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27 aprile 2021

La lezione dimenticata di Federico Caffè, di Michelangelo Morelli.


 di Michelangelo Morelli

Definire Federico Caffè un semplice economista significa banalizzare molti aspetti che contribuiscono a renderlo uno dei personaggi più interessanti del Novecento repubblicano del nostro Paese. Alfiere del pensiero keynesiano e del welfare state, antifascista e attento osservatore della società italiana, Caffè è stato un intellettuale poliedrico ed enciclopedico, capace di ragionar d’economia cogliendo le implicazioni umane, sociali e culturali essenziali per la costruzione di una società fondata sul benessere degli individui.

Federico Caffè nacque il 6 gennaio 1914 a Castellammare Adriatico (Pescara), secondogenito di una famiglia economicamente modesta: il padre Vincenzo era un ferroviere, mentre la madre Erminia integrava il magro bilancio famigliare dirigendo un piccolo laboratorio di ricamo. Caffè rimase sempre molto legato alla madre, ereditando da essa la passione per la cultura letteraria, musicale ed estetica che caratterizzò l’eclettica personalità dell’economista per tutta la vita.

Diplomatosi a pieni voti presso l’Istituto Tecnico Tito Acerbo a Castellammare (riunificata con Pescara nel 1926), Caffè si trasferì a Roma da una cugina per frequentare gli studi universitari presso la facoltà di Economia e Commercio della Sapienza. La frequentazione dell’ateneo romano fu possibile grazie alla madre Erminia, che per raccogliere il denaro necessario vendette un piccolo podere di cui era proprietaria, riacquistato in seguito dallo stesso Caffè.

Caffè si laureò cum laude nell’ateneo romano il 17 novembre 1936 con una tesi intitolata L’azione dello Stato considerata nei suoi strumenti finanziari nell’ordinamento autarchico dell’economia italiana, discussa col Professor Guglielmo Masci, suo maestro assieme a Gustavo Del Vecchio. Il tema della tesi è emblematico di quell’attenzione per il ruolo dell’amministrazione centrale nella vita economica che caratterizzò il percorso intellettuale e professionale dell’economista pescarese.

Già alcuni mesi prima della laurea Caffè fece richiesta per entrare al Banco di Roma, dove prestò servizio nell’ufficio titoli dal 1936 al 1937. Nel giugno di quell’anno si dimise dal Banco, entrando a dicembre in Banca d’Italia come avventizio presso il Servizio Rapporti con l’Interno-Operazioni Finanziarie. Ottenuta la qualifica di segretario, nel 1939 passò al reparto Servizio del Personale, e nello stesso anno cercò di conseguire una borsa di studio senza però riuscirvi. Sempre in quell’anno Caffè divenne assistente volontario di Politica Economica presso la facoltà di Economia e Commercio della Sapienza.

Nonostante la sua modesta statura (appena un metro e mezzo) Caffè fu richiamato alle armi nel dicembre del 1940, e dopo aver frequentato il corso per ufficiali fu inviato in zona di guerra, dove venne impiegato in mansioni “sedentarie”. Quella del servizio militare fu per Caffè una scelta ben precisa, dettata dal senso del dovere verso molti altri colleghi e coetanei: prima del 1940 infatti aveva insistito per non essere “riformato”, cioè esentato dal servizio militare, ma di esser dichiarato “rivedibile”[1], lasciandosi aperta la strada di un futuro impegno nell’esercito.

Nel 1941 il governatore della Banca d’Italia Vincenzo Azzolini, dopo forti insistenze, riuscì ad ottenere il rientro di Caffè dal fronte insieme ad altri colleghi ritenuti indispensabili per l’attività della Banca. L’anno successivo ottenne l’abilitazione all’insegnamento del diritto e dell’economia negli istituti secondari, e nel 1943 fu nominato componente del Servizio studi della Banca d’Italia, lavorando in qualità di civil servant con il nuovo governatore Donato Menichella, rimanendo nell’istituto fino al 1954.

