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12 maggio 2023

Il processo dei Templari in Abruzzo contro frate Cecco Nicola da Lanciano e frate Andrea da Monteodorisio, 1305.

Il processo dei Templari in Abruzzo contro frate Cecco Nicola da Lanciano e frate Andrea da Monteodorisio, 1305

di Angelo Iocco e Marino Valentini

Nell’immaginario collettivo il venerdì 13, per gli scaramantici, è il giorno da evitare per l’assunzione di decisioni rilevanti e per fare qualsiasi cosa d’importante, perché è il giorno iellato per eccellenza. Molti ritengono che questo giorno maledetto sia da legare all'infausto venerdì 13 ottobre 1307, quando Filippo IV “il Bello” di Francia diede l’ordine di arrestare tutti i templari presenti nel suo regno. Ma come si arrivò a tale decisione e perché?

Intanto va detto che l’Ordine dei cavalieri templari, in circa due secoli dalla sua costituzione, aveva accumulato così tante ricchezze, da diventare un innegabile strumento di potere economico e politico in Europa. Allo stesso tempo il re di Francia si trovava a fronteggiare una pesante situazione finanziaria, ereditata dal predecessore, fortemente incisa da un indebitamento tale da far svalutare la moneta del Paese. Di fronte a siffatta situazione, il sovrano pensò bene di risolvere il problema delle finanze e risanare le casse di Stato, guardando nell’orto dei templari, verso i quali si trovava in uno stato di preoccupante indebitamento, a causa di prestiti contratti anche da chi lo aveva preceduto.

Bisognava trovare però un pretesto per incastrare l’ordine monastico e lo stesso venne offerto da un cavaliere pentito (sic!) che avallò le voci e le dicerie che da tempo circolavano sulle strane usanze dei templari. Filippo diede credito al fuoriuscito dall’Ordine e vennero pronunciate le prime tre formali accuse:

1) IL RINNEGAMENTO DI CRISTO E GLI SPUTI SULLA CROCE (ERESIA);

2) L’OMOSESSUALITÀ E LA SODOMIA (SODOMIA);

3) L’ADORAZIONE DI IDOLI (IDOLATRIA).

 

La caduta dei Templari sotto Clemente V

Con la perdita di San Giovanni d'Acri, i cristiani furono costretti a lasciare la Terra Santa. Nemmeno gli ordini religiosi poterono evitare tale esodo e i Templari scelsero di ripiegare verso Cipro dove insediarono la loro sede centrale. Tuttavia, una volta che questi ebbero abbandonato la Terrasanta, con pochissime probabilità di poterla un giorno riconquistare, in occidente sorse la questione dell'utilità dell'Ordine del Tempio il cui scopo originario per cui erano stati fondati, difendere i pellegrini diretti a Gerusalemme sulla tomba di Cristo, si era oramai reso irrealizzabile.

Per diversi decenni, il popolo aveva percepito i cavalieri anche come signori orgogliosi e avidi, che conducevano una vita disordinata (le espressioni popolari "bevi come un templare" o "giura come un templare" sono rivelatrici a questi sintomi), tanto che dal 1274 al concilio di Lione II i più alti dignitari dell'ordine dovettero produrre un libro di memorie per giustificare la loro esistenza. Abitualmente si parlava dei Templari come di un covo di eretici e di viziosi; voci probabilmente alimentate dal fatto che molti peccatori erano in effetti approdati all'Ordine per riceverne protezione a fronte di un, non sempre sincero, pentimento.

Papa Clemente V


Alcuni storici, inoltre, addebitano alcune responsabilità del discredito dell'Ordine al gran maestro Jacques de Molay, eletto nel 1293 dopo la perdita di San Giovanni d'Acri, il quale aveva temporeggiato riguardo alla proposta fattagli da papa Clemente V nel 1306 di fondere i Templari con l'Ordine degli Ospitalieri al fine di poter mettere in campo una nuova forza maggiormente organizzata per una nuova crociata che avrebbe dovuto riconquistare la Terrasanta. Per questo il Gran Maestro venne tacciato di codardia se non addirittura di connivenza con i musulmani con cui avevano intrecciato alcuni rapporti.] In ogni caso, già dalla metà del XIII secolo l'ideale crociato era andato in crisi, tra continue richieste di denaro per finanziare imprese spesso fallimentari e crociate predicate più per motivi politici che per combattere gli infedeli, portando la popolazione a considerarle negativamente insieme agli Ordini militari la cui funzione appariva sempre più effimera. Dal canto loro, i Templari, venuta sempre meno la loro funzione di guerrieri in Terrasanta, avevano oramai da tempo posto maggior attenzione verso l'Europa dove, grazie a lasciti, donazioni e proventi da speculazioni, avevano accumulato ingenti ricchezze a discapito del loro voto di povertà; un ulteriore aspetto che li rendeva facile bersaglio delle critiche della popolazione ma che li rendeva molto interessanti agli occhi del re di Francia intenzionato ad appropriarsi dei loro ingenti beni per rimettere in sesto le casse del Regno.

