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6 ottobre 2024

Antonio Mezzanotte, La chiesa di Sant'Antonio abate a Vasto.


 LA CHIESA DI SANT’ANTONIO ABATE A VASTO
di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che un tale di Furci, noto per essere uomo burbero e gran bestemmiatore, un giorno, dovendosi recare a Vasto per sbrigare certi suoi affari, decise di passare dalle parti di Sant’Antonio, che è una collina sovrastante a meridione la città, lungo il tratturo, poiché qui si stendeva un uliveto che una sua anziana zia di Cupello, vedova e senza figli, aveva promesso di lasciargli in eredità.
Alla vista dell’uliveto l’uomo diede in escandescenze: siccome quella terra non era più lavorata da anni, le fratte di rovi e le erbacce erano così alte che avevano ricoperto per l’intero gli ulivi, i quali, non più potati e curati, forse anche a causa della siccità di quel periodo, erano quasi del tutto rinsecchiti.
L’uomo trasecolò dalla rabbia, si tolse il cappello, lo buttò a terra e attaccò una sfilza di bestemmie, prendendosela in particolare con Sant’Antonio Abate. Poi, dopo la sfuriata, essendo persona concreta e dedita agli affari, si consolò pensando che avrebbe potuto sempre estirpare gli ulivi e venderseli come legna da ardere.
Un po’ rinfrancato da questo calcolo, si avviò verso Vasto. Nei pressi della vicina chiesetta di Sant'Antonio Abate incontrò un vecchio frate cercatore, che trascinava alcune assi di legno. L’uomo fece per passare, ma il frate gli chiese se avesse potuto aiutarlo a portare quelle assi in chiesa, poiché aveva intenzione di ripararne il tetto, che era in parte crollato.
Il furcese aveva fretta, però si disse che cinque minuti avrebbe potuto perderli: siccome era uomo robusto, non fece fatica a trasportare le tavole in chiesa e, una volta dentro, si mise a guardare il danno. In effetti, il tetto era in parte crollato, ma anche quel che restava avrebbe avuto bisogno di qualche lavoretto di rinforzo. Essendo pratico del mestiere, cominciò a indicare al frate come avrebbe dovuto essere svolto il lavoro, ma poi, avendo constatato che il frate era vecchio e mezzo curvo, stabilì che quello non era in grado di rimettere a posto nemmeno una tegola e, toltasi la cappa, prese di buona lena a lavorare al tetto, stimando che in un paio d’ore avrebbe finito e che gli sarebbe riuscito pure di andare finalmente a Vasto per quei suoi affari.
Invece, l’uomo finì di acconciare il tetto che era ormai il tramonto, il tempo era trascorso senza che se ne fosse avveduto. Quando finì, sudato e impolverato, si accorse che il vecchio frate non c’era più e corse fuori dalla chiesa per cercarlo. Non trovandolo, chiuse la porta della chiesa e, visto che ormai era tardi per arrivare a Vasto, decise di fermarsi a casa della zia a Cupello.
Quando l’uomo ripassò davanti all’uliveto rimase a bocca aperta: i rovi erano spariti, gli ulivi erano ringiovaniti e carichi di frutto. Quell’anno quel podere produsse quintalate di olive.
Da allora l’uomo fu meno burbero e smise di bestemmiare, perché gli venne il sospetto che quel frate cercatore fosse in realtà proprio Sant’Antonio Abate, che lo aveva a suo modo ringraziato per avergli rimesso a posto la chiesa.
Questa storia mi è stata narrata da una anziana donna di Furci, ormai passata al mondo della Verità, ma la chiesa di Sant’Antonio Abate sulle colline di Vasto è ancora lì, piccola, graziosa, ai margini della provinciale che ha sostituito l’antico tratturo, prima che questo si gettasse tra Montevecchio e Colle Pizzuto per raggiungere la costa in prossimità della foce del torrente Buonanotte in territorio di San Salvo.
La sua presenza è attestata perlomeno dal 1569, come cappella rurale, ma i resti di un muro di epoca romana fanno ipotizzare che il luogo fosse adibito a esigenze cultuali da tempo immemore, tenuto conto proprio della prossimità al Tratturo Magno. Nel 1876 venne riedificata e altri lavori di restauro furono realizzati nel 1994. Il piccolo edificio, in muratura a vista, è a pianta rettangolare, con facciata a capanna e timpano ornato da un semplice oculo, finestrelle basse ai lati del portalino d’ingresso, campaniletto a vela rivolto alla marina. All’interno dell’unica navata l’altare, il leggio e il tabernacolo in pietra sono opera dello scultore vastese Domenico Zambianchi (Mastro Domenico).

