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3 luglio 2024

Giuseppe Di Battista (1930-2013) e le sue ricerche abruzzesi.

 

Giuseppe Di Battista (1930-2013) e le sue ricerche abruzzesi
di Angelo Iocco

Nato a Castel Frentano, da bambino visse le tristi impressioni della Guerra e dell’occupazione nazista e poi alleata. Diventato maestro elementare, dal 1970 al 1980 fu sindaco del suo paese. Fu sempre molto legato e attento alla didattica e all’attività laboratoriale con i ragazzi, come si rileva dai vari fascicoli di poesie, canzoni, ritagli di giornale conservati presso Aldo Angelucci. Organizzò diverse manifestazioni culturali, recite, concerti con i ragazzini, e legato a quel concetto di tramandare a tutti i costi la memoria, ha raccolto diverse notizie fondamentali per le tradizioni popolari e le memorie storiche del suo paese, e dei dintorni. Cresciuto sotto la fama del poeta Eduardo Di Loreto, con Lello Giordano, Ottorino Moscafieri, Mimmo Sciascia, Turiddo Bucci e altri, costituì nel 1979 il Gruppo Teatro Abruzzese ’80, che terminò la sua esistenza nel 1993, per ricostituirsi come Associazione teatrale Di Loreto-Liberati, tutt’ora in attività, col compito di riproporre in teatro le commedia del Di Loreto, nonché promuovere concorsi di teatro dialettale abruzzese, invitando nuove promesse a proporre le loro commedie. Queste commedie dal 1983 al 1989, sono conservate presso l’Archivio storico dell’Associazione Di Loreto-Liberati.

Castel Frentano, Archivio storico Associazione teatrale “Di Loreto-Liberati”, nei locali dell’Asilo Caporali, riordinato da Angelo Iocco[1]



Castel Frentano, collezione locandine delle rassegne del Teatro Abruzzese ’80 a Castelfrentano (1979-2006), Archivio teatrale Di Loreto-Liberati, presso Asilo Caporali.


Ancor prima, nel 1965, Di Battista e altri avevano aderito all’idea di un Concorso di Poesia Abruzzese a Castel Frentano, per omaggiare Di Loreto, che prese avvio nel 1968 e tutt’ora è in attività, con la 41sima edizione del 2021. Di Battista, deus ex machina delle nuove edizioni  del Premio di Poesia “E. Di Loreto” dal 1992 al 2013, insostituibile presentatore dei poeti e delle canzoni, nonché membro della giuria. Si adoperò anche nel 1998 e nel 2000 per far rappresentare nuovamente la Mascherata Carnevalesca di E. Di Loreto e P. Liberati. Raccolto abbastanza materiale per delle pubblicazioni, nel 2000 uscì presso l’editore Carabba Proverbi Abruzzesi di ieri e di oggi, e nel 2007, Castannove: il paese, la gente, l’incanto, dove il Di Battista raccolse tutto il sapere popolare della gente castellina. Nel 1988 e poi nel 2004 Di Battista coronò un suo sogno, pubblicare tutta l’Opera edita di Eduardo Di Loreto, riunendole in 4 preziosi volumi. Nel 2005 partecipò all’inaugurazione del nuovo teatro comunale Di Loreto-Liberati, ex Teatro Corsetti. Morì a Castel Frentano nel 2013.


Archivio Marco Cavacini, lastra di Fileno Cavacini di fine ‘800, con contadine in abiti tradizionali, scale di Villa Cavacini, Castelfrentano.


Dal suo ultimo libro postumo, curato da Angelo Iocco, Canti e racconti popolari di Castel Frentano e dell’area del Sangro-Aventino, Castelfrentano 2023, estraiamo alcuni brani sulle sue ricerche. Di Battista voleva offrire un ultimo dono alla sua piccola patria, e all’Abruzzo tutto: il frutto di oltre vent’anni di ricerche presso le contadine delle campagne castelline, parliamo delle favolette di gusto boccaccesco e triviale, che già Gennaro Finamore ad esempio aveva raccolto da vari paesi alla fine dell’800, oppure degli stornelli e dei canti di Castelfrentano e dintorni, quelli del Sant’Antonio, quelli della Settimana Santa, o gli stornelli amorosi delle serenate. Immensa è la messe di materiale che Di Battista ricercò anche presso coetanei che già avevano pubblicato, come Antonio Allegrini nel suo Castannove, sul ciclo della vita dell’uomo, o del Padre Domenico Lanci da Guastameroli nei suoi Canti popolari d’Abruzzo, da cui incise anche dei dischi e audiocassete col Coro di Guastameroli.

 

Estratto dall’Introduzione di Di Battista ai Canti

Il canto è una delle espressioni più nobili dell’animo umano, ma anche un mezzo per comunicare sentimenti ed emozioni.

Le popolazioni abruzzesi che affondano le proprie radici in un mondo agro-pastorale, hanno goduto del privilegio di condurre una vita in diretto contatto con la natura, sia quando questa le gratificava con i suoi splendori, sia quando le penalizzava, scatenando le sue forze brutali attraverso fenomeni terrificanti che mettevano a dura prova la resistenza fisica e morale delle persone.

Tutto ciò deve avere insegnato alla gente a sopportare, resistere e lottare quando l’ira degli elementi cercava di sopraffarla ed a godere le manifestazioni delle bellezze incantevoli e le visioni di serena maestosità che trasportavano la loro anima verso l’infinito.

Il duro esercizio della lotta fisica per sopravvivere alla rabbia della natura ed alla scarsità delle risorse, unitamente alla beata contemplazione degli spettacoli armoniosi , ha fatto degli abruzzesi un popolo “forte e gentile” che ha appreso ad usare la nobile espressione del canto per esternare la gioia di vivere, ma soprattutto per comunicare i propri sentimenti: l’amore, la felicità, la speranza ed, a volte, il risentimento; ma anche per elevarsi dalla miseria quotidiana e per rendere meno dura la fatica e meno lunghe le giornate.

Mi sembra opportuno ricordare (specie alle nuove generazioni che, per loro fortuna, non hanno vissuto quelle esperienze) che i lavori dei campi erano pesanti e defatiganti e spesso assumevano aspetti bestiali, come bene ha raffigurato il Patini nei suoi dipinti.

Inoltre i contadini, che nella quasi totalità erano mezzadri o affittuari, dovevano sopportare le sopraffazioni dei “padroni” e l’esosità delle loro richieste, che non tenevano conto nemmeno delle varie calamità atmosferiche (grandinate, gelate, siccità, ecc.) che spesso rovinavano i già miseri raccolti.