Arresti

Filippo IV di Francia detto "il Bello"


Il primo a muovere delle accuse formali contro l'Ordine fu il templare rinnegato Esquieu de Floyran che nel 1305 presentò le proprie tesi al re Giacomo II d'Aragona il quale, tuttavia, non gli volle dare seguito. Diversa sorte ebbe de Floyran quando si rivolse al re francese Filippo IV il Bello che dette ordine ai suoi consiglieri Guglielmo di Nogaret e Guglielmo di Plaisans di aprire un'inchiesta formale. Lo stesso Guillaume de Nogaret pagò successivamente Esquieu de Floyran per diffondere tra la popolazione le accuse di «Negazione di Cristo e sputi sulla croce, rapporti carnali tra fratelli, baci osceni esercitati dai Cavalieri del Tempio». Gli addebiti mossi ai Templari erano talmente infamanti, eresiaidolatria e sodomia, che papa Clemente V (da poco trasferitosi ad Avignone e quindi sottoposto a una sostanziale pressione da parte della corona di Francia) decise di aprire un'inchiesta il 24 agosto 1307Tuttavia, Filippo di Francia non era intenzionato a dare campo libero al papa nel condurre le indagini e, il 14 settembre, inviò messaggi sigillati a tutti i balivisiniscalchi e soldati del regno ordinando l'arresto dei templari e la confisca dei loro beni, in quella che alcuni storici hanno definito come “la prima retata della storia”.


Un templare bacia un ecclesiastico, miniatura in un manoscritto di Jacques de Longuyon del 1350 circa

La mossa riuscì in quanto fu astutamente avviata in contemporanea contro tutte le sedi templari di Francia; i cavalieri, convocati con la scusa di accertamenti fiscali, vennero tutti arrestati. Quella stessa mattina, Guillaume de Nogaret accompagnato da alcuni uomini d'arme entrò nelle mura della sede dei Templari di Parigi, dove risiedeva il maestro dell'ordine Jacques de Molay. Alla vista dell'ordinanza reale che giustificava gli arresti, i Templari si lasciarono portare via senza alcuna resistenza. A Parigi si contarono 138 prigionieri, oltre al maestro dell'ordine. Uno scenario identico si svolse contemporaneamente in tutta la Francia. La maggior parte dei Templari non offrirono alcuna resistenza. Alcuni riuscirono a scappare prima o durante gli arresti. I prigionieri furono rinchiusi per la maggior parte a Parigi, CaenRouen e al castello di Gisors. Tutti i loro beni furono inventariati e affidati alla cura del Tesoro Reale.

L'azione di Filippo non trovò l'appoggio degli altri regnanti cristiani che non vollero seguire il suo esempio: Edoardo II d'Inghilterra dichiarò di non credere alle accuse, Giacomo II d'Aragona arrivò a difendere l'Ordine e il papa criticò, ma sempre diplomaticamente, il modo con cui erano stati condotti gli arresti poiché, a detta sua, si trattava di una prevaricazione della sua autorità in quanto i Templari erano soggetti alla sua giurisdizione. Tuttavia, i Templari arrestati iniziarono a confessare gli addebiti che gli erano stati mossi, talvolta a seguito di intimidazioni e torture, talvolta perché realmente colpevoli, non lasciando altre possibilità al papa di ordinare anch'egli l'arresto di tutti gli appartenenti all'Ordine e della messa in tutela ecclesiastica dei loro beni; ordine che avvenne con la bolla pontificia Pastoralis praeminentiæ del 22 novembre 1307. Con questa tutti i sovrani cristiani dovettero adeguarsi alla volontà papale, ma gli effetti furono ben diversi: ad esempio in Spagna e Cipro, dove i Templari vantavano appoggi e una effettiva organizzazione, essi ripararono nelle proprie fortezze riuscendo perlopiù a salvare vita e beni.

Il processo

Verbale di un processo contro i templari


Agli arresti e alle confessioni seguì un processo che, per via della sua portata che del modo con cui vennero mosse le accuse, lo storico Franco Cardini definisce come uno dei primi “processi massmediali”. Riguardo alle confessioni, sempre Cardini, nota come tutte riportino pressoché le stesse dichiarazioni: di aver rinnegato Cristo, di aver venerato idoli pagani (come gatti, teste a tre facce o Bafometto) e compiuto atti osceni;] un segno che fa pensare a un'orchestrazione da parte degli accusatori che vollero dare una giustificazione giuridica alla chiara volontà regia di arrivare alla condanna dell'Ordine e alla espropriazione dei beni senza dargli possibilità di una vera difesa. Vennero biasimati anche per aver intrattenuto rapporti giudicati troppo amichevoli con i signori musulmani, arrivando con alcuni di loro, come Usama ibn Munqidh, a porgergli veri e propri favori, come quello di concedergli di pregare nella Cupola della Roccia, benché già trasformata in chiesa cristiana. Lo storico italiano, tuttavia, non esclude che alcuni Templari fossero, almeno in parte, colpevoli di alcune delle accuse a loro mosse; innanzitutto c'è da rimarcare il fatto che molti Templari erano entrati nell'Ordine per espiare precedenti "peccati", come eresia e sodomia, e che una volta ammessi non fossero stati immuni da aver reiterato tali comportamenti, inoltre è normale presupporre che all'interno di un gruppo così grande vi potessero essere alcuni soggetti che avevano compiuto, magari solo in passato come un cavaliere che confessò fatti di trentasei anni prima, i peccati di cui erano accusati, ma è da escludere che questi fossero sistematicamente diffusi a tutto l'Ordine come l'accusa voleva dimostrare.

