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8 ottobre 2024

Antonio Mezzanotte, La Madonna del Rosario a Rosciano (PE).

LA MADONNA DEL ROSARIO A ROSCIANO (PE)

di Antonio Mezzanotte

Il 7 ottobre 1571, ossia esattamente 450 anni fa, la flotta della Lega Santa (composta a metà da navi veneziane, poi dalle navi spagnole di Napoli e Sicilia, da quelle dei Cavalieri di Malta, quindi da quelle genovesi, toscane e di altri stati italiani) a suon di cannonate faceva cenci e pezze (per dirla alla Cesare De Titta) della potente, temuta e molto più numerosa flotta ottomana, di fronte alla città greca di Lepanto.
Grande abilità manovriera dell’ammiraglio don Giovanni d’Austria e dei suoi capitani? Eccessiva tracotanza e sicumera del comandante turco? In ogni caso, la vittoria, davvero inaspettata, colse tutti di sorpresa e in tutto l’Occidente fu immensa l’eco dell’evento, sebbene gli effetti pratici non pari alle aspettative (e Venezia perse lo stesso l'isola di Cipro).
La talassocrazia ottomana fu comunque per la prima volta seriamente colpita ed il papa Pio V, conscio della portata storica dell’accaduto, lo attribuì all’intercessione della Vergine Santissima, dedicando questo giorno alla Madonna della Vittoria, che il successore Gregorio XIII mutò in Madonna del Rosario, dal momento che le marinerie cristiane avevano recitato il Santo Rosario prima della battaglia.
Allo scontro prese parte anche una nave veneziana armata con equipaggio di Chieti e paesi vicini (a dimostrazione dell’antico e proficuo rapporto tra la Serenissima e l’Abruzzo, su cui ci sarebbe ancora tanto da indagare: per altro, siccome Rosciano era tra i castelli uniti a Chieti, non mi stupirei se qualche mio lontano compaesano - alcune famiglie di Chieti, allora come oggi, si erano trasferite da queste parti - avesse partecipato a quell'epica giornata). La chiesa della Madonna della Vittoria, sita a mezza costa tra la strada consolare e la città di Chieti, fu edificata proprio a ricordo della partecipazione dei teatini ed alleati all'impresa di Lepanto.
Perché annoio chi si arrischia a leggere queste righe con una premessa storica da poche pretese? Per dire che tale era ancora il clamore suscitato da quella vittoria che ben dieci anni dopo, nel 1581, un ignoto artista realizzò un dipinto su tela, raffigurante la Madonna del Rosario con i quindici Misteri, per la Cappella del SS. Rosario della chiesa parrocchiale di Rosciano.
La tela venne poi spostata nella chiesa di San Nicola durante i lavori di ampliamento di metà Settecento e lì rimase fino ad una ventina di anni fa, quando, restaurata, tornò nel luogo originario.
Ora, non occorre essere un Claudio Strinati o un Antonio Paolucci per riconoscere che trattasi di un dipinto eccezionale, di pregio unico per colori, forme, linee espressive. A ben vedere, se proprio non fosse noto il soggetto, chi riconoscerebbe in quella giovane ragazza dai rossi capelli sciolti la Madonna? O in quel bambino paffutello, dalla guance rossicce e dai capelli scompigliati e ricciuti, il Cristo? E che dire della corte papale, con il movimento di dame, alti prelati, il papa Pio V, la schiera di religiosi (San Domenico e Santa Caterina in primo luogo) e delle scene dei Misteri, ed ancora i merletti, le rose, le stoffe, le acconciature? Un dipinto corale, intenso, molto raffinato ma leggero, espressione ultima dell’epoca rinascimentale, quindi alla Maniera.
Quel che rileva, però, è che esso rappresenta davvero un unicum in tutta l’area vestina e la Val Pescara, ancora poco noto e, pertanto, da far conoscere anche mediante Facebook, in mancanza di altro...

10 settembre 2023

Antonio Mezzanotte, Giorgio Castriota Skanderbeg.