21 novembre 2023

Bande abruzzesi: marce, sinfonie.

montaggio di Deo Bozzelli di S. Vito

Lato A
IL PALIO di G.- Donizetti

2° RAPSODIA UNGHERESE Banda "A. B. D'Annunzio", di Casalanguida

EST OVEST di Nicola Centofanti, Banda Città di Lanciano

ERNANI marcia dell'opera

SEMIRAMIDE - Sinfonia

ATAM di Lanaro, Banda "Abruzzo", Pescara

LA RITIRATA marcia militare

Lato B

FERRAGOSTO ALPINATE

FLORA

COME IL FUOCO Banda "Abruzzo" di Pescara

dalle SCENE ABRUZZESI di Camillo de Nardis, movimento "Pastorale"

IL PALIO di G. Donizetti

EST OVEST di Nicola Centofanti

MARINBELLI Banda Città dell'Aquila

ARMONIE D'ABRUZZO marcia di Nicola Centofanti, Banda Città di Lanciano

INGLESINA marcia caratteristica, Banda Abruzzo di Pescara

LA SCHERZOSA

PRIMAVERA

FIAMMA LATINA


montaggio di Deo Bozzelli, di S. Vito

Lato A

MARINELLI Banda Città dell'Aquila

CARTOLINA DA CONCERTO

VITA PUGLIESE marcia sinfonica di G. Piantoni

ATERNO marcia di Nicola Centofanti

PIERGIORGIO scherzo di C. Goggi

INGLESIAN

VERO BALLABILE

Lato B

2° RAPSODIA UNGHERESE

EST OVEST di Nicola Centofanti

MARCIA CARATTERISTICA di Nicola Centofanti

ARMONIE D'ABRUZZO di Nicola Centofanti

NINI' CAPRICCIOSA

31 agosto 2023

Cesare De Horatiis e la sua Poesia patriottica.




Figlio di Nicola e di Maria de Francesco, primogenito di una delle principali famiglie del paese. 
Era destinato a succedere al padre nell'amministrazione dell'azienda di famiglia ma rinunciò a favore del fratello e preferì intraprendere gli studi al seminario arcivescovile di Chieti. 
Finiti gli studi, fu nominato parroco di una piccola curia della provincia e scelse il posto di prefetto di camerata nel Regio Collegio Sannitico di Campobasso. In quel periodo, si avvicinò alle idee del Risorgimento, coltivando amicizie negli ambienti mazziniani, fino a iscriversi alla Giovine Italia.
Ospite di un parente a Napoli, iniziò a frequentare la scuola di lingua italiana del letterato Basilio Puoti e divenne amico di Francesco De Sanctis e di Silvio Spaventa. Tornato a Furci, insegnò al seminario di Montecassino, dove conobbe Vincenzo Gioberti e dove iniziò a stampare L'Ateneo Italiano, una rivista di scienza e letteratura, in seguito soppressa dal governo napoletano dopo l'insurrezione del 15 maggio 1848. 
De Horatiis, abbandonata Montecassino, successivamente condusse una vita itinerante nei paesi della zona, predicando e tenendo al contempo discorsi contro il re di Napoli. Questa attività ne causò l'arresto e il trasferimento prima a Napoli e poi a Campobasso, dove trascorse due anni in carcere insieme ad altri mazziniani molisani.
Uscito dal carcere, tornò a Furci ma sia il vescovo che la polizia gli vietarono le partecipazioni in pubblico e il ritorno a Montecassino. 
De Horatiis, però, era divenuto un personaggio popolare per le sue idee e le sue attività e veniva spesso invitato a tenere prediche nelle solenni ricorrenze religiose dei paesi vicini. A causa di ciò, le autorità presero verso di lui provvedimenti ancora più restrittivi ma fu salvato dall'arcivescovo di Lanciano Giacomo De Vincentiis, chiamandolo ad insegnare nel locale seminario.
Nel 1860, dopo l'ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli, il sindaco di Lanciano Ignazio Napoletani, riunita la giunta, dichiarò la decadenza della famiglia borbonica e fece sventolare la bandiera italiana: il primo nel Meridione a compiere un gesto tanto clamoroso. 
De Horatiis fu nominato segretario del sottoprefetto di Lanciano, Camillo del Greco.
In seguito divenne parroco di Ortona, dove finì i suoi giorni.


13 agosto 2023

Antonio Mezzanotte, Andiamo a Cornaclano, andiamo al Beato.

