di Madre Natura. La notte del 6 gennaio, infatti, essa, stanca   per aver donato tutte le sue energie durante l'anno, appariva sotto forma di una vecchia  e  benevola strega, che volava per i cieli con una scopa. 
Oramai secca, Madre  Natura  era  pronta  ad essere bruciata come un ramo, per far sì che potesse rinascere dalle ceneri come giovinetta, una luna nuova.                           
Come  per le altre tradizioni italiane  che si svolgono in tutto l'arco dell'anno, molte nostre festività hanno un'origine rurale, affondando  le loro radici nel nostro passato agricolo. Così è anche per la Befana.
Nella  tradizione  popolare il termine Epifania, storpiato in Befana, ha assunto un significato diverso, andando a designare la figura di una vecchina particolare.
Prima  di perire però, la vecchina  passava a  distribuire  doni  e  dolci  a tutti,  in modo  da piantare i  semi che sarebbero nati durante l'anno successivo.

                LA STORIA
La figura della Befana ha origini antichissime. I romani celebravano l’inizio dell’anno con le “Sigillarie”, feste in cui ci si scambiavano doni in forma di statuette dette appunto Sigilla. Le Sigillarie  erano attese soprattutto  dai  bambini che  ricevevano   in dono i sigilla in forma di bamboline animaletti in pasta dolce.         
                                                             
Con  il passar  del  tempo l’Epifania  divenne  una ricorrenza della  tradizione cristiana per designare la prima manifestazione della divinità di Gesù Cristo, avvenuta in presenza dei re Magi.  
Da questo periodo, che viene dopo la seminagione, dipendeva il raccolto futuro e quindi la sopravvivenza del nuovo anno. Durante queste notti i contadini credevano di vedere volare sopra i campi seminati Diana, dea della fertilità. La Chiesa condannò questa figura pagana e Diana, da dea della fecondità, diventò una divinità infernale.  
   
Da  qui  nascono i racconti di vere e  proprie  streghe   dei loro voli e convegni a cavallo tra  il vecchio e il nuovo anno.
Dal XIII al XVI secolo la Befana non è ancora una persona ma solamente una festa, una delle più importanti e gioiose dell’anno. 
Nel tardo 1500 si comincia a parlare di Befane come figure femminili che vanno in giro di notte a far paura ai bambini. In seguito la Befana diventa una benefica vecchina che, a cavallo di una scopa, porta doni nella dodicesima notte. 
Il suo culto si ritrova in varie parti del mondo.                                          
In Francia si fa un dolce speciale al cui interno si nasconde una fava. Chi la trova viene nominato Re o Regina della festa. In Spagna i bambini pongono davanti la porta di casa un bicchiere d’acqua e del cibo. In Russia,  dove il Natale viene celebrato il 6 gennaio, i  doni  vengono  portati  da  Gelo accompagnato da Babuschka, una simpatica vecchietta.

In molte regioni italiane  in questo periodo, si eseguono diversi riti purificatori simili a quelli del Carnevale, in cui si scaccia il maligno dai campi grazie a pentoloni che fanno gran chiasso o si accendono imponenti fuochi, o  si costruiscono dei fantocci di paglia a forma di vecchia, che vengono bruciati durante la notte tra il 5 ed il 6 gennaio. In Veneto i ragazzi girano per le case cantando laudi in onore della Sacra Famiglia; in Toscana vi sono le  “befanate” rappresentazioni sacre e profane. Befanate sono anche i canti che gruppi di giovani intonano davanti le case per ricevere doni, come accade in Calabria, Sicilia, Puglia e nel nostro Abruzzo in cui si pensa che gli animali parlino ma non bisogna udirli, pena la morte.       