Giorgio Castriota Skanderbeg, busto nella omonima piazza di Villa Badessa di Rosciano

GIORGIO CASTRIOTA SKANDERBEG
di Antonio Mezzanotte 

Si dice e si racconta che un giorno infuriava una feroce battaglia tra l'esercito cristiano e quello turco (più numeroso) e che i combattimenti si protrassero ben oltre il tramonto. Fu allora che il comandante dei cristiani mise in atto lo stratagemma che lo avrebbe portato a una strepitosa vittoria: fece radunare un grosso gregge di capre, ordinando di legare due torce accese sulle corna degli animali per farli sembrare uomini che si muovevano nella notte e spronò il gregge contro i turchi; quelli, nell’oscurità, pensarono che andasse loro incontro un immenso esercito di agguerriti soldati e scapparono senza combattere!
Testimonianza di quell'episodio la vediamo tutt'oggi nelle raffigurazioni del comandante cristiano, che indossa un copricapo a forma di testa di capra.
Chi era, quindi, questo personaggio? Giorgio Castriota.
Si dice e si racconta che dopo la sconfitta del padre Giovanni, principe albanese, ad opera del sultano Murad II, Giorgio venne condotto ostaggio ad Adrianopoli, presso la corte ottomana, e costretto a convertirsi all’Islam: per tale motivo, assunse il nome di “Iskander” (che in turco vuol dire “Alessandro” - il riferimento era ad Alessandro Magno) e tale era l’abilità, la forza e la lealtà nei confronti del Sultano che questi lo nominò “Beg” (nobile, principe), da cui l'appellativo "Skanderbeg" (che possiamo tradurre in "principe Alessandro").
Riportò numerose e importanti vittorie alla guida degli eserciti ottomani, divenne così popolare che lo stesso Sultano temeva che aspirasse a prendersi il trono, ma Giorgio pensava ad altro; poco alla volta sentiva il richiamo della propria terra e, in fondo, anche la conversione forzata all’Islam non era stata mai accettata del tutto nel suo cuore.
Si dice che alla vigilia della battaglia di Nis, combattuta il 28 novembre 1443, decise infine di abbandonare il campo (determinando così la disfatta dell'esercito ottomano) e di tornare in Albania con 300 esuli, riabbracciando la fede cristiana. Conquistò in poco tempo tutte le città e le fortezze della regione già occupate dagli invasori e si pose a capo del movimento insurrezionale albanese contro i Turchi.
Da quel momento divenne il più temibile nemico degli eserciti ottomani, i quali, benché di gran lunga superiori di numero e di mezzi, si infrangevano sempre contro le schiere albanesi, che erano favorite dalla conoscenza del territorio e abilmente guidate dal Castriota, il quale, nonostante il ritorno alla fede cristiana e ancorché fosse divenuto il più strenuo nemico degli ottomani, continuò a chiamarsi e a firmarsi sempre con l’appellativo Skanderbeg (forse per ricordare ai soldati turchi che stavano combattendo contro il loro antico, amato e invincibile comandante).
Raggiunta una tregua con il Turco, si alleò con Re Ferrante d’Aragona, che aiutò a difendere la Corona di Napoli dalle rivendicazioni angioine: per tale motivo il Re lo ringraziò investendolo di numerosi feudi in terra di Puglia.
Dovette però tornare ben presto in armi a difesa della sua Albania e si spense di malaria il 17 gennaio 1468.
La nipote più giovane di Skanderbeg, Maria, andò sposa ad Alfonso Leognani, dei baroni di Civitaquana. Da essi ebbe origine il ramo Leognani Castriota, dal quale derivò, per il matrimonio del loro discendente Giambattista con Porzia Fieramosca, sorella di Ettore, eroe della Disfida di Barletta, il ramo dei Leognani Fieramosca, le cui vicende sono da rinvenire nelle storie di Civitaquana, Rosciano, Alanno, Cugnoli, Penne dal XVI al XVIII sec., mentre un altro ramo dei Castriota possedeva Città Sant'Angelo.
Quando nel 1743 giunsero le 18 famiglie albanesi che fondarono Villa Badessa di Rosciano (la più recente e settentrionale colonia arbëreshe), questi territori erano in qualche modo già legati al nome dello Skanderbeg e probabilmente le vicende dei Castriota nell'Abruzzo vestino (ancora poco note e da studiare) stanno a confermare che lo stanziamento badessano non fu affatto casuale, ma diretto e mirato all’interno di una trama di relazioni e interessi fra potentati familiari e militari d’origine albanese o a essi affini, da secoli presenti nell’Italia meridionale, il cui peso fu determinante nelle scelte di Carlo di Borbone nel favorire la nascita proprio di Villa Badessa.