Cornaclano, Beato Angelo da Furci

ANDIAMO A CORNACLANO, ANDIAMO AL BEATO
di Antonio Mezzanotte

Andiam, si parte, si va a Cornaclano, come ogni anno, com’è tradizione, come vuole la devozione. Che cos’è Cornaclano oggi? Un rudere di muro, un monolite sperso tra i boschi e le campagne della Treste, nel vastese; frinir di cicale e di grilli, guair di volpi, strider di falchi, non s’ode altro.
Ma la mattina del 13 agosto un insolito andirvien di auto e di genti, tutti s’affrettano verso uno spiazzo, tra due querce e l’antico muro, ove nel mezzo sta un altar.
È la Messa per “lu Sande Beate Angelo”, come dicono qui, che a Sant'Angelo in Cornaclano, antica e potente abbazia benedettina, poi agostiniana, poi commenda dei principi Caracciolo, da ragazzo si fece sapiente per spiccar il volo da Furci (CH), il paese natio, fino alla Sorbona di Parigi e ai cieli della santità.
Il Beato morì a Napoli nel 1327 e nell’agosto 1808 partì una delegazione di furcesi per chiedere al Re di poter riportare a casa le Sacre Reliquie. Quando si dice aiutati ché Dio t’aiuta! In quel frangente re Giuseppe Bonaparte stava facendo le valigie per la Spagna, lì destinato dal fratello Napoleone, e figuriamoci se aveva tempo per esaminare le istanze dei furcesi e... grazie a Dio! Infatti, cavilloso, prudente ma anche pavido com’era di certo avrebbe trovato qualche motivo di diniego (Giuseppe non era portato per fare il Re in quei tempi eccezionali, al più avrebbe potuto essere un buon ministro o ancora meglio un ottimo consigliere di stato).
Al suo posto Napoleone nominò il cognato Gioacchino Murat, gran testa calda, guascone, impulsivo, ambizioso, ma con due grandi qualità: sapeva condurre una carica di cavalleria come nessun’altro e, inoltre, undicesimo figlio di un oste, aveva un gran cuore che lo fece subito benvolere dal popolo napoletano. Fu proprio Murat a firmare il decreto che autorizzava i furcesi a riportarsi le spoglie del Beato in paese. In ricordo di quell’evento, il 13 agosto di ogni anno i devoti del beato Angelo si recano in pellegrinaggio ai resti dell’abbazia di Cornaclano.
Questo pellegrinaggio dal paese a scendere verso Cornaclano, che ancora qualcuno fa a piedi, è davvero un tornare indietro nel tempo: si scende lungo la strada che porta al fondovalle (una vecchia mulattiera trasformata in rotabile, una discesa, a tratti assai ripida, che mette a dura prova i freni delle autovetture, ma anche farsela a piedi non è uno scherzo e probabilmente pure i muli avrebbero protestato), costeggiando le Mura Saracene (i resti di un antico convento distrutto dai saraceni), si prende la strada di fondovalle all’altezza del vecchio mulino, poi si entra nell’exclave sanbuonese del Pantano, poco dopo l’incrocio per la Cena e al di sotto delle Morge si svolta a destra e ci si prepara ad attraversare la Treste.
Sono anni che ormai percorro questa strada, ma in quell’aveo d’estate non ho mai visto un rivo d’acqua e così ripenso a un atto giudiziario dell’Avv. Gaetano Celani in un processo del 1753, lì dove descrive il corso del fiume Treste, precisando che dalla grande abbondanza di acqua nei mesi invernali la portata si riduce nei mesi estivi fino a perdersi del tutto tra aridi sassi e disseccate arene.
Malgrado frane, erosioni e smottamenti una stradina guada il fiume e poi, tra vigne, frutteti e distese di campi mietuti, tra i quali già si iniziano i lavori di aratura, sale in direzione di Fresagrandinaria, al quale fa capo questo versante, e giunti a una vecchia casa colonica bisogna trovare un posteggio possibilmente riparato dal solleone sotto un ulivo o una quercia e affrettarsi a raggiungere la spianata di Cornaclano per conquistarsi una porzione d’ombra, magari vicino ai cespugli di more, che fanno gola...
La celebrazione della Santa Messa all’aperto con i devoti disposti a semicerchio riecheggia antiche litanie e la fervente attività dell’abbazia medievale, riallacciando una ideale continuità dai giorni del beato Angelo a oggi.
Il paese di Furci si scorge in lontananza appollaiato sul colle, boschi di querce fanno da sfondo a Cornaclano, nibbi reali volteggiano in cielo e più volte si avvicinano, forse incuriositi da questo insolito fermento.
A conclusione, cellipieni devozionali e panini alla ventricina e poi si ripercorre la stessa strada (oppure si riprende l'Istonia passando per Sodere di San Buono, più lunga ma anche più agevole) per risalire in paese; se avanza tempo, deviando alla Guardiola poco prima della Treste, si raggiunge la vicina chiesetta rurale di Sant’Antonio di Padova, sempre in territorio di Fresagrandinaria, con la sua grotticella e il ricordo di quei miracoli compiuti da uno sconosciuto pellegrino (si dice lo stesso S.Antonio) agli inizi del 1900.
Quando si viene nella Valle del Treste fede, tradizioni e storie di un tempo si fondono con una natura aspra e dura, che tempra gli animi, e quel che ne deriva è una devozione autentica per i Santi di qui, arcangeli, guerrieri, teologi, predicatori, Madonne arboree, e un rispetto atavico e corale verso il forestiero, il quale, superata l’iniziale e inevitabile reciproca diffidenza con i residenti, riceve da questi accoglienza sincera e ricetto, perché chi viene fin quaggiù è come un pellegrino che cerca di ritrovare sé stesso nel gran viaggio della vita.

