di Yuri Moretti
(Rielaborato da “Vergini, soldati e protoconfessori: indagini su alcuni culti palecristiani a cavallo di Monte Pallano” di Yuri Moretti)
Attorno alla figura di San Mercurio, la cui memoria è radicata ad Archi da secoli, sono andate via via stratificandosi storie ed interpretazioni. Cercare di ricostruirle, studiare le vicende che ne accompagnano le reliquie ed il culto, significa innanzi tutto indagare l’origine della penetrazione del Cristianesimo in Val di Sangro.
Qui, l’iconografia e la memoria storica del Santo sono tradizionalmente legate alla figura di San Mercurio martire di Cesarea, annoverato tra i cosiddetti “Santi militari”. Della sua vita sappiamo solo che fu soldato della compagnia dei Martenses, stanziata in Armenia nel periodo delle persecuzioni dei cristiani di Decio e Valeriano (249-260). Dopo il martirio, il suo culto si diffuse assai precocemente in Occidente, se è vero che già all’epoca di Costantino il Grande la sua immagine fu dipinta in molti luoghi della città di Roma. Nella “Traslatio Sancti Mercurii”, attribuita a Paolo Diacono, si racconta che fu l’imperatore bizantino Costante II a trasportare il corpo di San Mercurio da Cesarea in Italia (a Quintodecimo, oggi Quindici) affinchè lo proteggesse nella guerra contro i Longobardi del Ducato di Benevento. Sarà poi a sua volta il duca Arechi II, nel 768, a traslare queste reliquie da Quintodecimo a Benevento, nella chiesa di Santa Sofia, da lui pensata come una sorta di santuario del popolo longobardo. Secondo Borgia, il principe offrì al Santo le chiavi di tutte le porte della città, dichiarandolo suo patrono speciale.
Ad Aeclanum, antico sacello delle reliquie, tuttavia, già dal IV secolo era venerato un santo martire Mercurio e, legato allo stesso, esiste una tradizione agiografica occidentale. Nella Traslatio quindi riscontriamo una tipica sovrapposizione cultuale: il martire locale viene confuso con quello di Cesarea di Cappadocia e si attribuisce all’imperatore Costante II una immaginaria traslazione dell’oriente. Questo aspetto non può essere letto come un semplice errore interpretativo ma va contestualizzato nel tentativo di proporre un’immagine militante e militare di santità adatta alla situazione politica e sociale della Longobardia Minor di allora, nel quadro più ampio di una ridefinizione ideologica del potere. Dietro alle numerose traslazioni di corpi dei santi effettuate da Arechi sembrano nascondersi proprio dei tentativi di legittimazione celesti alle politiche e al potere longobardo.
E’ probabile che una dinamica simile abbia avuto luogo anche ad Archi. Non è chiaro infatti se la dominazione longobarda in questa terra costituì un momento fondativo per la venerazione verso San Mercurio o se sarebbe meglio parlare di una “rifondazione” di un culto preesistente.
A questa seconda ipotesi afferiscono per esempio gli scritti di Girolamo Nicolino che nella sua “Historia della Città di Chieti” del 1657 fa menzione di un antico calendario della Chiesa Teatina che assegnava al 25 Novembre la memoria di un San Mercurio, non indicato però con il titolo di martire. Oltre a lui, l’autore di una storia dell’arcidiocesi chietina, contenuta nell’opera di Giuseppe Cappelletti sull’origine delle chiese particolari italiane, risalente al 1870, affianca figure locali di santità come Cetteo, Aldemario Abate, Nicola greco, Valentino e Damiano duo diacono, a quella di San Mercurio di Archi, sostenendo, di fatto, l’autoctonia del culto.