(Nella foto: il busto di Giorgio Castriota Skanderbeg collocato nell'omonima piazza di Villa Badessa di Rosciano - PE, con l'epitaffio TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM (ossia: "a così gran nome nessun elogio è adeguato"), al quale, probabilmente, sarebbe opportuno dare una ripulita!

4 agosto 2022

Loris Di Giovanni, Elso Simone Serpentini, “La Libera Muratoria in Abruzzo dal XVIII al XX secolo”, (Artemia Nova Editrice).


Dal Principe di San Severo a Gabriele Rossetti, ai legami con Ettore Ferrari, alla loggia Aeternum…Un saggio racconta la Massoneria in Abruzzo dal XVIII secolo.

Loris Di Giovanni ed Elso Simone Serpentini hanno da poco dato alle stampe il volume “La Libera Muratoria in Abruzzo dal XVIII al XX secolo” (Artemia Nova Editrice. Il quarto pubblicato dal Centro Studi sulla Storia della Massoneria in Abruzzo (Ce.S.S.M.A.), uscito per i tipi della casa editrice teramana diretta da Maria Teresa Orsini. Per quanto la letteratura sulla Massoneria sia abbondante, non si può certo dire che avesse finora trovato una collocazione in ambito scientifico, men che meno in Abruzzo, prima dell’opera dei due insigni studiosi e storici, che ricostruiscono la presenza in Abruzzo di uomini e associazioni che in qualche modo si richiamano ai valori libero-muratori, calandosi anche nel contesto socio-culturale e della vita politica di ogni periodo storico analizzato. Un vero e proprio manuale di storia di ben 542 pagine, nelle quali si succedono, oltre alle ricerche storiche, le immagini di illustri massoni abruzzesi, diplomi e brevetti, in un percorso che dalla seconda metà del XVIII secolo arriva fino agli anni Sessanta del secolo scorso.

Punto di partenza dello studio sono le logge napoletane e la figura del Principe di San Severo, per passare alle officine castrensi francesi insediate a Lanciano, i loro rapporti con l’Intendente d’Abruzzo Pierre Joseph Briot e i legami con la Carboneria. Il Grande Oriente murattiano e le sue prime logge nella regione precedono un rapido excursus delle singole logge a Teramo, Pescara, Chieti e L’Aquila. Ricostruita nel dettaglio è l’appartenenza alla Massoneria del gentiluomo di Atri Carlo Acquaviva d’Aragona, che nella seconda metà del Settecento aderì ad una loggia napoletana, ed i contatti di suo zio cardinale Troiano Acquaviva con Giacomo Casanova, che ospitò giovanissimo a Roma, nel suo palazzo a Piazza di Spagna. Pochi anni dopo Casanova verrà iniziato a 25 anni in una loggia di Lione.

Viene anche analizzato il carteggio massonico del marchese Gesualdo de Felici di Pianella, maestro venerabile della loggia teatina Vettio Catone, quello dello zio Camillo de Felici de’ baroni di Rosciano e i suoi rapporti con Giuseppe Garibaldi, strettissimi dopo aver salvato la vita a suo figlio Menotti; quindi la storia massonica della famiglia Delfico di Teramo, con la prova dell’affiliazione di Gian Filippo alla loggia Vittoria di Napoli, come delle frequentazioni del fratello Melchiorre con il danese Friedrich Münter e con i salotti latomici della capitale del Regno. Non è un caso che sulla copertina del volume campeggi il diploma di maestro massone di Filippo de Filippis Delfico, rilasciatogli da una loggia di Marsiglia, città nella quale si trovava in esilio.

Studiata poi nel dettaglio è la straordinaria figura di Costanzo Di Costanzo, figlio cadetto del Duca di Paganica, che si trasferì giovanissimo dal popoloso paese dell’aquilano in Germania per evitare d’entrare nella vita religiosa, come invece avevano dovuto fare i suoi numerosi fratelli e sorelle, eccetto il primogenito Giovanni destinato a succedere nel ducato al padre Ignazio. A Monaco di Baviera il giovane Costanzo indossò la divisa militare. Entrò nella massoneria, avviatovi dal cognato anch’egli militare, poi passò tra gli Illuminati di Baviera con il nome iniziatico di “Diomede”.

La figura di Gabriele Rossetti e suoi rapporti con la Carboneria e la Massoneria a Napoli sono studiati anche in relazione alla statua che la locale loggia – che ricordava il suo nome nel suo titolo distintivo – gli fece erigere a Vasto.