28 maggio 2023

Antonio Mezzanotte, Le mura saracene a Furci (CH).


Le mura saracene a Furci
di Antonio Mezzanotte

Si dice e si racconta che tanto tempo fa una schiera di predoni saraceni, risalendo la Valle del Treste, arrivarono a Colle Moro, sottostante al paese di Furci, e lì misero a ferro e a fuoco un antico monastero, passando a fil di spada (o di scimitarra) tutti i monaci. Poi, dopo che tutto fu macerie e desolazione, si apprestavano a muoversi verso l'abitato per saccheggiarlo. Ecco, però, che calò d'improvviso una fitta nebbia, ma così fitta che non si vedeva più nulla e gli invasori persero l'orientamento; subito dopo, altrettanto improvvisamente, riecheggiò un lugubre rintocco di campane proveniente dal convento appena distrutto e allora i Saraceni, spaventati, se ne fuggirono.

Ancora oggi quel luogo su Colle Moro, a mezza costa tra la Treste e il paese di Furci (CH), presenta i resti di tre imponenti costruzioni in mattoni, simili a pilastri, chiamate Mura Saracene in ricordo di quell'evento.

Un'altra versione della leggenda, meno nota, vuole che il monastero di Colle Moro fu distrutto da una invasione di formiche, le stesse che più a valle avevano devastato l'antica Lentella, un tempo posta alla confluenza della Treste con il Trigno, e che più a monte avevano demolito l'altro monastero della S.S. Trinità ad Duas Virgines nei pressi di San Buono e alle pendici di Monte Sorbo.

Erano tempi cupi, la Valle percorsa da scorrerie di barbari, ungari, saraceni, genti forestiere animate soltanto da intenzioni predatorie e il racconto popolare associò l'eco di quegli eventi lontani all'invasione di devastanti formiche.

Quelle incursioni furono fermate una prima volta intorno all'anno Mille da un leggendario soldato a cavallo di nome Buono, che avrebbe fondato il castello di San Buono, e, successivamente e in concreto, nel 1500 dai potenti principi Caracciolo di Santobono, che assicurarono stabilità e sicurezza in tutta la Valle per almeno tre secoli.

Le cosiddette Mura Saracene di Furci, che testimoniano quei fatti così lontani nel tempo, oggi costituiscono uno dei perni della rete sentieristica della Valle del Treste e intorno ad esse è stata allestita un'area di sosta.

Da: https://www.facebook.com/antonio.mezzanotte.756

16 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, La forma dell’acqua (ovvero la causa per il mulino di San Buono).


La forma dell’acqua (ovvero la causa per il mulino di San Buono)
di Antonio Mezzanotte