LEGGENDE
Ci sono inoltre molte  leggende  che spiegano la nascita di questa figura. Una di queste narra  che “Quando i Re Magi partirono per portare doni a Gesù Bambino, solo una vecchietta, brutta e gobba, con il naso adunco e il mento aguzzo, vestita di stracci e coperta di fuliggine si rifiutò di seguirli. Poi pentita, cercò di raggiungerli, non ci riuscì. Da allora, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, volando su una scopa con un sacco sulle spalle, passa per le case a portare ai bambini i doni che non è riuscita a dare a Gesù Bambino e attraverso la cappa del camino infila doni e dolcetti nelle calze  appese mentre tutti dormono. Ai bambini buoni lascia caramelle e dolcetti, a quelli cattivi lascia pezzi di carbone. Si narra che nell'ultima notte della sua dimora il mondo è pieno di prodigi: gli alberi si coprono di frutti, gli animali parlano, le acque dei fiumi e delle fonti si tramutano in oro. I bambini attendono regali; le fanciulle traggono al focolare gli oroscopi sulle future nozze, ponendo foglie di ulivo sulla cenere calda; ragazzi e adulti, in comitiva, vanno per il villaggio cantando, in alcuni luoghi si prepara con cenci e stoppa un fantoccio e lo si espone alle finestre.

Su questa  benevola vecchina vi sono varie filastrocche tra  cui:     

La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte.
Il vestito alla romana
viva viva la Befana.



e

Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca, la circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana. (G.Pascoli)



Ricostruzione  storiografica  di  Elisabetta Mancinelli  
email: mancinella elisabetta@gmail.com

14 dicembre 2022

Paolo De Cecco: un grande maestro abruzzese eclettico e versatile.

Paolo De Cecco, La foce del fiume Pescara, 1905, olio su tela.

Paolo De Cecco: un grande maestro abruzzese eclettico e versatile.
Questo artista, noto per essere stato uno dei fondatori del “Cenacolo michettiano”, per la sua amicizia con D'Annunzio e per essere stato immortalato da Michetti nel dipinto “La figlia di Iorio”, fu, oltre che valido musicista , un valente e poliedrico pittore.

LA VITA

Paolo De Cecco nacque il 13 aprile 1843 a Citta Sant’Angelo da Raffaele Antonio e da Berenice Baiocchi.

Dopo la maturità liceale si recò a Napoli, dove si iscrisse alla Facoltà di Medicina e Chirurgia. Presto si accorse che non era portato per quella disciplina e lasciò l'Università.

Negli anni Sessanta, si dedicò intensamente alla sua vera passione artistica: la pittura e la sua più grande ispiratrice fu la natura. Disegnò volti, figure di giovani donne in costume, scene di vita all'aperto, paesaggi, greggi pasturanti, muletti, cavalli, mucche, branchi di maiali, casolari, contadini e pescatori solitari. Sempre a Napoli , dove frequentò poi l'Istituto di Belle Arti, conobbe Michetti.

Alla fine degli anni Settanta, preso dall’ altra sua grande passione : la musica, partì per Firenze e divenne un concertista di mandolino, e se ne andò peregrinando come un antico troviero.

Nel 1880 fu uno dei fondatori, insieme con D’Annunzio, Tosti, Michetti e Barbella, del famoso “Cenacolo michettiano”.

L'8 settembre 1886 sposò Margherita Di Battista, una ragazza angolana: la cerimonia avvenne a Villa Cipressi di  Città Sant’Angelo e Michetti e Barbella  furono i testimoni di nozze.

Nel 1897 ottenne la cattedra di disegno all’Istituto Tecnico di Città Sant’Angelo , dove insegnò sino al 1904. Nel 1905 chiese ed ottenne il trasferimento a La Spezia e vi rimase per oltre dieci anni, sino al 1916. Nel contempo coltivava l’attività pittorica partecipando a varie mostre nelle città di Barcellona, Amsterdam, Milano, Torino, Venezia, Roma e Napoli, conseguendo dovunque un notevole successo.

Mostrò specie nelle acqueforti originalità e sicura maestria, come si rileva nelle sue opere conservate in pinacoteche e in raccolte private di Barcellona, Monaco di Baviera, Lipsia, Madrid, Londra, Milano, Bologna e Pescara . Nel 1916, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, si ritirò a Napoli, dove si spense il 19 novembre 1922 e le sue spoglie mortali furono tumulate nel cimitero monumentale della città partenopea.

IL CAPOLAVORO

L’opera più bella e significativa di De Cecco , il suo capolavoro in cui s’abbandona alla malinconia del ricordo è “La foce del fiume Pescara”.