Stesso studio per la statua di Ovidio, su indicazione della loggia Panfilo Serafini. Il monumento al poeta Ovidio, , fu realizzato a Sulmona dal fratello Ettore Ferrari (Roma 1845-1929), che dal 1904 al 1917 ricoprì la carica di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, e che fu importante scultore noto per la statua di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori a Roma, inaugurata il 9 giugno 1889 con una grandiosa manifestazione pubblica e un tripudio di labari massonici, compresi quelli abruzzesi, oltre che per le statue di Garibaldi, Mazzini, Quintino Sella ed altre ancora.

La realizzazione della statua a Sulmona seguiva quella di Costanza, in Romania, l’antica Tomi dove Ovidio scontò l’intero suo esilio fino alla morte nel 17 d.C., realizzata per interessamento di Remus Opreanu. In quella giovane nazione Ferrari aveva scolpito nel 1881 anche la statua di Heliade Radulescu, padre della letteratura romena.
Furono proprio gli esponenti della Massoneria di Sulmona a convincere Ferrari a realizzare l’opera dedicata a Ovidio, accettando il solo rimborso delle spese. Pur se nominato cittadino onorario della cittadina abruzzese il 17 febbraio 1925, Ferrari il giorno dell’inaugurazione del monumento non volle esser presente, in quanto acceso repubblicano e antimonarchico. Invero, pochi giorni prima della cerimonia, si era recato nella città peligna per aggiungere alla mano destra della statua di Ovidio lo stiletto, realizzato in un secondo tempo.

Un’altra novità del volume consiste sicuramente nell’aver rintracciato il nome di Angelo Camillo De Meis da Bucchianico nel piedilista della loggia Felsinea di Bologna, nel 1867 accanto a quello di Giosuè Carducci. Lo scisma ferano del 1908 in Abruzzo, e le sue conseguenze, viene trattato con notizie finora inedite. L’inizio del ‘900 vedrà il susseguirsi di tante associazioni nate in terra abruzzese con il contributo della Massoneria: le società operaie e di mutuo soccorso, l’Associazione del Libero Pensiero “Giordano Bruno” a Teramo, i comitati massonici pro Cuba e Candia.

La nascita dei fasci di combattimento e del partito massonico della Stella Nera dividerà in due campi avversi i fratelli del Goi da quelli fedeli alla Gran Loggia d’Italia, nata il 21 marzo del 1910 da un percorso di scisma all’interno del Grande Oriente portato avanti da un gruppo di logge di rito scozzese capeggiato dal pastre evangelico Saverio Fera.

D’interesse anche le notizie dell’Archivio Centrale di Stato che riguardano la soppressione dell’Ordine in Abruzzo, durante il fascismo, e i documenti rinvenuti sui rapporti delle Prefetture, indicanti nel dettaglio i sequestri e le devastazioni nelle officine abruzzesi e molisane. I documenti riguardanti i massoni sono stati individuati seguendo la pista della sigla K3, con la quale il regime fascista indicava gli affiliati alle logge di qualsivoglia obbedienza.
Nel secondo dopoguerra l’attenzione si sofferma su un personaggio di Chieti, Romeo Giuffrida, già braccio destro di Raoul Palermi e direttore d’una rivista massonica importante che si stampava a Pescara, “Voce Fraterna”. Dalla Comunione Massonica spuria del Giuffrida nascerà la Loggia Aternum, poi regolarizzata dal Goi e loggia madre d’Abruzzo.
Gli anni della ricostruzione del Grande Oriente in Abruzzo e l’opera dei suoi pionieri Valentino Filiberto, Alfredo Diomede e Josè Guillem Guerra chiudono la trattazione. Di notevole valore storico è la ricostruzione di numerosi piedilista delle varie logge abruzzesi nelle quattro province, utilissimi, al pari dell’indice dei nomi e d’una ricca appendice documentale.
Ma la vera novità del volume è la scoperta dell’importanza avuta dai “fratelli” di fede protestante nella storia della Massoneria abruzzese. Nel 1907, seicentesimo anniversario della morte di Fra Dolcino, viene fondata una loggia, unica in Italia con questo titolo distintivo. Dove? A Lanciano. A scorrere il suo piedilista saltano all’occhio due fratelli di fede protestante: Camillo Pace e Federico Mecarozzi. All’evangelico Gabriele Rossetti è dedicata una loggia, dove, guarda caso, dopo essersi spostato dalla loggia di Lanciano e dal triangolo che stava principiando a Paglieta, il primo mastro venerabile è proprio il pastore evangelico Camillo Pace.
Nel 1927 un altro pastore protestante, Aurelio Cappello (in corrispondenza con Francesco Fausto Nitti), è costretto dal regime fascista a chiudere il circolo giovanile “Gabriele Rossetti” a Palombaro. Ma il contributo dato dai fratelli protestanti non si ferma alla statua dedicata al patriota vastese. A rialzare le colonne delle logge del Grande Oriente d’Italia in Abruzzo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sarà un altro pastore protestante, Agostino Piccirillo, promotore della regolarizzazione di una loggia sorta dallo scisma ferano e aderente ad una struttura teatina di Giuffrida, che diverrà dopo pochi anni la “loggia madre” del nascente Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili abruzzesi. 
(fonte Corriere Nazionale)


