Giuseppe Di Battista (1930-2013) e le sue ricerche abruzzesi
di Angelo Iocco
Castel Frentano, Archivio storico
Associazione teatrale “Di Loreto-Liberati”, nei locali dell’Asilo Caporali,
riordinato da Angelo Iocco[1]
Castel Frentano, collezione locandine
delle rassegne del Teatro Abruzzese ’80 a Castelfrentano (1979-2006), Archivio
teatrale Di Loreto-Liberati, presso Asilo Caporali.
Ancor prima, nel 1965, Di Battista e altri avevano
aderito all’idea di un Concorso di Poesia Abruzzese a Castel Frentano, per
omaggiare Di Loreto, che prese avvio nel 1968 e tutt’ora è in attività, con la
41sima edizione del 2021. Di Battista, deus ex machina delle nuove
edizioni del Premio di Poesia “E. Di
Loreto” dal 1992 al 2013, insostituibile presentatore dei poeti e delle
canzoni, nonché membro della giuria. Si adoperò anche nel 1998 e nel 2000 per
far rappresentare nuovamente la Mascherata Carnevalesca di E. Di Loreto
e P. Liberati. Raccolto abbastanza materiale per delle pubblicazioni, nel 2000
uscì presso l’editore Carabba Proverbi Abruzzesi di ieri e di oggi, e
nel 2007, Castannove: il paese, la gente, l’incanto, dove il Di Battista
raccolse tutto il sapere popolare della gente castellina. Nel 1988 e poi nel
2004 Di Battista coronò un suo sogno, pubblicare tutta l’Opera edita di Eduardo
Di Loreto, riunendole in 4 preziosi volumi. Nel 2005 partecipò all’inaugurazione
del nuovo teatro comunale Di Loreto-Liberati, ex Teatro Corsetti. Morì a Castel
Frentano nel 2013.
Archivio Marco Cavacini, lastra di
Fileno Cavacini di fine ‘800, con contadine in abiti tradizionali, scale di
Villa Cavacini, Castelfrentano.
Dal suo ultimo libro postumo, curato da Angelo Iocco, Canti e racconti popolari di Castel Frentano
e dell’area del Sangro-Aventino, Castelfrentano 2023, estraiamo alcuni
brani sulle sue ricerche. Di Battista voleva offrire un ultimo dono alla sua
piccola patria, e all’Abruzzo tutto: il frutto di oltre vent’anni di ricerche
presso le contadine delle campagne castelline, parliamo delle favolette di
gusto boccaccesco e triviale, che già Gennaro Finamore ad esempio aveva
raccolto da vari paesi alla fine dell’800, oppure degli stornelli e dei canti
di Castelfrentano e dintorni, quelli del Sant’Antonio, quelli della Settimana
Santa, o gli stornelli amorosi delle serenate. Immensa è la messe di materiale
che Di Battista ricercò anche presso coetanei che già avevano pubblicato, come
Antonio Allegrini nel suo Castannove,
sul ciclo della vita dell’uomo, o del Padre Domenico Lanci da Guastameroli nei
suoi Canti popolari d’Abruzzo, da cui
incise anche dei dischi e audiocassete col Coro di Guastameroli.
Estratto dall’Introduzione di Di Battista ai Canti
Il canto è una delle
espressioni più nobili dell’animo umano, ma anche un mezzo per comunicare
sentimenti ed emozioni.
Le popolazioni abruzzesi che
affondano le proprie radici in un mondo agro-pastorale, hanno goduto del privilegio
di condurre una vita in diretto contatto con la natura, sia quando questa le
gratificava con i suoi splendori, sia quando le penalizzava, scatenando le sue
forze brutali attraverso fenomeni terrificanti che mettevano a dura prova la
resistenza fisica e morale delle persone.
Tutto ciò deve avere
insegnato alla gente a sopportare, resistere e lottare quando l’ira degli
elementi cercava di sopraffarla ed a godere le manifestazioni delle bellezze
incantevoli e le visioni di serena maestosità che trasportavano la loro anima
verso l’infinito.
Il duro esercizio della
lotta fisica per sopravvivere alla rabbia della natura ed alla scarsità delle
risorse, unitamente alla beata contemplazione degli spettacoli armoniosi , ha
fatto degli abruzzesi un popolo “forte e gentile” che ha appreso ad usare la
nobile espressione del canto per esternare la gioia di vivere, ma soprattutto
per comunicare i propri sentimenti: l’amore, la felicità, la speranza ed, a
volte, il risentimento; ma anche per elevarsi dalla miseria quotidiana e per
rendere meno dura la fatica e meno lunghe le giornate.
Mi sembra opportuno
ricordare (specie alle nuove generazioni che, per loro fortuna, non hanno
vissuto quelle esperienze) che i lavori dei campi erano pesanti e defatiganti e
spesso assumevano aspetti bestiali, come bene ha raffigurato il Patini nei suoi
dipinti.
Inoltre i contadini, che
nella quasi totalità erano mezzadri o affittuari, dovevano sopportare le
sopraffazioni dei “padroni” e l’esosità delle loro richieste, che non tenevano conto
nemmeno delle varie calamità atmosferiche (grandinate, gelate, siccità, ecc.)
che spesso rovinavano i già miseri raccolti.
Forse per questo l’ideologia
marxista, di natura classista, cercò di interpretare il canto popolare come
espressione della ribellione delle classi subalterne, che subivano ogni
sopruso.
Ma anche questa visione
appare parziale e riduttiva di una manifestazione che sgorga spontanea, che
contiene la passione e si fa linguaggio dell’anima.
Il canto popolare non può
essere definito nemmeno (come qualcuno ha fatto) un sottoprodotto musicale.
All’origine qualche canto
può essere stato prodotto da un autore ed è divenuto popolare quando il popolo
lo ha adottato perché conteneva assonanze con i sentimenti e l’anima della
gente. Esso non è l’espressione umile, pittoresca ed infantile di una classe
sociale inferiore, subalterna e sottosviluppata, ma la voce nobilissima che, in
forme semplici, possiede la chiave per far vibrare l’anima di tutte le persone
di una collettività.
Sono stati pubblicati molti
scritti ed altri ce ne saranno poiché la discussione è ancora aperta.