Per legittimare maggiormente il processo in corso contro i Templari e rafforzare la propria autorità a discapito di quello papale, Filippo IV convocò gli stati Generali del 1308 a Tours con cui si reiterò la condanna nei confronti dell'Ordine. In risposta, il Papa chiese di potere ascoltare i Templari a Poitiers, ma poiché la maggior parte dei dignitari erano imprigionati a Chinon, re Filippo ricorse al pretesto che essi erano troppo deboli per affrontare il viaggio, per negare al papa tale possibilità. Quindi Clemente V delegò due cardinali perché si recassero a Chinon ad ascoltare i testimoni. Il manoscritto noto come pergamena di Chinon, ritrovato nel 2001 nell'Archivio Segreto Vaticano, dimostrerebbe come in quell'occasione il papa avesse concesso l'assoluzione agli alti dignitari dell'Ordine dalle accuse formulategli dalla corona francese.

Templari condannati alla morte sul rogo


Poiché l'Ordine del Tempio si trovava sotto l'autorità papale e non sotto quella regia, furono le autorità ecclesiastiche a dover istruire il processo contro di loro. A seguito della bolla Faciens misericordiam, in cui furono definite le accuse portate contro il Tempio, il 12 novembre 1309 si tenne a Parigi la prima commissione pontificia che doveva giudicare l'Ordine, non tanto come insieme di persone fisiche (ovvero gli appartenenti) ma come una personalità giuridica in sé. Nell'agosto successivo tutti i vescovati ricevettero l'ordine di far comparire davanti alla commissione tutti i Templari arrestati. In quest'occasione, solo uno di essi confermò la confessione fatta precedentemente: il 6 febbraio 1310, quindici Templari su sedici, proclamarono la loro innocenza, ben presto seguiti dalla maggior parte dei loro fratelli. Preoccupato di poter perdere la propria autorità sul processo in corso, Filippo IV fece nominare arcivescovo di Sens il fidato Philippe de Marigny, fratellastro di Enguerrand de Marigny, suo stretto collaboratore e consigliere. Così il processo prese una chiara direzione e andò a velocizzarsi tanto che, il 12 maggio 1310, vennero condannati alla morte sul rogo cinquantaquattro Templari che avevano ritrattato le loro precedenti confessioni fatte tre anni prima. Entro il 26 maggio dell'anno successivo vennero portati a termine tutti gli interrogatori. Nel generale clima di condanna ci fu l'eccezione rappresentata da Rinaldo da Concorezzoarcivescovo di Ravenna e responsabile del processo per l'Italia settentrionale: egli assolse i cavalieri e condannò l'uso della tortura per estorcere confessioni (concilio provinciale di Ravenna, 1311).

Pescara, arco della demolenda chiesa di Santa Gerusalemme, piazza Garibaldi.

Ed è qui che entra in gioco Chieti, perché vengono stabilite le quattro sedi del processo contro l’Ordine nelle città di Parigi, Cipro e nelle italiane Brindisi e Chieti, ma saranno disposti interrogatori anche in diverse altre città e in Abruzzo gli stessi si svolgeranno, oltre che nel palazzo vescovile teatino, anche a Penne e a L’Aquila.

In terra d’Abruzzo, di particolare effetto furono gli interrogatori della primavera del 1310, condotti dall’inquisizione papale nella città teatina e in quella vestina, a carico di due templari dell’Abruzzo chietino, ossia Frate Andrea da Monteodorisio (a Chieti) e Frate Cecco Nicola da Lanciano (a Penne).

Dalle indagini, emerse che i monaci avevano in effetti sputato sul crocifisso e rinnegato Gesù ma ciò faceva parte di un rituale a cui venivano sottoposti i novizi, al fine di valutare la loro volontà e resistenza, in caso di cattura da parte musulmana.

In merito alle accuse di idolatria, gli inquisitori chiesero ai due frati abruzzesi se avessero mai venerato, come si diceva di altri loro confratelli, il Bafometto ossia il Nero Caprone, ossia un diavolo barbuto a tre teste, con corna ed ali, che i templari ritenevano redimesse dai peccati: la risposta dei due inquisiti fu di non avere mai avuto a che fare con Baphomet né di essere mai stati obbligati ad adorare teschi ed immagini sacrileghe, anche se Fra Cecco confessò di essere stato costretto da Pietro Ultramontano, precettore dei templari d’Abruzzo e Puglia, ad adorare un oggetto metallico, mentre Frat’Andrea affermò che, al momento di entrare nell’Ordine, di essere stato obbligato, sempre da Petrus Ultramontanus, ad entrare in una stanza e costretto, per timore di essere ucciso, ad adorare un idolo antropomorfo a tre teste.

In ordine all’ultima accusa, l’Inquisizione chiese ai due templari se loro stessi avessero osservato il rituale templare, secondo cui il precettore dava al novizio il bacio di fratellanza monastica sulla bocca, a cui seguivano altri due baci, uno sull’ombelico e l’altro sulla schiena, ma al riguardo entrambi gli inquisiti risposero negativamente e nello stesso modo risposero alla domanda per cui, sempre secondo il rituale monastico, il precettore li avrebbe esortati a non avere rapporti con le donne invitandoli, se proprio non riuscivano a vincere la castità, ad unirsi con i loro confratelli e a non rifiutarsi se veniva loro chiesto di abbandonarsi a prestazioni omosessuali, ivi compresa la sodomia.

