di Elisabetta Mancinelli
6 gennaio 2023
Federico Caffè, maestro di economia e di vita.
27 aprile 2021
La lezione dimenticata di Federico Caffè, di Michelangelo Morelli.
di Michelangelo Morelli
Definire Federico Caffè un semplice economista significa banalizzare molti
aspetti che contribuiscono a renderlo uno dei personaggi più interessanti del
Novecento repubblicano del nostro Paese. Alfiere del pensiero keynesiano e
del welfare state, antifascista e attento osservatore della società
italiana, Caffè è stato un intellettuale poliedrico ed enciclopedico, capace di
ragionar d’economia cogliendo le implicazioni umane, sociali e culturali
essenziali per la costruzione di una società fondata sul benessere degli
individui.
Federico Caffè nacque il 6 gennaio 1914 a Castellammare Adriatico
(Pescara), secondogenito di una famiglia economicamente modesta: il padre
Vincenzo era un ferroviere, mentre la madre Erminia integrava il magro bilancio
famigliare dirigendo un piccolo laboratorio di ricamo. Caffè rimase sempre
molto legato alla madre, ereditando da essa la passione per la cultura
letteraria, musicale ed estetica che caratterizzò l’eclettica personalità
dell’economista per tutta la vita.
Diplomatosi a pieni voti presso l’Istituto Tecnico Tito Acerbo a
Castellammare (riunificata con Pescara nel 1926), Caffè si trasferì a Roma da
una cugina per frequentare gli studi universitari presso la facoltà di Economia
e Commercio della Sapienza. La frequentazione dell’ateneo romano fu possibile
grazie alla madre Erminia, che per raccogliere il denaro necessario vendette un
piccolo podere di cui era proprietaria, riacquistato in seguito dallo stesso
Caffè.
Caffè si laureò cum laude nell’ateneo romano il 17 novembre 1936 con una
tesi intitolata L’azione dello Stato considerata nei suoi strumenti
finanziari nell’ordinamento autarchico dell’economia italiana, discussa col
Professor Guglielmo Masci, suo maestro assieme a Gustavo Del Vecchio. Il tema
della tesi è emblematico di quell’attenzione per il ruolo dell’amministrazione
centrale nella vita economica che caratterizzò il percorso intellettuale e
professionale dell’economista pescarese.
Già alcuni mesi prima della laurea Caffè fece richiesta per entrare al
Banco di Roma, dove prestò servizio nell’ufficio titoli dal 1936 al 1937. Nel
giugno di quell’anno si dimise dal Banco, entrando a dicembre in Banca d’Italia
come avventizio presso il Servizio Rapporti con l’Interno-Operazioni
Finanziarie. Ottenuta la qualifica di segretario, nel 1939 passò al reparto
Servizio del Personale, e nello stesso anno cercò di conseguire una borsa di
studio senza però riuscirvi. Sempre in quell’anno Caffè divenne assistente
volontario di Politica Economica presso la facoltà di Economia e Commercio
della Sapienza.
Nonostante la sua modesta statura (appena un metro e mezzo) Caffè fu
richiamato alle armi nel dicembre del 1940, e dopo aver frequentato il corso
per ufficiali fu inviato in zona di guerra, dove venne impiegato in mansioni
“sedentarie”. Quella del servizio militare fu per Caffè una scelta ben precisa,
dettata dal senso del dovere verso molti altri colleghi e coetanei: prima del
1940 infatti aveva insistito per non essere “riformato”, cioè esentato dal
servizio militare, ma di esser dichiarato “rivedibile”[1], lasciandosi aperta la strada di un
futuro impegno nell’esercito.
Nel 1941 il governatore della Banca d’Italia Vincenzo Azzolini, dopo forti
insistenze, riuscì ad ottenere il rientro di Caffè dal fronte insieme ad altri
colleghi ritenuti indispensabili per l’attività della Banca. L’anno successivo
ottenne l’abilitazione all’insegnamento del diritto e dell’economia negli
istituti secondari, e nel 1943 fu nominato componente del Servizio studi della
Banca d’Italia, lavorando in qualità di civil servant con il
nuovo governatore Donato Menichella, rimanendo nell’istituto fino al 1954.