Da ciò che ho avuto l’
opportunità di leggere ed apprendere penso, sia pure modestamente, di poter
tentare una bozza di definizione, che, a mio avviso, può evidenziare parecchi
degli aspetti e dei contenuti del canto popolare:
- esso ha una struttura generalmente atipica ed a-tecnica;
- non ha un autore poiché nella quasi totalità è nato spontaneo
dal popolo;
- è collettivo ed impersonale, semplice ed improvvisato;
- è espressione di umanità idilliaca che dura e si trasmette
oralmente da una generazione all’altra;
- non può definirsi espressione incolta solamente del popolo
inferiore e delle classi subalterne anelanti all’affrancamento.
Quanto sopra detto potrà
apparire semplicistico e/o riduttivo, ma è il frutto delle riflessioni maturate
durante le ricerche confrontate ed, a volte, suffragate anche dalle opinioni di
esperti etnologi.
Concludo con l’assicurazione
al lettore, che vorrà porvi l’attenzione, che il materiale incluso in questa
raccolta è la trascrizione fedele e completa di ciò che ho conservato nella mia
memoria e di quello che ho ascoltato dalla voce della gente, senza alcuna
mistificazione o elaborazione personale.
Gli stornelli
Gli stornelli rappresentano
la forma letteraria più diffusa del canto popolare e venivano cantati,
specialmente durante i lavori campestri, in forma dialogica o di contrasto.
Essi provengono da una
tradizione molto antica e sono il frutto di una creatività popolare
insospettabile, tant’è che il loro repertorio è inesauribile ed, insieme a
tanti che rimangono capisaldi consolidati e ricorrenti in quasi tutte le aree
geografiche della Regione, ve ne sono altri sviluppatisi in ambiti più
ristretti e riferiti a specifici lavori o a periodi definiti dell’annata
agraria, come già detto in precedenza.
Altri ancora sono nati da
improvvisazioni estemporanee e dalla fantasia dei cantori, nei momenti in cui i
soggetti erano infervorati e volevano arricchire il repertorio, restando, più o
meno, nel tema, che andava sviluppandosi in una particolare tenzone dei gruppi
costituitisi spontaneamente tra i numerosi braccianti presenti.
È opportuno ricordare che
fino agli anni quaranta del secolo appena trascorso i lavori campestri venivano
eseguiti a braccia , per cui, specie nei “grandi” lavori, era presente nei
campi una numerosa schiera di lavoratori.
Generalmente nell’esecuzione
dei canti si costituisce una gerarchia, nella quale uno più dotato intona e gli
altri rispondono in coro, rispettando la struttura del canto medesimo.
Inoltre gli stornelli si
adattano ad essere cantati in sequenze musicali diverse, le cosiddette “arie”,
a seconda del tipo di lavoro eseguito (mietitura, sarchiatura, vendemmia,
ecc.).
Alcune di queste, da me
ricercate, sono state eseguite da un gruppo di persone che nella loro gioventù
hanno vissuto quelle modalità di svolgimento dei lavori dei campi e quindi
hanno partecipato di persona a quelle “tenzoni canore” ormai del tutto
scomparse con l’avvento della meccanizzazione agricola.
“Mo pe’ le campagne cante li
muture” ha detto un vecchio contadino.
Dalla registrazione di
queste esecuzioni, il Maestro Aldo Marincola[2]
ha ricavato le note dei canti che di seguito verranno riportate.
Alcune “arie” esprimono in
maniera inequivocabile la sofferenza fisica nelle lunghissime e faticosissime
giornate di lavoro.
Forse qualcuno può stupirsi,
ma i lavori campestri venivano eseguiti senza limiti di orario, dall’alba al
tramonto ed in condizioni meteorologiche che la natura riservava nel corso
delle stagioni (gelo,umidità, vento, afa, ecc.).
Altre “arie” esprimono la
gioia di ritrovarsi insieme a fare quattro salti nell’aia, al suono di un
organetto; altre ancora le soddisfazioni di vedere premiate le loro fatiche da
un raccolto abbondante.
Ma il tema principale resta
l’amore: l’amore nelle sue ansie e nei suoi tormenti; l’amore con le sue gioie
e con i suoi litigi; l’amore con i suoi sogni e con i suoi progetti e, perché
no, con i suoi dispettucci; l’amore nelle sfumature dei sentimenti sofferti e/o
taciuti, espressi con gioia o con stizza. Vi affiora, a volte, pure il
desiderio fisico che viene manifestato in forma velata e piuttosto pudica, per
mezzo di metafore o in forma grossolana e sfacciata.
Vi è presente anche, in
forma più o meno esplicita e corriva e già nelle fasi dell’amoreggiamento e del
“fidanzamento”, l’eterna conflittualità con la futura suocera che, a volte,
raggiunge punte di dispetto da parte della ragazza, soprattutto dopo che si è consolidata,
in maniera irreversibile la conquista del cuore dell’amato.
L’amore, sentimento universale, presente in forma rudimentale, passionale, romantica o materialistica in tutti gli esseri viventi, non poteva mancare nell’anima di un popolo forte e sensibile come quello dei nostri contadini.
E qui si possono fare
discorsi filosofici, religiosi, sociali o storici; si possono evocare le
ataviche sofferenze, le storiche oppressioni, la rassegnata povertà, le
angustie quotidiane per sfamare famiglie numerose, in cui i figli dovevano
guadagnarsi una fetta di pane partecipando fin dalla tenera età, ai lavori duri
che avrebbero potuto abbruttire anche gli angeli.
Eppure la nobiltà dei
sentimenti, non appresa attraverso processi educativi e/o di acculturamento, riusciva
ad affiorare ed a manifestarsi, sia nell’età degli ardori giovanili, sia
nell’età matura, quando si aveva la responsabilità di guidare una famiglia.
Grezzi, analfabeti, privi di
qualsiasi altro strumento di comunicazione, i nostri antenati si esprimevano
con il canto; con il canto degli stornelli che è, sì, un canto breve, ma, a mio
avviso, più personalizzato, nel quale si esprimono con immediatezza i
sentimenti propri, meglio che con un canto a sequenza lunga, nel quale non è
presente la partecipazione passionale del soggetto.