Forse per questo l’ideologia marxista, di natura classista, cercò di interpretare il canto popolare come espressione della ribellione delle classi subalterne, che subivano ogni sopruso.

Ma anche questa visione appare parziale e riduttiva di una manifestazione che sgorga spontanea, che contiene la passione e si fa linguaggio dell’anima.

Il canto popolare non può essere definito nemmeno (come qualcuno ha fatto) un sottoprodotto musicale.

All’origine qualche canto può essere stato prodotto da un autore ed è divenuto popolare quando il popolo lo ha adottato perché conteneva assonanze con i sentimenti e l’anima della gente. Esso non è l’espressione umile, pittoresca ed infantile di una classe sociale inferiore, subalterna e sottosviluppata, ma la voce nobilissima che, in forme semplici, possiede la chiave per far vibrare l’anima di tutte le persone di una collettività.

Sono stati pubblicati molti scritti ed altri ce ne saranno poiché la discussione è ancora aperta.

Da ciò che ho avuto l’ opportunità di leggere ed apprendere penso, sia pure modestamente, di poter tentare una bozza di definizione, che, a mio avviso, può evidenziare parecchi degli aspetti e dei contenuti del canto popolare:

-        esso ha una struttura generalmente atipica ed a-tecnica;

-        non ha un autore poiché nella quasi totalità è nato spontaneo dal popolo;

-        è collettivo ed impersonale, semplice ed improvvisato;

-        è espressione di umanità idilliaca che dura e si trasmette oralmente da una generazione all’altra;

-        non può definirsi espressione incolta solamente del popolo inferiore e delle classi subalterne anelanti all’affrancamento.

 

Quanto sopra detto potrà apparire semplicistico e/o riduttivo, ma è il frutto delle riflessioni maturate durante le ricerche confrontate ed, a volte, suffragate anche dalle opinioni di esperti etnologi.

Concludo con l’assicurazione al lettore, che vorrà porvi l’attenzione, che il materiale incluso in questa raccolta è la trascrizione fedele e completa di ciò che ho conservato nella mia memoria e di quello che ho ascoltato dalla voce della gente, senza alcuna mistificazione o elaborazione personale.

 

 

Gli stornelli

Gli stornelli rappresentano la forma letteraria più diffusa del canto popolare e venivano cantati, specialmente durante i lavori campestri, in forma dialogica o di contrasto.

Essi provengono da una tradizione molto antica e sono il frutto di una creatività popolare insospettabile, tant’è che il loro repertorio è inesauribile ed, insieme a tanti che rimangono capisaldi consolidati e ricorrenti in quasi tutte le aree geografiche della Regione, ve ne sono altri sviluppatisi in ambiti più ristretti e riferiti a specifici lavori o a periodi definiti dell’annata agraria, come già detto in precedenza.

Altri ancora sono nati da improvvisazioni estemporanee e dalla fantasia dei cantori, nei momenti in cui i soggetti erano infervorati e volevano arricchire il repertorio, restando, più o meno, nel tema, che andava sviluppandosi in una particolare tenzone dei gruppi costituitisi spontaneamente tra i numerosi braccianti presenti.

È opportuno ricordare che fino agli anni quaranta del secolo appena trascorso i lavori campestri venivano eseguiti a braccia , per cui, specie nei “grandi” lavori, era presente nei campi una numerosa schiera di lavoratori.

Generalmente nell’esecuzione dei canti si costituisce una gerarchia, nella quale uno più dotato intona e gli altri rispondono in coro, rispettando la struttura del canto medesimo.

Inoltre gli stornelli si adattano ad essere cantati in sequenze musicali diverse, le cosiddette “arie”, a seconda del tipo di lavoro eseguito (mietitura, sarchiatura, vendemmia, ecc.).

Alcune di queste, da me ricercate, sono state eseguite da un gruppo di persone che nella loro gioventù hanno vissuto quelle modalità di svolgimento dei lavori dei campi e quindi hanno partecipato di persona a quelle “tenzoni canore” ormai del tutto scomparse con l’avvento della meccanizzazione agricola.

“Mo pe’ le campagne cante li muture” ha detto un vecchio contadino.

Dalla registrazione di queste esecuzioni, il Maestro Aldo Marincola[2] ha ricavato le note dei canti che di seguito verranno riportate.

Alcune “arie” esprimono in maniera inequivocabile la sofferenza fisica nelle lunghissime e faticosissime giornate di lavoro.

Forse qualcuno può stupirsi, ma i lavori campestri venivano eseguiti senza limiti di orario, dall’alba al tramonto ed in condizioni meteorologiche che la natura riservava nel corso delle stagioni (gelo,umidità, vento, afa, ecc.).

Altre “arie” esprimono la gioia di ritrovarsi insieme a fare quattro salti nell’aia, al suono di un organetto; altre ancora le soddisfazioni di vedere premiate le loro fatiche da un raccolto abbondante.

Ma il tema principale resta l’amore: l’amore nelle sue ansie e nei suoi tormenti; l’amore con le sue gioie e con i suoi litigi; l’amore con i suoi sogni e con i suoi progetti e, perché no, con i suoi dispettucci; l’amore nelle sfumature dei sentimenti sofferti e/o taciuti, espressi con gioia o con stizza. Vi affiora, a volte, pure il desiderio fisico che viene manifestato in forma velata e piuttosto pudica, per mezzo di metafore o in forma grossolana e sfacciata.

Vi è presente anche, in forma più o meno esplicita e corriva e già nelle fasi dell’amoreggiamento e del “fidanzamento”, l’eterna conflittualità con la futura suocera che, a volte, raggiunge punte di dispetto da parte della ragazza, soprattutto dopo che si è consolidata, in maniera irreversibile la conquista del cuore dell’amato.

L’amore, sentimento universale, presente in forma rudimentale, passionale, romantica o materialistica in tutti gli esseri viventi, non poteva mancare nell’anima di un popolo forte e sensibile come quello dei nostri contadini.

E qui si possono fare discorsi filosofici, religiosi, sociali o storici; si possono evocare le ataviche sofferenze, le storiche oppressioni, la rassegnata povertà, le angustie quotidiane per sfamare famiglie numerose, in cui i figli dovevano guadagnarsi una fetta di pane partecipando fin dalla tenera età, ai lavori duri che avrebbero potuto abbruttire anche gli angeli.