Il 1943 è anche l’anno dell’armistizio di Cassibile, della fuga del re a
Brindisi e dell’occupazione nazista: Caffè, che in quel periodo lavorava a
Roma, fu richiamato alle armi dalla RSI, ma la scelta di non arruolarsi con i
repubblichini lo costrinse a entrare in clandestinità. Rimase ad abitare nella
capitale, dove riuscì a scampare miracolosamente a due rastrellamenti, uno dei
quali fu quello di Via Rasella[2], dove l’economista risiedeva dopo esser
sfuggito alla prima retata nazista.
Vicino alle istanze democratico-liberali e azioniste, nonché al riformismo
cattolico di Giuseppe Dossetti e Amintore Fanfani, negli anni della guerra
Caffè partecipò alla Resistenza da non combattente, militando nel Partito
democratico del Lavoro, fondato l’8 Settembre 1943 da Ivanoe Bonomi e Meuccio
Ruini. Caffè collaborò con quest’ultimo in qualità di consulente sia nel
governo Bonomi III (dicembre 1944-giugno 1945), dove Ruini fu ministro dei
lavori pubblici, sia nel governo Parri (giugno-dicembre 1945), dove lo stesso
ricoprì il dicastero della Ricostruzione delle terre liberate.
La partecipazione di Caffè alla commissione economica del Ministero della
Costituente[3], istituito dal governo Parri e presieduto
da Pietro Nenni, segnò la fine del suo percorso politico in favore di un
impegno totale nella ricerca scientifica. Nel 1947 vinse una borsa di studio in
Inghilterra alla London School of Economics, soggiornando nella capitale
inglese dall’ottobre di quell’anno all’agosto del 1948. A Londra Caffè fu
testimone entusiasta della coesione sociale e dello sforzo collettivo del
popolo inglese nella ricostruzione, guidata dal governo laburista di Clement
Attlee, di cui Caffè condivise gli indirizzi liberalsocialisti ispirati
dal Libro Bianco di William Beveridge e dalle nuove teorie
macroeconomiche di John Maynard Keynes.
Al ritorno in Italia Caffè si adoperò sin da subito per la diffusione del
pensiero keynesiano, incontrando però forti diffidenze non solo nel mondo
accademico, arroccato su posizioni neoclassiche, ma anche negli stessi ambienti
di sinistra. Infatti nel difficile clima politico della ricostruzione,
egemonizzato dalle istanze di containement del presidente
Truman e dalla questione tedesca, le forze socialcomuniste preferirono infatti
assegnare priorità alla tattica politica, rimandando il riformismo
socioeconomico (peraltro in corso d’opera in buona parte d’Europa) a quella
vittoria elettorale che però non si realizzò mai. Caffè fu nel corso degli anni
estremamente critico del tatticismo delle sinistre (anche nei momenti di
maggior forza politica), paradossalmente preoccupate di non spaventare troppo
il ceto medio al fine di strapparlo all’egemonia democristiana.
Federico Caffè:
l’economista di frontiera
L’attività accademica di Caffè,
protrattasi a fasi alterne fino alla fine della guerra, assunse un carattere
più coerente e costante dal marzo 1949, quando ottenne la libera docenza di
politica economica e finanziaria alla Sapienza di Roma. Il 6 dicembre dello
stesso anno fu nominato assistente incaricato alla cattedra di Scienza delle
Finanze della stessa università, divenendo poi assistente straordinario
nell’ottobre 1951 al fianco del professor Gustavo del Vecchio, già relatore e
maestro durante gli anni di studio.
Nell’ottobre 1954 si dimise dall’incarico
a Roma per assumere a tempo pieno la docenza alla cattedra di economia politica
nella Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo Bolognese. Qui farà ritorno nel
novembre 1956 dopo un periodo trascorso alla Facoltà di Economia di Messina
come professore straordinario di Politica Economica e Finanziaria,
trasferendosi poi definitivamente, dopo sei anni di peregrinaggio accademico,
alla Facoltà di Economia e Commercio della Sapienza di Roma nel luglio 1959
come ordinario di Politica Economica e Finanziaria, dove rimarrà fino alla fine
della sua carriera.