È difficile spiegare in poche parole, per aggiunta qui su Facebook, che cos’è stato il feudalesimo. 
Esso ha costituito attraverso diversi profili e per circa mille anni l’ossatura della società europea, avendo efficacia nei territori del Regno di Napoli fino agli inizi del 1800. 
È vero che durante il periodo del riformismo borbonico qualcuno già cominciò a pensare di superarlo (tra gli altri, è da menzionare il nostro Melchiorre Delfico, teramano), ma per l'abolizione si dovettero attendere le leggi eversive del 1806-1808, emanate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, durante il c.d. decennio francese.
Per dirimere e giudicare tutte le controversie provocate dalla legge eversiva del 2 agosto 1806, con decreto dell’11 novembre 1807 fu istituita una Commissione feudale, che funzionò come tribunale straordinario per la materia fino all’agosto del 1810.
L’abolizione del feudalesimo fu davvero una “rivoluzione legale” per i nostri paesi, che, di colpo, si trovarono a contendere ai vecchi Signori terre, diritti, esazioni e quant’altro.
Purtroppo, tutti gli atti processuali, per un totale di 1062 faldoni, sono andati distrutti nell'incendio del 1943 appiccato dai tedeschi alla Villa Montesano di San Paolo Belsito (NA), presso la quale erano stati trasferiti gran parte dei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli. Tra le poche carte superstiti, vi è un “Bullettino delle sentenze” emanate dalla Commissione, che raccoglie le oltre tremila sentenze pubblicate in tre anni.
Il 18 maggio 1810 venne emessa, così, la sentenza che metteva fine al contenzioso promosso dal Comune di San Buono (CH) nei confronti dell’ex feudatario Principe Caracciolo per l’utilizzo del mulino ad acqua che si trovava lungo il fiume Treste.
Era accaduto che questo mulino, l’unico presente in paese, era di proprietà dei Caracciolo, i quali probabilmente avevano proibito ai propri sudditi non solo di costruirne un altro che potessero utilizzare liberamente, ma anche di andare a macinare presso altri mulini collocati fuori paese.
Abolita la feudalità e riformata la vecchia Università con la costituzione del Comune, i sanbuonesi ebbero l’idea di chiedere al Principe non solo di abbassare il prezzo preteso per la molitura, ma anche di liberarli dall’obbligo di macinare in quel mulino. 
Inoltre, siccome la forma dell’acqua (ossia la gora, detta anche formale, cioè il canale artificiale che alimentava il mulino) transitava sul territorio comunale, il Comune pretendeva dall'ex feudatario una percentuale sui proventi delle moliture!
Aperto il processo davanti alla Commissione feudale, il Comune era difeso dall’Avv. Felice Santangelo, il Caracciolo dall’Avv. Vincenzo Canofilo, che già alla fine del Settecento veniva considerato esperto nel diritto feudale e degli usi civici, nonché sostenitore della storicizzazione del diritto (in buona sostanza, egli cercava di interpretare la norma giuridica ricostruendo il contesto nel quale aveva operato il Legislatore).
La sentenza della Commissione acclarò quanto segue: il mulino era di proprietà esclusiva del Caracciolo; quindi, non si poteva obbligare giudizialmente il proprietario a calmierare il prezzo della molitura, né il Comune poteva vantare alcun diritto sui ricavi del mulino per il solo fatto del passaggio della forma sul territorio comunale. L’unica decisione possibile per legge era quella di obbligare il Caracciolo a garantire la solita prestazione della molitura ancora per un anno, a parità di prezzo, lasciando nella facoltà del Comune l'eventuale costruzione di un nuovo mulino per i bisogni dei propri cittadini, i quali avrebbero così potuto scegliere liberamente se utilizzare il mulino Caracciolo ovvero quello comunale.
Nella stessa sentenza furono assunti anche provvedimenti migliorativi per i coloni dei due ex feudi di Moro e della Guardiola.
Il mulino di San Buono era solo uno dei tanti opifici sparsi lungo la Valle del Treste, come quello di Furci, di Liscia o di Roccaspinalveti. 
So che ci si sta prodigando per la riscoperta di questi antichi mulini: un altro esempio positivo delle potenzialità offerte dai luoghi "della Treste", ancora poco conosciuti.

9 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, Quando il Marchese D'Avalos del Vasto fece causa al Comune di Furci.


Quando il Marchese D'Avalos del Vasto fece causa al Comune di Furci.
di Antonio Mezzanotte