L’eccezionale paesaggio , firmato e datato 1905, evoca mirabilmente i luoghi in cui si svolse anche l’infanzia di Gabriele d’Annunzio.

Lo straordinario scenario risente dell’esperienza e della lunga frequentazione del Cenacolo di Francavilla con Michetti e D’Annunzio. Il sentimento che ispira questo dipinto è il medesimo delle liriche del Vate e delle appassionate descrizioni di scenari naturali di Michetti.

Guardando la mirabile opera sembra quasi di ascoltare le parole che Gabriele scrisse in Terra Vergine nel 1888 : “Le barche pescherecce andavano a coppie; parevano grandi uccelli ignoti, dalle ali gialle e vermiglie.

Poi lungo la riva le dune fulve e in fondo, la macchia glauca del saliceto”. E anche quelle del Libro Segreto : “… rivedo certe vele del mio Adriatico alla foce della mia Pescara, senza vento, senza gonfiezza gioiosa, d’un colore e d’un valore ineffabili, ove il nero e l’arancione il giallo di zafferano il rosso di robbia entravano in una estasi miracolosa, prima di estinguersi”.

L’opera , caratterizzata da efficaci contrasti cromatici, documenta luoghi destinati a subire una trasformazione radicale. Sulla sponda sinistra un antico edificio dei baroni De Riseis produttori di vino, che possedevano in prossimità della foce della Pescara un esteso podere. La villa, con le sue molteplici finestre immersa nella vegetazione, sembra quasi sorvegliare il defluire quieto del fiume. Le imbarcazioni ,dalle vele latine e dagli intrecci simili ad ali di farfalle colpite dalla luce del pomeriggio, si riflettono in modo suggestivo nelle acque della Pescara.

Sulla riva destra completa lo straordinario scenario il mirabile il bozzetto di vita marinara che è come un dipinto nel dipinto: uomini, donne e bambini intenti in diverse attività intorno a un’imbarcazione a secca da cui sono tese le reti da riparare o riavvolgere.

Paolo De Cecco dipinse anche intensi ritratti di una straordinaria sensibilità che raffigurano Aurelia Terzini, la madre di Francesco Paolo Michetti , la giovane amatissima moglie Margherita e altri personaggi del suo tempo tra cui Matilde Serao.

I colpi di luce, le ombre magistrali che torniscono i volti con lievi pennellate mostrano la statura elevata di questo grande maestro abruzzese che dovrebbe essere maggiormente conosciuto e valorizzato.

 

           La moglie Margherita                                     La madre di F.P. Michetti


Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli
email: mancinellielisabetta@gmail.com

Da: Abruzzo24ore.tv

Approfondimenti: portalecultura.egov.regione.abruzzo.it



1 dicembre 2022

Elisabetta Mancinelli, L’oscuro dramma di Flaiano.


  L’OSCURO   DRAMMA   DI   FLAIANO

di Elisabetta Mancinelli

Ennio Flaiano, pescarese dal genio multiforme, è conosciuto come  giornalista, critico teatrale, brillante umorista e sceneggiatore prolifico dei film dei più grandi registi dell’epoca da Fellini a Monicelli, da Antonioni a Rossellini.

Il suo “mondo”, tuttavia, non è solo quello pubblico dello “scrittore satirico dell’Italia del benessere” (come si definì lui stesso) dai noti aforismi e dalle battute al veleno ma anche quello privato che correva doloroso e parallelo con la vita pubblica.
Una vena di profonda malinconia e un senso di inappagamento e di inquietudine caratterizzano la sua scrittura, la sua letteratura così nitida, limpida e formalmente perfetta, presenta aspetti di amara satira a volte corrosiva ma anche di giocosità comica.                                       
Malinconia e vitalità scorrono nello stesso alveo.
Il dramma di una figlia cerebrolesa è il riferimento della sua vita che può spiegare molto della sua fuga verso un altrove diverso fatto di brillanti giochi verbali: giocosi aforismi e ossimori i più impensati.



L’oscuro dramma di Flaiano: La sua croce segreta, quel male incurabile della figlia.