Il lungo impegno accademico di Caffè fu
affiancato da un’intensa attività pubblicistica e scientifica. Dal 1959 fu
direttore dell’Istituto di politica economica e finanziaria, per cui curò una
collana di pubblicazioni, prima con la casa editrice Giuffrè e poi presso la
Franco Angeli Editore. Profondo conoscitore del pensiero economico italiano e
internazionale, Caffè curò con grande perizia filologica raccolte di saggi di
autori nazionali, tra cui Francesco Saverio Nitti e Luigi Einaudi, e autori
stranieri, con una particolare attenzione per gli economisti di quei paesi
scandinavi in cui si stava affermando nella sua forma più compiuta il Welfare
State.
Lo sforzo di Caffè di “sprovincializzare”
la cultura economica italiana, arroccata su anguste parrocchie culturali e
scuole di pensiero dogmatiche, non si esaurì esclusivamente nell’infaticabile
opera di traduzione di centinaia di saggi in lingua straniera. Egli fu infatti
dal 1965 al 1974 direttore dell’Ente per gli studi monetari, bancari e
finanziari “Luigi Einaudi” di Roma, responsabile dell’erogazione di borse di
studio che permisero a molti giovani economisti italiani di frequentare le più
prestigiose università straniere e di entrare a contatto con il pensiero
economico internazionale.
La modernizzazione dell’istituzione
università intrapresa da Caffè non si espresse solo nella diffusione di nuovi
paradigmi, come potevano essere quelli keynesiani, e di nuove modalità di
apprendimento, ma anche nella trasformazione dello stesso personale accademico.
Nel triennio (1973-76) di direzione del Dipartimento di Economia Pubblica de La
Sapienza egli chiamò all’insegnamento prestigiosi docenti come Sergio Steve,
Claudio Napoleoni e Guido M. Rey, lasciando un’impronta indelebile
nell’insegnamento dell’economia nell’ateneo romano.
L’impegno di Caffè pubblicista si esercitò
soprattutto in direzione di una corretta informazione economica e sociale,
concretizzatasi nell’assidua collaborazione con le testate Il
Messaggero e Il Manifesto oltre alla consulenza
economica svolta per la casa editrice Laterza. Definito spesso un “economista
di frontiera”, Caffè era perfettamente consapevole dell’esistenza di una solida
interrelazione tra il fatto economico, spesso snaturato a semplice “meccanica
della contabilità”, e le sue componenti politiche e psicologiche. Se infatti da
un lato il sistema del welfare e i suoi corollari economici per Caffè erano
indissolubilmente legati alla sostanza della Costituzione del ‘48 (lo
svuotamento del primo avrebbe quindi determinato il deterioramento della
seconda), dall’altro l’informazione economica, se dispiegata in modo incorretto
e terroristico (ad esempio sull’argomento dello spread e della minaccia dei
mercati), poteva corrompere la dialettica politica e provocare politiche
antisociali.
Banco di prova delle teorie di Caffè,
oltre ovviamente all’insegnamento universitario, fu la prolungata e prestigiosa
attività civile e pubblica. Nel Servizio Studi della Banca d’Italia, di cui
fece parte dal 1943, egli curò i rapporti con l’estero, seguendo con attenzione
le principali vicende delle relazioni economiche europee e internazionali e
collaborando con le relative istituzioni economiche. In quasi quarant’anni di
lavoro, dapprima come funzionario e poi, nel 1954, in veste di consulente,
Caffè partecipò a innumerevoli attività: dai negoziati con la Banca Mondiale
per i finanziamenti nell’immediato dopoguerra all’esecuzione del Piano Marshall
e ai rapporti con l’OCSE e con il Fondo Monetario Internazionale.