Molti ricorderanno la famigerata tassa sul macinato, imposta all’indomani dell’unità d’Italia per il risanamento del bilancio statale e negli stessi anni è ambientato uno dei più interessanti romanzi storici di Andrea Camilleri, “La mossa del cavallo”, che ha ad oggetto, appunto, una indagine su un mulino itinerante abusivo controllato dalla mafia.
All’interno di ogni mulino veniva applicato un contatore meccanico che conteggiava i giri effettuati dalla ruota macinatrice. La tassa era così dovuta in proporzione al numero dei giri, che, secondo la previsione di legge, doveva corrispondere alla quantità di macinato.
Quanto sopra per rammentare la centralità del mulino nella vita sociale delle comunità in ogni epoca e intorno ai mugnai e ai mulini vi è tutta una letteratura di racconti, leggende, tradizioni… e contenziosi!
Accadde, così, che alla fine del 1752 un’alluvione travolse l’antico mulino comunale ad acqua collocato lungo le sponde del fiume Treste, nel territorio di Furci, nel vastese.
L’utilizzo del mulino non era annoverato tra i diritti feudali vantati dalla Casa d’Avalos, alla quale era stata investita la Contea di Monteodorisio, di cui Furci costituiva una delle tredici Terre. L’Università (come veniva definito il Comune nell’antico regime), pertanto, a spese proprie e senza chiedere alcuna autorizzazione al feudatario, si accinse a riedificare il mulino, ma con ricorso datato 13.03.1753 il Marchese Diego II d’Avalos si rivolgeva alla Regia Camera della Sommaria con sede in Napoli al fine di impedirne la ricostruzione, sostenendo di avere per tutta la Contea di Monteodorisio la giurisdizione delle acque e dei mulini con il diritto proibitivo nei confronti delle stesse Università e che i furcesi erano obbligati da sempre a macinare solo ed esclusivamente nel mulino baronale.
I Furcesi, però, non si lasciarono intimorire dalle pretese del Marchese e nominarono due avvocati per sostenere le proprie ragioni: Gaetano Celani, celebre giurista napoletano (difese il Duca di Modena in una complessa questione di eredità e sarà anche consulente giuridico del Consiglio di Reggenza durante la minore età di Re Ferdinando), e Francesco Giacomucci, di probabili origini vastesi.
La richiesta di sospensiva dei lavori fu rigettata con decreto presidenziale del 15.06.1753 e il fascicolo processuale venne trasmesso alla Regia Udienza di Chieti per l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio in rogatoria a mezzo del perito Gerardo Lanti, affinché, attraverso un sopralluogo, relazionasse sui fatti di causa e sullo stato dell’arte.
Il CTU Lanti si recò a Furci e nei luoghi limitrofi, raccogliendo dodici testimonianze di persone che avevano conosciuto i fatti: furono ascoltate sei persone residenti in San Buono e Carpineto Sinello (ossia in località non annoverate tra i possedimenti dei d’Avalos) e altre sei residenti in Liscia e Casalanguida (ossia in due feudi del Marchese d’Avalos), le quali confermarono tutte che i furcesi avevano sempre goduto della libertà di macinare nel proprio e in altri mulini, senza chiedere alcuna autorizzazione al Marchese, così come aveva attestato anche lo "Stato discusso" di Carlo Tapia nel secolo precedente.
Con successivo decreto presidenziale del 17.08.1753 la Sommaria concesse provvisoriamente all’Università di Furci la libertà di macinare in qualsivoglia mulino senza impedimenti o richieste di pagamento da parte del feudatario. Nelle more, i Furcesi avevano completato la riedificazione del mulino e con un nuovo decreto presidenziale fu autorizzato l’utilizzo delle acque del Treste.
Finiva così la fase cautelare del giudizio, con il pieno riconoscimento del libero diritto degli abitanti di Furci di costruire il proprio mulino, di macinare in esso e di utilizzare le acque del fiume Treste senza alcun peso feudale da parte della Casa d’Avalos.
Nello stesso anno si incardinò la fase processuale di merito ed il 10.07.1756 gli avvocati di Furci stamparono a Napoli la propria memoria conclusionale, nella quale ripercorrevano la vicenda e, soprattutto, offrivano svariati spunti inediti per la ricostruzione della storia locale, della geografia di quei territori, del diritto feudale e degli usi civici, delle magistrature del Regno di Napoli.
Nel 2015 ho scoperto quel libello defensionale presso la Biblioteca dell’Abbazia di Casamari e ne ho dato un ampio commento sul n.1/2016 della Rivista Abruzzese (per chi ne vuol sapere di più).
Chi vinse la causa? Non abbiamo la sentenza, ma l'orientamento della giurisprudenza, anche relativa ad analoghe questioni sorte tra feudatari e altre comunità della Valle del Treste, ci fanno ipotizzare che la spuntarono i Furcesi, il cui mulino continuò a macinare nei secoli successivi, almeno fino al 1943/44, come mi hanno raccontato gli anziani del paese.
(Nella foto: Antonio Fontanesi, "Il mulino", 1858-1859, olio su tela)

1 gennaio 2022

Antonio Mezzanotte, La Madonna di Costantinopoli a Furci.