Eppure la nobiltà dei sentimenti, non appresa attraverso processi educativi e/o di acculturamento, riusciva ad affiorare ed a manifestarsi, sia nell’età degli ardori giovanili, sia nell’età matura, quando si aveva la responsabilità di guidare una famiglia.

Grezzi, analfabeti, privi di qualsiasi altro strumento di comunicazione, i nostri antenati si esprimevano con il canto; con il canto degli stornelli che è, sì, un canto breve, ma, a mio avviso, più personalizzato, nel quale si esprimono con immediatezza i sentimenti propri, meglio che con un canto a sequenza lunga, nel quale non è presente la partecipazione passionale del soggetto.

Va precisato che gli stornelli, così come sono stati raccolti e trascritti, non sempre rispettano una forma metrica prestabilita; ma vi si possono cogliere immagini autentiche in cui la poesia disadorna rivela lo spontaneo “sentire” popolare.

 

UÒCCHIE ACCENNARIÉLLE

 

1)      Uòcchie accennariélle pecché m’accinne,

         se vù fa l’amore ‘nghe mé pecché nen ce miénne.

 

2)      ‘Ncore ce manne ca sié peccerélle,

         e ‘ncore le cumplisce le quinece anne.

 

3)      ‘Le quinece l’aje cumplite e le sidece pure,

         mannece bbèlla mie, ca sié secure.

 

Castel Frentano vista da Fonte Barile, dopo la frana del 1881


MAMME E TATE

 

1)      Mamme e tate se là tote huste

         e a mé m’attòcche a purtà lu maste.

 

2)      Pòrte lu mmaste e pòrte le cestine,

         vuòje vedé chi se more prime.

 

3)      ‘Lu bbéne de mamme e tate m’à fatte nasce,

         lu bbéne de l’amore m’à fatte crésce.

 

4)      Lu bbéne de mamme e tate fin’a la pòrte,

         lu bbéne de l’amore fin’a la morte.

 

5)      Se more mamme e tate poche ce pènze,

         se more l’amore mé à scorte le speranze.

 

  

A LA FONTE

 

1)      Quanta vôte, mamme, te l’aja dire

         sole a la fonte nen me ce mannà.

 

2)      Ce sta nu giuvenòtte che sa la scole,

         s’à mésse ‘nmènte ca me vò vascià.

 

3)      Che scì ‘ccise , fija, che scì sparate,

         vù fà murì nu ggiovene pe’ nu vasce?

 

4)      O mamma-mamme, chi è tutte ‘ssa pite,

vattele a fà tu ‘ssa caretà.

 

 

 

A MARITE FORE

 

1)      Mamme me vò mannà a marite fore,

quanta vôte se ne vò pentì.

 

2)      Quande véde le cavalle a menì,

mamma-mamme nen sèerve a ppenitì.

 

3)      Quande métte lu péde a la staffe,

statte bbone mamme ca te lasse.

 

4)      Quande appuòje lu culle a la sèlle,

statte bbone patre e mie fratèlle.

 

5)      Quande arrive a che le strétte vije,

a la case de mamme e tate vurré areije.

 

6)      Quande arrive a che le strétte rue,

la case de mamme e tate quant’è scure.

 

7)      Quande arrive a piéde a che le scale,

la case de mamme e tate quant’è care.

 

8)      Quande vaje la sére a ddurmì,

a lu lettucce mé vurré arejì.

 

 

  

CASTALNOVE

 

1)      Castalnove è nu pahèse d’ore,

che nen le tè l’amante ce se le trove.

 

2)      A Rome, a Rome le bbèlle rumane,

a Castalnove le bbèlle pacchiane.

 

3)      Castalnove ‘nche le case pinte,

mare a che ce vé, vjat’ a chi le lante.

 

4)      Nu séme castelline e tante avaste,

la Légge le facéme a mode nostre.

 

5)      Che bbèlla vreccetèlle a la marine,

che bbèlla ggiuventù le castelline.

 

  

 

ARRÉT’A LA MUNTAGNE

 

1)      Arrét’a la muntagne ce sta Paléne,

nu ccone cchiù dellà chi me vò bbéne.

 

2)      Arrét’a la muntagne ce sta Rome,

nu ccone cchiù dellà lu care amore.

 

3)      Arrét’a la muntagne ce sta Ferènze,

nu ccone cchiù dellà chi me pènze.

 

4)      Arrét’a la muntagne ce sta ‘na vigne,

sta ‘nturnijate de melechetogne.

 

5)      Arrét’a la muntagne ce sta Gesù

lu prim’amore nen m’abbandone cchiù.

 

 

Negli anni della mia infanzia il canto de “Lu Sand’Andonie” era una consuetudine molto radicata in tutte le comunità ed in occasione della festa del Santo ( 17 gennaio ), nel nostro paese più di un gruppo si organizzava per dar corso a rappresentazioni, variamente arricchite da effetti scenici, in cui si sbizzarriva la fantasia popolare, con suoni e canti di facile apprendimento.

Questo canto di questua dava luogo alla raccolta di varie cibarie che venivano successivamente consumate in allegre riunioni conviviali.

Queste iniziative costituivano la manifestazione esteriore, se vogliamo, anche un po’ pagana, della devozione al Santo che era molto sentita nelle comunità agro-pastorali poiché Egli è da sempre venerato come protettore degli animali, i quali, a quei tempi, rappresentavano una delle principali risorse delle famiglie contadine. (si diceva: -casche n‘òmmene, ‘na resate; casche l’asene Sand’Andonie! ).

Il giorno della festa di Sant’Antonio Abate gli animali venivano condotti in spiazzi vicini alle chiese per essere solennemente benedetti.

Fino alla metà del secolo scorso era usanza consolidata, specie nei paesi dell’entroterra, che il comitato per i festeggiamenti del Santo, a primavera, acquistasse un maialino che era lasciato libero per il paese ( lu pirchétte de Sand’Andonie ) e veniva, anche abbondantemente, nutrito da tutte le famiglie presso cui si recava spontaneamente. Nel mese di gennaio successivo esso veniva ammazzato ed ogni famiglia ne acquistava un pezzo per devozione; ma anche per impinguare i fondi destinati ai festeggiamenti del Santo.

Poiché nell’agiografia popolare Sant’Antonio Abate è conosciuto per le fiere e continue lotte che Egli ingaggiava con il Demonio Tentatore, dalle quali usciva immancabilmente vincitore, mediante la preghiera e l’aiuto che il Signore gli offriva tramite un suo angelo, i canti giravano intorno a questo tema dominante.

