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6 novembre 2022

Nino Saraceni, un cantore frizzante delle Maggiolate ortonesi.

Canti nel disco 45 giri

Nino Saraceni, un cantore frizzante delle Maggiolate ortonesi

di Angelo Iocco

Il Saraceni nacque a Fossacesia nel 1894 e vi morì nel 1970. Giovanissimo si appassionò all’attività poetica, e colse l’occasione, come molti altri poeti della zona, per concorrere alle gare canore della Maggiolata di Ortona, nata nel 1920. Saraceni vi iniziò a partecipare nel biennio 1922-23, rimanendo un ospite fisso per quasi tutte le edizioni, salvo la parentesi della seconda guerra mondiale, fino alla morte. La passione per il verso facile, scherzoso, gioco, come non dimenticare i suoi due capolavori A lu cannete e Mi te’ sete su musica di Antonio Di Jorio. 

A lu cannete

Il Poeta riuscirà a vedere inoltre queste due canzoni registrate su 45 giri dal M° Fernando d’Onofrio di Pescara con il suo Coro De Nardis, nel 1965, e qualche anno dopo eseguì la canzone A li culle di Piscare, ancora oggi cantata con festosità nelle Settembrate abruzzesi pescaresi, per cui la canzone stessa fu composta. Tornando alle Maggiolate, Saraceni strinse un forte sodalizio con due musicisti di fiducia, Attilio Fuggetta di Sulmona, che fu trasferito a Lanciano come capostazione, e Ettore Montanaro di Francavilla al mare, l’immortale raccoglitore dei Canti popolari d’Abruzzo in 2 volumi, e compositore di varie e arie e canzoni, anche in lingua. Ancora oggi risuonano le note de Lu ‘ndruvarelle, talmente veloci che pare di guardare e ascoltare il rumore del fuso della signora che tesse, oppure la melanconica Vaje luntane ovvero L’emigrante, scritta per la Maggiolata del 1930 con musica del Montanaro, oppure l’andante e briosa A lu colle di San Giuvanne sempre con musica di Montanaro, dove si invita il turista ad ammirare le bellezze paesaggistiche del belvedere di San Giovanni in Venere. Fossacesia oltre a Saraceni, che ne fu anche sindaco nel dopoguerra, ricostruendo moralmente e nei fatti la città martoriata, ebbe anche Antonio Fantini, altro poeta e scrittore di commedie teatrali, nonché di canzoni, molte delle quali musicate da Pasquale De Rosa e da Giuseppe Di Pasquale, e campione dei festival del Trabocco d’Oro. Saraceni scrisse anche alcune commedie teatrali, le poesie furono raccolte  in un volume Abruzze me’, a cura di Fantini. In questa raccolta ci sono anche poesie assai struggenti, come quella in cui si paragona il campanile della chiesetta di Santa Maria Imbaro a un tronco di albero distrutto, a un corpo martoriato di uomo, nel voler esprimere la ferocia della guerra nella sua cruda nudità e inutilità! Dato il carattere schivo e riservato di Saraceni, gli ultimi anni li passò isolato nei suoi ricordi nella casa di Fossacesia, dove morì. Fece in tempo però a vedere le sue canzoni ancora felicemente cantate nelle Maggiolate degli anni ’50, tanto che in un breve frammento pubblicitario dell’Istituto Luce della Maggiolata del 1955, si sente in sottofondo il ritornello di A lu cannete. Il Saraceni ebbe un’altra soddisfazione, la sua canzone Vaje luntane fu eseguita da un’attrice in uno dei primi film sonori italiani, Vele ammainate precedentemente noto come Mare, della produzione Cines di Roma, per la regia del Bragaglia, distribuito nel 1931; anche se lo scrivente fino ad ora non è riuscito a trovare una copia per poter ascoltare la musica. Negli ultimi anni Saraceni partecipò alla nuova rassegna canora delle Settembrate di Pescara, nate negli anni ’50, con alcune canzoni musicate soprattutto da Cristo Sorrentino pescarese, che si alternava con le ultime composizioni dell’anziano Luigi Dommarco, il creatore delle Maggiolate ortonesi e della celebre Vola vola vola con l’Albanese. Oggi il comune di Fossacesia ha intitolato a Saraceni il teatro comunale. Occorrerebbe, come auspica ad esempio Pasquale De Rosa, una raccolta di tutte le canzoni da lui scritte. Onde non far perdere la tradizione dei suoi successi.

Mi te sete



























Nino Saraceni, Mi te sete, A lu cannete
 Fernando D'Onofrio col Coro C. De Nardis di Pescara, 1965, disco vinile 45 giri.

27 ottobre 2022

Lu Fazzole, commedia satirica in tre atti di Plinio Silveri.


L'Associazione scoglio del gabbiano di contrada Vallevò, ha presentato la "Commedia satirica in tre atti di Plinio Silveri", con la regia di Adelisa Verì. Nella Parrocchia di Santa Maria del Porto di Marina di San Vito. Altri personaggi:Eusebio Aimola, Adelisa Verì, Lorena Verì, Marino Verì, Piera Di Carlo, Mariangela Sulas, Paride Verì, Francesco Mancini, Davide Verì, Viola Verì, Vittoria Verì, Renato Verì. Il giorno 20 Ottobre 2007. Domenico Antonio Lupinetti, fotografia: Andrea Mancini.

Ricordo di Plinio Silverii (1926-2002).