Negli ultimi anni la vita di Caffè fu
turbata da dolorose tragedie: a distanza di poco tempo perse la madre
ultranovantenne e la vecchia tata Giulia, colpita da un tumore, a cui
l’economista era profondamente legato. Alla morte delle donne della sua vita si
aggiunse anche la perdita tragica e inaspettata di amici e allievi, tra cui
Fausto Vicarelli, collega alla Sapienza morto in un incidente stradale nel
1986, ed Ezio Tarantelli, economista assassinato dalle Brigate Rosse nel 1985 a
causa del ruolo svolto nel taglio degli scatti della scala mobile decretato nel
1984.
Lo sconforto di Caffè era legato anche al
raggiungimento dei limiti d’età per l’insegnamento, sua unica vera ragione di
vita, che lo aveva costretto al pensionamento. Inoltre in un periodo come gli
anni Ottanta dello scorso secolo, in cui il neoliberismo si stava
riappropriando degli spazi sottrattigli per trent’anni del pensiero keynesiano,
la magnificazione delle virtù taumaturgiche del “libero mercato”, di fatto
inesistente e spesso fonte di sperequazione sociale, disoccupazione e
corruzione finanziaria, non poteva che mortificare profondamente il più
keynesiano degli economisti, impegnato per tutta la propria esistenza al
sostegno di efficaci politiche anticicliche e del social welfare state.
E così, tra la notte del 14 e l’alba del
15 aprile 1987, Federico Caffè lasciò la propria abitazione romana in Via
Cadlolo, sulla collina di Monte Mario, scomparendo per sempre senza lasciar
alcuna traccia. Le ipotesi sulla scomparsa dell’economista, ad oggi ancora
irrisolta, sono molteplici, anche se la pista più probabile è quella di un
allontanamento volontario. Molti hanno voluto vedere la sua scomparsa come una
sorta di esilio, simile a quello del fisico Ettore Majorana, che l’economista
vedeva come unica alternativa praticabile al suicidio. Infatti, pochi giorni
prima della sua scomparsa si era tolto la vita Primo Levi (in circostanze
altrettanto sospette): appresa la notizia, Caffè ne rimase colpito, chiedendosi
“Perché sotto gli occhi di tutti? Perché straziare i parenti?”.
Undici anni dopo la scomparsa, l’8 agosto
1998, il Tribunale di Roma dichiarò la morte presunta di Caffè, apponendo un
sigillo ad una vicenda destinata a non avere epilogo.
La lezione di Federico
Caffè
L’adesione di Caffè al pensiero
keynesiano, di cui fu uno dei maggiori esponenti e promotori italiani, risponde
all’esigenza di costruire e implementare un sistema alternativo a quello
“mercatocentrico”, capace quindi di supplire alle oggettive mancanze di
un’economia di mercato. Non si deve pensare però a un ripresa in chiave
radicale del pensiero di Keynes da parte di Caffè, dove le virtù della mano
invisibile vengono rimpiazzate dalla deificazione dello Stato. La formulazione
teorica dell’economista pescarese era invece orientata verso una via
intermedia, un capitalismo epurato dagli elementi di disequilibrio attraverso
l’intervento pubblico in materia di regolamentazione della concorrenza.
Attraverso un’efficace legislazione antimonopolistica il mercato sarebbe stato
infatti libero di operare in condizioni concorrenziali, garantendo livelli di
prezzi stabili e incrementi produttivi crescenti.
Per Caffè l’azione pubblica non si
esauriva tutta nella regolamentazione giuridica di una sola componente del
mercato, cioè l’offerta. Per l’economista il mercato era una struttura valida
ma incompleta sotto tutti i punti di vista, incapace cioè sia di garantire
condizioni ottimali dal lato dell’offerta (per Caffè il mercato, se lasciato
libero di agire, tendeva necessariamente verso l’oligopolio) sia di assicurare
un livello della domanda tale da giustificare la produzione stessa.