Nonostante le reticenze e i tanti non so e/o non ricordo, è molto plausibile che diverse ammissioni dei due sergenti monaci templari siano state estorte in seguito ad estenuanti interrogatori nei quali si faceva largo uso della tortura, come peraltro prescritto da chi aveva architettato e predisposto il modus operandi delle indagini.

Della sorte dei due templari abruzzesi non è dato sapere, ma è invece certo che i possedimenti abruzzesi, in larga parte situati nel chietino (specialmente a ridosso di Vasto) confluirono nell’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme anche se diversi signori del posto si impadronirono arbitrariamente di buona parte di tali beni, approfittando delle incombenze dei monaci ospitalieri che a quel tempo erano impegnati nella presa di Rodi e preoccupati di proteggere gli stessi possedimenti dalle invasioni islamiche.

IL PROCESSO NEI DOCUMENTI DELL’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO

Da Anne Gilmour Bryson sui Templari in Abruzzo, in The Trial of the Templars in the Papal State of Abruzzi,, Città del Vaticano, 1982, nell’appendice al breve saggio sono riportati interessanti documenti dall’Archivio Segreto Vaticano. Sono gli unici documenti attendibili circa la presenta Templare in Abruzzo, insieme al saggio di Aleardo Rubini, I Templari in Abruzzo, in Bullettino DASP, 1983, il quale afferma che la presenza dei Templari nella nostra regione era stanziata nelle pertinenze delle coste e dei fiumi, come a Penne, Montesilvano, Bacucco (Arsita), Moscufo, Vicoli, San Valentino, e poi noi aggiungiamo: Pescara, Chieti, forse Lanciano, Vasto (Pennaluce). Per Moscufo, Rubini cita il TAU presso il muro della chiesa di Santa Maria del Lago, a Fossacesia ricordiamo una croce dei Crociati presso la finestra dell’abside centrale dell’abbazia di San Giovanni in Venere, poi a Pescara, dai documenti regestati da Gennaro Ravizza, abbiamo notizia della celebre chiesa di Santa Gerusalemme presso San Cetteo, ricostruita diverse volte, a impianto circolare, parzialmente demolita alla fine dell’800 per realizzare la nuova strada di Portanuova, lasciano in piedi l’arco, ecc.

127 articoli di accusa contro i Templari in generale

Processo tenutosi nel palazzo vescovile di Penne

Davanti a Giacomo vescovo di Sutri

Pandolfo di Sabello, ser Matteo di Guglielmo di Egidio, Paolo Abrunamonti, ser Tommaso di signor Matteo, e ser Tommaso di Manenti canonico Pennese, al maestro Ugolino di Bucchianico canonico di Chableis, signor Pietro Rubeo canonico Lateranense, ser Matteo di Cavellutis, e altri testimoni

Riunione nel palazzo vescovile, sede temporanea della Corte Apostolica per il processo, sotto il nome di papa Clemente V. i testimoni chiamati dagli inquisitori che hanno svolto le indagini nei patrimoni di San Pietro a Roma, in Tuscia, nel ducato Spoletano, in Abruzzo, Campania e Puglia, contro l’Ordine del Tempio di Gerusalemme, nell’anno del Signore 1305, indizione VIII, con bolla pontificia scritta e pubblicata da Giovanni Silvestro da Bagnoregio, e letta alla presenza dei testimoni in Penne.

Il giorno 28 aprile a Penne alla presenza di Giovanni Silvestro da Bagnoregio, Pietro Tebaldo da Tivoli, Giovanni da Vassano, Silvestro da Albano notai ecc, presente il frate Odone da Collato dei Predicatori, frate Giovanni da Penne, e altri monaci degli ordini vari; questi signori deliberano di ricevere a testimone  frate Cecco Nicola Ragone di Lanciano della diocesi di Chieti, militante nell’Ordine Templare. Gli accusatori leggono la bolla pontificia, le accuse contro i monaci dell’Ordine Templare, e sulle condanne in contumacia, per mezzo del notaio Giovanni di Vassano; i giudici ottengono il giuramento di dire la verità da frate Cecco Nicola, di giurare sugli articoli presentati, egli giura, dopo il giuramento inizia l’interrogatorio circa la situazione dell’Ordine Templare nella provincia d’Abruzzo, si procede alla lettura degli articoli contro l’Ordine, specialmente scritti in volgare. Interrogato sulla costituzione e la natura dell’Ordine Templare in Abruzzo, frate Cecco rispose che la Puglia e l’Abruzzo avevano un solo precettore dell’Ordine, e costui era Pietro “Ultramontano” o Peraverde, che risultava essere morto, e che ora era sostituito da frate Oddone de Valdris, che frate Cecco dice di non conoscere; e disse che altri precettori erano in Tuscia, in Puglia, Campania ecc., e che prima di lui era precettore frate Uguiccio di Vercelli, dopo la sua morte fu fatto precettore Giacomo di Montecucco al tempo del papato di Benedetto XI (1303-1304).

