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12 agosto 2021

Carlo Marchesani, "Cesare De Horatiis", sacerdote, poeta, patriota, giornalista ed oratore.

Cesare De Horatiis

Cesare De Horatiis
Sacerdote, poeta, patriota, giornalista ed oratore
(Furci, 15 febbraio 1812 - Ortona, 10 ottobre 1863)


Il 1799 è stato l'anno tra i più infausti registrati nella storia dell'Abruzzo. Tutta la regione compresa nell'allora regno di Napoli rimase oppressa dalle truppe francesi poste al comando del generale Championnet. Così anche le terre di Vasto e delle comuni viciniori rimasero succubi del "diritto di occupazione" esercitato spavaldamente dalla soldataglia, abbandonatasi a saccheggi e soprusi d'ogni genere.
La vicina Furci non sfuggì pertanto a un simile evento e, in particolare, è ricordato il medico Donatangelo De Horatiis, l'unico che ivi esercitava la professione sanitaria in quel tempo, ebbe la casa invasa dai predatori, che la devastarono ovunque, alla ricerca di monili e di oggetti preziosi.
Fu anche agente dei d'Avalos e da loro gratificato con terreni e con una guarnigione di armigeri.
Il figlio Nicola non seguì le orme paterne, ma, tutto proteso allo studio letterario, si dedicò in particolar modo all'insegnamento, manifestando inoltre idee liberali, nell'affiancarsi alle espressioni indipendentistiche dell'Alfieri, con il quale strinse rapporti di amicizia.
Nel 1812, la moglie di Nicola De Horatiis, una De Francesco di Atessa, diede alla luce un maschietto, cui posero nome Cesare. Questi ereditò dal padre l'amore per le belle lettere, dimostrando poi una versatilità tutta particolare nella lirica poetica, doti alle quali si affiancava un profondo sentimento religioso, ancora più acceso di quanto pervadeva già l'ambito familiare.
Consacratosi al sacerdozio, proseguì nell'accrescere la cultura umanistica, specie quella religiosa e agli inizi degli anni trenta esercitò la docenza nel seminario di Chieti e vi tenne cattedra per due anni.
Nel 1836 scrisse un canto in terza rima, per celebrare l'onomastico dell'Arcivescovo, la cui prima terzina sembra quasi richiamarsi allo spirito manzoniano: "Folle colui che plaude ai vili; folle / chi servo encomio bassamente appresta / e degli ignavi il falso merto estolle".
Compose inoltre inni sacri e una serie di oratori, dei quali uno, l'Erodiade, fu solennemente cantato a Chieti, nel 1842, in occasione della festa di S. Giustino.
Nel 1838 lo si vede, nella veste di prefetto di camera, nel Collegio Sannitico di Campobasso. Qui ha modo di prendere contatti con vari personaggi del capoluogo molisano, tra cui Pasquale d'Ovidio, che teneva cattedra di Letteratura nello stesso collegio e rivelatosi eccellente musico, specie come violinista. Ma ciò che maggiormente suggestionò don Cesare è stata la presenza e molto attiva in quella città di un comitato della Giovine Italia che molto si prodigava nel diffondere il pensiero mazziniano.
Cesare De Horatiis, con lo stesso spirito paterno, evidentemente mai del tutto velato da quello religioso, vi aderì compiutamente e dai suoi scritti emerge il rafforzamento dei sentimenti del puro nazionalismo o, come precisa Campolieti, suo biografo, "un nuovo concetto nel giovane sacerdote: la patria, l'Italia; non più come culto d'un passato di gloria, ma come preparazione d'un avvenire di redenzione".
Verso la fine del '39, dopo un fugace ritorno a Furci, partì alla volta di Napoli. Qui fece ben presto conoscenza con eminenti personalità della cultura come Malpica, De Sanctis e Giuseppe Regaldi, ben noto agli storici della letteratura per le sue improvvisazioni poetiche. Più tardi fu invitato a svolgere la docenza nel seminario di Montecassino dall'abate del monastero nel cui ambito ebbe poi l'opportunità di accostarsi alle opere del Savonarola. Fu così che nell'animo del sacerdote di Furci balzò luminoso lo spirito savonaroliano in una visione di chiara attualità. Trovò in tal modo il senso di associare allo spirito religioso quello puramente politico, la cui immagine la seppe infine esprimere con la chiarezza della sua eloquenza.