Ricordo di Plinio Silverii (1926-2002)
di Angelo Iocco

Plinio, semplicemente così si faceva chiamare dagli amici, un uomo candido, mite e allegro, che ha dato al sua vita per la cultura a Orsogna. Li nacque, nella casa che ancora oggi insiste su via San Giovanni maggiore, nel quartiere omonimo verso il belvedere dove stava la chiesa del Santo, che guarda verso Castel Frentano. Plinio nacque nel 1926, allegro e felice, in un’ultima intervista rilasciata all’ex presidente dell’Associazione “Il Teatro di Plinio” di Orsogna, Vittorio Pace, Plinio raccontava di come il suo animo sin da piccolo fosse generoso, di come condividesse con gli amici le caramelle, di come soffrisse ai rimproveri del maestro, ripudiando quei sistemi severi di educazione che oggi tanto fanno scalpore a sentirli. Da ragazzo amava il teatro e la poesia, e nelle recite della parrocchia con i bambini si divertiva a rappresentare diversi personaggi. Poi venne la guerra…che tanto distrusse in Abruzzo, e distrusse quasi completamente la piccola Orsogna, colpevole di trovarsi nel fuoco incrociati dei tedeschi asserragliati, e degli Alleati che tentavano di attraversale la gola della Fonte, cannoneggiando dal cimitero, e ricevendo il contraccolpo dai tedeschi. Plinio sfollò nel nord Italia, in una elegante città, dove ebbe modo di essere accudito e di trovare pane per i suoi denti, frequentare il teatro di Parma, e i circoli culturali…ma poi nel 1946 fu il momento di tornare nel paesello natio…e quando tornò, non voleva scendere dal camion, tanto l’orrore nell’aver visto un paese che più paese non era, macerie ovunque, mancava qualunque servizio, dall’illuminazione a quelli igienici, la gente viveva nella baracche.
Ma con il Piano Marshall Orsogna in meno di un decennio si riprese, malgrado avesse perso per sempre la sua bellezza, il suo volto dolce per sempre sfigurato dalla distruzione prima, e da avidi palazzinari dopo! Plinio studiò successivamente a Napoli, , fece i concorsi per diventare maestro elementare, e insegnò a Orsogna. Come ricordano coloro che lo hanno conosciuto, Plinio era amabile, cercava in ogni maniera di evitare l’accanimento fisico, l’umiliazione come ebbe a subire in gioventù, piuttosto con i nuovi mezzo della tecnologia, con il confronto tra ragazzi, con i laboratori didattici alla Montessori, allora impensabili in un paese quale Orsogna, allevò generazioni di ragazzi, che ancora oggi, da anziani e da adulti, lo ricordano con ammirazione e affetto.
Come detto, la passione di Plinio era quella del teatro, esisteva un circolo culturale presso la parrocchia, poca cosa, Plinio volle riformarlo dagli anni ’70, promuovendo alcuni lavori scritti, di breve durata, ma il progetto si farà più concreto, proponendo a inizio anni ’80, una commedia dal sapore drammatico, che riguardava proprio il tema della distruzione di Orsogna durate la guerra: Lu sfullamente, in 3 atti.

Lu sfullamente

 

Sfullate!                                                                                     Trimenne, scappenne.

Chie seme!                                                                                 Scappenne, scappenne.

Oddije, chi seme!                                                                      ‘Na grotte…..!

Sfullate!                                                                                      Nu ‘ndreme,

Stracce di cristijane                                                                  spasimenne, piagnenne.

‘mmezze a na vije,                                                                     La terre all’intorne

jttate.                                                                                          la vita ha perdute:

Crijature di Ddi,                                                                       né cerche

nude e crude;                                                                             né frutte

pezze a li pide                                                                            né fiure

fangutte a li spalle.                                                                    né jerve.

Sule!                                                                                           Fratte di ferre,

Né Patrie,                                                                                   spine d’acciaje,

né Chiese!                                                                                  scatulette di morte.

Paese e case                                                                               Lu ciele,

‘cchiù nin tineme!                                                                     ‘ngrifate,

La guerre l’ha tote.                                                                   di fume

Bestie selvagge,                                                                          z’ha fatte.

scappeme ‘mbazzite:                                                                Piogge di foche, granile di piombe

la guerre,                                                                                   Signore! Signore!

i corre appresse.                                                                       Chi ‘ffì ajesse sopre?

La guerre,                                                                                  Ci vide!

gna acque                                                                                   Ci sinte!

gna foche                                                                                    A nnù Tu nin pinze?

‘ntè loche.                                                                                                                 

E jeme strascichijenne:

busche, campagne.                                                                                                      

Cammineme sfanchijenne:

frane, stirpaje;

jeme arrampichijenne:

ripe, cripacce,

fusse e vallune                                                                                                                                   


A nostro dire, questa commedia-dramma è il capolavoro di Plinio, rappresentata a Orsogna, ogni decade che finisca con il numero 3, a perenne memoria dello sfollamento dei paesani da parte dei tedeschi, che si preparavano a fortificare la linea Gustav per combattere gli alleati. Quante famiglie distrusse, quanti morirono di stenti, nascosti nelle grotte sotto-terra, di cui Orsogna è ricca nel Colle e nei dintorni, quante giovani violentate e catturate dagli avidi tedeschi, quante liti tra famiglie, ridotte a bestie che lottavano per sopravvivere per un po’ di pane! Tutto questo dramma è presente ne Lu sfullamente, e dopo la scena delle grotte, nell’ultimo atto, al ritorno nel paesello liberato, cosa fare? Ci sono solo sfollati in mezzo alla rovina! Ma il sentimento di Plinio non è mai pessimista, sicché anche nelle ultime battute, si presagisce un invito collettivo a farsi forza e a ricostruire la comunità, nonostante la devastazione, e i comportamenti sciacalleschi di alcuni, che sembrano essere stati avvelenati, nella loro innocenza pre-bellica, da un oscuro male.
Questo era Plinio, certamente segnato a vita dall’esser stato strappato in gioventù dai giochi, dagli amori, dalla spensieratezza della vota dalla morte e dalla distruzione di qualcosa più grande di tutta la piccola Orsogna, sacrificata per niente! La commedia riscuote tantissimi consensi, Plinio viene salutato quale nuovo autore del teatro abruzzese, e inizia a collaborare anche coi Cori; con l’amico e concittadino Domenico Ceccarossi scrive alcune canzoni per le Maggiolate di Ortona, ormai verso il tramonto, e le Settembrate di Pescara, scrive canzoni per la nuova commedia La struculatora con il pescarese Fernando d’Onofrio.



LA STRUCULATORA


Quante ricurde sta struculatore
quante pinzire m’apponde a lu core.
Mintr ‘a la tine li panne sciacquave,
chi bille cose la mente crijave!



I, li capille ‘ondulate d’Arture
rassumijave ‘a sti scannilature,
e li gradine ‘nghi vase di rose
di chi l’altare ‘ddò avà da-j spose.


Mentre appinnave li panne a la fratte,
jecche Arture chi ‘vvè all’intrasatte;
primennime l’ucchie e dicennime ‘zzà,
gna nu schiuppette mi faceve jundà.



I, mò’, vulesse a ‘sta struculatore
struculijà li vidille e lu core
di chi la streghe chi ‘nghi na fatture
perde m’ha fatte l’amore d’Arture.

 

Torce vulesse, gna sti cusarelle,
li trecce e li recchie di chi la ciandelle,
lengue maligne e gran pittilone,
chiacchiarijenne tra vije e pindone.

 

I, mò’, mi spose nu ricche a Milane;
pozza cripà chi la brutta ruffiane!
'Sta struculatore li jette a lu mare,
“la lavatrice mi faccio accattare…..

 

Sciacque e risciacque
sbatte e ritorce,
strizze po l’acque
gocce su gocce.