Va precisato che gli
stornelli, così come sono stati raccolti e trascritti, non sempre rispettano
una forma metrica prestabilita; ma vi si possono cogliere immagini autentiche
in cui la poesia disadorna rivela lo spontaneo “sentire” popolare.
1) Uòcchie accennariélle pecché m’accinne,
se vù fa l’amore ‘nghe mé pecché nen ce miénne.
2) ‘Ncore ce manne ca sié peccerélle,
e ‘ncore le cumplisce le quinece anne.
3) ‘Le quinece l’aje cumplite e le sidece pure,
mannece bbèlla mie, ca sié secure.
Castel Frentano vista da
Fonte Barile, dopo la frana del 1881
1) Mamme e tate se là tote huste
e a mé m’attòcche a purtà lu maste.
2) Pòrte lu mmaste e pòrte le cestine,
vuòje vedé chi se more prime.
3) ‘Lu bbéne de mamme e tate m’à fatte nasce,
lu bbéne de l’amore m’à fatte crésce.
4) Lu bbéne de mamme e tate fin’a la pòrte,
lu bbéne de l’amore fin’a la morte.
5) Se more mamme e tate poche ce pènze,
se more l’amore mé à scorte le speranze.
1) Quanta vôte, mamme, te l’aja dire
sole a la fonte nen me ce mannà.
2) Ce sta nu giuvenòtte che sa la scole,
s’à mésse ‘nmènte ca me vò vascià.
3) Che scì ‘ccise , fija, che scì sparate,
vù fà murì nu ggiovene pe’ nu vasce?
4) O mamma-mamme, chi è tutte ‘ssa pite,
vattele a fà tu ‘ssa caretà.
1) Mamme me vò mannà a marite fore,
quanta vôte se ne vò pentì.
2) Quande véde le cavalle a menì,
mamma-mamme nen sèerve a
ppenitì.
3) Quande métte lu péde a la staffe,
statte bbone mamme ca te
lasse.
4) Quande appuòje lu culle a la sèlle,
statte bbone patre e mie
fratèlle.
5) Quande arrive a che le strétte vije,
a la case de mamme e tate
vurré areije.
6) Quande arrive a che le strétte rue,
la case de mamme e tate
quant’è scure.
7) Quande arrive a piéde a che le scale,
la case de mamme e tate
quant’è care.
8) Quande vaje la sére a ddurmì,
a lu lettucce mé vurré
arejì.
1) Castalnove è nu pahèse d’ore,
che nen le tè l’amante ce se
le trove.
2) A Rome, a Rome le bbèlle rumane,
a Castalnove le bbèlle
pacchiane.
3) Castalnove ‘nche le case pinte,
mare a che ce vé, vjat’ a
chi le lante.
4) Nu séme castelline e tante avaste,
la Légge le facéme a mode
nostre.
5) Che bbèlla vreccetèlle a la marine,
che bbèlla ggiuventù le
castelline.
1) Arrét’a la muntagne ce sta Paléne,
nu ccone cchiù dellà chi me
vò bbéne.
2) Arrét’a la muntagne ce sta Rome,
nu ccone cchiù dellà lu care
amore.
3) Arrét’a la muntagne ce sta Ferènze,
nu ccone cchiù dellà chi me
pènze.
4) Arrét’a la muntagne ce sta ‘na vigne,
sta ‘nturnijate de
melechetogne.
5) Arrét’a la muntagne ce sta Gesù
lu prim’amore nen
m’abbandone cchiù.
Negli anni della mia infanzia il canto de “Lu
Sand’Andonie” era una consuetudine molto radicata in tutte le comunità ed in
occasione della festa del Santo ( 17 gennaio ), nel nostro paese più di un
gruppo si organizzava per dar corso a rappresentazioni, variamente arricchite
da effetti scenici, in cui si sbizzarriva la fantasia popolare, con suoni e
canti di facile apprendimento.
Questo canto di questua dava luogo alla raccolta di
varie cibarie che venivano successivamente consumate in allegre riunioni
conviviali.
Queste iniziative costituivano la manifestazione
esteriore, se vogliamo, anche un po’ pagana, della devozione al Santo che era
molto sentita nelle comunità agro-pastorali poiché Egli è da sempre venerato
come protettore degli animali, i quali, a quei tempi, rappresentavano una delle
principali risorse delle famiglie contadine. (si diceva: -casche n‘òmmene, ‘na
resate; casche l’asene Sand’Andonie! ).
Il giorno della festa di Sant’Antonio Abate gli
animali venivano condotti in spiazzi vicini alle chiese per essere solennemente
benedetti.
Fino alla metà del secolo scorso era usanza
consolidata, specie nei paesi dell’entroterra, che il comitato per i
festeggiamenti del Santo, a primavera, acquistasse un maialino che era lasciato
libero per il paese ( lu pirchétte de Sand’Andonie ) e veniva, anche
abbondantemente, nutrito da tutte le famiglie presso cui si recava
spontaneamente. Nel mese di gennaio successivo esso veniva ammazzato ed ogni
famiglia ne acquistava un pezzo per devozione; ma anche per impinguare i fondi
destinati ai festeggiamenti del Santo.
Poiché nell’agiografia popolare Sant’Antonio Abate è
conosciuto per le fiere e continue lotte che Egli ingaggiava con il Demonio
Tentatore, dalle quali usciva immancabilmente vincitore, mediante la preghiera
e l’aiuto che il Signore gli offriva tramite un suo angelo, i canti giravano
intorno a questo tema dominante.
Tuttavia questi si possono raggruppare in due filoni
principali.
Alcuni sono costituiti da strofe sciolte che narrano
episodi isolati della sua vita ed esposti in tono bonario ed, a volte faceto;
mentre altri sono costituiti da vicende complete ed articolate delle
“avventure” dell’Anacoreta e venivano presentate come vere e proprie
rappresentazioni dagli impianti scenici apprezzabili.