Tuttavia questi si possono raggruppare in due filoni principali.

Alcuni sono costituiti da strofe sciolte che narrano episodi isolati della sua vita ed esposti in tono bonario ed, a volte faceto; mentre altri sono costituiti da vicende complete ed articolate delle “avventure” dell’Anacoreta e venivano presentate come vere e proprie rappresentazioni dagli impianti scenici apprezzabili.

In epoche a noi più vicine venivano effettuate delle trasformazioni sostanziali, per cui, pur non abbandonando il tema di fondo, che resta la lotta del Santo contro il Demonio ( ossia del Bene contro il Male ), si rivestono i testi di sceneggiature aggiuntive, elaborate da vari autori locali, fatte soprattutto per arricchire i testi originali, più scarni, con intenti, più o meno palesi, etico-educativo-spettacolari ( es. l’aggiunta di altri diavoli, degli eremiti, della sorella, delle consorelle, ecc. ). Tutto ciò ha consentito, è vero, di avere delle rappresentazioni più ricche ed articolate; ma, a mio avviso, a discapito dell’autenticità e dell’aderenza ai canti della tradizione, più spontanei e meno speculativi.

I canti qui di seguito raccolti provengono dalle varie aree culturali della Regione e da entrambi i filoni sopra ricordati.

Si può inoltre constatare l’impressionante somiglianza, sia nel contenuto che nella sequenza scenica, e la larga diffusione sul territorio regionale, di questi canti.

In tempi più recenti dobbiamo registrare una notevole ripresa e pubblicizzazione dei canti di Sant’Antonio Abate.

La riprova ci viene dalle rassegne organizzate in varie località, specie dove era più sentita la tradizione e più feconda la produzione e la rappresentazione di queste sceneggiature. ( Vanno ricordate le rassegne più note e più nutrite di partecipanti come quelle di Gessopalena, San Salvo, Treglio, ecc., in cui sono stati presentati testi molto elaborati e consistenti).



9.2. NOTE BIOGRAFICHE DEL SANTO

È nato in Egitto alla metà circa del III secolo, sulle rive del Nilo. Fino a vent’anni visse in famiglia ed in modo semplice.

Intorno a quella età rimase orfano, sentì prepotente il richiamo del Vangelo e si rifugiò, in ascetica penitenza, in un deserto sulle rive del Mar Rosso. Ivi restò fino alla morte, avvenuta quando era più che centenario, intorno all’anno 356.

Fu definito il fondatore dell’ascetismo. Per consolidata tradizione la sua festa si celebra il 17 gennaio, data presunta della sua morte. Nella sua qualità di eremita dovette avere molte tentazioni, anche pesanti, per cui è rimasta proverbiale la sua lotta continua contro il Demonio che, alla fine era sempre soccombente.

Divenne il Santo più popolare del Medioevo, forse perché si ritrovava sempre a proteggere la gente umile ed il suo misero patrimonio di bestiame.

Così la sua figura divenne mitica ed alle sue gesta si rifanno le rappresentazioni dei fatti della sua vita.

Di carattere bonario era sempre pronto a perdonare e benedire.

I suoi festeggiamenti si svolgono, con varie modalità, in molte località, ma specialmente nelle zone agricole e pastorali.

 

 9.3.  LU SANT’ANTONIO A CASTEL FRENTANO – Versione “Buona sera, gentil signori”

 

Il canto che segue l’ho tratto dalla mia memoria ed era senza dubbio il più diffuso nell’area castellina.

Forse la sequenza delle strofe può risultare un poco diversa da quella di altri canti simili; ma, se vogliamo, neanche allora si rispettava un testo preciso, in quanto tramandato per tradizione orale.

Si tratta di piccoli episodi che la tradizione popolare attribuiva alla vita del Santo che non hanno una sequenza articolata poiché non raccontano una vicenda particolare.

Poiché alcune di queste strofe sono presenti nei testi registrati in altre aree geografiche dell’Abruzzo, è possibile che siano frammenti sciolti di un canto completo che dovette essere molto diffuso nella Regione.[3]

Tuttavia il tema dominante, anche in questi casi, resta quello della lotta tra il Santo eremita ed il Diavolo tentatore (il Bene ed il Male) narrata in modo bonario e scanzonato.

 

 

Ecco il testo come io lo ricordo.

Strofa di entrata:


Bona sera gentil signori,

quante ne séte déntre e fore,

quante ne séte déntre e avanti,

bona sére a tutti quanti.

 

Ca dumane è Sand’Andonie

prutettore contr’a lu Demonie,

chi le té pè suo avvucate,

da Sand’Andonie sarà salvate.

 

Sand’Andonie picculine

jéve a la scole sére e matine;

nò liggéve e nò scrivéve,

ma sopr’a tutti ne sapéve.

         Pe’ despètte de lu Demonie

         se fa fèste a Sand’Andonie.

 

Sand’Andonie bèll’e giocondo[4]

è nominato per tutto il mondo,

chi lo tiene per suo avvocato

da Sand’Andonie sarà salvato.

 

Sand’Andonie arefà lu lètte

e lu Demonie ce s’assètte,

sand’Andonie se n’à ‘ddunate

e je l’à fatte ‘na mazzijate.

         Scia bendétte Sand’Andonie

         prutettore contr’a lu Demonie.

 

Sand’Antonie de Felette

curréve apprèss’a le ggiuvinétte

l’à ‘rrevate e l’à ‘cchiappate ( l’à vasciate )

evviva Sand’Andonie Abbate.

         Ca dumane è Sand’Andonie

         prutettore contr’a lu Demonie?

Sand’Andonie de Rapine

se magnéve le taiuline,

lu Demonie malandrine

j’à ‘rrubbate la freccine.

         Evviva evvive Sand’Andonie

         prutettore contr’a lu Demonie.

 

Sand’Andonie ‘nmèzz’a ‘na fratte

jéve cerchènne le ciammaiche,

lu Demonie huatta, huatta

l’à vussate ‘nmèzz’a l’ardiche.

         E dumane ( uoje ) è Sand’Andonie

         prutettore contr’a lu Demonie.

 

 

 

Uscita

 

Bbona sére gente e amice

lu Segnore v’abbenedice

e v’accresce lu patrimonie

‘nghe la grazie de Sand’Andonie

         e pe’ despètte a lu Demonie

         se fa fèste a Sand’Andonie.