 

Strucule strucule
gna nu mutore;
strucule strucule
Struculatore.

                                                                

Si prodiga anche per promuovere il Coro ENAL di Orsogna, nato nel 1921, successivamente ribattezzato “Coro La Figlia di Jorio” in omaggio al pittore Michetti che nel suo quadro ritrasse proprio una orsognese. Nel 1979 promuove al teatro comunale di Orsogna un convegno sulla tradizione canora-dialettale abruzzese cui partecipano anche eminenti personalità quali Ernesto Giammarco, Ettore Paratore, Giuseppe Di Pasquale, con gran finale del Coro, che intona la famosa aria orsognese “Bbone Ursogne”, elaborata su motivo popolare. Varie altre commedie vengono scritte da Plinio, Li moje di li ‘mricane, una satira sull’emigrazione, che afflisse Orsogna, Parapattepace, Il castello in mezzo al mare, tutte di grande successo. Promosse la nascita di un’associazione teatrale, di cui fu presidente, e che girò in turnè l’Italia, e che fu invitata perfino in America Latina da amici immigrati orsognesi, riscuotendo un tale successo che Plinio non riusciva a rendersene conto realmente, tanto era il giubilo con cui venivano accolti i suoi lavori teatrali.

Scrisse diverse poesie per bambini, che sono state recentemente raccolte in un volumetto dal titolo Orsogna in rime, insieme a vari altri volumi sulle pièce teatrali. Molto graziose sono quelle per bambini, ad esempio La circhitelle di Natale, in cui un nonno troppo vecchio stile, critica la pomposità e la vuotezza delle luci di un albero di Natale, rispetto alla bellezza e alla castità di un presepe tradizionale, oppure le poesie della guerra, del Carnevale orsognese, la critica a una Orsogna troppo civettuole e provincialotta per poter andare avanti nella sua storia, fino all’ultima poesia, pubblicata dopo la morte nel 2002 per cancro, che è un vero e commovente commiato da un paese che ha amato per tutta la vita nel più profondo.


Ti ho amata, Orsogna,

nelle tue tradizioni

e nell’anima del tuo popolo

più vero, più umile e più grande:

sii sempre bella di umanità e di pulizia morale,

come ti hanno fatta e ti ricordano i tuoi figli lontani.

Per te, Orsogna natia, gioiosa,

sfollata, distrutta, ritrovata,

ricostruita, emigrata, vissuta:

per te sarò sempre

nel silenzio delle tue strade,

nell’aria delle tue stagioni,

nella luce del tuo cielo…

il tuo umile cantore

                             

Amore così grande per il suo paese, che Plinio arrivava addirittura a non concepire il pagamento dei testi stampati delle sue opere, che dovevano essere liberamente distribuite a chiunque, così come i libri che scrisse sulla storia di Orsogna, in modo che il paese fosse conosciuto da tutti. Scrisse diversi testi, che andrebbero ristampati dato che ormai sono difficilmente rintracciabili: il primo è Orsogna – Talami, coro, banda, usanze, 1981, con illustrazioni di Vito Giovannelli e foto storiche, che illustra a volo d’uccello la storia del paese, i monumenti principali, con note di riferimento molto precise, e ricerche d’archivio che spesso svolgeva a Chieti, Roma e Napoli, fu tra i primi a mettere in luce ad esempio l’attività dei lavoratori del legno a Orsogna, come la bottega dei Salvini e dei Tenaglia; a seguire racconta della banda, la storia del Coro, le varie usanze tradizionali, il Giovedì degli Amici, i Talami, i giochi di una volta; e questo metodo rigoroso, ma facilmente accessibile e semplice per tutti, scorrevole, lo usa per altri libri come Il nostro campanile ha 200 anni, Carri armati sui nostri tratturi, l’ultimo libro edito nel 1999, ricco di documentazione fotografica, ricerche in archivi di guerra, e interviste a personaggi che hanno avuto a che fare con Orsogna nella seconda guerra mondiale.
L’eredità di Plinio è stata raccolta dall’amico e allievo Vittorio Pace che promosse le attività dell’Associazione “Il Teatro di Plinio”, e successivamente dai nuovi membri.

19 settembre 2022

Le tradizioni popolari Lancianesi delle Feste di Settembre – Capitolo III.


Le tradizioni popolari Lancianesi delle Feste di Settembre – Capitolo III
di Angelo Iocco

Giungiamo al capitolo finale di questa rassegna sulle feste del Settembre Lancianese, che ha preso avvio con la fiera di Sant’Egidio e lo sparo di mezzogiorno dal cannone della torre campanaria del 1° settembre.
Abbiamo lasciato i nostri contadini contradaioli dell’8 settembre ritornare alle loro case, e abbiamo notato di come la festa, un tempo più genuina, non fosse celebrata tanto per il gusto di esibirsi come purtroppo accade oggi, ma vi erano processioni di anziane e di belle giovani che intonavano inni alla Madonna (e non “Cicirinella teneva teneva!”), donne che sfilavano con le conche ricolme di fichi secchi e fiori (e non finte auto d’epoca pacchiane in parata). 
Al termine della processione, si racconta che i contadini più abbienti preparavano dei pranzi invitando gli amici che purtroppo avevano avuto un’annata di magra, c’era il vero senso di carità e di rispetto per il prossimo, nel giorno della Natività della Madonna, e occorreva onorarla come dovere. 
Oggi purtroppo tutto è diverso, tutto è finto, tutto è di facciata, tutto è stato trasformati un una becera carnevalata!
Da qualche anno ci sono buone iniziative per terminare questo giorno, dal punto di vista religioso la Cappella musicale Santa Casa del Ponte propone nella serata un concerto di musiche sacre classiche dedicate a Maria, con la direzione del M° Giuseppe Casciato. L’iniziativa è partita nel 2018, nel 2019 una bella trovata di una solista, Lorella Palumbi, affacciata dalla balaustra della Basilica cattedrale, mentre festoni di luci disposte a baldacchino, come il monogramma Mariano, ricadevano rigoglioso sull’arco di ingresso al nartece, allietava i nostri cuori. 

Inutile purtroppo dire che soltanto pochi di Lanciano siano attenti a questa iniziativa, che cerca di seguire la scia di una ben più lunga e onorata tradizione canora per la Madonna di questa Cappella musicale plurisecolare, di cui parleremo più avanti. In quanto gli altri sono concentrati ad aspettare la fine di questo concerto per poter accaparrarsi la mortadella o la pasta De Cecco alla vendita all’asta dei donativi delle contrade.
Spieghiamoci, ciò che non è stato consumato la mattina con la sfilata, viene riportato in piazza per la vendita all’asta, e vediamo di tutto, dolciumi, prosciutti, pasta, porchetta, incartata in cestini, fichi, mele, e tutto di più. Ed è un piacere vedere i lancianesi affannarsi a sbracciarsi per la puntata più alta, per il rilancio dell’offerta, la controbattuta, mentre il banditore attentamente scruta ogni mano alzata, e tra un “venduto!” e un “il signore rilancia…”, fa qualche battuta simpatica sul prodotto in offerta, ricordando tempi lontani.