In epoche a noi più vicine venivano effettuate delle
trasformazioni sostanziali, per cui, pur non abbandonando il tema di fondo, che
resta la lotta del Santo contro il Demonio ( ossia del Bene contro il Male ),
si rivestono i testi di sceneggiature aggiuntive, elaborate da vari autori
locali, fatte soprattutto per arricchire i testi originali, più scarni, con
intenti, più o meno palesi, etico-educativo-spettacolari ( es. l’aggiunta di
altri diavoli, degli eremiti, della sorella, delle consorelle, ecc. ). Tutto
ciò ha consentito, è vero, di avere delle rappresentazioni più ricche ed
articolate; ma, a mio avviso, a discapito dell’autenticità e dell’aderenza ai
canti della tradizione, più spontanei e meno speculativi.
I canti qui di seguito raccolti provengono dalle varie
aree culturali della Regione e da entrambi i filoni sopra ricordati.
Si può inoltre constatare l’impressionante
somiglianza, sia nel contenuto che nella sequenza scenica, e la larga
diffusione sul territorio regionale, di questi canti.
In tempi più recenti dobbiamo registrare una notevole
ripresa e pubblicizzazione dei canti di Sant’Antonio Abate.
La riprova ci viene dalle rassegne organizzate in
varie località, specie dove era più sentita la tradizione e più feconda la
produzione e la rappresentazione di queste sceneggiature. ( Vanno ricordate le
rassegne più note e più nutrite di partecipanti come quelle di Gessopalena, San
Salvo, Treglio, ecc., in cui sono stati presentati testi molto elaborati e
consistenti).
9.2. NOTE BIOGRAFICHE DEL SANTO
È nato in Egitto alla metà circa del III secolo, sulle rive del Nilo. Fino a vent’anni visse in famiglia ed in modo semplice.
Intorno a quella età rimase orfano, sentì prepotente
il richiamo del Vangelo e si rifugiò, in ascetica penitenza, in un deserto
sulle rive del Mar Rosso. Ivi restò fino alla morte, avvenuta quando era più
che centenario, intorno all’anno 356.
Fu definito il fondatore dell’ascetismo. Per
consolidata tradizione la sua festa si celebra il 17 gennaio, data presunta
della sua morte. Nella sua qualità di eremita dovette avere molte tentazioni,
anche pesanti, per cui è rimasta proverbiale la sua lotta continua contro il
Demonio che, alla fine era sempre soccombente.
Divenne il Santo più popolare del Medioevo, forse
perché si ritrovava sempre a proteggere la gente umile ed il suo misero
patrimonio di bestiame.
Così la sua figura divenne mitica ed alle sue gesta si
rifanno le rappresentazioni dei fatti della sua vita.
Di carattere bonario era sempre pronto a perdonare e
benedire.
I suoi festeggiamenti si svolgono, con varie modalità,
in molte località, ma specialmente nelle zone agricole e pastorali.
9.3. LU SANT’ANTONIO A CASTEL FRENTANO – Versione “Buona sera, gentil signori”
Il canto che segue l’ho tratto dalla mia memoria ed
era senza dubbio il più diffuso nell’area castellina.
Forse la sequenza delle strofe può risultare un poco
diversa da quella di altri canti simili; ma, se vogliamo, neanche allora si
rispettava un testo preciso, in quanto tramandato per tradizione orale.
Si tratta di piccoli episodi che la tradizione
popolare attribuiva alla vita del Santo che non hanno una sequenza articolata
poiché non raccontano una vicenda particolare.
Poiché alcune di queste strofe sono presenti nei testi
registrati in altre aree geografiche dell’Abruzzo, è possibile che siano
frammenti sciolti di un canto completo che dovette essere molto diffuso nella
Regione.[3]
Tuttavia il tema dominante, anche in questi casi,
resta quello della lotta tra il Santo eremita ed il Diavolo tentatore (il Bene
ed il Male) narrata in modo bonario e scanzonato.
Ecco il testo come io lo ricordo.
Strofa di entrata:
Bona sera gentil signori,
quante ne séte déntre e fore,
quante ne séte déntre e avanti,
bona sére a tutti quanti.
Ca dumane è Sand’Andonie
prutettore contr’a lu Demonie,
chi le té pè suo avvucate,
da Sand’Andonie sarà salvate.
Sand’Andonie picculine
jéve a la scole sére e matine;
nò liggéve e nò scrivéve,
ma sopr’a tutti ne sapéve.
Pe’
despètte de lu Demonie
se fa
fèste a Sand’Andonie.
Sand’Andonie bèll’e giocondo[4]
è nominato per tutto il mondo,
chi lo tiene per suo avvocato
da Sand’Andonie sarà salvato.
Sand’Andonie arefà lu lètte
e lu Demonie ce s’assètte,
sand’Andonie se n’à ‘ddunate
e je l’à fatte ‘na mazzijate.
Scia
bendétte Sand’Andonie
prutettore
contr’a lu Demonie.
Sand’Antonie de Felette
curréve apprèss’a le ggiuvinétte
l’à ‘rrevate e l’à ‘cchiappate ( l’à vasciate )
evviva Sand’Andonie Abbate.
Ca
dumane è Sand’Andonie
prutettore
contr’a lu Demonie?
Sand’Andonie de Rapine
se magnéve le taiuline,
lu Demonie malandrine
j’à ‘rrubbate la freccine.
Evviva
evvive Sand’Andonie
prutettore
contr’a lu Demonie.
Sand’Andonie ‘nmèzz’a ‘na fratte
jéve cerchènne le ciammaiche,
lu Demonie huatta, huatta
l’à vussate ‘nmèzz’a l’ardiche.
E dumane
( uoje ) è Sand’Andonie
prutettore
contr’a lu Demonie.
Uscita
Bbona sére gente e amice
lu Segnore v’abbenedice
e v’accresce lu patrimonie
‘nghe la grazie de Sand’Andonie
e pe’
despètte a lu Demonie
se fa
fèste a Sand’Andonie.
NOTA AL CANTO
Voglio ricordare un tipo, suonatore di “ddubbotte”,
molto originale ed estroso, che viveva in quegli anni.
Egli non si associava alle comitive di altri
“cantori”; ma si recava ugualmente, tutto solo, a cantare presso le famiglie,
concludendo ogni pezzo con la strofetta:
“I’ me sone e i’ me cante
pe’ unore de ‘Ndonie Sante»
9.4.