 

NOTA AL CANTO

 

Voglio ricordare un tipo, suonatore di “ddubbotte”, molto originale ed estroso, che viveva in quegli anni.

Egli non si associava alle comitive di altri “cantori”; ma si recava ugualmente, tutto solo, a cantare presso le famiglie, concludendo ogni pezzo con la strofetta:

“I’ me sone e i’ me cante

pe’ unore de ‘Ndonie Sante»

 

 

 

9.4.  SANT’ANTONIO DEL FELTRINO – Castel Frentano

 

Questo canto mi é stato fornito gentilmente da Crognale Domenico, originario della Contrada Feltrino di Castel Frentano.[5]

Si soleva cantare intorno alla metà di gennaio, fino agli anni novanta da un gruppo di cantori, accompagnato da una fisarmonica o “ddu’ bòtte”, nella detta frazione.

Lo riporto fedelmente nella versione in cui mi fu data.

Ho aggiunto tra parentesi qualche mia interpretazione a certi vocaboli che mi sono apparsi di difficile lettura.

 


Gesù Santo al mio possente (alcuni dicono “presente”)[6]

tu dammi aiuto alla mia mente,

dammi intelletto alla mia memoria

che di quel padre di Sant’Antonio. (alcuni aggiungono

“voglio narrar”)

 

Sant’Antonio predicava

ed un angelo a lui parlava:

“ma tu che sei qui a predicare

il vostro padre si va ad impiccare”.

 

Sant’Antonio con riverenza

da quel popolo prese licenza,

ma diceva di volersi riposare,

ma poi si mise a camminare.

 

La leggenti che parla e dice

e millecinquecento miglia fece;

con un momento a Lisbona arriva

ma per trovare la verità.

 

La trombetta andava avanti

e lo diceva a tutti quanti

Che a morte l’àn condannato

Per avere un uomo ammazzato.

 

Sant’Antonio camminava

e col giudice lui parlava;

ma con parole di santo corpo

perché mio padre va alla morte?

 

E quel giudice ebbe parlato:

“ma per avere un uomo ammazzato

e che la corte l’à condannato

le testimoni l’à ‘saminato.

 

Allora disse Sant’Antonio

che saranno falsi le testimone

ma per dolore l’à confessato

perché il mio padre è sfortunato.

 

Sant’Antonio allora disse

con gran fede a Gesù Cristo

“Che se quel morto è sotterrato

io lo vedrò che l’à ammazzato”.

 

E quel giudice ebbe parlato:

“Che voi ne dite Santo Padre?

se quel morto è sotterrato,

e già in polvere è diventato”.

 

“Governatore di gran sapienza

fate sospendere mo la sentenza”

poi si mise a camminare

dov’era il morto per andare.

 

Dopo fu visto in un monumento

( momento? )

per gran virtù del Salvatore

la pietra della sepoltura fu alzata

e vide il morto resuscitare.

 

Sant’Antonio allora s’accostò

e a quel morto lui parlava:

“Tu dimmi morto la verità,

è mio padre che t’à ammazzato?”

 

E quel morto ebbe parlato:

“Il vostro padre non è stato,

chi mi (è) venuto la morte a dare

Dio lo possa perdonare”.

 

Il morto torna a replicare:

“Padre mi voglio confessare

di una scomunica che io tengo

che mi eschiude ( esclude? ) dal Santo Regno”.

 

Sant’Antonio allora s’accosta

a quel morto a confessare

di un’anima a salvare

ed il padre a liberare.

 

Sant’Antonio diceva ragione ( ? )

 

da sopra al pulpito ogni persona

“Se io a tempo sono arrivato

il mio padre ho liberato

il mio padre ho liberato

e anche un morto ho salvato”.

 

Maggior parte la gente ride

a tale cosa che non credeva;

ma un corriere a Lisbona arrivò

per trovare la verità.

Sant’Antonio glorioso

con il cielo faceva riposo

e con Maria, gli Angeli e i Santi

la sia avvocato a tutti quanti.

 


 

 

9.5.  LU SAND’ANDONIE DE CRUCETTE

Crocetta di Castel Frentano[7]

 

Questa versione de “Lu Sand’Andonie” è stata realizzata in forma di sceneggiata, riadattando un testo scritto tramandato dalla tradizione, con l’applicazione delle musiche popolari apprese presso le nostre popolazioni.

 

La trama, di bellissimo effetto, è stata ricostruita dal “Circolo Culturale-Ricreativo” di Crocetta di Castel Frentano, per iniziativa di un gruppo guidato da Pietro Angelucci e con la partecipazione di tutti gli abitanti di quella frazione.

 

E’ formato da parti musicali cantate dai solisti, da parti recitate e da strofe, riprese dalla tradizione locale, cantate da un gruppo corale.

 

 

 

CORO (Canto introduttivo)


Bonasere care amice,

bonasere amata gente

Sand’Andonie qui presente,

una visita a voi vi fa.

 

Sand’Andonie piccolino,

andava a scuola sera e mattino;

non leggeva e non scriveva,

e sempre avanti si troveva.

 

Sand’Andonie a lu buschette,

curreva appresse a lu maialette,

l’arrevate e l’acchiappate,

viva Sand’Andonie Abate.

 

Sand’Andonie faceve lu zappette

nghe la zappe e la carrette,

jè zappènne pe’ le cafune

pe’ nu piatte de maccarune.

 

Sand’Andonie a lu desèrte

se cucéve le tajuline,

satanasse pe’ despètte

je frechètte la freccine;

Sand’Andonie ne se lagje,

Nghe le mane se le magne.

 

Sand’Andonie de Crucétte,

iéve apprèsse a le giuvinétte,

l’arrevate e l’abbracciate,

viva Sand’Andonie Abate.

 

Puorce, pecure e mentune

jé’ guarènne Sand’Andonie;

nghe nu stracce e nu bastone,

viva, viva Sand’Andonie.

 


 

PRETE (recitato):

 

In questa rappresentazione vi proponiamo la vita di Sant’Antonio Abate, in scene e ritornelli nel dialetto castellino.

Sant’Antonio Abate, amico degli animali e dei fedeli veniva tormentato durante la preghiera da quel “DIAVOLO BUONSIGNORE”.

Gli eremiti, seguaci del Senato, entrano col saio ed il bastone mentre il diavolo buonsignore continua a disturbarlo.

Ciò che appare evidente e la bontà de Santo che non si scompone alle ingiurie ed alle tentazioni del diavolo.