Abbiamo aspettato dall’8 settembre la sera del 13: per la città iniziano i preparativi, le luminarie cominciano ad essere montati sui castelli di legno per il Corso e per la piazza. Iniziano ad apparire gli sponsor, le pubblicità, tutto ha l’aria prettamente popolare in questa città, anche troppo. 
Il popolo inizia a fare le vasche, a salire e scendere, impaziente che il sole cali. 
Le campane tacciono, come se fosse il Venerdì santo, debbono scampanare per bene la mattina del 14 alle ore 4:00! Ma come mai quest’orario? 
Occorre tornare indietro di 189 anni, or è il 2022, se non ancora di più. E dobbiamo iniziare a conoscere un personaggio che qualche anno fa, quando era presidente del Comitato Feste, Settembre Stefano Angelucci Marino proponeva in un monologo recitato dal sapore un po’ maramaldesco e bohemienne, ma efficace, il quale si poneva in piazza, e raccontava tutte le fatiche sopportate per aver organizzato la Coronazione della Statua della Madonna di Lanciano presso il Vaticano, e di come ora la gente riunita, debba aspettare il ritorno delle carrozze dei preti con le Sacre Corone, da Roma, attraverso vie tortuose e sterrate, fino a Lanciano. Inutile dire che qualcuno criticò questa specie di “rievocazione”, sicché oggi il tutto si celebra a Lanciano con personaggi che parlando di “tradizione”, ma che non sanno manco cosa possa significare! E il popolino applaude e mangia la piazza ai peperoni e alici contento contento.

Coro del Popolo nel primo del ‘900. Si vede sulla destra il palazzo Berenga,
verso largo Santa Lucia, distrutto nel 1943

Tale personaggio interpretato dal Marino fu Francesco Paolo Berenga, nato a Lanciano nel rione Borgo nel 1784, precisamente nel palazzo di famiglia che fu distrutto dal bombardamento del 1943, lungo il Corso Roma (ex via del Popolo), e che oggi è sostituito da un brutto casermone moderno. Francesco Paolo era noto del più famoso sindaco di Lanciano Gerardo Berenga (1860-1944), conosciuto principalmente per aver voluto la costruzione del Corso Nuovo di Lanciano. 
La famiglia Berenga era originaria di Venezia, nel XVI secolo giunse a Lanciano per affari, essendo mercanti, tanto che Agostino fratello di Francesco Paolo, fu Ricevitore della Dogana e Dazi a San Vito chietino. 
Lo studioso Giacomo de Crecchio in una sua utilissima pubblicazione del 2004 sulla storia della Coronazione della Madonna del Ponte, ha ricostruito con documenti filologicamente la vita del Berenga e le situazioni che lo portarono a organizzare tutta la cerimonia. Altri suoi famigliari don Giuseppe de Crecchio ad es., fu nominato Prefetto della Congrega di San Filippo Neri in Lanciano, i fratelli Giorgio e Giambattista erano stati nominati Amministratori degli Stabilimenti di Pubblica Sicurezza. Il Nostro Berenga fu anche poeta, scrisse un libretto per la Madonna Immacolata da cantarsi l’8 dicembre 1826, scrisse il dramma sacro “Sofronia” su musica di Pietro Raimondi, e “L’assedio di Samaria ovvero Il trionfo della Fede” con musica di Francesco Masciangelo, da cantarsi il 18 settembre 1870, in occasione del 37° anniversario dell’Incoronazione. Berenga morì nel 1859, di lui resta un bel busto in gesso. Da quel che è stato brevemente scritto dunque comprendiamo come la festività della Madonna a Lanciano fosse sentita anche e soprattutto dal punto di vista teatrale e musicale; oltre a questi lavori, furono composti tantissimi altri oratori e drammi, compreso quello più famoso “La Sunamitide ovvero il Trionfo della Virtù e della Bellezza” su versi di Carlo Madonna e musica del Masciangelo (1853 per i 20 anni dell’Incoronazione). Oratori puntualmente uno per uno, allo stato attuale, allo stato di quiescenza, di dimenticanza, senza che nessuno in Cattedrale si faccia premura di rispolverarli, di trascriverli, e magari di farli rieseguire per valorizzare il patrimonio canoro della “vera tradizione lancianese” che tanti…troppi strilloni van cianciando con pompa e petto gonfio nei giorni di questa festa!