SANT’ANTONIO DEL FELTRINO – Castel Frentano
Questo canto mi é stato fornito gentilmente da
Crognale Domenico, originario della Contrada Feltrino di Castel Frentano.[5]
Si soleva cantare intorno alla metà di gennaio, fino
agli anni novanta da un gruppo di cantori, accompagnato da una fisarmonica o
“ddu’ bòtte”, nella detta frazione.
Lo riporto fedelmente nella versione in cui mi fu
data.
Ho aggiunto tra parentesi qualche mia interpretazione
a certi vocaboli che mi sono apparsi di difficile lettura.
Gesù Santo al mio possente (alcuni dicono “presente”)[6]
tu dammi aiuto alla mia mente,
dammi intelletto alla mia memoria
che di quel padre di Sant’Antonio. (alcuni aggiungono
“voglio narrar”)
Sant’Antonio predicava
ed un angelo a lui parlava:
“ma tu che sei qui a predicare
il vostro padre si va ad impiccare”.
Sant’Antonio con riverenza
da quel popolo prese licenza,
ma diceva di volersi riposare,
ma poi si mise a camminare.
La leggenti che parla e dice
e millecinquecento miglia fece;
con un momento a Lisbona arriva
ma per trovare la verità.
La trombetta andava avanti
e lo diceva a tutti quanti
Che a morte l’àn condannato
Per avere un uomo ammazzato.
Sant’Antonio camminava
e col giudice lui parlava;
ma con parole di santo corpo
perché mio padre va alla morte?
E quel giudice ebbe parlato:
“ma per avere un uomo ammazzato
e che la corte l’à condannato
le testimoni l’à ‘saminato.
Allora disse Sant’Antonio
che saranno falsi le testimone
ma per dolore l’à confessato
perché il mio padre è sfortunato.
Sant’Antonio allora disse
con gran fede a Gesù Cristo
“Che se quel morto è sotterrato
io lo vedrò che l’à ammazzato”.
E quel giudice ebbe parlato:
“Che voi ne dite Santo Padre?
se quel morto è sotterrato,
e già in polvere è diventato”.
“Governatore di gran sapienza
fate sospendere mo la sentenza”
poi si mise a camminare
dov’era il morto per andare.
Dopo fu visto in un monumento
( momento? )
per gran virtù del Salvatore
la pietra della sepoltura fu alzata
e vide il morto resuscitare.
Sant’Antonio allora s’accostò
e a quel morto lui parlava:
“Tu dimmi morto la verità,
è mio padre che t’à ammazzato?”
E quel morto ebbe parlato:
“Il vostro padre non è stato,
chi mi (è) venuto la morte a dare
Dio lo possa perdonare”.
Il morto torna a replicare:
“Padre mi voglio confessare
di una scomunica che io tengo
che mi eschiude ( esclude? ) dal Santo Regno”.
Sant’Antonio allora s’accosta
a quel morto a confessare
di un’anima a salvare
ed il padre a liberare.
Sant’Antonio diceva ragione ( ? )
da sopra al pulpito ogni persona
“Se io a tempo sono arrivato
il mio padre ho liberato
il mio padre ho liberato
e anche un morto ho salvato”.
Maggior parte la gente ride
a tale cosa che non credeva;
ma un corriere a Lisbona arrivò
per trovare la verità.
Sant’Antonio glorioso
con il cielo faceva riposo
e con Maria, gli Angeli e i Santi
la sia avvocato a tutti quanti.
9.5.
LU SAND’ANDONIE DE CRUCETTE –
Crocetta di Castel Frentano[7]
Questa versione de “Lu Sand’Andonie” è stata
realizzata in forma di sceneggiata, riadattando un testo scritto tramandato
dalla tradizione, con l’applicazione delle musiche popolari apprese presso le
nostre popolazioni.
La trama, di bellissimo effetto, è stata ricostruita
dal “Circolo Culturale-Ricreativo” di Crocetta di Castel Frentano, per
iniziativa di un gruppo guidato da Pietro Angelucci e con la partecipazione di
tutti gli abitanti di quella frazione.
E’ formato da parti musicali cantate dai solisti, da
parti recitate e da strofe, riprese dalla tradizione locale, cantate da un
gruppo corale.
CORO (Canto introduttivo)
Bonasere care amice,
bonasere amata gente
Sand’Andonie qui presente,
una visita a voi vi fa.
Sand’Andonie piccolino,
andava a scuola sera e mattino;
non leggeva e non scriveva,
e sempre avanti si troveva.
Sand’Andonie a lu buschette,
curreva appresse a lu maialette,
l’arrevate e l’acchiappate,
viva Sand’Andonie Abate.
Sand’Andonie faceve lu zappette
nghe la zappe e la carrette,
jè zappènne pe’ le cafune
pe’ nu piatte de maccarune.
Sand’Andonie a lu desèrte
se cucéve le tajuline,
satanasse pe’ despètte
je frechètte la freccine;
Sand’Andonie ne se lagje,
Nghe le mane se le magne.
Sand’Andonie de Crucétte,
iéve apprèsse a le giuvinétte,
l’arrevate e l’abbracciate,
viva Sand’Andonie Abate.
Puorce, pecure e mentune
jé’ guarènne Sand’Andonie;
nghe nu stracce e nu bastone,
viva, viva Sand’Andonie.
PRETE (recitato):
In questa rappresentazione vi proponiamo la vita di
Sant’Antonio Abate, in scene e ritornelli nel dialetto castellino.
Sant’Antonio Abate, amico degli animali e dei fedeli
veniva tormentato durante la preghiera da quel “DIAVOLO BUONSIGNORE”.
Gli eremiti, seguaci del Senato, entrano col saio ed
il bastone mentre il diavolo buonsignore continua a disturbarlo.
Ciò che appare evidente e la bontà de Santo che non si
scompone alle ingiurie ed alle tentazioni del diavolo.
EREMITI ( cantando ):
Siam venuti dall’Egitto
per bussare alla vostra porta
c’è qualcuno che ci conforta.
Siam vestiti da eremiti,
siam venuti da lontano;
siamo giunti quasi stanchi
e vogliamo riposar.