Interrogato, frate Cecco, sul primo articolo della bolla papale: che l’Ordine fu istituito in Sede Apostolica, approvato ecc., rispose che quando fu fatto precettore frate Uguiccio nel palazzo Apostolico, alla presenza dei frati Mauro da Piacenza e Pietro da Bononia (menzionato anche in una causa contro sette Templari a Parigi nel 1310), il quale era procuratore dei Templari nella Curia Romana, e non lo nega.

Disse che frate Uguiccio era il grande precettore della provincia Romana e di Lombardia, per 3 o 4 anni, finché l’incarico passò a frate Cecco. Gli vengono presentate delle lettere circa  il  suo governatorato di Puglia e Abruzzo in assenza di Uguiccio, gli viene chiesto di riconoscere le lettere, della sua firma, e lui asserisce di sì. Diche che fu creato gran precettore proprio in Puglia, e che quelle lettere a frate Pietro Ultramontano, quando lui diventerà gran precettore di Puglia e Abruzzo, che gli furono presentate a Barletta, sede della Casa Templare. Tale Pietro, due giorni dopo la festa della Natività di Cristo, nel luogo di Torremaggiore, sede della magione, avrebbe detto a tale frate Cecco: “Ti rendi conto del grande tesoro che qui possediamo?”. Frate Cecco negò, e l’altro rispose con gioia: “Vieni e ti faccio vedere!”, e lo fece entrare in un luogo fortificato e segreto, con frate Guglielmo Ultramontano, e mostrò loro molte reliquie della chiesa, e poi mostrò una grande cassa che aprì dalla sinistra, verso la cloaca, e ne estrasse un idolo di metallo, che si mise a venerare a mani giunte, un idolo dalla grandezza quasi naturale di un fanciullo; al che frate Pietro domanda a frate Cecco: “Tu sei stato inserito da frate Uguiccio, Mauro, Pietro di Bononia nel luogo dove non hanno potuto riferirti di queste cose; ma ora tu Cecco fai quello che noi qui facciamo!”

E Cecco chiese: “Cosa volete che faccia?”, e frate Pietro Ultramontano: “Prostrati davanti a questo, invocali, pregalo, e chiedigli di salvarti e di darti ricchezza, l’amore di Dio, e non adorare invece quella cosa lì che è dipinta nella presente chiesa” E questo Cecco non credette, e non voleva ripudiare la pittura di Cristo crocifisso che era raffigurata nella chiesa. Ma rise e chiese: “Ma cosa è mai questa cosa che mi chiedete?” al che frate Guglielmo e il gran precettore sguainarono una spada e lo minacciarono: “Se non obbedisci subito e se non esegui quello che ti diciamo, tu non uscirai vivo da qui!”. Al che frate Cecco si prostrò e adorò quell’idolo come gli avevano detto. Dopodiché i due lo baciarono in bocca e gli dissero: “Hai fatto proprio come deve fare un uomo che vale”.

Intervenne frate Andrea che fu accolto in Barletta, poi con Rubino e 16 frati si riunirono tempo prima, e Cecco disse che poi dopo pochi mesi se ne unirono altri 9. Disse che frate Andrea ricevette l’abito alla presenza di due frati, uno di questi era Riccardo di Gallia e l’altro era della Borgogna, disse che il cerimoniale si svolgeva entrando in una stanza, e gli altri frati entravano nell’altra, diceva di vederlo entrare col volto sorridente e uscire piangente. Disse di come frate Rubino fece professione di fede davanti ai 9 frati e di come avesse ricevuto l’abito dell’Ordine da due frati, uno di questi era frate Alessio. Frate Cecco ripercorre lo stesso cerimoniale di chi entra sorridente, e poi ne esce piangendo.

Disse di non sapere il perché della causa, e di non sapere altro sulle situazione di frate Uguiccio e Giacomo da Montecucco. Interrogato sul 2° articolo dell’Inquisizione su cosa facessero i frati dell’Ordine nelle riunioni e tra di loro, disse di non sapere, e quel che sapeva lo aveva già detto nella risposta al primo articolo. La stessa scena muta fece per gli articoli 3 e 4. Interrogato sul 5° articolo, cioè su cosa dicessero e dogmatizzassero i gran priori dell’Ordine, e poi sul 6°, 7°, 8°, rispose solamente di sapere che fu ammesso all’Ordine in puglia mediante le lettere di frate Uguiccio a frate Pietro gran priore della Puglia, e che con frate Guglielmo fu fatto entrare nella camera segreta per adorare l’idolo, e che gli imposero di non adorare le altre pitture sacre presenti in quella chiesa, e che lui fece ciò più per salvarsi la vita che per vera fede all’idolo.

Interrogato sul 9° articolo, cioè se il gran priore facesse sputare sulla Croce i nuovi ammessi, frate Cecco risponde di non sapere, nemmeno sugli articoli seguenti circa le riunioni segrete. Interrogato sul 15simo articolo circa gli atti di sacrilegio commessi contro Cristo, disse che frate Pietro gran precettore di Puglia e Abruzzo e frate Guglielmo, presente in quella stanza segreta, intimarono a lui, frate Cecco, di non credere nel Cristo crocifisso ivi dipinto, disse che i vituperii verso Cristo loro li facevano in ossequio all’Ortodossia, e di non saper dire altro circa il presente articolo.