Nel suo studio sulle celebrazioni della Madonna, il de Crecchio passa in rassegna lo studio dell’opera più importante oggi nota del Berenga, ossia il “Quadro della Solennità della Coronazione della Vergine SS.ma del Ponte” stampato nel 1853 a vent’anni di distanza. Francesco Paolo Berenga volle scrivere, con l’ausilio dei documenti raccolti, neri su bianco, punto per punto, data per data, somma per somma delle spese sostenute anche per le piccolezze apparentemente più trascurabili. Avendo noi parlato delle varie nomine di incarichi pubblici del Berenga, vediamo che nel 1827 il Nostro in quest’anno si accinse a inventariare le carte e le cose presso l’Archivio della Cattedrale. Notò che il tutto giaceva quasi abbandonato, e tra le varie carte, trovò delle cose lasciate incompiute da don Mattia Brasile nel 1799, per sopraggiunta morte, tra queste cose un progetto di solennizzare il giorno della Madonna del Ponte con la coronazione della statua della Madonna col Bambino. Berenga ebbe la pia intenzione di riprendere questo progetto, iniziò a fare le ricerche per capire quali pratiche dovesse affrontare per avviare le procedure regolari, da don Gioacchino Maranca si fece consigliare di parlare col padre Isidoro Chiodi dell’Oratorio S. Filippo Neri di Roma, che era in quegli anni a Lanciano presso l’omonima congrega, e tra i due nacque un solidale rapporto per avere una corrispondenza diretta con il Capitolo del Vaticano. La risposta giunse nel novembre 1828, l’Arcivescovo di Lanciano fu direttamente coinvolto in questo rapporto epistolare per firmare le richieste varie, occorreva fornire documenti circa l’antichità del culto della Madonna del Ponte, fornendo ragioni valide per elevare la chiesa Cattedrale a titolo di Santuario, occorreva dare prove di autenticità dei prodigi.
Qui vogliamo brevemente fornire quanto era stato scritto fino ad allora, e oltre, dagli storici locali, seguendo più che altro la leggenda. Notizie si hanno nel libro del Santuario della Madonna di Luigi Renzetti, in un opuscolo stampato nel 1933 a cura del lancianese Giuseppe Bellini in occasione del centenario dell’Incoronazione, e infine altre notizie utili si hanno nel libro sulla Cattedrale uscito per conto della Rivista Abruzzese nel 2000. 
La solita leggenda vuole che la statua miracolosa di terracotta della Madonna risalga all’VIII sec., che sia stata rinvenuta in una nicchia del distrutto ponte romano di Diocleziano nel 1138, quando gli operai stavano effettuando i lavori del nuovo ponte erigendo. Tale statua, tanto amata dai Lancianesi, sarebbe rimasta miracolosamente intatta e nascosta per almeno 400 anni dall’anno in cui fu nascosta nella nicchia murata, affinché non venisse distrutta dai fanatici iconoclasti di Leone III Isaurico di Bisanzio. Questa la leggenda riportata dagli storico Pietro Polidori e Omobono Bocache: ma a quei tempi l’Italia era sotto il controllo dei Longobardi ferventissimi cristiani…che motivo ci sarebbe stato nell’VIII sec. di temere la persecuzione di un monarca di Bisanzio così tanto lontano da Lanciano? Mistero della leggenda! Fatto sta che la statuetta di terracotta inizia a compiere miracoli e grazie, viene soprannominata “Nostra Signora delle Grazie” e viene adagiata in una nicchia con due pilastri, sopra il ponte nuovo, e tale nicchia così secoli diventerà una cappella, e infine una vera e propria chiesa, affiancata all’altra del XIII sec. della Santissima Annunziata, di cui il succorpo ancora oggi si ammira, benché molto manomesso nei secoli, quando si scende nel percorso archeologico dell’auditorium Diocleziano.
La chiesa fu ingrandita ancora nel 1389 e poi nel 1446, ma a causa di terremoti e mancanze di fondi, tardò a vedere l'aspetto monumentale attuale. La chiesa era inoltre situata nella parte periferica della città, a ridosso delle mura orientali, la cattedrale vecchia era la chiesa di Santa Maria del Ponte nel rione Civitanova; tuttavia la chiesa di Santa Maria delle Grazie beneficiava di indulgenze papali e della venerazione dei viandanti, dei pastori transumanti e dei mercanti che dovevano dirigersi al Piano della Fiera per le annuali rioni dei mercanti. 
Nel 1545, dopo la creazione della diocesi Frentana di Lanciano-Ortona (1515), la chiesa divenne concattedrale insieme alla Basilica di San Tommaso in Ortona, dedicata alla Santissima Annunziata. I lavori di adeguamento e ampliamento continuarono, nel 1610 venne eretta la grande torre campanaria, insieme a un loggiato che permetteva il passaggio sino ai Tribunali e al Palazzo del Capitano. 
Nel 1670 si decise di ufficializzare la festa della Madonna il giorno 8 settembre, giorno della Natività di Maria. Nella bolla pontificia del 1756 emanata da papa Gregorio XIII le due chiese di Santa Maria delle Grazie e dell'Annunziata vennero unite da un solo portone d'ingresso, facenti parte della Cattedrale di Santa Maria del Ponte e della SS. Annunziata.

Disegno ottocentesco della Cattedrale di Lanciano: sulla destra della facciata è visibile un edificio civile, eretto dopo il 1819 sopra il sito della cappella dell'Annunziata

Con questa bolla papale si progettarono i lavori di totale rifacimento della chiesa, con l'istituzione di una commissione speciale per la direzione dei lavori stessi. Nel 1758 si costituì la società e i lavori vennero avviati nel 1778, con la demolizione e ricostruzione delle mura, del corpo a pianta rettangolare senza transetto, a navata unica e con copertura a volte a botte; l'intero apparato decorativo in stucchi e pennacchi fu realizzato nel 1794 dal napoletano Giacinto Diano.



Progetto di abbellimento della Facciata del Duomo in occasione delle Feste di Settembre del 1870, progetto del lancianese Luigi Mercadante



La statua della Madonna che oggi ammiriamo, in realtà sono due, Ossia l’originale è ancora al suo posto nella nicchia dell’altare maggiore monumentale, con le sue corone del 1833, nel corso dei secoli ridipinta più volte, restaurata una prima volta negli anni ’60 per volere del Mons. Benigno Luciano Migliorini, e un’altra volta di recente, cercando di riportare il colore al suo stato antico.


E infatti vediamo una tipica “Madonna bizantina” dal colore un po’ bruno, tipico di varie Madonne “arboree” abruzzesi, che apparvero secondo la tradizione in un determinato luogo, ulivi, alberi, olmi, caverne, colli, chiedendo ivi al popolo di costruire devotamente una cappella, che quasi sempre si trasformò poi in un santuario. Di questa Madonna miracolosa parla anche lo storico e arcivescovo di Lanciano Anton Ludovico Antinori in alcune sue lettere al canonico Silvestro Cinerini, suo amico, e fratello di quel famoso Antonio Cinerini lancianese, che agli istituì un Monte frumentario ossia una borsa di studio, per un valente lancianese affinché avesse potuto continuare i suoi studi a Napoli e portare lustro alla città. 
Nelle lettere l’Antinori si sofferma sul culto popolare della Madonna, la leggenda del miracoloso ritrovamento nella nicchia del Ponte è già sparsa per il popolo, ma lo studioso attento, più disposto alla verifica dei fatti che abbandonarsi a seguire storielle popolari, inventate apposta per ricevere privilegi papali e indulgenze, si chiedeva se effettivamente la statua fosse così antica da risalire all’VIII sec., e nelle lettere suppone che la statua o esisteva, o fu rifatta daccapo nella metà del ‘400, quando ricevette proprio quell’indulgenza speciale del Papa, affinché la basilica potesse essere ricostruita sopra il Ponte.
Anche lo storico lancianese Corrado Marciani che pubblicò le lettere, pensò ciò, e come risposta ebbe dall’Arcidiocesi di Lanciano il diniego di esaminare personalmente la statua!