Il 1943 è anche l’anno dell’armistizio di Cassibile, della fuga del re a Brindisi e dell’occupazione nazista: Caffè, che in quel periodo lavorava a Roma, fu richiamato alle armi dalla RSI, ma la scelta di non arruolarsi con i repubblichini lo costrinse a entrare in clandestinità. Rimase ad abitare nella capitale, dove riuscì a scampare miracolosamente a due rastrellamenti, uno dei quali fu quello di Via Rasella[2], dove l’economista risiedeva dopo esser sfuggito alla prima retata nazista.

Vicino alle istanze democratico-liberali e azioniste, nonché al riformismo cattolico di Giuseppe Dossetti e Amintore Fanfani, negli anni della guerra Caffè partecipò alla Resistenza da non combattente, militando nel Partito democratico del Lavoro, fondato l’8 Settembre 1943 da Ivanoe Bonomi e Meuccio Ruini. Caffè collaborò con quest’ultimo in qualità di consulente sia nel governo Bonomi III (dicembre 1944-giugno 1945), dove Ruini fu ministro dei lavori pubblici, sia nel governo Parri (giugno-dicembre 1945), dove lo stesso ricoprì il dicastero della Ricostruzione delle terre liberate.

La partecipazione di Caffè alla commissione economica del Ministero della Costituente[3], istituito dal governo Parri e presieduto da Pietro Nenni, segnò la fine del suo percorso politico in favore di un impegno totale nella ricerca scientifica. Nel 1947 vinse una borsa di studio in Inghilterra alla London School of Economics, soggiornando nella capitale inglese dall’ottobre di quell’anno all’agosto del 1948. A Londra Caffè fu testimone entusiasta della coesione sociale e dello sforzo collettivo del popolo inglese nella ricostruzione, guidata dal governo laburista di Clement Attlee, di cui Caffè condivise gli indirizzi liberalsocialisti ispirati dal Libro Bianco di William Beveridge e dalle nuove teorie macroeconomiche di John Maynard Keynes.

Al ritorno in Italia Caffè si adoperò sin da subito per la diffusione del pensiero keynesiano, incontrando però forti diffidenze non solo nel mondo accademico, arroccato su posizioni neoclassiche, ma anche negli stessi ambienti di sinistra. Infatti nel difficile clima politico della ricostruzione, egemonizzato dalle istanze di containement del presidente Truman e dalla questione tedesca, le forze socialcomuniste preferirono infatti assegnare priorità alla tattica politica, rimandando il riformismo socioeconomico (peraltro in corso d’opera in buona parte d’Europa) a quella vittoria elettorale che però non si realizzò mai. Caffè fu nel corso degli anni estremamente critico del tatticismo delle sinistre (anche nei momenti di maggior forza politica), paradossalmente preoccupate di non spaventare troppo il ceto medio al fine di strapparlo all’egemonia democristiana.

 

Federico Caffè: l’economista di frontiera

L’attività accademica di Caffè, protrattasi a fasi alterne fino alla fine della guerra, assunse un carattere più coerente e costante dal marzo 1949, quando ottenne la libera docenza di politica economica e finanziaria alla Sapienza di Roma. Il 6 dicembre dello stesso anno fu nominato assistente incaricato alla cattedra di Scienza delle Finanze della stessa università, divenendo poi assistente straordinario nell’ottobre 1951 al fianco del professor Gustavo del Vecchio, già relatore e maestro durante gli anni di studio.

Nell’ottobre 1954 si dimise dall’incarico a Roma per assumere a tempo pieno la docenza alla cattedra di economia politica nella Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo Bolognese. Qui farà ritorno nel novembre 1956 dopo un periodo trascorso alla Facoltà di Economia di Messina come professore straordinario di Politica Economica e Finanziaria, trasferendosi poi definitivamente, dopo sei anni di peregrinaggio accademico, alla Facoltà di Economia e Commercio della Sapienza di Roma nel luglio 1959 come ordinario di Politica Economica e Finanziaria, dove rimarrà fino alla fine della sua carriera.