Sul 16simo articolo di non credere nel Sacramento dell’altare consacrato, ecc. fino al 19simo, frate Cecco rispose di credere nel Sacramento dell’altare e in tutti gli altri Sacramenti, e denunciò frate Pietro e Guglielmo di non credere nei Sacramenti. Interrogato sul 20simo articolo circa il compito segreto dei sacerdoti dell’Ordine, disse di non sapere. Sul 24simo fino al 28simo su ciò che si dice sull’Ordine, e sull’ordine di mantenere il segreto del sigillo, disse che frate Pietro in realtà fosse un laico, e che alla presenza di 7 o 8 frati nei conventini della zona di Torremaggiore, disse che aveva fatto ugualmente adorare loro quell’idolo, e che lui aveva il potere di assolverli dai peccati. Rivela i nomi: Oddone di Focerano gallico, e Giacomo di Maroch pugliese, frate Angelo inglese, degli altri non ricorda il nome. Sul 29simo articolo circa i compiti del Gran Maestro disse di non sapere, sul 30simo circa il modo di ingresso dei frati nell’Ordine, fino al 33simo disse che frate Andrea e Rubino furono ammessi col bacio in bocca, disse di non sapere altro, né di aver visto altre ammissioni simili quando era in Puglia. Sul 34simo articolo circa i metodi di giuramento di ammissione, testimoniò nuovamente il metodo di giuramento di frate Andrea e Rubino, e sospettò che lo stesso avvenisse per l’ammissione degli altri frati. Sul 35simo articolo circa i metodi degli adepti, disse che venivano accolti in mantella, che promettevano voto di castità, e di vivere non del proprio, e l’abito o mantello veniva ceduto da professo a professo, e riportò quello che aveva visto di frate Andrea e Rubino.

Duomo di San Massimo, e ingresso al palazzo vescovile di Penne, foto Luciano Gelsumino.

Sul 36simo articolo e sul 37simo circa gli altri metodi di ingressi, disse che al tempo di frate Uguiccio, i non professi non potevano entrare nella camera segreta, e aspettavano in una grande stanza che la precedeva,  che lì dovevano aspettare finché l’altra camera non fosse aperta per far entrare uno alla volta, e così vide fare per frate Andrea e Rubino. Sul 38simo e 39simo circa altre questioni contro l’Ordine, riportò la testimonianza del signor Filippo di Fiandra Conte di Chieti sotto Carlo II d’Angiò e poi sotto Roberto, che gli disse: “Perché, frate Cecco, voi ammettete persone come fratelli adepti al vostro Ordine, e le cose segrete che fate tra di voi non si possono sapere?”; e disse che questo discorso glielo aveva fatto ben 9 anni fa.

Sopra il 40simo articolo circa cosa facessero i fratelli adepti, fino al 45simo, disse che faceva esattamente quello che facevano gli altri. Sul 46simo che chiede circa l’operato dei fratelli nelle Provincie, disse solamente la solita storia della magione di Torremaggiore dove adorò l’idolo. Sul 47simo articolo circa le proprietà di questi “idoli”, fino al 57simo, disse che sapeva solo dell’idolo che veniva adorato nelle modalità spiegate nella risposta al primo articolo, che la raccomandazione dei due frati Pietro e Guglielmo era di affidarsi solamente a lui, e di non adorare il Cristo dipinto.

Sul 58simo e 59simo articolo circa il capo di questi idoli, disse che al tempo di Frate Uguiccio e di frate Oddone, gli adepti avevano una cinta stretta ai fianchi della camicia, così come erano cinte le teste di questi idoli venerati, altro non sa. Sul 60simo articolo, sempre sulla venerazione degli idoli, disse che quando venne in Puglia, prima di accedere alla stanza dell’idolo, interrogò due ex frati adepti all’Ordine di Barletta, sul perché portassero la cinta di corda legata alla camicia, e risposero questi: “Per affliggere le nostre carni in riverenza di Nostro Signore”.

Sul 61simo articolo, sempre su queste corde che cingono i fianchi, disse dia ver visto anche lui frate Andrea e Rubino uscire dalla stanza degli adepti con queste corde, e che lo portassero anche di notte, disse di aver visto la stessa cosa anche per altri frati, che dormivano nudi con la cinta legata.

Sul 62simo articolo, spiegò che i frati Andrea e Rubino era stati ricevuti all’ora terza per il rito, e di non sapere in base a quali specifiche regole dell’Ordine, fossero concordate giornate e ore del giorno per il rito di passaggio. Sul 65 articolo e ss., circa le formule usate per rinnegare Cristo, riportò sempre la scena della minaccia di frate Pietro e Guglielmo, con spada sguainata, di adorare assolutamente solo l’idolo e non il Cristo. Andando avanti al 73simo articolo, disse di essere stato ingiunto da frate Uguiccio, che lo accolse come confessore dei frati e come cappellano, e di non sapere altro.

Sul 78simo articolo, interrogato circa la sua approvazione o disapprovazione delle prediche contro la Chiesa da parte dell’Ordine, e circa il fatto di avere obiezioni i coscienza, e di provare a riportare sulla retta via gli altri frati, rispose di essersi pentito della sua scelta dopo due mesi dall’adorazione dell’idolo. disse di non avere la facoltà di correggere chi non voleva purificarsi dai peccati, come frate Guglielmo, e disse che tutti gli altri fossero negligenti, pur sapendo alcuni di commettere sacrilegi contro la Chiesa.