Nel pensiero keynesiano l’offerta è una
componente strettamente dipendente dai livelli della domanda: se nessuno ha
abbastanza reddito da spendere, la produzione non avrà alcun motivo di produrre
più di quanto viene domandato, tantomeno di assumere più di quanto sia
necessario. L’equilibrio che viene a definirsi nei casi in cui la domanda è
insufficiente è detto equilibrio di sottoccupazione, poiché i principali
fattori della produzione sono impiegati in maniera non ottimale, causando
disoccupazione e un impiego non adeguato del capitale. Per Caffè, che recepiva
integralmente la tradizione keynesiana, lo scopo fondamentale dell’economia era
la riduzione ai minimi termini della disoccupazione, raggiungibile solo
attraverso efficaci politiche anticicliche capaci di garantire livelli adeguati
di domanda e consequenzialmente di reddito e occupazione.
L’azione pubblica nella vita economica di
un Paese, lontana dai richiami statolatri d’epoca fascista, rispondeva invece a
una costruzione teorica definita da Caffè “economia del benessere”, intesa come
la ricerca dei principi da utilizzare come guida nelle decisioni di politica
economica. Questo strumento metodologico si poneva come necessario sia per
determinare gli standard minimi delle condizioni di vita di una popolazione
(che si configuravano quindi come gli obiettivi stessi di politica economica)
sia per individuare le modalità attraverso le quali assicurare gli stessi
standard. La ricerca delle linee guida della politica economica conferiva
quindi alla teoria economica di Caffè una marcata impostazione volontaristica,
in cui la costruzione di un sistema di welfare era essenzialmente vincolata a
un elevato grado di partecipazione politica e al riformismo della classe
dirigente nazionale.
Nell’ultimo decennio di vita Caffè,
preoccupato dall’affievolirsi della vocazione riformatrice della sinistra
italiana diresse i propri sforzi teorici verso la definizione degli strumenti
necessari per il controllo democratico dell’economia. In un articolo pubblicato
nel marzo 1982 sul Manifesto, l’economista sottolineava
l’importanza di arrivare a una separazione fra gestione dell’intermediazione
finanziaria, affidata ai poteri pubblici, e attività produttiva, nelle mani di
un mercato in condizioni concorrenziali, denunciando inoltre i poteri occulti
degli operatori borsistici e il lassismo nei confronti dei controlli sui
movimenti di capitale[4].
L’urgenza di porre sotto stretta
sorveglianza i movimenti di capitale e la speculazione internazionale portarono
Caffè a individuare negli organismi sovranazionali un efficace strumento di
stabilità finanziaria, utili a svolgere le tradizionali funzioni di prestatori
di ultima istanza per scongiurare il diffondersi di crisi di dimensioni
mondiali. La collaborazione economica doveva però avvenire tra paesi in
condizioni di parità, sotto la sorveglianza non già di una baronìa
tecnocratica, ma di un consesso politico e democratico. A tal proposito Caffè
fu critico verso la tendenza del Fondo Monetario Internazionale a usare due
pesi e due misure con i paesi in surplus e quelli in deficit: ai primi infatti
era permesso di bloccare la rivalutazione delle loro monete, impedendo di fatto
la diminuzione automatica dell’export e perciò il riequilibrio delle partite
correnti[5]; ai paesi debitori era
invece imposta la svalutazione delle monete, costringendoli inoltre a politiche
fiscali restrittive e pesanti tagli di bilancio.
Altro punto su cui Caffè ritornò più volte
fu l’importanza della scala mobile[6], cioè il meccanismo di
indicizzazione dei salari, introdotto nel 1975 con un accordo tra la CGIL e
Confindustria[7], che permetteva di
adeguare le retribuzioni all’inflazione corrente. La maggiore accusa rivolta
alla scala mobile da suoi detrattori era quella di promuovere l’inflazione,
dato che gli aumenti erano corrisposti di volta in volta non in base
all’inflazione reale, ma in base a quella attesa. In tal modo gli aumenti di potere
d’acquisto correlati agli aumenti salariali risultavano esser maggiori rispetto
alle diminuzioni di potere d’acquisto causati dall’inflazione reale. Per
l’economista al contrario l’effetto del meccanismo d’indicizzazione
sull’inflazione era irrisoria, essendo gli aumenti di quest’ultima causati in
misura maggiore dall’aumento dei prezzi amministrati e delle tariffe pubbliche.