Eremiti ( parlato )
Eccoci qua ! ...Siamo venuti da lontano perché
crediamo al buon Gesù
ma ormai distanti dalle nostre terre e privi di tutto,
vogliamo
almeno mangiare pane e prosciutto e bere un po’ di
vino.
CORO
Ecco il vostro Sant’Antonio
il nemico del demonio;
è venuto in mezzo a noi
a benedirci e poi partire.
PRETE: che
desiderate Antonio?
S.ANTONIO: mi
voglio confessare
PRETE: che
peccato avete?
S.ANTONIO: né
venuto, né creato
al demonio sono stato donato
PRETE: fate
penitenza e fate opere di bene ché c’è Gesù
che vi perdonerà.
S.ANTONIO (Canto)
E’ così che son scappato
per non essere tormentato
da quel diavolo sgarbato
che dal cielo fu scacciato. (2 volte)
Son venute le galline,
son venuti i maialini,
tutti intorno a Sant’Antonio
e per farsi benedire.
PRETE
Sant’Antonio ha tutti intorno a lui, ma sente in
lontananza il rito satanico del demonio Satanasso.
( Entrano i diavoli )
DIAVOLI
AH! AH! AH! AH! Noi siamo i diavoli feroci,
non abbiam paura della tua croce,
andiamo in giro per tutto il mondo
per sbranarci l’anima di questa gente.
DIAVOLO BUONSIGNORE
Io sono il diavolo BUONSIGNORE
e ho fame ogni tre ore;
a me prosciutto, formaggio e vino nero.
Qua non ci deve rimanere niente.
SANT’ANTONIO
Venite in mio aiuto angeli di Dio,
venite a farmi compagnia,
salvate l’anima di questa gente
non lasciatemi in questa via.
PRETE
La tentazione è forte e senza pietà,
Sant’Antonio si rifugia tra le mani del Signore,
quando alzando gli occhi vede arrivare una schiera di
Angeli.
ANGELI
Abbi fede Sant’Antonio chè il Signore è sempre vivo,
è la forza del buon Dio per punire il peccatore. (2
volte)
SANT’ANTONIO
Mi tormenta nel dormire ,
mi tormenta nel pregare,
mi circonda tutto il giorno,
non mi lascia più campare. (2 volte)
Gli animali nel fienile sono tutti già scappati,
per non essere tormentati,
da quei diavoli scellerati. (2 volte)
PRETE
E fu così che, una volta sfuggito alle ingiurie del
demonio,
rivolgendosi al signore, Sant’Antonio gli, disse:
SANT’ANTONIO
Dov’eri buon Gesù? e perché non fosti quì ad alleviare
le mie ferite?
GESU’
Io ero ad osservare la tua battaglia , ad ascoltare le
tue preghiere, ed
ad alleviare le fiamme del demonio, perché, grazie al
tuo sacrificio, al tuo coraggio
ed al tuo amore per gli uomini e per gli animali che
tutto il mondo ti ricorderà.
ANGELI
Fuggi via demonio ingrato,
alle fiamme sei destinato,
all’inferno sarai portato
e per tutta l’eternità.
( combattimenti tra angeli e demoni )
SANT’ANTONIO
Vattene via diavolo tentatore, il tuo posto è
all’inferno…
Via ! Via ! Via !
TUTTI
Via ! Via ! Via Via !
CORO
Sant’Antonio glorioso
da lu ciele faceva riposo
e con Maria e gli angeli santi,
sian lodati tutti quanti. (2 volte )
SANT’ANTONIO
Mo vi lascio e vado avanti,
buona sera a tutti quanti;
mo vi lascio e vado via,
buona sera alla compagnia. (2 volte )
La rappresentazione di questa versione è stata
eseguita nella frazione Crocetta di Castel Frentano, e in altri posti nel mese
di gennaio dell’anno 2002.
Dai Racconti popolari
Castellini raccolti da Di Battista
1 – ‘CCIACCAPEDUOCCHIE ABBALLE PE’ LU POZZE
Moje e marite sempre a letegà. S’appicce lu foche (de la
lite) pure pe’ le stubbetaggene! A ugne mumente la moje, quande lu marite
cumenzé nu taluorne pe’ na case che nen jè a lu verse sé, e esse ‘nce puté
vence, je decé:
“Tu sié nu ‘cciaccapeduòcchie! Nu ‘cciaccapeduòcchie!”
A lu marite nen je piaé pe’ nniente stu suprannome, e nu
juorne à decise di levareje stu vizzie, a la moje:
“Tu nen m’à da dice a ccusc’!”
“Ah! ‘Cciaccapeduòcchie sié tu!”, facè la moje.
“Vide Cuncettì, ca j’ te mene!”, e je facette sentì
cacche sardelle.
“Cciaccapeduocchie siè tu!”, strillé la moje cchiù forte.
“Nen me fa ‘nazzà! Ca te jette a lu pozze!”
Allore lu marite l’attaccàte a le piede, e l’à cumenzate
a calà sott’a lu pozze, a coccia sotte, e la moje facé:
“Cciaccapeduocchie!”
“Vide ca t’affoghe!”, e allenté la corde verze lu fonne,
“J’ t’affoghe se nen la finisce!”
“Cciaccapeduocchie!”
E lu marite calé la fune pecché avè decise de levareje
chelu vizie.
“Nen le dice cchiù!”
“Cciaccapeduocchie!, cuntinué disperate la moje.
A la fine lu marite j’à fatt’ affunnà la cocce
‘mmezz’all’acque, fine a cuprì la vocche pe’ nen farle parlà. La moje quande
n’à putute parlà cchiù, à chiuse le mane a cazzuotte e le volté une
sopr’all’atre, e facé lu segne de une c’acciacche. Lu marite à capite ca la
moje era ustinate: l’areterate fore da lu pozze, à refatte la pace e à ite
‘nnanze, ma pe’ tutta la vite, a ugne disussione z’à ‘vute sentì a chellé:
“Cciaccapeduocchie!”
2 - PE’ SSA SUPERBIE T’ANNE MESSE
‘NCROCE
Nu povere cafone sgarrate tené bisogne de nu piacere
grosse da lu Patreterne: avé da maretà la fije, ca je se tené ‘ntustà nu ccone.