Sull’80simo articolo e ss., frate Cecco disse di non sapere altri passaggi particolari sui riti dei suoi superiori, e dell’abnegazione di Nostro Signore; sull’88simo articolo circa la predica del Frate Capo, disse di non sapere; mentre circa gli articoli 90 e ss., che riguardano disse d non sapere altro che la formula letta dagli inquisitori, per quanto riguardasse le disposizioni prese contro i predicatori di questo Ordine. Sul 95simo riconfermò quanto aveva visto fare da frate Andrea e Rubino. Sul 96simo sul metodo del Gran Precettore, disse di fare denuncia su frate Pietro Gran Precettore di Puglia e Abruzzo, che lo minacciò di morte, come descritto nel 1° articolo, se non avesse adorato l’idolo. Sull’articolo successivo circa il riconoscimento di peccato di sacrilegio, frate Cecco rispose che reputava come peccato il fare giuramento su cose aliene, come nel caso suo dell’idolo, e disse di non sapere se gli altri confratelli stimassero ciò peccato. Andanti avanti all’articolo 100, frate Cecco riconfermò di ritenere peccato mortale la sua azione, e quella di adorare l’idolo; negli articoli a seguire, frate Cecco descrive le riunioni segrete dei frati dell’Ordine, erano ammessi solo gli accolti all’Ordine, le riunioni si tenevano in luoghi diversi, in piccoli conventi della provincia di Puglia e Abruzzo, selezionati da frate Pietro e dagli altri membri dell’Ordine, in orari e giorni diversi.

Frate Cecco nega comunque di aver mai partecipato a queste riunioni, a differenza di frate Andrea e Rubino. Circa gli articoli 111 ecc, circa il ripensamento per il peccato commesso, confermò quanto già detto in altri articoli, come nel 23simo ecc. fino al 28simo. Circa l’articolo 114simo che pone domande su quanto durasse la carica di Gran Maestro et similia, frate Cecco dice di non sapere. A seguire sulla domanda di durata della carica di Gran Maestro, disse che frate Pietro, dal momento dell’interrogatorio, erano due mesi che non era più in carica in Puglia e Abruzzo. Più avanti negli articoli presentatigli (122 e cc.), frate Cecco rivela di come i membri dell’Ordine avessero paura di essere scoperti, e di come dopo il rito di iniziazione, intimassero ai nuovi confratelli di non rivelare mai a nessuno di che Ordine facessero parte, né comunicassero nulla, né facessero capitoli come nel caso dei francescani o dei domenicani. Tuttavia come dirà appresso negli articoli, frate Cecco confessa di aver capito, da voci, che la carica del Gran Maestro dura 2 anni.

Interrogato sull’ultimo articolo, frate Cecco da Lanciano, giurando sugli articoli presentatigli, sulla Santa Chiesa ecc., di confermare quanto da lui testimoniato contro il Gran Maestro dell’Ordine in provincia d’Abruzzo, e di non sapere altro. Segue il formulario di registrazione e autenticazione della deposizione dall’inquisitore frate Giovanni Silvestro da Bagnoregio, dei notari, di frate Oddone da Collalto dei Predicatori ecc.

 

PROCESSO DI FRATE ANDREA ARMANNI DI MONTEODORISIO IN CHIETI

L’11 Maggio 1305 presso la città di Chieti, presso il palazzo vescovile alla presenza dell’inquisitore Giovanni Silvestro di Bagnoregio, Pietro Tebaldo di Tivoli, Giovanni di Vassano notai ecc., presente frate Barnaba da Chieti lettore e frate domenicano, frate Giacomo di Guardiagrele domenicano, viene chiamato a deporre frate Andrea Armanni da Monteodorisio, dove vi era una magione dell’Ordine Templare. Dopo che è stato espletato il solito formulario della lettura della bolla papale, in volgare per meglio comprendere, di fare giuramento di dire la verità su quello che sa dell’Ordine Templare, e di accettare gli articoli presentatigli nella bolla, cui rispondere, frate Andrea si prepara a confessare. Al tempo della sua ammissione all’Ordine di Gerusalemme sotto papa Bonifacio VIII, era Gran Maestro Pietro Peraverde Ultramontano, presso la Puglia e l’Abruzzo, frate Andrea dice di non sapere se Pietro avesse la custodia anche del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, ducato di Spoleto, Abruzzo, Campania ecc.

Interrogato su frate Giacomo da Montecucco, Gran Maestro a Roma, nel Ducato di Spoleto, Tuscia ecc; interrogato se conoscesse frate Oddone di Valdris, ora nuovo Gran Maestro di Abruzzo e Puglia, disse di no. Interrogato, come di sopra frate Cecco di Lanciano, circa gli articoli 1  8 se sapesse sull’istituzione di questo Ordine Templare approvato in origine dalla Santa Sede ecc., disse di sì, e a seguire interrogato su come fu ammesso all’Ordine, riporta più o meno le stesse vicende del suo collega frate Cecco; che in Barletta fu introdotto in una casa con una grande sala, con altri frati, facendo voto di castità e obbedienza, giurò di non uscire mai dall’ordine, sicché fu vestito con il loro abito e onorato del bacio sulla bocca. Disse di non ricordare i nomi degli altri frati al di là del Gran Mastro Pietro Peraverde, disse che nella grande stanza vi erano 16 frati, gli altri erano nella sala precedente. Nel giuramento gli fu imposto di fare come fece frate Cecco, ossia di giurare di credere solo nell’Ordine, e di rinnegare la fede in Cristo, nei Santi e in Dio Onnipotente. Giurò anche, davanti a frate Pietro, che Cristo non era il vero Salvatore, ma un falso profeta che per le sue scelleratezze fu crocifisso, che il vero Profeta fosse frate Pietro Peraverde e che in lui doveva riporre la sua salvezza. Che soltanto l’Ordine era il vero faro di salvezza nel mondo, e che frate Andrea di Monteodorisio avrebbe dovuto eseguire ogni cosa che il Gran Maestro e l’Ordine gli avrebbero imposto.