La Statua che attualmente sfila in processione è una copia in versione più grande, realizzata nel 1933 in occasione del centenario dell’Incoronazione, somiglia in parte all’originale, con il busto leggermente proteso a formare una leggera curva, come l’originale in terracotta, il panneggio mostra dei fiori e dei gigli dorati, coperto da un mantello blu, gli occhi sono espressivi, mandorlati, come l’antica Madonna della nicchia.
Tornando alla nostra storia, finalmente nel 1829 grazie a Padre Isidoro a Roma, l’iter burocratico inizia a sbloccarsi, la documentazione comprovante i privilegi passati e i miracoli è accolta, e a Lanciano si costituisce un vero e proprio comitato formato dal sindaco d. Michele de Giorgio, i decurioni Luigi Maranca, Pier Mattia Brasile, Nicola Rotellini e altri. Immancabili le proteste di alcuni circa il progetto, dimostrazione di come a Lanciano qualsiasi proposta si fosse sempre fatta, non mancavano i soliti “telchini”, che erano …. E sono! sempre pronti a cicaleggiare a criticare. Il comitato sprona Berenga ad andare avanti, e così lui per ufficializzare la festa, fa realizzare dei disegni della Sacra Immagine della Madonna. Già in passato vi erano incisioni riguardanti la Vergine col Bambino, conservate presso il Museo diocesano di Lanciano, tra cui la famosa immagine di Nicola De Archangelis ispirata a quella di Francesco Maria Renzetti. Berenga chiama Gaetano Gigante, nipote di Carlo e allievo di Giacinto Diana che a fine ‘700 fu attivo nei cantieri della Cattedrale, per realizzare il bozzetto da far incidere sulla medaglia d’argento da distribuire ai cittadini per la festa, per opera di Carlo Biondi.

Tuttavia si verificano ancora lungaggini varie, fino a che si giunge al 1832, nulla ancora è stato stabilito, e il Berenga nella sua cronaca racconta di come provvidenzialmente nel Natale del 1832, mentre tornava bigio a casa, ricevette una lettera da padre del Padre Filippino, in cui si comunicava che erano stati trovati i fondi per la realizzazione della Sacra Medaglia, delle corone, e che la cerimonia si sarebbe potuta svolgere nel 1833.

Grande giubilo! Immediatamente il comitato è incaricato di raccogliere delle offerte per i rioni storici, in modo da coinvolgere sempre di più la popolazione, e nei registri sono riportati tutti i nomi degli artigiani, dei commercianti, dei parroci che hanno donato il loro obolo. Si decide di scegliere il giorno 15 settembre per il Festeggiamento, essendo l’infra-ottava della Natività, Berenga si da da fare affinché anche le contrade vengano coinvolte nel versare il loro obolo per la festa. Si iniziano a stampare le medaglie sacre, nel frattempo in occasione della festa della Natività, nel 1832, giunse a Lanciano Sua Maestà Ferdinando II delle Due Sicilie, che alloggiò al palazzo Vergilj, sede della Sottoprefettura di Chieti a Lanciano, nel rione Lancianovecchia; giunse dalla via di contrada Iconicella, si chinò devotamente all’altare della Madonna in Cattedrale, e il giorno seguente ripartì dopo che in suo onore era stato allestito uno spettacolo teatrale. Nel frattempo anche le cittadine vicine di Crecchio, Canosa, Tollo, sono coinvolte nelle celebrazioni, si costituiscono altri comitati e deputazioni, e si scelgono, a preparativi ormai completati, i due incaricati di andare a ritirare a Roma le sacre Corone d’argento della Madonna, benedette da Sua Santità Papa Gregorio XVI, don Luigi Iacobitti e Nicola Saverio Di Bucchianico, laico, consigliato dal padre Isidoro. La Sacra Immagine doveva essere incoronata a Roma, esposta in Vaticano, il quadro devozionale doveva essere confezionato dal pittore Giuliano Crognale di Castel Nuovo ossia Castelfrentano (1770-1862), di cui purtroppo s’è persa traccia.


La Sacra Immagine è esposta in piazza a San Pietro in Vaticano, tra il giubilo generale del popolo, a Lanciano non si parla d’altro, il nuovo sindaco Saverio dei Conti Genoino e il canonico don Giambattista De Giorgio si adoperano per rinnovare la Fede nel popolo, chiedere nuove offerte, esaminare i vicoli e le vie dove sarebbe passato il corteo, vengono stampati i manifesti da diffondere nelle principali città del Regno, il 20 luglio si organizza una solenne processione in Cattedrale con grande affluenza del popolo, anche dalle contrade vicine, si promettono fertilità alle novelle spose, redenzione dei peccati, abbondanza di raccolto ai contadini. Il 13 settembre le Corone si mettono in viaggio da Roma per Lanciano, e fanno la via vecchia per Napoli, arrivando a Castel di Sangro, e proseguendo per il Piano delle Cinquemiglia fino a Palena, dove si snoda la via Frentana per Lanciano. Una notizia del ritardo della consegna delle Corone fa temere il peggio, ma il problema viene presto risolto. Berenga fa mandare un messo indicando alla comitiva di accomiatarsi a Castel Nuovo per riposare, e di entrare il giorno 14 a Lanciano. Manco a dirlo, i Lancianesi si ribellano, gridando “Viva Maria, via Maria!”, e vogliono che anche a tarda notte, le Corone giungano in città, loro sarebbero stati pronti e ben svegli ad accoglierle con giubilo e devozione.


Berenga è al colmo della gioia, e si mescola tra la folla, mentre le Corone dalla chiesa di Santo Stefano a Castel Nuovo, dover erano state riposte momentaneamente per l’adorazione, riprendono quei pochi km di viaggio per arrivare a destinazione. La gente si ammassa su per via del Popolo (corso Roma), risalendo fino al monastero di Santa Chiara con l’arco di ingresso. Le monache aprono la porta del monastero di clausura, cacciano alcuni curiosi che si erano nascosti per vedere la Sacra Immagine con le Corone, Berenga si fece largo per baciare l’Effigie, la gente intonava cantici di gloria, quando appena vide la comitiva avanzare dal viale dei Cappuccini. Nessuno dormiva a Lanciano, tutti avevano vegliato devotamente, avevano fatto la “Nottata”…e non la Notte bianca! Le monache invitavano i fedeli a rimanere composti e a non sparpagliarsi nel disordine, a rimanere fermi nel loro punto, piamente pregando.
Finalmente la Sacra Effigie poteva riprendere il suo cammino dal monastero, e giungere in piazza dinanzi alla grande Cattedrale. Presso il Piano della Fiera dove oggi insiste la villa comunale, furono organizzate delle tombolate, e nella settimana seguente della Solennità, delle ditte locali accesero dei fuochi artificiali, furono concesse delle grazie a dei penitenti, furono chiamate delle bande a suonare, anche da Orsogna, furono apposte delle candele sulla facciata del Duomo in modo che risplendesse la notte. Il 15 settembre don Luigi Iacobitti sostituì l’anziano Arcivescovo Mons. De Luca nel portare le Corone in Cattedrale, ci fu la benedizione dei Sacri Ornamenti, ci furono canti e inni, alla fine della Messa, uno spettacolo pirotecnico in piazza, il tutto sapientemente organizzato dal Berenga. E naturalmente il 16 ci fu la nuova processione della Madonna Incoronata, per la piazza e le vie della città.