23 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, L'appalto-truffa per la scafa di Rosciano.

 
L'APPALTO - TRUFFA PER LA SCAFA DI ROSCIANO

di Antonio Mezzanotte

Il toponimo Scafa, che oggi è riferito ad un noto paese della Val Pescara, un tempo indicava un tipo di imbarcazione con la quale si guadava il corso di un fiume: era una sorta di zattera, spesso fornita di due parapetti laterali formati da catene di ferro, a fondo piatto e priva di prua. Nella direzione dell’attraversamento della scafa veniva posta una fune, manovrata facendo perno su due pali conficcati nelle sponde opposte, così che era consentito tirare la scafa nell’andata ed al ritorno. La scafa era adibita al trasporto di persone, di animali, qualche volta anche di carretti trainati da buoi, di merce varia.
La ‎«scafa di San Valentino», appunto, era riferita alla chiatta che si trovava dove oggi sorge il paese di Scafa, fino al 1948 tenimento del Comune di San Valentino in Abruzzo Citeriore, e che veniva utilizzata per il passaggio sul Pescara, un fiume che prima di essere imbrigliato in salti, dighe e condotte forzate aveva un alveo naturale ben maggiore dell’attuale.
Il Pescara veniva attraversato anche in altri punti, ad esempio presso Villanova (a mezzo della cosiddetta "barca da piedi") e lì dove ora troviamo il c.d. Ponte delle fascine, in località Villareia, in coincidenza del guado del Tratturo Magno ("barca da capo", ovviamente, come l'altra rispetto alla città di Chieti).
Fino ad oggi, nessuno ha mai dato rilievo alla scafa di Rosciano. In verità, la presenza di una chiatta era già indicata nel Catasto onciario del 1743 (il servizio era a carico del Comune, che corrispondeva un balzello annuo al Connestabile Fabrizio II Colonna per l’appoggio all’altra riva) e all’epoca entrambe le rive erano comprese nel tenimento dell’Università di Rosciano (la sponda opposta, ora appartenente al Comune di Manoppello, fino al 1811 era terra roscianese, indicata concretamente nella documentazione catastale e notarile come «Terra de là dalla Pescara»).
Nel 1853 la scafa era ancora presente, sebbene malridotta, ed affidata in appalto ad un privato.
Secondo la testimonianza di Pasquale Castagna, storico angolano, la vecchia scafa (che l'atlante Rizzi Zannoni del 1808 colloca dalle parti di Contrada Lavatoio) fu abbandonata quando venne ammodernata la via Salara (come veniva chiamata l’antica strada consolare Tiburtina Valeria).
Sembra che sia stato proprio Re Ferdinando II nel 1847 ad ordinare il ripristino del servizio. Fu quindi bandita una gara d’appalto dalla Provincia di Abruzzo Ulteriore Primo (alla quale era stata trasferita la competenza in materia), ma il capitolato prevedeva che l’appaltatore sarebbe stato pagato (seppur a prezzo ridotto) anche qualora la scafa fosse stata rotta, danneggiata e/o non avesse potuto assicurare il servizio.
Ovviamente, a quelle condizioni l’appaltatore truffaldino non si curava affatto né del servizio di traghettaggio, né della manutenzione della chiatta, in quanto, in ogni caso, ci avrebbe guadagnato qualcosa!
Riferisce il Castagna (per l'occasione giornalista d'inchiesta) che a seguito di alcune segnalazioni le Autorità avevano diffidato l’appaltatore al rispetto del contratto. Per tutta risposta, accadde che quegli non solo offrì un ribasso dell’80% sul costo del servizio (probabilmente in combutta col preposto Ufficio provinciale), ma nemmeno si preoccupò di ripristinarlo, cosicché continuò ad intascare il prezzo del traghettaggio per l’utilizzo di un battello inesistente, forse da realizzare in futuro, ma che la Provincia pagava come se l’imbarcazione fosse esistente ed il servizio svolto regolarmente!
La scafa, o quella che ne era rimasta, fu poi sostituita nel 1886 dal ponte di legno fatto realizzare dall’Ing. Enrico Santuccione in adiacenza al ponte ferroviario che precede la Stazione di Rosciano. Quel ponte negli anni Venti del secolo scorso fu a sua volta sostituito con l’attuale ponte in muratura (danneggiato durante l’ultima guerra e poi ricostruito).