Interrogato sugli articoli 9 e seguenti, circa i modi di ingresso all’Ordine, frate Andrea rispose che quando fu introdotto nella sala, gli fu mostrata l’immagine di Cristo crocifisso, che dovette sputargli addosso, e che poi dovette calpestare la Croce, come vide fare a frate Pietro Peraverde per primo, per mostrargli il modo. Disse di non sapere niente circa gli articoli 11-14; sul 15simo disse appunto come costoro non fossero veri Cattolici perché avevano vilipeso l’immagine di Cristo e della Croce. Sugli articoli 16 ecc., disse che nonostante avesse compiuto l’abnegazione del Sacramento dell’altare, lui credeva ancora nella Santa Madre Chiesa e nei Sacramenti. Sugli articoli 24-28 circa i poteri del Gran Maestro, disse di aver sentito da frate Pietro Peraverde che solo lui fosse il Gran Maestro, nonostante fosse un laico, e che avesse solo lui il potere di redimere dai peccati.

Sugli articoli 30-33, circa il metodo di ingresso e il rito di iniziazione, disse cosa aveva visto, che il tutto fosse sigillato dal bacio della bocca e del buco del culo, che il ricevimento avvenisse nella stanza segreta dove stava frate Pietro, e che entrato, fosse baciato dapprima da frate Pietro e poi dagli altri frati convenuti, che alla fine come frate Andrea venivano baciati nel buco del culo. Confermò quanto domandato dall’Inquisitore nella lettura degli articoli 35-38. Sugli articoli 40-45 circa il metodo di adescamento dei membri dell’Ordine dei novizi, disse di aver visto e sentito che i monaci adescassero dei fanciulli, con cui giacevano a letto in segreto. E a seguire fino all’articolo 57, sugli oggetti venerati, disse che frate Pietro introducesse gli adepti e lui stesso frate Andrea a una sala dove vi era un idolo con tre teste da venerare; una descrizione in sostanza più particolareggiata di quella di frate Cecco da Lanciano, che si mantenne sempre sul vago circa la forma dell’idolo. Confessò che frate Pietro intimasse i novizi ad adorare quell’idolo, che fosse il vero Salvatore e la fonte della loro ricchezza e salvezza. Anche frate Andrea, disse, lo adorò, temendo di finire ammazzato se non lo avesse fatto, stando in ginocchioni, poiché aveva visto che i frati e frate Pietro stavano lì guardinghi con le spade sguainate, proprio come con frate Cecco.

Sull’articolo 58 circa i vestimenti dei membri dell’Ordine, disse ugualmente di aver visto i frati con delle camicie cinte da corde ai fianchi. Non seppe dire, però, come frate Cecco, se i frati si cingessero alla stessa maniera i fianchi con la corda come era cinta la testa dell’idolo, al contrario di frate Cecco. Sul 61simo articolo, frate Andrea disse la stessa cosa di frate Cecco, che i frati ponessero la cinta per stringere le carni, anche di notte. Sul 62simo e articoli ss., disse la stessa cosa di frate Cecco, che i frati adepti venivano ammessi in quella maniera descritta, così come accadde a lui, e sicuramente a tutti gli altri novizi. E disse di aver visto essere accolto dal Gran Maestro Pietro, il frate Montanario di Lama appartenente alla diocesi di Chieti, esercitante in quell’area di Barletta. Frate Montanario fu ricevuto nello stesso luogo dove fu accolto frate Andrea, e sia lui che frate Andrea furono tenuti in un’anticamera con altri ad aspettare di essere accolto uno alla volta dal Gran Maestro per il rituale formulario. Frate Andrea confessa di aver detto a Montanario: “O misero, penso che noi avremo l’anima perduta dopo aver fatto ciò!”, e quello rispose: “Noi dobbiamo fare quel che hanno fatto tutti gli altri fratelli”. Sugli altri articoli 65, 67, 68 ecc. circa le riunioni celebrate solo con i fratelli riconosciuti ecc., frate Andrea confermò il tutto. Lo stesso per gli altri articoli fino al n. 74. Sul 76simo articolo sull’abbandonare l’Ordine, disse che lui era cosciente di voler abbandonare, e di fatti lasciò l’Ordine 9 mesi dopo esser stato ammesso. Sugli altri articoli 78 ecc., disse che tra Barletta e il mare vi erano collegamenti con le altre magioni Templari, come quella di Cipro. Circa gli altri articoli sino all’89simo disse di non sapere, fino alla conferma finale del tutto, con apposito atto registrato.

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