Na dumeneche che à ‘ntese ca lu prèjte dicé: Bussate e vi sarà aperto,
chiedete e otterrete. Il Padre non nega niente ai figli. Cussù fa: “Nnaggia
santa! Queste me ce sta gue lu casce sopr’a li maccarune. Mo me l’aja cercà
chelu piacere che sacce i’!”
Lu juorne appresse, quande a la Chiese nen ce sté
nisciune, nghe tanta fede e tanta spiranze, à jite a prehà nnanze a lu
Crucifisse:
“Signore, i’ so bbone, nen so’ fatte maje male a
nisciune: stenghe ‘mpace nghe tutte, facce la caretà, venghe a la Messe…Sole
cacche viastème…ma nen è pe’ cattiverie…è che sciaccìse, me n’ome fa ‘ncazzà.
Tenghe chela quatrale, Mengucce, te’ ‘ntustà…faje truvà nu streppe de marite,
ca dapuò a Signurì ce penze i’.”
La cose jé nnanze a tutte le juorne, e Zi Carminucce ze
tené pure a scuraggì, pecché nisciune a Mengucce je dicé: che bbell’ucchie che
tié nfronte, però tené sempre na speranze….Lu sacrastane, pezze de huaj morte,
à viste stu traffeche a la Chiese, e s’à nascoste arrete a lu Crucifisse pe’
sentì. Quande à ntèse tutte la litanije, pe’ suspette arespunnì nghe na vucette
delecate:
“Ze Carminù, me despiace, ma quesse nen ze po’ fa!”
Lu puverette c-i-à rimaste male assa’, e tutte ‘ncazzate
facì:
“Weh, Criste! A tte’ pe’ ssa superbie t’anne misse
‘ncroce!”
Però Mengucce che ere n abbona fije, dope cacche mese j’à
scite nu belle spose, e Zi Carminucce z’accatté nu belle mazze de fiure pe’
farse perdunà da Criste bbelle.
Don Nicole ere proprie nu prèvete brave, assaje devote,
vita tranquille, pacione e del bbone core. Tenè nu vizie… je piacé le femmene,
e z’avé fatte la Cummare. Ugne vote che la jé a truvà, j’argalé la dice lire. A
la case tené na vicchiarelle che ze chiamé Za Rusine. Queste ze sté nghe esse e
je facé la cucine, le pulizzije, e l’iètre mmasciate.
Don Nicole penzé a le quatrine pe’ le spese, e jé avante
senza penziere. Na matine nen tené manche na lire, à jite a dice la Messe e z’à
bbuscate dece lire, po’ à jite a la Cummare e j’à date ste dece lire. Quand’à
‘rijìte a la case, Za Rusine je facì:
“O don Nicò, me serve le solde pe’ fa la spese”
“O Za’ Rusì, maddemane nen tenghe manche na lire!”
“Don Nicò, mo sì ditte la Messe”, facé nghe suspette la vicchiarelle.
“O Za’ Rusì, maddemane so’ ditte la Messe pe’ lu cazze”.
Nu campagnole tené na ngotte poche fore da lu paese, e ce
tené quattre ciuche, piante de pere viecchie. Une tené lu tronche proprie
grosse. Nu juorne à passate l’acciuprèjte e j’à ditte, a stu cafone:
“Zi Camì, me da ddà ssa piante de pere, ca justa juste
so’ fatte minì n’artiste da la Cetà. C’ajje fa fa’ nu belle Criste pe’ la
Cchiese.”
“E vabbone, don Giuvà, falle tajà, e pijetele, nze sa
maje, nu Gesù Criste ce po’ sempre servì”.
L’arciuprèjte à fatte tajò lu pere, à repulite lu tronche
e ze l’à fatte purtò a la sacristije. Doppe tanta misce, l’artiste avé fatte nu
bbelle Criste c’à state messe sopre l’avetare, e tutta la gente le jé a prehà
de core.
Lu cafone à penzate: “Fihùrete a me, se me fa la grazie,
quesse vè da lu pere me!”
Allore accome je s’avé da parturì la vacche, à ‘ite a la
Cchiese a prehà ‘nnanze a lu Criste:
“Oh Gesù Criste, me faje fa’ ddu vitièlle a Vijole (la
mucca)? Ca una me serve pe’ caccia li dibbete.”
Gesù Criste n’aresponné, ma Zi’ Camille ‘nzisté tutte le
juorne nghe le litanije. Lu sacrastane à viste chelu traffeche, z’appustate, à
capite tutte e à penzate de farece nu scherze: z’à messe arrète a l’avetare, e
quande Zi Camille à ite a prehà, à ‘resposte:
“Ma che pozze pensà a li fatta tiè J’!?”
E Zi Camille: “Nen te fa lu presentose tu! Ca i’ te
chenosce, perucce!”
Il Di Battista nel fascicolo manoscritto surriferito,
riporta una novella breve: A so’ ditte la Messe pe lu cazze, molto
simile alla precedente, solo che cambiano i nomi: don Casimiro e Za’ Maria.
Perciò non l’abbiamo trascritta.
A lu Cummente de Sante Buone[8],
ce ste’ na quinecine di munece, cièrete cristijanine rusce e frecute! Nen je manché
niente. La ggende arimpijè la vesacce de le frate cercature, e allòche
savecicce, ventricine, cacecavalle… Lu vine se le facé isse e stè ‘ngrazia a
Ddije! Quanda avè finite l’uffice e le uraziune, s’arestregné attorne a lu
foche, e tra na savecicce e nu bicchiere, ze metté trulle-trulle.
Allore se scherzé e se pazzijé. Ma se sa, ca la pazzije
de lu chène va’ finì a cazze ‘ncule, e cuscì, chiane chiane, z’à fatte
l’abetudene de jirse ncule esse fra isse… e ce pruvé nu sacche de ‘huste! Z’avé
sapure ‘ngire ca a lu Paese ce sté nu giuvenotte che tené nu ciufelle pe’ lu
cule se’, che metté paure, e pur enu ccone de vulìje, a tutte le femmene: ere
gne la cocce de nu cacciune de le bendiche!