LA MADONNA DI COSTANTINOPOLI A FURCI (CH)
di Antonio Mezzanotte

I nostri paesi d'Abruzzo conservano tesori d’arte, purtroppo spesso sconosciuti.
Merita un rilievo del tutto particolare la tela della "Madonna di Costantinopoli", di autore ignoto, probabilmente tardo secentesca, che è conservata nel santuario del Beato Angelo a Furci (CH), nel vastese.
Il dipinto è parzialmente coperto da incrostazioni e muffe. In ogni caso, si evidenziano alcuni elementi caratterizzanti, quali, ad esempio, la Madonna col Bambino, coronata ed ammantata da un drappo blu con una stella disegnata sulla spalla sinistra (da cui l'altro nome attribuito alla tela di "Madonna della Stella"), assisa sulle nubi al centro della composizione e, ai lati, due angeli che versano acqua dalle anfore su una città fortificata, posta alla base dell'insieme, munitissima di torri e bastioni, che sembra preda di un incendio; inoltre, sempre in basso ma verso l’angolo destro rispetto all’osservatore, pare scorgersi una nave alla rada.
L’impianto complessivo degli elementi pittorici rinvenibili è quello del tipo iconografico di Santa Maria di Costantinopoli, che ritrae la città turrita e cinta di mura in preda alle fiamme di un imponente incendio conseguente, secondo gli storici, ad un assedio di arabi o persiani nell'VIII sec.
Si dice e si racconta che la città fu salvata dal prodigioso intervento di Maria Santissima.
Non è peregrino ipotizzare che il dipinto doveva in origine fungere da pala d'altare per la chiesa di Santa Maria, andata distrutta con la grande frana del 1935.
Perché questo dipinto si trova a Furci? Probabilmente come ex voto per la liberazione del paese da un flagello naturale (ad esempio la peste) o da una incursione turca. Non mancano nemmeno ipotesi di richiami alle comunità schiavone e albanesi del vicino Molise (presso le quali è forte il culto per la Madonna di Costantinopoli), storicamente in contatto con il paese di Furci, sia per il passaggio del tratturo Centurelle - Montesecco che tocca questi territori, sia per la comune devozione al Beato Angelo presso quelle comunità molisane.
Un'opera d'arte di sicuro interesse (che andrebbe sottoposta a urgente restauro prima che l'usura del tempo la comprometta irreparabilmente) e la pongo in evidenza oggi, che è il Primo dell’anno, giorno dedicato proprio alla Madre di Dio, già patrona di Costantinopoli e dell'Impero d'Oriente, affinché non vada persa l’attenzione su questi nostri straordinari beni culturali (che in qualche modo dovrebbero essere salvaguardati, studiati, ricordati, valorizzati), specialmente quelli celati nelle piccole comunità, come quella furcese, una delle perle della Valle del Treste.
E l'Anno Nuovo inizia così.
Auguri!



12 agosto 2021

Cesare De Horatiis, Poesie postume (con profilo biografico).

 

Cesare De Horatiis, Poesie postume (con profilo biografico).
Da. Archive.com

Carlo Marchesani, "Cesare De Horatiis", sacerdote, poeta, patriota, giornalista ed oratore.

Cesare De Horatiis

Cesare De Horatiis
Sacerdote, poeta, patriota, giornalista ed oratore
(Furci, 15 febbraio 1812 - Ortona, 10 ottobre 1863)