Flaiano ha avuto un grande croce nella sua esistenza, la figlia Luisa che era l’amore e il dispiacere del padre per una forma di ritardo mentale che ne faceva una “diversa”.
Teneva un diario del “dolore”, un diario privato fatto di lucide e disperate annotazioni sul male incurabile della sua Lelè e di alcune lettere indirizzate alla moglie Rosetta e alla figlia stessa. Questi scritti, selezionati da Diana Ruesch  e tratti da interviste e giornali dell’epoca, fanno parte di un piccolo libro “Cristo torna sulla terra” pubblicato, a Lugano città dove si conservano le carte di Flaiano. Nata nel novembre del 1942, Luisa (Lèlè) Flaiano a otto mesi fu colpita da una grave forma di encefalopatia. Di conseguenza non parlò mai e a stento riuscì a camminare.  
Un dramma per la madre e il padre, un' esperienza che li segnò profondamente.  Una delle lettere, del 25 luglio 1943, scritta poco prima della terribile malattia, è una perla di Flaiano in quanto esprime il suo amore purissimo per la sua Luisa. «Cara Lèlè, le dice, questa è la prima lettera che ti scriviamo per dirti che oggi il tiranno d' Italia è stato mandato a spasso. Si chiamava Mussolini.
Un giorno tu ti sorprenderai quando ti racconteranno quello che si è sofferto in ventun anni di miseria morale...». 
Sul foglio lo scrittore aveva incollato una riproduzione del Piffero di Manet: «Il Piffero di Manet suona per te e per noi la dolce canzoncina della libertà.
Suonala in eterno Piffero...».     
In un’altra lettera del 1951 inviata alla moglie che, per meglio far curare la figlia, si era trasferita con lei a Ginevra, Flaiano scriveva:    «Prima di tutto, lascia che ti ringrazi per i tre giorni passati insieme a te. È stata per me una bella rivelazione, di conoscerti meglio, e sono davvero molto felice che tu sia mia moglie e che ancora mi vuoi bene...». Del volume fa parte anche  un racconto breve di Ennio che  esprime l’odissea del dolore paterno, la croce da portare per tutta la vita, in silenzio, tenendo a bada la disperazione. Un’altra splendida pagina sullo struggente amore che nutrì per questa sfortunata figlia si trova ne “La Valigia delle Indie” dove scrisse: « Sei stato condannato alla pena di vivere. La domanda di grazia, respinta…Coraggio, il meglio è passato».
Con il passare degli anni la sua tristezza si fa sempre più evidente  ciò emerge da riflessioni rivestite da una forma apparentemente ironica ma in realtà lacerata.  “Mettendomi a letto ogni sera , si legge in un passo di Autobiografia del blu di Prussia: compio un atto incalcolabile: sarò nella lista il giorno dopo? E il pensiero di non svegliarmi mi spinge a vivere ogni giorno daccapo, con tutte le futili noie che derivano da una simile predisposizione d’animo. Io muoio alla giornata.
 La stanchezza e la vanità degli accadimenti diventano per lo scrittore le uniche costanti della vita. Anche il  desiderio di viaggiare,  di esplorare il mondo si è appannato . “ Viaggiare?  scrive ,comincio a sentirne il fastidio: non cambierei d’umore cambiando luogo”. Ma la sua personalità poliedrica , versatile, vitale gli  consente di conservare una percezione divertita del mondo nei celebri aforismi  dedicati alla politica, alla presa in giro, allo sberleffo.
“A un secolo dalla nascita Flaiano viene considerato uno scrittore complesso, anomalo, di notevole spessore,dallo stile chiaro, colorito, forbito con risonanze poetiche . Svincolato da ogni ideologia di parte , ha osservato la realtà senza paraocchi e denunciato le illusioni di massa e l’impoverimento degli spiriti della società dei consumi” (F. Castelli)