Il lungo impegno accademico di Caffè fu affiancato da un’intensa attività pubblicistica e scientifica. Dal 1959 fu direttore dell’Istituto di politica economica e finanziaria, per cui curò una collana di pubblicazioni, prima con la casa editrice Giuffrè e poi presso la Franco Angeli Editore. Profondo conoscitore del pensiero economico italiano e internazionale, Caffè curò con grande perizia filologica raccolte di saggi di autori nazionali, tra cui Francesco Saverio Nitti e Luigi Einaudi, e autori stranieri, con una particolare attenzione per gli economisti di quei paesi scandinavi in cui si stava affermando nella sua forma più compiuta il Welfare State.

Lo sforzo di Caffè di “sprovincializzare” la cultura economica italiana, arroccata su anguste parrocchie culturali e scuole di pensiero dogmatiche, non si esaurì esclusivamente nell’infaticabile opera di traduzione di centinaia di saggi in lingua straniera. Egli fu infatti dal 1965 al 1974 direttore dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari “Luigi Einaudi” di Roma, responsabile dell’erogazione di borse di studio che permisero a molti giovani economisti italiani di frequentare le più prestigiose università straniere e di entrare a contatto con il pensiero economico internazionale.

La modernizzazione dell’istituzione università intrapresa da Caffè non si espresse solo nella diffusione di nuovi paradigmi, come potevano essere quelli keynesiani, e di nuove modalità di apprendimento, ma anche nella trasformazione dello stesso personale accademico. Nel triennio (1973-76) di direzione del Dipartimento di Economia Pubblica de La Sapienza egli chiamò all’insegnamento prestigiosi docenti come Sergio Steve, Claudio Napoleoni e Guido M. Rey, lasciando un’impronta indelebile nell’insegnamento dell’economia nell’ateneo romano.

L’impegno di Caffè pubblicista si esercitò soprattutto in direzione di una corretta informazione economica e sociale, concretizzatasi nell’assidua collaborazione con le testate Il Messaggero e Il Manifesto oltre alla consulenza economica svolta per la casa editrice Laterza. Definito spesso un “economista di frontiera”, Caffè era perfettamente consapevole dell’esistenza di una solida interrelazione tra il fatto economico, spesso snaturato a semplice “meccanica della contabilità”, e le sue componenti politiche e psicologiche. Se infatti da un lato il sistema del welfare e i suoi corollari economici per Caffè erano indissolubilmente legati alla sostanza della Costituzione del ‘48 (lo svuotamento del primo avrebbe quindi determinato il deterioramento della seconda), dall’altro l’informazione economica, se dispiegata in modo incorretto e terroristico (ad esempio sull’argomento dello spread e della minaccia dei mercati), poteva corrompere la dialettica politica e provocare politiche antisociali.

Banco di prova delle teorie di Caffè, oltre ovviamente all’insegnamento universitario, fu la prolungata e prestigiosa attività civile e pubblica. Nel Servizio Studi della Banca d’Italia, di cui fece parte dal 1943, egli curò i rapporti con l’estero, seguendo con attenzione le principali vicende delle relazioni economiche europee e internazionali e collaborando con le relative istituzioni economiche. In quasi quarant’anni di lavoro, dapprima come funzionario e poi, nel 1954, in veste di consulente, Caffè partecipò a innumerevoli attività: dai negoziati con la Banca Mondiale per i finanziamenti nell’immediato dopoguerra all’esecuzione del Piano Marshall e ai rapporti con l’OCSE e con il Fondo Monetario Internazionale.