In realtà, la prima menzione di una chiesa in zona dedicata a San Mercurio risale all’829. In questo documento, contenuto nel Chronicon Farfense, essa risulta di pertinenza del Monastero di Santo Stefano di Lucana, situato nei pressi dell’attuale contrada Torricchio di Tornareccio, che venne aggregato dagli imperatori Ludovico il Pio e Lotario all’Abbazia di santa Maria di Farfa in Sabina. La larga dotazione (che comprende peraltro centri come San Martino in Valle a Fara San Martino, San Pancrazio a Roccascalegna…) sembra configurarsi come una ampia terra fiscale longobarda. Secondo Sciarretta, la chiesa di San Mercurio, assieme a quelle di San Silvestro e di San Pietro in Oliveto, sono da collocare nel territorio di Archi, poiché le stesse si ritrovano nelle decime del 1324 redatte da Sella. Se questa ipotesi venisse confermata, ciò costituirebbe non solo la prima menzione in assoluto del culto ad Archi, ma lo collocherebbe in una compagine cultuale di fondazione longobarda, alla quale apparteneva anche il castellum de Attissa, anch’esso bene del monastero di Santo Stefano. Anche ad Atessa, come ad Archi, la prima cristianizzazione del territorio appare legata al un santo longobardo e beneventano, San Leucio di Brindisi, le cui reliquie, assieme a quelle del martire di Cesarea, si conservavano proprio nel santuario Santa Sofia a Benevento. Il culto di San Leucio per Atessa e di San Mercurio per Archi sono quindi da ricollegare alla penetrazione dell’ideologia longobarda nel nostro territorio, che fu, come abbiamo visto, accompagnata da una politica cultuale che aveva avuto il suo centro di irradiazione nella Benevento di Arechi II.
Per quanto riguarda i secoli successivi, la presenza di un luogo di culto dedicato al Santo compare nella numerazione dei fuochi di Archi, del 1447, riportata da Faraglia. In essa è menzionata per la prima volta la Parrocchia di San Mercurio, retta da don Giacomo Borrelli. In una apprezzo della Terra d’Archi del 1649, redatto in Atessa, in casa di Francesco Cardone, si nomina una parrocchia “sotto titolo di Santa Maria dell’Olmo … e vi è il corpo intiero di Santo Vitale Martire, un altra sotto titolo di Santo Mercurio dove siede il glorioso Corpo di detto Santo similmente Parrocchia”. Della fine del secolo è quella che può essere considerata una ricognizione canonica del corpo santo: il 19 aprile del 1690 il vicario foraneo Don Antonio Grello visita, nella Chiesa del Rosario (o di San Mercurio), l’altare in cui erano custodite le reliquie del Santo in uno stipo protetto da una cancellata di ferro, le cui chiavi erano detenute dal Barone della terra e dal curato della Parrocchia. Il vicario si dilunga in una descrizione minuziosa delle parti del corpo santo, conservate in una cassetta di cipresso, intagliata e mosaicata: la ricognizione avviene alla presenza dello scriba Francesco Cieri e del testimone Don Francesco Persiani.
La bellissima tela della Madonna del Rosario con Santi, oggi conservata nella Parrocchiale di Santa Maria dell’Olmo, risale proprio all’epoca e mostra in basso a destra un santo in paludamenti militari, che potremmo identificare con il martire di Cesarea, che condivise con la Vergine, di fatto, dal 500, il patronato sulla antica Parrocchia del Rione Castello.
Per concludere, risulta chiaro come nella Traslatio beneventana, al culto per un martire locale omonimo, di Aeclanum del IV secolo, si sovrapponga quello di Mercurio di Cesarea di Cappadocia: tutto questo risponde al tentativo di Arechi II di diffondere un culto guerresco, reinterpretazione in chiave cristiana del dio della guerra longobardo Wotan. Per favorire una legittimazione politica del potere, Arechi e i suoi successori diffondono il culto del santo soldato in tutto il Ducato di Benevento, di cui Archi faceva parte. Qui, dove esso sembrerebbe attestato già dal IX secolo, potrebbero essere giunte parte delle reliquie da Benevento. L’evento potrebbe aver innescato una dinamica simile a quella testimoniata della Traslatio: ad un precedente culto per un santo omonimo locale, potrebbe essersi sovrapposta quello del santo militare longobardo. Rimane, comunque, allo stato attuale della ricerca, una ipotesi ragionevole e suggestiva.
In ogni caso, dalla Benevento di Arechi alla Archi dei Cardone il Santo statopedarca e clavigero fu sempre invocato come difensore delle mura: a lui il duca beneventano offri tutte le chiavi delle porte della città e una delle chiavi del suo venerato sacello di Archi erano, nel 600, custodite gelosamente dal Barone di quella Terra.
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