 

EREMITI ( cantando ):

 

Siam venuti dall’Egitto

per bussare alla vostra porta

c’è qualcuno che ci conforta.

 

Siam vestiti da eremiti,

siam venuti da lontano;

siamo giunti quasi stanchi

e vogliamo riposar.

 

Eremiti ( parlato )

 

Eccoci qua ! ...Siamo venuti da lontano perché crediamo al buon Gesù

ma ormai distanti dalle nostre terre e privi di tutto, vogliamo

almeno mangiare pane e prosciutto e bere un po’ di vino.

 

 

CORO

 

Ecco il vostro Sant’Antonio

il nemico del demonio;

è venuto in mezzo a noi

a benedirci e poi partire.

 

 

PRETE:     che desiderate Antonio?

S.ANTONIO:     mi voglio confessare

PRETE:     che peccato avete?

S.ANTONIO:     né venuto, né creato

al demonio sono stato donato

PRETE:     fate penitenza e fate opere di bene ché c’è Gesù

che vi perdonerà.

 

S.ANTONIO (Canto)

 

E’ così che son scappato

per non essere tormentato

da quel diavolo sgarbato

che dal cielo fu scacciato. (2 volte)

 

Son venute le galline,

son venuti i maialini,

tutti intorno a Sant’Antonio

e per farsi benedire.

 

PRETE

Sant’Antonio ha tutti intorno a lui, ma sente in lontananza il rito satanico del demonio Satanasso.

 

( Entrano i diavoli )

  

DIAVOLI

AH! AH! AH! AH! Noi siamo i diavoli feroci,

non abbiam paura della tua croce,

andiamo in giro per tutto il mondo

per sbranarci l’anima di questa gente.

 

DIAVOLO BUONSIGNORE

 

Io sono il diavolo BUONSIGNORE

e ho fame ogni tre ore;

a me prosciutto, formaggio e vino nero.

Qua non ci deve rimanere niente.

 

 

SANT’ANTONIO

 

Venite in mio aiuto angeli di Dio,

venite a farmi compagnia,

salvate l’anima di questa gente

non lasciatemi in questa via.

 

PRETE

 

La tentazione è forte e senza pietà,

Sant’Antonio si rifugia tra le mani del Signore,

quando alzando gli occhi vede arrivare una schiera di Angeli.

 

 

ANGELI

 

Abbi fede Sant’Antonio chè il Signore è sempre vivo,

è la forza del buon Dio per punire il peccatore. (2 volte)

 

 

SANT’ANTONIO

 

Mi tormenta nel dormire ,

mi tormenta nel pregare,

mi circonda tutto il giorno,

non mi lascia più campare. (2 volte)

 

Gli animali nel fienile sono tutti già scappati,

per non essere tormentati,

da quei diavoli scellerati. (2 volte)

 

PRETE

 

E fu così che, una volta sfuggito alle ingiurie del demonio,

rivolgendosi al signore, Sant’Antonio gli, disse:

 

SANT’ANTONIO

 

Dov’eri buon Gesù? e perché non fosti quì ad alleviare le mie ferite?

 

GESU’

 

Io ero ad osservare la tua battaglia , ad ascoltare le tue preghiere, ed

ad alleviare le fiamme del demonio, perché, grazie al tuo sacrificio, al tuo coraggio

ed al tuo amore per gli uomini e per gli animali che tutto il mondo ti ricorderà.

 

ANGELI

 

Fuggi via demonio ingrato,

alle fiamme sei destinato,

all’inferno sarai portato

e per tutta l’eternità.

 

( combattimenti tra angeli e demoni )

 

SANT’ANTONIO

 

Vattene via diavolo tentatore, il tuo posto è all’inferno…

Via ! Via ! Via !

 

TUTTI

 

Via ! Via ! Via Via !

 

CORO

 

Sant’Antonio glorioso

da lu ciele faceva riposo

e con Maria e gli angeli santi,

sian lodati tutti quanti. (2 volte )

 

SANT’ANTONIO

 

Mo vi lascio e vado avanti,

buona sera a tutti quanti;

mo vi lascio e vado via,

buona sera alla compagnia. (2 volte )

 

La rappresentazione di questa versione è stata eseguita nella frazione Crocetta di Castel Frentano, e in altri posti nel mese di gennaio dell’anno 2002.

 

 

 

Dai Racconti popolari Castellini raccolti da Di Battista

1 – ‘CCIACCAPEDUOCCHIE ABBALLE PE’ LU POZZE

Moje e marite sempre a letegà. S’appicce lu foche (de la lite) pure pe’ le stubbetaggene! A ugne mumente la moje, quande lu marite cumenzé nu taluorne pe’ na case che nen jè a lu verse sé, e esse ‘nce puté vence, je decé:

“Tu sié nu ‘cciaccapeduòcchie! Nu ‘cciaccapeduòcchie!”

A lu marite nen je piaé pe’ nniente stu suprannome, e nu juorne à decise di levareje stu vizzie, a la moje:

“Tu nen m’à da dice a ccusc’!”

“Ah! ‘Cciaccapeduòcchie sié tu!”, facè la moje.

“Vide Cuncettì, ca j’ te mene!”, e je facette sentì cacche sardelle.

“Cciaccapeduocchie siè tu!”, strillé la moje cchiù forte.

“Nen me fa ‘nazzà! Ca te jette a lu pozze!”

Allore lu marite l’attaccàte a le piede, e l’à cumenzate a calà sott’a lu pozze, a coccia sotte, e la moje facé:

“Cciaccapeduocchie!”

“Vide ca t’affoghe!”, e allenté la corde verze lu fonne, “J’ t’affoghe se nen la finisce!”

“Cciaccapeduocchie!”

E lu marite calé la fune pecché avè decise de levareje chelu vizie.

“Nen le dice cchiù!”

“Cciaccapeduocchie!, cuntinué disperate la moje.

A la fine lu marite j’à fatt’ affunnà la cocce ‘mmezz’all’acque, fine a cuprì la vocche pe’ nen farle parlà. La moje quande n’à putute parlà cchiù, à chiuse le mane a cazzuotte e le volté une sopr’all’atre, e facé lu segne de une c’acciacche. Lu marite à capite ca la moje era ustinate: l’areterate fore da lu pozze, à refatte la pace e à ite ‘nnanze, ma pe’ tutta la vite, a ugne disussione z’à ‘vute sentì a chellé: “Cciaccapeduocchie!”