(Sul n. 1/2021 della Rivista Abruzzese ne parlo diffusamente. Nella foto: Filippo Hackert, “La scafa di Persano”, 1782, pittura a tempera)


28 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?


I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro?
di Antonio Mezzanotte

I Caracciolo di Santobono, chi erano costoro? Una delle più antiche famiglie nobili del Regno di Napoli, che riuscì a creare un vasto stato feudale tra Abruzzo e Molise dal XV sec. in poi: dal centro di San Buono, nella Valle del Treste, ad Agnone, Castel di Sangro, Capracotta, San Vito Chietino, Bucchianico, Roccaraso, Castiglione Messer Marino, Rosciano, Alanno, Cugnoli, Fraine, Roccaspinalveti, Guardiagrele e tanti altri luoghi. Ad un certo momento, la loro ascesa sembrava inarrestabile, la stessa città di Chieti finì soggiogata al dominio dei Santobono. Ferrante (nato a San Buono) fu l'antagonista di Masaniello, suo nipote Carmine Nicola (di Bucchianico) ebbe incarichi internazionali di primo piano divenendo Viceré del Perù ed il figlio di questi, Giovanni Costanzo, cardinale, fu l'artefice della più famosa fontana al mondo, quella di Trevi a Roma. L'archivio dei Santobono, conservato in parte nell'Archivio di Stato di Napoli, è una miniera di informazioni su tanti profili di storia economica, sociale, politica e culturale abruzzese, molisana, napoletana. Ho la sensazione, però, che, contrariamente ai Valignani di Chieti, ai d’Avalos del Vasto ed agli Acquaviva di Atri (tanto per citare altre famiglie nobili che pure hanno inciso profondamente sulle vicende dei propri feudi abruzzesi e non solo), i Caracciolo di Santobono sono ancora poco studiati.
Uno degli infiniti, possibili approcci per auspicabili ricerche potrebbe essere verificare in che modo ed in che misura le abitudini alimentari abruzzesi siano state indirizzate dall’utilizzo di particolari varietà di grano, come la "carosella", ad esempio, che nei domini dei Caracciolo, a San Buono ed a Monteferrante, era largamente prevalente e, da lì, diffusasi in tutta la regione ed anche oltre.
Per tale motivo, a chiusura (per ora) di queste veloci escursioni domenicali sui Caracciolo di Santobono (escursioni divulgative e senza pretesa alcuna), voglio riproporre un post di qualche tempo fa avente ad oggetto proprio il grano detto "carosella".