Negli ultimi anni la vita di Caffè fu turbata da dolorose tragedie: a distanza di poco tempo perse la madre ultranovantenne e la vecchia tata Giulia, colpita da un tumore, a cui l’economista era profondamente legato. Alla morte delle donne della sua vita si aggiunse anche la perdita tragica e inaspettata di amici e allievi, tra cui Fausto Vicarelli, collega alla Sapienza morto in un incidente stradale nel 1986, ed Ezio Tarantelli, economista assassinato dalle Brigate Rosse nel 1985 a causa del ruolo svolto nel taglio degli scatti della scala mobile decretato nel 1984.

Lo sconforto di Caffè era legato anche al raggiungimento dei limiti d’età per l’insegnamento, sua unica vera ragione di vita, che lo aveva costretto al pensionamento. Inoltre in un periodo come gli anni Ottanta dello scorso secolo, in cui il neoliberismo si stava riappropriando degli spazi sottrattigli per trent’anni del pensiero keynesiano, la magnificazione delle virtù taumaturgiche del “libero mercato”, di fatto inesistente e spesso fonte di sperequazione sociale, disoccupazione e corruzione finanziaria, non poteva che mortificare profondamente il più keynesiano degli economisti, impegnato per tutta la propria esistenza al sostegno di efficaci politiche anticicliche e del social welfare state.

E così, tra la notte del 14 e l’alba del 15 aprile 1987, Federico Caffè lasciò la propria abitazione romana in Via Cadlolo, sulla collina di Monte Mario, scomparendo per sempre senza lasciar alcuna traccia. Le ipotesi sulla scomparsa dell’economista, ad oggi ancora irrisolta, sono molteplici, anche se la pista più probabile è quella di un allontanamento volontario. Molti hanno voluto vedere la sua scomparsa come una sorta di esilio, simile a quello del fisico Ettore Majorana, che l’economista vedeva come unica alternativa praticabile al suicidio. Infatti, pochi giorni prima della sua scomparsa si era tolto la vita Primo Levi (in circostanze altrettanto sospette): appresa la notizia, Caffè ne rimase colpito, chiedendosi “Perché sotto gli occhi di tutti? Perché straziare i parenti?”. 

Undici anni dopo la scomparsa, l’8 agosto 1998, il Tribunale di Roma dichiarò la morte presunta di Caffè, apponendo un sigillo ad una vicenda destinata a non avere epilogo.

 

La lezione di Federico Caffè

L’adesione di Caffè al pensiero keynesiano, di cui fu uno dei maggiori esponenti e promotori italiani, risponde all’esigenza di costruire e implementare un sistema alternativo a quello “mercatocentrico”, capace quindi di supplire alle oggettive mancanze di un’economia di mercato. Non si deve pensare però a un ripresa in chiave radicale del pensiero di Keynes da parte di Caffè, dove le virtù della mano invisibile vengono rimpiazzate dalla deificazione dello Stato. La formulazione teorica dell’economista pescarese era invece orientata verso una via intermedia, un capitalismo epurato dagli elementi di disequilibrio attraverso l’intervento pubblico in materia di regolamentazione della concorrenza. Attraverso un’efficace legislazione antimonopolistica il mercato sarebbe stato infatti libero di operare in condizioni concorrenziali, garantendo livelli di prezzi stabili e incrementi produttivi crescenti.

Per Caffè l’azione pubblica non si esauriva tutta nella regolamentazione giuridica di una sola componente del mercato, cioè l’offerta. Per l’economista il mercato era una struttura valida ma incompleta sotto tutti i punti di vista, incapace cioè sia di garantire condizioni ottimali dal lato dell’offerta (per Caffè il mercato, se lasciato libero di agire, tendeva necessariamente verso l’oligopolio) sia di assicurare un livello della domanda tale da giustificare la produzione stessa.