Allore lu Padre Guardiane, nghe nu quattre e nche nu
ciuche, à cuntrattate stu giuvenotte e j’addummannate: “Siente, Carmenì, z’à
sapute a lu Cummente ca tu, le bendiche, tiè nu vattachiechierchie che fa
‘mpazzì le femmene.”
“Ze’ monece, ngrazia a Ddi’, so’ richieste na frise…pure
fore!”
“Ah, te despiace a farete na camenate a lu Cummente? Seme
curiose de vedé stu bbelle mostre”.
“E vabbò, ce pozze menì dumane a ssère”
E sta nutizzie z’à sapite subbete a lu Cummente, e tutte
le monece aspette lu fenomene, e cacchedune ze lecché le baffe! Quand’à
‘rrevate Carmenucce, tutte je facé l cumpliminte, pe’ tersarse le simpatije sé.
A la fine Carmenucce tutt’urgugliuse z’à calate le caveze, ma le monece
nisciune meravijje: anze, ‘scì na frase come: e che d’è?! Di delusione. A la
fine lu Guardiane nghe n’aria scuraggiate, je fa: “Carmenì, scuse, quesse a stu
Cummente è simigge!”
[1]
L’Archivio contiene il materiale raccolto da Giuseppe Di Battista e
collaboratori dell’ex Gruppo Teatrale Abruzzese ’80, risorto poi come
Associazione teatrale “Di Loreto-Liberati”. Il materiale nelle buste riguarda
la documentazione del Premio di Poesia Abruzzese “Eduardo Di Loreto”, dal 1992
al 2021 (il materiale precedente dal 1968 al 1992 purtroppo è andato disperso
anni fa), il materiale per l’edizione ctitica in 4 tomi delle opere di Eduardo
Di Loreto, pubblicate a cura di Di Battista nel 1988-2004, le musiche di
Pierino Liberati originali e in copia, donate dai figli Aroldo “Nino” Di Nardo
e Maria Vittoria Di Nardo, con la supervisione del nipote Piero Di
Nardo-Liberati, un fondo dedicato a Di Loreto con carte inedite e ritagli dei
suoi articoli di giornale, donato di recente dalla nipote Paola Di Loreto e
Mimmo Sciascia, e buste con i periodici storici di Castel Frentano, gentilmente
donati da Pietro Febbo e Mimmo Sciascia.
[2] M° Aldo Marincola (1933-2015) è stato autore di numerose composizioni musicali, orchestrali, corali, di musica sacra, musica per banda, musica da camera, jazz e folkloristica. Figlio d’arte, del M° Pietro Marincola, storico direttore della Banda civica “F. Fenaroli” di Lanciano, era fratello dei musicisti Mario e Ugo Marincola. Si ricordano la famosa "Pastorale Abruzzese", la Messa Pro Pace, Il Santo, Il Preludio e l'Ave Maria, "Riflessione Rossiniana", Lo "Scherzo in do maggiore" e la particolare Marcia per Banda "Preoccupatevi", scritta in contrapposizione con la celeberrima "Non vi preoccupate" composizione scritta dal padre, il notissimo M° Pietro Marincola. Dopo il conseguimento del diploma di pianoforte principale, del diploma di merito al concorso pianistico "Città di Messina" e dell’abilitazione per l’insegnamento dell’educazione musicale, si è dedicato totalmente all'insegnamento e in particolar modo allo studio della struttura corale e delle composizioni per coro divenendo direttore di numerosi cori polifonici, folkloristici e liturgici. Presidente di giuria in vari concorsi musicali, ha contribuito allo sviluppo di molte attività culturali e musicali nella città di Lanciano e alla fondazione della Scuola Civica di musica "Fedele Fenaroli", diventandone il direttore didattico negli anni di massimo splendore e partecipazione. Iscritto alla Società degli Autori dal 1980, anno in cui ha ricevuto il Premio Abruzzo 80’ assegnato per meriti artistici e per il contributo dato alla cultura musicale della regione Abruzzo. A Castel Frentano fu molto attivo con l’associazione Teatro Abruzzese ’80, e nel 1979 diresse l’orchestra per l’esecuzione dell’operetta Lune e spose, tutte na cose, di Eduardo Di Loreto e Pierino Liberati (1936), di cui si conserva, nell’Archivio storico dell’Ass.ne teatrale “Di Loreto-Liberati”, una copia audio della registrazione dell’esecuzione al Teatro Corsetti di Castel Frentano il 24,25,26 maggio 1979. N.d.C.
[3] Circa gli incipit “Sant’Andonie de Rapine… Sant’Andonie di Filette”, dove si prendono in giro i paesi circonvicini di Castel Frentano, abbiamo rinvenuto un Sant’Antonio di Orsogna, gentilmente fornitoci da Vittorio Pace, dove appaiono le stesse allusioni, anche se è evidente che siano state eseguite modifiche arbitrarie dalla locale compagnia “Li Prisintuse”; benché questi sfottò abbiano origini più remote nell’entroterra chietino, più avanti in Appendice I lo dimostreremo. Un altro Sant’Antonio orsognese è stato composto dal poeta Rocco Tenaglia. N.d.C.
[4] Cfr. E. Giancristofaro, Canti popolari abruzzesi, pp. 141-142, dove si riporta una versione cantata a Pratola Peligna che inizia con “Sant’Andonie ‘scì gioconde, numenate pe’ tutte lu monne”, ecc.N.d.C.
[5] Abbiamo contattato il sig. Mario Crognale del Feltrino, che ringraziamo in questa sede, operativo nel Coro folk “P. Liberati” il quale ci ha fornito, così come lo aveva fornito suo padre a Di Battista nel quadernetto manoscritto, il testo del Sant’Antonio del Feltrino, che corrisponde all’attuale, e ce lo ha cantato con delle varianti, come si vedrà nelle note riportate in questa versione, in Appendice II. N.d.C.
[6] Probabilmente in origine doveva essere “Gesù Santo alto e possente”, ma si corruppe nel tempo. N.d.C.
[7] Il canto veniva eseguito sin dagli anni 90 in contrada Crocetta, fu raccolto in un libricino stampato, donato a Di Battista, e successivamente fu pubblicato dal Circolo ricreativo culturale di Crocetta, in 1983-2003: Vent’anni, pp. 93 e 95. N.d.C.
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