Tutta la sua vita fu dunque  condizionata da questo dramma personale a cominciare dalle  sue aspirazioni , infatti dichiarò in più occasioni che il cinema lo aveva distolto dal lavoro letterario, risucchiandolo in una attività superficiale e poco gratificante , perché allo sceneggiatore andavano pochi riconoscimenti e il vero autore del film diventava  solo il regista. Nutrì per il mondo del cinema un rapporto di amore-odio: ne  coglieva la precarietà, ne rifiutava l’aspetto commerciale, pur riconoscendo il suo grande potere di rappresentare in modo immediato i cambiamenti della società. In un’intervista, poco prima di morire, rivalutò però la sua esperienza nel cinema, nel quale vedeva una forma di comunicazione più immediata del libro, negli ultimi anni di vita abbandonò quasi completamente il lavoro di sceneggiatore, ritornando freneticamente allo scrivere, a riordinare e a raccogliere ciò che aveva pubblicato su vari giornali. All'interno dell’opera multiforme di Flaiano fu il giornalismo che gli consentì di far fronte economicamente alla sua difficile situazione familiare in quanto fonte di guadagno costante che gli permetteva di sostenere meglio le spese legate alla cura della sua Lelè.


Per questa personale tragedia Flaiano, costretto ad una costante lontananza da sua moglie Rosetta che si era stabilita in Svizzera, non essendo riuscita a trovare in Italia un istituto adatto che potesse prendersi cura della figlia, fu   condannato ad una grande solitudine affettiva. Anche il sodalizio artistico con Fellini, che fu spesso difficile, secondo alcuni biografi, venne interrotto  definitivamente da Ennio nel 1965 quando colse un’ infelice battuta del regista sulla figlia malata che amava di una passione struggente proprio perché con lei la natura era stata matrigna e dal colpo non si riebbe mai.

                                                                           GLI  AFORISMI


Nel “Diario degli errori”, appunti che vanno dal 1950 al 1972 pubblicati postumi nel 1976, dipinge l’Italia dell’epoca con ironia e con una leggerezza che conservò tutta la vita  nonostante il suo dramma familiare. Il tema predominante di questi scritti è apparentemente il viaggio. Ma in realtà dice: è meglio non viaggiare perché la noia e la malinconia ci perseguitano dovunque andiamo. Flaiano rivela in quest’opera l’essenza della sua personalità: polemico, a tratti cinico, sempre disincantato, individualista anticonformista, con un orientamento politico antifascista ed anticomunista allo stesso tempo, in quanto non si riconosce nelle ideologie dominanti. 

Le sue annotazioni mettono alla gogna i malcostumi diffusi dell’epoca. I falsi miti, le false coscienze e l’idealismo filosofico assurdo di quel periodo.
“Gli intellettuali dovrebbero avere la funzione di far divenire più semplici le questioni complesse, senza renderle semplicistiche, invece accadeva il contrario: anche le cose più semplici diventano complesse. I politici non parlano chiaro, gli intellettuali spesso scrivono libri illeggibili, incomprensibili per chi non ha un solido bagaglio umanistico, le leggi possono essere decifrate solo dagli avvocati. Insomma conclude: “Non esiste la verità perché la linea più breve tra due punti è l’arabesco e gli italiani sono costretti a vivere in una rete di arabeschi”.
Fu il primo ad intuire la crisi della persona umana per colpa del consumismo col suo venir meno di valori morali e punti di riferimento e dell’eccesso di una comunicazione mass-mediale volgare e superficiale. «La civiltà del benessere porta con sé proprio l’infelicità».

Ennio Flaiano è forse uno degli scrittori più citati per le sue battute, le sue frasi celebri e i suoi aforismi. Fra quelli indimenticabili:

- Fra trent’ anni l’Italia non sarà  come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la TV.
- Il libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni
-Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un  pleonasmo ossia anticipare quello che accadrà.        
- Quando l’uomo non ha più freddo, fame e paura è scontento.
- Ci sono molti modi di arrivare, il migliore è di non partire.
- I giorni indimenticabili della vita sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.
- I grandi amori si annunciano in modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?
- Oggi ho lasciato la mia famiglia perché ero stanco di sentirmi solo.

I documenti e le immagini sono tratti da, “Invito alla lettura di Flaiano di Lucilla Sergiacomo, “Ennio Flaiano, l'uomo e l'opera” dagli Atti del convegno, Pescara, 1983, da “Le lettere a Giuseppe Rosato” di G. Rosato e  da “Cristo è tornato sulla terra” raccolta a cura di Diana Ruesch, e da “La civiltà Cattolica di  Ferdinando Castelli”.

Ricostruzione storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli  
email: mancinellielisabetta@gmail.com