Nel pensiero keynesiano l’offerta è una componente strettamente dipendente dai livelli della domanda: se nessuno ha abbastanza reddito da spendere, la produzione non avrà alcun motivo di produrre più di quanto viene domandato, tantomeno di assumere più di quanto sia necessario. L’equilibrio che viene a definirsi nei casi in cui la domanda è insufficiente è detto equilibrio di sottoccupazione, poiché i principali fattori della produzione sono impiegati in maniera non ottimale, causando disoccupazione e un impiego non adeguato del capitale. Per Caffè, che recepiva integralmente la tradizione keynesiana, lo scopo fondamentale dell’economia era la riduzione ai minimi termini della disoccupazione, raggiungibile solo attraverso efficaci politiche anticicliche capaci di garantire livelli adeguati di domanda e consequenzialmente di reddito e occupazione.

L’azione pubblica nella vita economica di un Paese, lontana dai richiami statolatri d’epoca fascista, rispondeva invece a una costruzione teorica definita da Caffè “economia del benessere”, intesa come la ricerca dei principi da utilizzare come guida nelle decisioni di politica economica. Questo strumento metodologico si poneva come necessario sia per determinare gli standard minimi delle condizioni di vita di una popolazione (che si configuravano quindi come gli obiettivi stessi di politica economica) sia per individuare le modalità attraverso le quali assicurare gli stessi standard. La ricerca delle linee guida della politica economica conferiva quindi alla teoria economica di Caffè una marcata impostazione volontaristica, in cui la costruzione di un sistema di welfare era essenzialmente vincolata a un elevato grado di partecipazione politica e al riformismo della classe dirigente nazionale.

Nell’ultimo decennio di vita Caffè, preoccupato dall’affievolirsi della vocazione riformatrice della sinistra italiana diresse i propri sforzi teorici verso la definizione degli strumenti necessari per il controllo democratico dell’economia. In un articolo pubblicato nel marzo 1982 sul Manifesto, l’economista sottolineava l’importanza di arrivare a una separazione fra gestione dell’intermediazione finanziaria, affidata ai poteri pubblici, e attività produttiva, nelle mani di un mercato in condizioni concorrenziali, denunciando inoltre i poteri occulti degli operatori borsistici e il lassismo nei confronti dei controlli sui movimenti di capitale[4].

L’urgenza di porre sotto stretta sorveglianza i movimenti di capitale e la speculazione internazionale portarono Caffè a individuare negli organismi sovranazionali un efficace strumento di stabilità finanziaria, utili a svolgere le tradizionali funzioni di prestatori di ultima istanza per scongiurare il diffondersi di crisi di dimensioni mondiali. La collaborazione economica doveva però avvenire tra paesi in condizioni di parità, sotto la sorveglianza non già di una baronìa tecnocratica, ma di un consesso politico e democratico. A tal proposito Caffè fu critico verso la tendenza del Fondo Monetario Internazionale a usare due pesi e due misure con i paesi in surplus e quelli in deficit: ai primi infatti era permesso di bloccare la rivalutazione delle loro monete, impedendo di fatto la diminuzione automatica dell’export e perciò il riequilibrio delle partite correnti[5]; ai paesi debitori era invece imposta la svalutazione delle monete, costringendoli inoltre a politiche fiscali restrittive e pesanti tagli di bilancio.

Altro punto su cui Caffè ritornò più volte fu l’importanza della scala mobile[6], cioè il meccanismo di indicizzazione dei salari, introdotto nel 1975 con un accordo tra la CGIL e Confindustria[7], che permetteva di adeguare le retribuzioni all’inflazione corrente. La maggiore accusa rivolta alla scala mobile da suoi detrattori era quella di promuovere l’inflazione, dato che gli aumenti erano corrisposti di volta in volta non in base all’inflazione reale, ma in base a quella attesa. In tal modo gli aumenti di potere d’acquisto correlati agli aumenti salariali risultavano esser maggiori rispetto alle diminuzioni di potere d’acquisto causati dall’inflazione reale. Per l’economista al contrario l’effetto del meccanismo d’indicizzazione sull’inflazione era irrisoria, essendo gli aumenti di quest’ultima causati in misura maggiore dall’aumento dei prezzi amministrati e delle tariffe pubbliche. A tal proposito il raffreddamento del fenomeno inflattivo era possibile solo bloccando tali prezzi, e insieme introducendo delle limitazioni quantitative all’importazione di beni non necessari che avrebbero portato al riequilibrio della bilancia commerciale e all’apprezzamento della moneta. Alla fine la scala mobile fu notevolmente indebolita per decreto dal governo Craxi nel 1984 e poi definitivamente abolita nel 1992.

