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SUL PORTO DI HISTONIUM
Di che cosa “parlano” quei resti archeologici sommersi localizzati a Vasto Marina nelle adiacenze del «Monumento alla bagnante»? E ancora. Perché si continuano a ignorare gli incredibili effetti prodotti dalla frana del 1816 che, interrompendo il fenomeno di subsidenza dell’area, ha consentito per alcuni l’emersione dal fondo marino [fig. 1] e, per altri, il successivo ripristino in una sommersione molto leggera [figg. 2-3]. Di conseguenza, duecento anni dopo, grazie alle prospezioni archeologiche di Marco Rapino e Davide Aquilano, ciò che un tempo è stato il «porto di Histonium», proprio perché sommerso in bassissimi fondali, è diventato oggi un luogo pubblico visitabile in estate (con una semplice maschera subacquea) tramite la guida della sezione di “Italia Nostra del Vastese”.
Va detto, inoltre, che, talvolta, stupiti bagnanti potrebbero rinvenire addirittura un rocchio di colonna spiaggiato sulla riva del mare com’è capitato il 17 giugno 2019 – cinque anni fa –. E, quasi non bastasse, quegli stessi scopritori avranno potuto aver la sorpresa di ritrovarlo esposto nel Museo Civico di Vasto. Ma c’è di più per l’osservatore attento. La possibilità di misurarsi con la documentazione dei cinque frammenti di epigrafi funerarie rinvenute lungo il tratto di costa compreso tra le località Casarza e Trave, già pubblicate nel 1865 da Theodor Mommsen nel IX volume del «Corpus Inscriptionum latinarum» con le numerazioni CIL IX, 2921, 2925 a, 2925 b, 2934, 2942. Con una sequenza di tal fatta, il novello investigatore si potrà rendere conto della testimonianza di una necropoli al servizio di un abitato nelle prossimità del porto. A confermare, dunque, un’attività economico-commerciale di cui purtroppo nulla conosciamo in modo diretto. Ma, indiretto, probabilmente sì. Tutto muove dal rinvenimento casuale in località «Scaramurza» di una «scriptio» lapidea avvenuta nel 1911, conservata sempre nel Museo Civico il cui luogo è riportato dal settimanale «Istonio». Si tratta di un’epigrafe funeraria, databile alla prima metà del I sec. d.C., che testualmente recita: «C(aio) Hosi[dio] / Geta / ur(bano) Cer(iali» (fig. 4) che vuol dire «All’ex sacerdote di Cerere Caio Osidio Geta».
Intanto, la foto recentissima di questa iscrizione sottolinea la polverizzazione del pezzo avvenuta all’interno della struttura museale in meno di mezzo secolo (fig. 5) – e ciò si coglie dalla comparazione di questa con quella scattata nel 1976. –. Ma perché la conoscenza del sito di ritrovamento è fondamentale? Per la semplice ragione che nel toponimo «Scaramurza» si nasconde una sopravvivenza di lingua osca. In effetti, foneticamente esso rinvia alla formula sannitica «S[a]karam hůrz» con il significato di “giardino sacro”. E ciò coincide perfettamente con la funzione di sacerdote del culto di Cerere testimoniata dall’iscrizione su Hosidius Geta.
Mi limito a queste brevi considerazioni che, di fatto, anticipano un saggio più articolato che cercherà di ricomporre in un discorso unitario i singoli temi qui appena accennati che in qualche modo danno l’idea della complessa macchina urbanistica che si intreccia con l’antica struttura portuale. Qualcosa, cioè, che cerca di offrire una possibile risposta alla domanda sull’organizzazione del litorale abruzzese tra la fine della Guerra sociale – tenendo conto di ciò Strabone dice intorno all’indipendenza etnico-politica del nomen frentano rispetto ai Sanniti – e gli inizi della formazione dei «municipia» romani.
Un percorso di indagine - aggiungo - ricco di sollecitazioni.
Luigi Murolo
Le foto seguono l’ordine indicato nel testo
1. Muratura in “opus caementicium” con paramento laterizio rotato di 90°
2. Muratura in “opus caementicium” con paramento di “lateres” (mattoni) triangolari
3. Muratura in “opus reticulatum”
4. Rocchio di colonna
5. Iscrizione di Hosidius Geta (foto anno 1976)
6. Iscrizione di Hosidius Geta (foto anno 2023)
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