 

2 - PE’ SSA SUPERBIE T’ANNE MESSE ‘NCROCE

Nu povere cafone sgarrate tené bisogne de nu piacere grosse da lu Patreterne: avé da maretà la fije, ca je se tené ‘ntustà nu ccone. Na dumeneche che à ‘ntese ca lu prèjte dicé: Bussate e vi sarà aperto, chiedete e otterrete. Il Padre non nega niente ai figli. Cussù fa: “Nnaggia santa! Queste me ce sta gue lu casce sopr’a li maccarune. Mo me l’aja cercà chelu piacere che sacce i’!”

Lu juorne appresse, quande a la Chiese nen ce sté nisciune, nghe tanta fede e tanta spiranze, à jite a prehà nnanze a lu Crucifisse:

“Signore, i’ so bbone, nen so’ fatte maje male a nisciune: stenghe ‘mpace nghe tutte, facce la caretà, venghe a la Messe…Sole cacche viastème…ma nen è pe’ cattiverie…è che sciaccìse, me n’ome fa ‘ncazzà. Tenghe chela quatrale, Mengucce, te’ ‘ntustà…faje truvà nu streppe de marite, ca dapuò a Signurì ce penze i’.”

La cose jé nnanze a tutte le juorne, e Zi Carminucce ze tené pure a scuraggì, pecché nisciune a Mengucce je dicé: che bbell’ucchie che tié nfronte, però tené sempre na speranze….Lu sacrastane, pezze de huaj morte, à viste stu traffeche a la Chiese, e s’à nascoste arrete a lu Crucifisse pe’ sentì. Quande à ntèse tutte la litanije, pe’ suspette arespunnì nghe na vucette delecate:

“Ze Carminù, me despiace, ma quesse nen ze po’ fa!”

Lu puverette c-i-à rimaste male assa’, e tutte ‘ncazzate facì:

“Weh, Criste! A tte’ pe’ ssa superbie t’anne misse ‘ncroce!”

Però Mengucce che ere n abbona fije, dope cacche mese j’à scite nu belle spose, e Zi Carminucce z’accatté nu belle mazze de fiure pe’ farse perdunà da Criste bbelle.

 

Giovani contadine che suonano e danzano, lastra 1890 ca., proprietà Marco Cavacini

3 - E SO’ DITTE LA MESSE PE’ LU CAZZE!

Don Nicole ere proprie nu prèvete brave, assaje devote, vita tranquille, pacione e del bbone core. Tenè nu vizie… je piacé le femmene, e z’avé fatte la Cummare. Ugne vote che la jé a truvà, j’argalé la dice lire. A la case tené na vicchiarelle che ze chiamé Za Rusine. Queste ze sté nghe esse e je facé la cucine, le pulizzije, e l’iètre mmasciate.

Don Nicole penzé a le quatrine pe’ le spese, e jé avante senza penziere. Na matine nen tené manche na lire, à jite a dice la Messe e z’à bbuscate dece lire, po’ à jite a la Cummare e j’à date ste dece lire. Quand’à ‘rijìte a la case, Za Rusine je facì:

“O don Nicò, me serve le solde pe’ fa la spese”

“O Za’ Rusì, maddemane nen tenghe manche na lire!”

“Don Nicò, mo sì ditte la Messe”, facé nghe suspette la vicchiarelle.

“O Za’ Rusì, maddemane so’ ditte la Messe pe’ lu cazze”.

 

4 - I’ TE CHENOSCE, PERUCCE!

Nu campagnole tené na ngotte poche fore da lu paese, e ce tené quattre ciuche, piante de pere viecchie. Une tené lu tronche proprie grosse. Nu juorne à passate l’acciuprèjte e j’à ditte, a stu cafone:

“Zi Camì, me da ddà ssa piante de pere, ca justa juste so’ fatte minì n’artiste da la Cetà. C’ajje fa fa’ nu belle Criste pe’ la Cchiese.”

“E vabbone, don Giuvà, falle tajà, e pijetele, nze sa maje, nu Gesù Criste ce po’ sempre servì”.

L’arciuprèjte à fatte tajò lu pere, à repulite lu tronche e ze l’à fatte purtò a la sacristije. Doppe tanta misce, l’artiste avé fatte nu bbelle Criste c’à state messe sopre l’avetare, e tutta la gente le jé a prehà de core.

Lu cafone à penzate: “Fihùrete a me, se me fa la grazie, quesse vè da lu pere me!”

Allore accome je s’avé da parturì la vacche, à ‘ite a la Cchiese a prehà ‘nnanze a lu Criste:

“Oh Gesù Criste, me faje fa’ ddu vitièlle a Vijole (la mucca)? Ca una me serve pe’ caccia li dibbete.”

Gesù Criste n’aresponné, ma Zi’ Camille ‘nzisté tutte le juorne nghe le litanije. Lu sacrastane à viste chelu traffeche, z’appustate, à capite tutte e à penzate de farece nu scherze: z’à messe arrète a l’avetare, e quande Zi Camille à ite a prehà, à ‘resposte:

“Ma che pozze pensà a li fatta tiè J’!?”

E Zi Camille: “Nen te fa lu presentose tu! Ca i’ te chenosce, perucce!”

 

Il Di Battista nel fascicolo manoscritto surriferito, riporta una novella breve: A so’ ditte la Messe pe lu cazze, molto simile alla precedente, solo che cambiano i nomi: don Casimiro e Za’ Maria. Perciò non l’abbiamo trascritta.

 

5 - A LU CUMMENTE E’ SI’MIGGE

A lu Cummente de Sante Buone[8], ce ste’ na quinecine di munece, cièrete cristijanine rusce e frecute! Nen je manché niente. La ggende arimpijè la vesacce de le frate cercature, e allòche savecicce, ventricine, cacecavalle… Lu vine se le facé isse e stè ‘ngrazia a Ddije! Quanda avè finite l’uffice e le uraziune, s’arestregné attorne a lu foche, e tra na savecicce e nu bicchiere, ze metté trulle-trulle.

Allore se scherzé e se pazzijé. Ma se sa, ca la pazzije de lu chène va’ finì a cazze ‘ncule, e cuscì, chiane chiane, z’à fatte l’abetudene de jirse ncule esse fra isse… e ce pruvé nu sacche de ‘huste! Z’avé sapure ‘ngire ca a lu Paese ce sté nu giuvenotte che tené nu ciufelle pe’ lu cule se’, che metté paure, e pur enu ccone de vulìje, a tutte le femmene: ere gne la cocce de nu cacciune de le bendiche!