IL GRANO DEL PRINCIPE

Agostino Giannone era un bravo avvocato amministrativista di fine Settecento e tra i suoi assistiti figurava Gregorio Caracciolo, principe di Santo Bono, duca di Castel di Sangro, marchese di Bucchianico (solo per ricordo, i Caracciolo di San Buono possedevano o avevano posseduto nel tempo mezza provincia di Chieti, l'Alto Sangro, parte del Molise e vari territori del pescarese, tra i quali Rosciano, Alanno e Cugnoli).
Il Giannone ebbe vari incarichi pubblici: fu nominato segretario dell'Accademia siciliana di agricoltura, arti e commercio (una antesignana delle moderne Camere di Commercio) e, grazie al favore del Caracciolo, anche segretario della Real Deputazione delle nuove strade degli Abruzzi (ossia dell'ente - una ANAS ante litteram - al quale i Borboni affidarono la realizzazione di nuovi collegamenti tra la capitale, Napoli, e la nostra regione, in particolare della strada che da Venafro saliva a Sulmona, quella che i francesi chiamarono Napoleonica e che, in buona sostanza, è oggi un tratto della S.S. 17 dell'Appennino abruzzese).
Nel predisporre la relazione sullo stato finanziario delle opere stradali necessarie per collegare Venafro a Sulmona e da lì proseguendo per L'Aquila e Chieti, il Nostro Avvocato annotò con minuziosi particolari le caratteristiche salienti del territorio abruzzese di fine Settecento (1784).
In particolare, l'Avv. Giannone si sofferma sulla coltivazione del grano, indicando dapprima le località a spiccata vocazione granaria (soprattutto del teramano), per poi aggiungere che la varietà di grano detta Carosella, inizialmente coltivata soprattutto a San Buono e Monteferrante (entrambi feudi dei Caracciolo) era diventata la più diffusa nell'intero Abruzzo Citeriore, tanto che essa stava espandendosi in quasi tutte le località dell'Ulteriore ed era molto commercializzata anche fuori dei confini nostrani.
Com'era e com'è la Carosella? Un grano tenero, risalente direttamente all'epoca dei romani, a stoppia lunga fino ad un metro, il cui nome deriverebbe dal siciliano "caruso" per indicare il chicco piccolo ed allungato, leggero, di aspetto dorato e lucido.
La farina di Carosella (a basso contenuto di glutine) era ricercata per le qualità di tenere la pasta a cottura e per il pane.
Con l'avvento della trebbiatura meccanica i grani a paglia lunga furono sostituiti con le varietà a paglia corta, di natura ibrida, tanto ibrida che sovente sono causa di insorgenza di allergie alimentari, prima di tutte quella al glutine.
In varie zone del Meridione (Cilento e Basilicata) si sta riscoprendo questa antica varietà.
Sarebbe cosa buona e giusta ed utile, allora, studiare la storia del territorio anche per riscoprire una sana alimentazione e il grano del principe Caracciolo, un tempo coltivato in tanti paesi della nostra regione, potrebbe essere riscoperto ed accostato alle altre varietà autoctone abruzzesi, come la Solina e la Saragolla, ma io aggiungerei per la qualità anche il Senatore Cappelli, per una scelta alimentare genuina e salutare.

23 novembre 2020

La colonia albanese di Villa Badessa a Rosciano (PE).

 



La colonia albanese di Villa Badessa risulta tra le più recenti trasmigrata in Italia, tenendo conto che altre comunità erano stanziate in Calabria, Sicilia, Molise, Puglia, già dal secolo XV. 
Provenienti dall’Epiro, storica regione a sud dell’Albania, originari dei villaggi di Piqèras, Ljukòva, Nivizza, per sfuggire all’oppressiva egemonia e persecuzione religiosa dei turchi, si stanziarono in Abruzzo nel 1743. 
La comunità "arberesch" di Villa Badessa trovò accoglienza ed ospitalità nel Regno di Napoli, sotto il re Carlo III di Borbone che dapprima li sistemò provvisoriamente nel tenimento di “Bacucco”, dipendente dal feudo di Penne, poi nel territorio di Pianella. Qui il Sovrano assegnò loro terreni ereditati dalla madre, Elisabetta Farnese, terreni in località Piano di Coccia e appezzamenti tenuti in enfiteusi dalla famiglia Taddei che a Pianella, dove abitava, era conosciuta col soprannome di “Abbadessa”, da cui deriverebbe il nome ”Villa Badessa”. 
Da atti notarili dell’epoca si rileva con esattezza che le famiglie albanesi giunte nel territorio di Pianella erano 23 (18 nel 1743 e 5 nel 1748) di cui sono noti i cognomi dei capi-famiglia, i terreni assegnati, gli approvvigionamenti, nonché le condizioni e le garanzie da osservare verso la Casa Reale. 
Oltre all’“assegnazione” gratuita di complessivi tomoli 793 di terreno (320 ettari) il Sovrano fornì alle famiglie anche tutto il necessario per vivere, denaro e mezzi per il mantenimento delle stesse, concedendo inoltre l’esenzione per 20 anni da ogni censo dovuto alla Casa Reale. 
A conferma dell’epoca dell’arrivo della comunità arberesch in Abruzzo, da un vecchio registro dei battezzati, presente nella casa canonica, si evince che l’annotazione del primo battezzato reca la data del 18 novembre 1743.



                 
                       

Per approfondimenti: Villa Badessa