Il 1799 è stato l'anno tra i più infausti registrati nella storia dell'Abruzzo. Tutta la regione compresa nell'allora regno di Napoli rimase oppressa dalle truppe francesi poste al comando del generale Championnet. Così anche le terre di Vasto e delle comuni viciniori rimasero succubi del "diritto di occupazione" esercitato spavaldamente dalla soldataglia, abbandonatasi a saccheggi e soprusi d'ogni genere.
La vicina Furci non sfuggì pertanto a un simile evento e, in particolare, è ricordato il medico Donatangelo De Horatiis, l'unico che ivi esercitava la professione sanitaria in quel tempo, ebbe la casa invasa dai predatori, che la devastarono ovunque, alla ricerca di monili e di oggetti preziosi.
Fu anche agente dei d'Avalos e da loro gratificato con terreni e con una guarnigione di armigeri.
Il figlio Nicola non seguì le orme paterne, ma, tutto proteso allo studio letterario, si dedicò in particolar modo all'insegnamento, manifestando inoltre idee liberali, nell'affiancarsi alle espressioni indipendentistiche dell'Alfieri, con il quale strinse rapporti di amicizia.
Nel 1812, la moglie di Nicola De Horatiis, una De Francesco di Atessa, diede alla luce un maschietto, cui posero nome Cesare. Questi ereditò dal padre l'amore per le belle lettere, dimostrando poi una versatilità tutta particolare nella lirica poetica, doti alle quali si affiancava un profondo sentimento religioso, ancora più acceso di quanto pervadeva già l'ambito familiare.
Consacratosi al sacerdozio, proseguì nell'accrescere la cultura umanistica, specie quella religiosa e agli inizi degli anni trenta esercitò la docenza nel seminario di Chieti e vi tenne cattedra per due anni.
Nel 1836 scrisse un canto in terza rima, per celebrare l'onomastico dell'Arcivescovo, la cui prima terzina sembra quasi richiamarsi allo spirito manzoniano: "Folle colui che plaude ai vili; folle / chi servo encomio bassamente appresta / e degli ignavi il falso merto estolle".
Compose inoltre inni sacri e una serie di oratori, dei quali uno, l'Erodiade, fu solennemente cantato a Chieti, nel 1842, in occasione della festa di S. Giustino.
Nel 1838 lo si vede, nella veste di prefetto di camera, nel Collegio Sannitico di Campobasso. Qui ha modo di prendere contatti con vari personaggi del capoluogo molisano, tra cui Pasquale d'Ovidio, che teneva cattedra di Letteratura nello stesso collegio e rivelatosi eccellente musico, specie come violinista. Ma ciò che maggiormente suggestionò don Cesare è stata la presenza e molto attiva in quella città di un comitato della Giovine Italia che molto si prodigava nel diffondere il pensiero mazziniano.
Cesare De Horatiis, con lo stesso spirito paterno, evidentemente mai del tutto velato da quello religioso, vi aderì compiutamente e dai suoi scritti emerge il rafforzamento dei sentimenti del puro nazionalismo o, come precisa Campolieti, suo biografo, "un nuovo concetto nel giovane sacerdote: la patria, l'Italia; non più come culto d'un passato di gloria, ma come preparazione d'un avvenire di redenzione".
Verso la fine del '39, dopo un fugace ritorno a Furci, partì alla volta di Napoli. Qui fece ben presto conoscenza con eminenti personalità della cultura come Malpica, De Sanctis e Giuseppe Regaldi, ben noto agli storici della letteratura per le sue improvvisazioni poetiche. Più tardi fu invitato a svolgere la docenza nel seminario di Montecassino dall'abate del monastero nel cui ambito ebbe poi l'opportunità di accostarsi alle opere del Savonarola. Fu così che nell'animo del sacerdote di Furci balzò luminoso lo spirito savonaroliano in una visione di chiara attualità. Trovò in tal modo il senso di associare allo spirito religioso quello puramente politico, la cui immagine la seppe infine esprimere con la chiarezza della sua eloquenza.
Nel suo "Elogio dei Santi Martiri Nazario, Celso e Vittore", pronunciato nel luglio del '43, don Cesare ebbe a dire, tra l'altro: "La carità del loco natio negli animi gentili non è già sentimento, ma passione ardentissima ... In questa Italia, dove da lunga stagione non altro provasi affetto che quello del dolore ... i più reputati figli d'Italia nella scuola dell'infortunio si fecero sommi ...". Ma lo spirito dell'affratellato mazziniano il De Horatiis lo pose in chiara luce nell'aprile del '48 (anno fatidico), con un discorso volto in sostanza a quanti si immolarono per una nobile causa. Un lungo discorso, che meriterebbe l'intera trascrizione, ma appare in tutto il suo significato già nell'esordio: "Io non so, se dopo la Religione, l'uomo possa aver mai più bella cagione di versare il suo sangue e dare la vita, che la difesa e la salvezza della terra ove nacque. E molti generosi, o fratelli, per questa fatale patria nostra morirono; morirono per la santa causa della libertà; morirono per francar noi, e quanti abitano dall'Alpi al mare, da lunga e dolorosa cattività". A questo aggiunse, con tanta amarezza, l'ingrato compenso che "quei forti ricevettero dalla gente trista", mentre quanti, sommessamente riconoscenti versarono una "segreta lagrima".
Il pensiero ormai così esplicitamente espresso, senza più alcuna remora, fu poi dato alle stampe, insieme con altri scritti di pari valore. La polizia borbonica, così informata, irruppe ben presto nel monastero cassinense, per procedere al sequestro della tipografia. Al suo ritorno in casa trovò alcuni agenti della polizia in attesa per arrestarlo, senza peraltro che gli venisse formulata una precisa accusa. Condotto nelle carceri fu accolto malamente dai prigionieri ormai suoi compagni di cella, ritenendolo uno spione messo tra loro dalla polizia stessa.
Sapeva già che in quelle carceri era detenuto un suo grande amico, Silvio Spaventa, condannato alla pena dell'ergastolo e si trovava posto nel piano superiore. Si rivolse al custode affinché gli fosse consentito il permesso di incontrarlo e quindi, sbrigate le formalità burocratiche, gli fu esaudita la richiesta. Inutile dire il calore con il quale i due si incontrarono: un forte, affettuoso abbraccio, che forse ha intenerito il cuore degli stessi carcerieri.
De Horatiis, così turbato dall'atteggiamento assunto dai suoi compagni di cella, rivolse all'amico la preghiera: "per carità, levami da una condizione falsa, penosa, abbietta; qui mi fuggono, come se fossi un appestato. Chissà chi mi credono". Così, come riferisce ancora Campolieti, Silvio Spaventa presentò il De Horatiis per un "liberale d'animo grande, non meno che per un eletto e coltissimo ingegno".
A Vasto ebbe vari amici liberali, tra cui Giacinto Barbarotta che gli dedicò una iscrizione epigrafica nel 1856, e altri ne contava in Lanciano, uno dei quali il Vice Prefetto Camillo del Greco, pure lui vastese. Con l'avvenuta Unità d'Italia volle celebrare tutto il suo entusiasmo in una serie di iscrizioni epigrafiche, dedicate alla patria e a quanti operarono alla compiutezza della sua unione.
Morì nell'ottobre del 1863 in Ortona, dove svolgeva la funzione di parroco, a seguito di una grave affezione nelle vie respiratorie.

Articolo di Carlo Marchesani, pubblicato su  "Vasto domani" - n. 6 - giugno 2011.