Oggi di tutta questa tradizione, cosa è rimasto? Innanzitutto la processione si è modificata, quando fu aperto il nuovo Corso Trento e Trieste nei primi del ‘900, dato che attualmente il 16 settembre la processione sfila per la piazza con le Confraternite, e risale la nuova strada, per poi ridiscendere dalla villa comunale in Cattedrale. Prima dell’arrivo dei palchi con impianti elettrici e casse di risonanza, nella piazza si faceva la Veglia, questo fino agli anni ’70, quando a Lanciano iniziarono ad essere chiamati vari cantanti famosi d’Italia e non solo, che avrebbero dovuto coronare le tre serate dal 14 al 16 settembre. Prima, raccontano, si passeggiava tra amici e conoscenti per il Corso, si andava a giocare al Caffè, aspettando le ore 4:00 di mattina, per assistere ai fuochi pirotecnici, e poi correre a omaggiare la Madonna, o a gustare pizza con peperoni e alici, oppure noci, fichi secchi e ceci. Naturalmente chi non ricorda le famose Corse dell’Ippodromo della Fiera iniziate proprio nel 1833? Quanti scommettitori incalliti persero il loro patrimonio, quanti corridori famosi galopparono per il circuito, quanta gioia scomparsa negli anni ’90!
E come non rimanere a bocca aperta dinanzi alle luminarie del Corso che venivano montate, e lo sono tutt’ora, con quei mille colori, quelle elaborazioni geometriche, quella scenografica macchina architettonica che dalla piazza corre sino alla Fiera? Ma qui vogliamo parlare anche di una tradizione di musica che si sta lentamente perdendo in città. Essendo attiva dal XV secolo in città la Cappella musicale Santa Casa del Ponte con i loro cori di voci bianche e voci maschili, i vari maestri ecc., Lanciano con la Coronazione, ebbe modo di sperimentare nuove opere composte occasionalmente per ricordare i fasti dell’arrivo delle Sacre Corone! E quali furono queste opere? Tra le prime ci fu l’azione sacra “Rut” su versi di Francesco Paolo Berenga stesso, del 1833; il patriota Carlo Madonna (1809-1890) scrisse “La coronazione di Ester” con musica di Camillo Bruschielli per il giorno 15 settembre 1833; nel 1835 fu scritto l’oratorio “Micol”; un’altra Ester fu scritta nel 1839 da Vincenzo Fioravanti; il grande Francesco Masciangelo (1823-1906) scrisse vari oratori per la Madonna, nel 1846 un “Inno Sacro da cantarsi in Lanciano”, nel 1848 un altro Inno; nel 1862 Innocenzo Gambescia scrisse un “Ino sacro”, nel 1870 il Berenga scrisse “L’Assedio di Samaria”; nel 1876 in occasione del 37° anniversario della Coronazione, Madonna e Masciangelo scrissero un vero capolavoro: “La Sunamitide, ovvero Trionfo della Virtù e della Bellezza”, ispirato a un fatto dell’Antico Testamento, recentemente rieseguito dal M° Donato Renzetti e inciso su CD.

Alla luce di tutto questo patrimonio musicale, per fortuna accuratamente inventariato dai vari deputati della Santa Casa come Giuseppe Bellini e Filippo Sargiacomo, e recentemente inventariato nuovamente per il Centro di documentazione musicale “F. Masciangelo” di Lanciano, perché non riproporre questi oratori? Perché non fare in modo che Lanciano sia degna veramente di essere chiamata Città della Musica? Fare in modo che queste opere rappresentino la Città, e non che siano uno specchietto per le allodole, chiacchiere d’elite per avere qualche settimana di attenzione locale? Lanciano è piena di storia e cultura, e tradizioni. Le Feste della Madonna lo confermano, dal punto di vista sociale, artistico, culinario, musicale, storico…oggi purtroppo si assiste a un autentico carnevale acchiappa-soldi, con giostre rumorose e iridescenti, con discoteche dislocate in vari punti del Corso, con il grande palco scenico in piazza con il cantate all’ultimo grido, con la gente accalcata sugli spalti della Pista della Fiera, che aspetta le 4:00 per i fuochi pirotecnici, questi ultimi davvero belli e duraturi della ditta Lanci fireworks, a gridare ritualmente “Antonio, le luci, le luci!”, in attesa che l’addetto agli interruttori spenga il tutto, per rimanere irradiati dai fastosi giochi dei botti, con accompagnamento musicale, fino al crepitio assordante, da far pensare a una città sotto assedio bellico! Chissà quanto la vera autenticità e la vera Fede torneranno in Città. 
Buon Settembre Lancianese!

18 settembre 2022

Le glorie di un capocomico, Alfredo Bontempi di Lanciano.


Le glorie di un capocomico, Alfredo Bontempi di Lanciano
di Angelo Iocco

Quanti a Lanciano ricordano il maestro elementare e commediografo Alfredo Bontempi? (1893-1983) Nacque nel rione Borgo, poco si sa dell’infanzia, ma della sua attività teatrale molto parla il libro di P. Verratti e L. Bontempi pubblicato a Castel Frentano nel 2007. 
Dopo aver conseguito la licenza elementare, iniziò a insegnare nelle scuole di Lanciano, stringendo amicizia con il maestro Cesare Fagiani, poco più giovane di lui, e vari altri rappresentanti della cultural lancianese. 


Appassionati di teatro, negli anni dell’amministrazione Sigismondi del teatro comunale Fenaroli, Bontempi iniziò a formare delle Filodrammatiche per portare in scena delle farse, degli atti unici, o intermezzi tra uno spettacolo e il cinematografo. Alla brigata si unirono anche Domenico Bomba detto Mimì come suggeritore, il piccolo Federico Mola (1881-1978), Ugo Di Santo e il poeta Giulio Sigismondi da Guardiagrele, che con le sue farse e i suoi monologhi farà sganasciare dalle risate innumerevoli spettatori. 
In quegli anni Bontempi spalleggiò anche l’amministrazione Gerardo Berenga, alle soglie del fascismo.