Allore lu Padre Guardiane, nghe nu quattre e nche nu ciuche, à cuntrattate stu giuvenotte e j’addummannate: “Siente, Carmenì, z’à sapute a lu Cummente ca tu, le bendiche, tiè nu vattachiechierchie che fa ‘mpazzì le femmene.”

“Ze’ monece, ngrazia a Ddi’, so’ richieste na frise…pure fore!”

“Ah, te despiace a farete na camenate a lu Cummente? Seme curiose de vedé stu bbelle mostre”.

“E vabbò, ce pozze menì dumane a ssère”

E sta nutizzie z’à sapite subbete a lu Cummente, e tutte le monece aspette lu fenomene, e cacchedune ze lecché le baffe! Quand’à ‘rrevate Carmenucce, tutte je facé l cumpliminte, pe’ tersarse le simpatije sé. A la fine Carmenucce tutt’urgugliuse z’à calate le caveze, ma le monece nisciune meravijje: anze, ‘scì na frase come: e che d’è?! Di delusione. A la fine lu Guardiane nghe n’aria scuraggiate, je fa: “Carmenì, scuse, quesse a stu Cummente è simigge!”

 




[1] L’Archivio contiene il materiale raccolto da Giuseppe Di Battista e collaboratori dell’ex Gruppo Teatrale Abruzzese ’80, risorto poi come Associazione teatrale “Di Loreto-Liberati”. Il materiale nelle buste riguarda la documentazione del Premio di Poesia Abruzzese “Eduardo Di Loreto”, dal 1992 al 2021 (il materiale precedente dal 1968 al 1992 purtroppo è andato disperso anni fa), il materiale per l’edizione ctitica in 4 tomi delle opere di Eduardo Di Loreto, pubblicate a cura di Di Battista nel 1988-2004, le musiche di Pierino Liberati originali e in copia, donate dai figli Aroldo “Nino” Di Nardo e Maria Vittoria Di Nardo, con la supervisione del nipote Piero Di Nardo-Liberati, un fondo dedicato a Di Loreto con carte inedite e ritagli dei suoi articoli di giornale, donato di recente dalla nipote Paola Di Loreto e Mimmo Sciascia, e buste con i periodici storici di Castel Frentano, gentilmente donati da Pietro Febbo e Mimmo Sciascia.

[2] M° Aldo Marincola (1933-2015) è stato autore di numerose composizioni musicali, orchestrali, corali, di musica sacra, musica per banda, musica da camera, jazz e folkloristica. Figlio d’arte, del M° Pietro Marincola, storico direttore della Banda civica “F. Fenaroli” di Lanciano, era fratello dei musicisti Mario e Ugo Marincola. Si ricordano la famosa "Pastorale Abruzzese", la Messa Pro Pace, Il Santo, Il Preludio e l'Ave Maria, "Riflessione Rossiniana", Lo "Scherzo in do maggiore" e la particolare Marcia per Banda "Preoccupatevi", scritta in contrapposizione con la celeberrima "Non vi preoccupate" composizione scritta dal padre, il notissimo M° Pietro Marincola. Dopo il conseguimento del diploma di pianoforte principale, del diploma di merito al concorso pianistico "Città di Messina" e dell’abilitazione per l’insegnamento dell’educazione musicale, si è dedicato totalmente all'insegnamento e in particolar modo allo studio della struttura corale e delle composizioni per coro divenendo direttore di numerosi cori polifonici, folkloristici e liturgici. Presidente di giuria in vari concorsi musicali, ha contribuito allo sviluppo di molte attività culturali e musicali nella città di Lanciano e alla fondazione della Scuola Civica di musica "Fedele Fenaroli", diventandone il direttore didattico negli anni di massimo splendore e partecipazione. Iscritto alla Società degli Autori dal 1980, anno in cui ha ricevuto il Premio Abruzzo 80’ assegnato per meriti artistici e per il contributo dato alla cultura musicale della regione Abruzzo. A Castel Frentano fu molto attivo con l’associazione Teatro Abruzzese ’80, e nel 1979 diresse l’orchestra per l’esecuzione dell’operetta Lune e spose, tutte na cose, di Eduardo Di Loreto e Pierino Liberati (1936), di cui si conserva, nell’Archivio storico dell’Ass.ne teatrale “Di Loreto-Liberati”, una copia audio della registrazione dell’esecuzione al Teatro Corsetti di Castel Frentano il 24,25,26 maggio 1979. N.d.C.

[3] Circa gli incipit “Sant’Andonie de Rapine… Sant’Andonie di Filette”, dove si prendono in giro i paesi circonvicini di Castel Frentano, abbiamo rinvenuto un Sant’Antonio di Orsogna, gentilmente fornitoci da Vittorio Pace, dove appaiono le stesse allusioni, anche se è evidente che siano state eseguite modifiche arbitrarie dalla locale compagnia “Li Prisintuse”; benché questi sfottò abbiano origini più remote nell’entroterra chietino, più avanti in Appendice I lo dimostreremo. Un altro Sant’Antonio orsognese è stato composto dal poeta Rocco Tenaglia. N.d.C.

[4] Cfr. E. Giancristofaro, Canti popolari abruzzesi, pp. 141-142, dove si riporta una versione cantata a Pratola Peligna che inizia con “Sant’Andonie ‘scì gioconde, numenate pe’ tutte lu monne”, ecc.N.d.C.

[5] Abbiamo contattato il sig. Mario Crognale del Feltrino, che ringraziamo in questa sede, operativo nel Coro folk “P. Liberati” il quale ci ha fornito, così come lo aveva fornito suo padre a Di Battista nel quadernetto manoscritto, il testo del Sant’Antonio del Feltrino, che corrisponde all’attuale, e ce lo ha cantato con delle varianti, come si vedrà nelle note riportate in questa versione, in Appendice II. N.d.C.

[6] Probabilmente in origine doveva essere “Gesù Santo alto e possente”, ma si corruppe nel tempo. N.d.C.

[7] Il canto veniva eseguito sin dagli anni 90 in contrada Crocetta, fu raccolto in un libricino stampato, donato a Di Battista, e successivamente fu pubblicato dal Circolo ricreativo culturale di Crocetta, in 1983-2003: Vent’anni, pp. 93 e 95. N.d.C.

[8] Il convento di Sant’Antonio a San Buono (CH).

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