Nel suo "Elogio dei Santi Martiri Nazario, Celso e Vittore", pronunciato nel luglio del '43, don Cesare ebbe a dire, tra l'altro: "La carità del loco natio negli animi gentili non è già sentimento, ma passione ardentissima ... In questa Italia, dove da lunga stagione non altro provasi affetto che quello del dolore ... i più reputati figli d'Italia nella scuola dell'infortunio si fecero sommi ...". Ma lo spirito dell'affratellato mazziniano il De Horatiis lo pose in chiara luce nell'aprile del '48 (anno fatidico), con un discorso volto in sostanza a quanti si immolarono per una nobile causa. Un lungo discorso, che meriterebbe l'intera trascrizione, ma appare in tutto il suo significato già nell'esordio: "Io non so, se dopo la Religione, l'uomo possa aver mai più bella cagione di versare il suo sangue e dare la vita, che la difesa e la salvezza della terra ove nacque. E molti generosi, o fratelli, per questa fatale patria nostra morirono; morirono per la santa causa della libertà; morirono per francar noi, e quanti abitano dall'Alpi al mare, da lunga e dolorosa cattività". A questo aggiunse, con tanta amarezza, l'ingrato compenso che "quei forti ricevettero dalla gente trista", mentre quanti, sommessamente riconoscenti versarono una "segreta lagrima".
Il pensiero ormai così esplicitamente espresso, senza più alcuna remora, fu poi dato alle stampe, insieme con altri scritti di pari valore. La polizia borbonica, così informata, irruppe ben presto nel monastero cassinense, per procedere al sequestro della tipografia. Al suo ritorno in casa trovò alcuni agenti della polizia in attesa per arrestarlo, senza peraltro che gli venisse formulata una precisa accusa. Condotto nelle carceri fu accolto malamente dai prigionieri ormai suoi compagni di cella, ritenendolo uno spione messo tra loro dalla polizia stessa.
Sapeva già che in quelle carceri era detenuto un suo grande amico, Silvio Spaventa, condannato alla pena dell'ergastolo e si trovava posto nel piano superiore. Si rivolse al custode affinché gli fosse consentito il permesso di incontrarlo e quindi, sbrigate le formalità burocratiche, gli fu esaudita la richiesta. Inutile dire il calore con il quale i due si incontrarono: un forte, affettuoso abbraccio, che forse ha intenerito il cuore degli stessi carcerieri.
De Horatiis, così turbato dall'atteggiamento assunto dai suoi compagni di cella, rivolse all'amico la preghiera: "per carità, levami da una condizione falsa, penosa, abbietta; qui mi fuggono, come se fossi un appestato. Chissà chi mi credono". Così, come riferisce ancora Campolieti, Silvio Spaventa presentò il De Horatiis per un "liberale d'animo grande, non meno che per un eletto e coltissimo ingegno".
A Vasto ebbe vari amici liberali, tra cui Giacinto Barbarotta che gli dedicò una iscrizione epigrafica nel 1856, e altri ne contava in Lanciano, uno dei quali il Vice Prefetto Camillo del Greco, pure lui vastese. Con l'avvenuta Unità d'Italia volle celebrare tutto il suo entusiasmo in una serie di iscrizioni epigrafiche, dedicate alla patria e a quanti operarono alla compiutezza della sua unione.
Morì nell'ottobre del 1863 in Ortona, dove svolgeva la funzione di parroco, a seguito di una grave affezione nelle vie respiratorie.

Articolo di Carlo Marchesani, pubblicato su  "Vasto domani" - n. 6 - giugno 2011.

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