Il 3 e 4 marzo del 1923, in pieno periodo fascista, fu rappresentata al teatro comunale di Castel Frentano e poi a Lanciano anche E' na cosa pazziarelle, favola dialettale-teatrale in due quadri composta dal duo Di Loreto-Liberati, purtroppo andata persa; nelle stesse serate fu rappresentata anche I Balilla, commedia in due atti scritta da Alfredo Bontempi, attore e scrittore lancianese amico del Maestro.
Bontempi era uno dei principali mattatori della Filodrammatica del teatro Lancianese in quegli anni, insieme al poeta Cesare Fagiani, oltre che come lui maestro di scuola, e dirigeva la rivista satirica “Il Beffardo”, su cui anche Di Loreto scrisse alcuni bozzetti, firmandosi con pseudonimo femminile; era direttore di una compagnia di comici di Lanciano, scriveva e dirigeva le sue commedie, come Delirio…parziale (1927), I Balilla (1928), Lu nide negli anni ’50 per il teatro di Milano, con poesie cantate di Nino Saraceni di Fossacesia, e rappresentata anche a Lanciano. 
Personaggio poco ricordato oggi il Bontempi, fu attivo in diverse riviste, anche dopo la guerra, con Nuvole a Lanciano, la quale si occupava di vari argomenti, anche culturali, dando importanza soprattutto agli storici musicisti locali, dai Sabini a Fenaroli, a Masciangelo. Questa commedia fu scelta in un Concorso del teatro italiano bandito a Milano, e Bontempi ebbe modo di rilanciare il teatro abruzzese, che allora dopo alcuni sprazzi di notorietà nell’era fascista, stava ricadendo pericolosamente nell’ambito localistico e provinciale. L’opera in sé è una veduta nostalgica della vita semplice di campagna, del matrimonio felice tra i due sposini, che provano ad andare nella grande città a Roma, sentendosi però dei pesci fuor d’acqua e preferendo ritornare nel piccolo cantuccio paesano, senza i problemi quotidiani. Le deliziose canzoni scritte da Saraceni allietano i 3 atti, testimonianza della spiccata versatilità del Teatro Frentano alla commedia teatrale brillante con intermezzi musicali, dove il musicista di turno (maestri furono Antonio Pancella, Nicola Benvenuto, Ugo Di Santo, Pierino Liberati) poteva far cantare il cuore abruzzese in questi momenti della scena rappresentata, consacrando de facto Lanciano a questo primato.


Carnevale del 1949 a Lanciano, Filodrammatica “L. Renzetti”, da sinistra Cesare Fagiani, Giovanni Nativio, Vituccio Iavicoli, il Maestro Alfredo Buontempi, Ugo Di Santo, Ferdinando Mercadante, Tanino La Barba, Gigino Carinci (la Pizecca), Mario De Matteo, Mauro Volpe.

Bontempi era ben inserito nel mondo sociale colto di Lanciano, intrattenendo rapporti con Gennaro Finamore, il poeta e storico locale Luigi Renzetti e suo fratello Camillo che parteciparono anche alle Maggiolate di Ortona, Domenico Bielli compilatore di un vocabolario abruzzese, Federico Mola professore orsognese e studioso dei temi più disparati, Modesto della Porta il poeta sarto di Guardiagrele, il consigliere comunale e poeta Giulio Sigismondi[1] di San Vito, e poi i rapporti col senatore Paolucci, Ciampoli, Pantini, le compagnie filodrammatiche Alfieri di Lanciano, quella Dopolavorista del Marrucino di Chieti ecc.[2] 
Mola e Bontempi diressero per pochi numeri inoltre una rivista: le “Città d’Abruzzo illustrate”, dove si ripromettevano di descrivere, con l’ausilio di vari studiosi locali, le maggiori città abruzzesi; progetto molto ambizioso che però si ridusse solo all’area frentana e pescarese, parlando di Lanciano, Orsogna, Guardiagrele, Castel Frentano, San Vito e qualche altro centro. Ciononostante, questi libretti, quasi tutti conservati nella biblioteca comunale di Lanciano, sono preziosi per scoprire varie particolarità e curiosità di questi paesi, specialmente Guardiagrele, che era oltre a Lanciano una delle città più ricche e belle descritte. L’intento era proprio quello di illustrare, con leggerezza, quasi una guida turistica, alcune realtà poco conosciute dell’Abruzzo. Mentre Lanciano risaltò per la bellezza dei monumenti e delle secolari tradizioni, Guardiagrele risaltò per la bottega dei fratelli Ranieri esperiti nella lavorazione del ferro, per gli oggetti d’arte sacra e per la maestria di Nicola da Guardiagrele, oltre che per l’erezione recente del Sacrario ai Caduti d’Abruzzo nel 1923. Ciò che cercarono Mola e Bontempi fu proprio la collaborazione con studiosi d’arte e storia locale come Giuseppe Iezzi, don Filippo Ferrari, Luigi Renzetti, Francesco Verlengia nel redigere queste piccole e pregiate guide dei paesi abruzzesi, che sarebbero state veramente deliziose, se si fossero estese alle cittadine del teramano, dell’aquilano, della valle Peligna. Peccato davvero! Nel numero di Castel Frentano si spaziava dalle notizie storiche finora note a quelle storico artistiche, a quelle curiose sulla presenza del corpo di don Iginio Vergily, a quelle del teatro e della musica, dove si elogiavamo i giovani talenti di Liberati e Di Loreto. Se Eduardo Di Loreto intraprese a metà anni ’20 la via del teatro, un po’ lo ha dovuto anche alla sapienza e all’intraprendenza vulcanica del Bontempi, che appunto meriterebbe un po’ più di attenzione e riconoscimento, insieme a tutte quelle altre eminenti personalità che “forgiarono” l’identità Abruzzese nel primo trentennio del ‘900.


Tra le ultime opere scritte da Bontempi, Noi siamo le colonne, nella quale c’è sempre un contrasto tra società dagli antichi valori, e società moderna e consumistica degli anni ’60, e infine Girandole, del 1982, una commedia per bambini in cui si rievocano le vecchie glorie del nostro anziano capocomico, dal volto paffuto e solare, che si spegnerà novantenne  un anno più tardi. Allo stato attuale a Lanciano non c’è nemmeno uno slargo o una strada intitolata a questo valente comico e maestro di teatro!







[1] Ci piace ricordare che anche Sigismondi si inserì nel dibattito del teatro dialettale abruzzese, tanto da pubblicare col titolo: “Teatro Abruzzese – Passa l’Angele e dice ammèn” a cura di Virgilio Sigismondi, una sua raccolta di testi teatrali, poi riedita in anastatica a cura del figlio Virgilio.

[2] Ricordi di un filodrammatico in Lanciano, o cara, a cura di Giovanni Nativio, Itinerari, Lanciano 1979.