A tal proposito il raffreddamento del fenomeno inflattivo era possibile solo
bloccando tali prezzi, e insieme introducendo delle limitazioni quantitative
all’importazione di beni non necessari che avrebbero portato al riequilibrio
della bilancia commerciale e all’apprezzamento della moneta. Alla fine la scala
mobile fu notevolmente indebolita per decreto dal governo Craxi nel 1984 e poi
definitivamente abolita nel 1992.
Cosa direbbe Caffè del mondo d’oggi?
Difficile dirlo, ma si può immaginare la sua opinione critica di fronte a
rigidi parametri di convergenza, politiche fiscali univocamente restrittive e
tassi d’inflazione vicini allo zero. Si può anche facilmente ipotizzare la sua
reazione di fronte ad un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%.
Era del resto lo stesso Caffè, nelle sue lezioni universitarie a mettere in
allerta rispetto alle conseguenze catastrofiche della disoccupazione sulla
scorta dell’esperienza del ’29. Di fronte al prevalere di politiche di
austerità e al permanere di un consenso in merito a ricette di politica
economica ispirate ai principi neoliberisti la lezione di Caffè, nella sua
apparente inattualità, rivela in realtà la sua forza nel presentare un diverso
modo di pensare l’economia. Proprio lui, che in un libro del 1977 si
augurava un’economia senza profeti, potrebbe oggi essere paradossalmente visto
come tale.
[1] L’individuo
dichiarato rivedibile risulta temporaneamente inabile al servizio militare e
rinviato perciò ad una visita successiva nell’arco di un determinato periodo.
Essere riformato significa invece essere dichiarato inabile al servizio in
maniera definitiva.
[2] Il 23 marzo 1944
un gruppo di partigiani fece esplodere a Roma in Via Rasella una bomba contro
un reparto delle forze d’occupazione naziste, uccidendo 33 militari. Per
rappresaglia, il comandante dei servizi segreti tedeschi nella capitale Herbert
Kappler ordinò l’esecuzione di 335 tra civili, soldati e partigiani italiani,
che ebbe luogo il giorno dopo l’attentato alle Fosse Ardeatine
[3] All’interno della
commissione, presieduta da Giovanni Demaria, Caffè fu membro della Sottocommissione
per la moneta e il commercio con l’estero, dove curò per conto di quest’ultima
il Rapporto su il risanamento monetario. Caffè ritornò più volte nei suoi
scritti su quella esperienza, che a suo avviso doveva e poteva essere
considerata come la base conoscitiva indispensabile per una politica economica
moderna, nonché l’occasione mancata per la modernizzazione sociale del Paese.
[4] In seguito
all’abbandono del sistema di Bretton Woods nel 1971 e al trionfo delle
politiche neoliberiste negli anni Ottanta, la liberalizzazione dei movimenti di
capitali ha permesso un aumento dei volumi speculativi internazionali. Grazie
alla maggior libertà di circolazione del denaro sono state possibili operazioni
che hanno spesso causato gravissime conseguenze sulle economie nazionali e
internazionali (attacco speculativo alla Lira del 1992 e crisi finanziaria del
2007).
[5] È questo il caso
della Germania e del suo Marco. È da notare a tal proposito che l’introduzione
della moneta unica (barattata al tempo dal placet europeo alla riunificazione
delle Germanie) ha permesso alla Germania di mantenere i vantaggi di un surplus
economico permanente, evitando una eventuale rivalutazione del Marco e quindi
il ribasso dell’export.
[6] La necessità di un
meccanismo che riequilibrasse il potere d’acquisto in base all’inflazione era
particolarmente urgente nell’Italia degli anni settanta, dove il fenomeno
inflattivo toccò punte del 25%.
[7] In realtà il
meccanismo della scala mobile fu introdotto in Italia nel 1945, mentre
trent’anni dopo venne introdotta quella “a punto unico”, cioè unica a
prescindere dalla categoria, dalla qualifica, dal genere e dall’età del
lavoratore.
Da: Pandora Rivista