Cosa direbbe Caffè del mondo d’oggi? Difficile dirlo, ma si può immaginare la sua opinione critica di fronte a rigidi parametri di convergenza, politiche fiscali univocamente restrittive e tassi d’inflazione vicini allo zero. Si può anche facilmente ipotizzare la sua reazione di fronte ad un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%. Era del resto lo stesso Caffè, nelle sue lezioni universitarie a mettere in allerta rispetto alle conseguenze catastrofiche della disoccupazione sulla scorta dell’esperienza del ’29. Di fronte al prevalere di politiche di austerità e al permanere di un consenso in merito a ricette di politica economica ispirate ai principi neoliberisti la lezione di Caffè, nella sua apparente inattualità, rivela in realtà la sua forza nel presentare un diverso modo di pensare l’economia. Proprio lui, che in un libro del 1977 si augurava un’economia senza profeti, potrebbe oggi essere paradossalmente visto come tale.


[1] L’individuo dichiarato rivedibile risulta temporaneamente inabile al servizio militare e rinviato perciò ad una visita successiva nell’arco di un determinato periodo. Essere riformato significa invece essere dichiarato inabile al servizio in maniera definitiva.

[2] Il 23 marzo 1944 un gruppo di partigiani fece esplodere a Roma in Via Rasella una bomba contro un reparto delle forze d’occupazione naziste, uccidendo 33 militari. Per rappresaglia, il comandante dei servizi segreti tedeschi nella capitale Herbert Kappler ordinò l’esecuzione di 335 tra civili, soldati e partigiani italiani, che ebbe luogo il giorno dopo l’attentato alle Fosse Ardeatine

[3] All’interno della commissione, presieduta da Giovanni Demaria, Caffè fu membro della Sottocommissione per la moneta e il commercio con l’estero, dove curò per conto di quest’ultima il Rapporto su il risanamento monetario. Caffè ritornò più volte nei suoi scritti su quella esperienza, che a suo avviso doveva e poteva essere considerata come la base conoscitiva indispensabile per una politica economica moderna, nonché l’occasione mancata per la modernizzazione sociale del Paese.

[4] In seguito all’abbandono del sistema di Bretton Woods nel 1971 e al trionfo delle politiche neoliberiste negli anni Ottanta, la liberalizzazione dei movimenti di capitali ha permesso un aumento dei volumi speculativi internazionali. Grazie alla maggior libertà di circolazione del denaro sono state possibili operazioni che hanno spesso causato gravissime conseguenze sulle economie nazionali e internazionali (attacco speculativo alla Lira del 1992 e crisi finanziaria del 2007).

[5] È questo il caso della Germania e del suo Marco. È da notare a tal proposito che l’introduzione della moneta unica (barattata al tempo dal placet europeo alla riunificazione delle Germanie) ha permesso alla Germania di mantenere i vantaggi di un surplus economico permanente, evitando una eventuale rivalutazione del Marco e quindi il ribasso dell’export.

[6] La necessità di un meccanismo che riequilibrasse il potere d’acquisto in base all’inflazione era particolarmente urgente nell’Italia degli anni settanta, dove il fenomeno inflattivo toccò punte del 25%.

[7] In realtà il meccanismo della scala mobile fu introdotto in Italia nel 1945, mentre trent’anni dopo venne introdotta quella “a punto unico”, cioè unica a prescindere dalla categoria, dalla qualifica, dal genere e dall’età del lavoratore.

Da: Pandora Rivista

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