7 marzo 2024
Canti d'Abruzzo. Mix di Cori Ecam Lab.
1 marzo 2024
23 febbraio 2024
Peppe Millanta, Scorci d'Abruzzo Ep.1 - Maddalena Ventura il grande miracolo della natura.
14 febbraio 2024
Canzoni abruzzesi. Coro folkloristico Giulio Sigismondi, 1980.
8 febbraio 2024
Pittura Abruzzese Manierista nel Chietino: il pittore “Dioaiutarà” attivo alla fine del Cinquecento a Gessopalena.
di Angelo Iocco
Difficile dirlo, in
mancanza di documentazione. La sua Deposizione è simile, per certi
canoni, a una Pietà conservata all’Aquila; al centro, leggermente a
sinistra, il Cristo morto, a cui un’ancella sorregge l’avambraccio sinistro per
ungerlo, forse la Maddalena, dietro il Cristo, San Giovanni, un’altra delle
Marie, e la Madonna addolorata col velo, che incrocia le mani, in una posizione
tipicamente tardo-gotica della pittura aquilana, che ha chiare reminiscenze del
Maestro di Beffi e di Saturnino Gatti, basti ricordare il ciclo di affreschi
dell’abside della chiesa di San Silvestro all’Aquila; al centro della macchina
scenica ben composta, in alto, la Croce, con due scale; la più grande sulla
destra rompe la scena, e induce l’osservatore a guardare una delle guardie, che
sta scendendo con in mano la corona di spine, un altro riferimento alla pittura
fiorentina di tradizione manierista, impossibile non ricordarsi di Rosso
Fiorentino e della sua Deposizione di Volterra. Il motivo scenico della scala
sulla Croce, è presente anche nel dipinto cesuriano, ed è retta in questo
quadro di Gessopalena, da un soldato romano dall’aspetto grottesco.
Questo pittore
sconosciuto doveva far parte insieme a Giovanpaolo Cardone, a Giovanpaolo
Donati e altri della cerchia manierista aquilana, che presto lascerà il posto a
Giulio Cesare Bedeschini, anche lui di formazione romana e fiorentina. E il
Bedeschini lavorò per Gessopalena, per conto della Confraternita della Madonna
dei Raccomandati, consegnando una tela corale, con al centro la Madonna
incoronata Regina dei Cieli dagli angeli, con ai lati in piedi San Carlo
Borromeo e San Francesco d’Assisi, e in basso inginocchiati Sant’Antonio di
Padova e Santa Rita da Cascia. Opera solenne, tra le più belle del Bedeschini,
in uno scenario dorato che lascia immaginare l’Eterna Luce del Paradiso,
ispirata probabilmente a un’altra tela del Bedeschini, per quanto riguarda il
volto di San Carlo, presente nella Basilica della Madonna del Colle di
Pescocostanzo.
Nel libro di Cicchitti,
si segnalano altre opere, la citata Pentecoste, i due Santi Pietro e Paolo
principi della Chiesa, collocati presso il catino absidale d’altare maggiore,
dove si trova la Pala del Trittico della Madonna della Misericordia, della
scuola di Pietro Alamanno, e ampiamente studiato dal Cicchitti. I due Santi
hanno i loro attributi di riconoscimento, San Pietro, stempiato, anziano, con
le chiavi del Paradiso e il Vangelo, San Paolo pelato, con la barba lunga e la
spada della difesa della Chiesa…e del martirio!
Franco G. Maria
Battistella, citato dal Cicchitti nella sua opera, si è occupato di questo
pittore, citando altre opere da lui realizzate, come la tela della Deposizione
nella chiesa di San Francesco a Loreto Aprutino. Nella chiesa di Gessopalena
soffermiamoci ancora sulla tela della Pentecoste: la Madonna è al centro,
attorniata dagli Apostoli, si riconoscono San Giacomo, San Pietro, San Filippo,
le lingue di fuoco si sprigionano dal cielo, indorato, una lezione ancora
aquilana che rimanda a Saturnino Gatti per la Pala del Rosario; i volti degli
Apostoli sono leggermente allungati, come era solito fare il Cesura per le sue
Madonne o Sacre Conversazioni, michelangioleschi e robusti i tratti degli
zigomi, delle espressioni facciali, delle nodose dita, delle braccia tese e
nerborute degli uomini, dolci i tratti femminili della Madonna.
Questo pittore pare che
fu attivo anche a Ortona nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli,
dipingendo due opere conservate nel Museo diocesano, San Pietro Celestino (la
chiesa era di fondazione Celestina), e San Benedetto abate. Le figure sono
solenni, nelle vesti vescovili, San Pietro Celestino ha la mitra e il
pastorale, l’espressione altera, San Benedetto con l’ispida barba si rifà ad
altri modelli utilizzati da questo Anonimo “Dioaiutarà” per i volti dei Santi
Pietro e Paolo a Gessopalena. Non si conoscono altre opere di questo pittore,
resta comunque una bellissima traccia di manierismo aquilano al di qua
dell’Abruzzo chietino.
1 febbraio 2024
COSTANTINO BARBELLA (1852-1925). L’artista del sentimento alla ricerca del vero.
31 gennaio 2024
Francesco Paolo Michetti, Ritratto di Costantino Barbella, fine XIX sec.
Francesco Paolo Michetti
Ritratto di Costantino Barbella, fine XIX sec.Olio su tela, cm 78x50
Museo Barbella, Chieti.
30 gennaio 2024
Abruzzo Terra d'oro. Folklore abruzzese, De Rosa - Di Nella.
26 gennaio 2024
Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa.
Ludovico Teodoro, San Leucio nelle vesti di vescovo, con ai piedi il Dragone, Duomo di Atessa |
Ludovico Teodoro, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti, le sue opere nel Duomo di San Leucio e altri Artisti abruzzesi di interesse nelle Chiese di Atessa
Prima Puntata
di Angelo Iocco
Poco si conosce di
questo artista, figlio del celebre Donato Teodoro di Chieti[1],
uno dei migliori che fu attivo nell’Abruzzo chietino e nel Molise, ma anche
nell’area di San Benedetto del Tronto e del teramano (dipinse il soffitto della
Collegiata di Campli), dagli anni ’30 agli anni ’50 del ‘700. Per vent’anni
dominò la scena con altri colleghi spesso napoletani, come Ludovico De Majo,
Francesco Solimena, Giovan Battista Spinelli. Fu sepolto a Chieti nella chiesa
di San Domenico, andata demolita nel 1914 per costruire il palazzo della
Provincia di Chieti. La lezione del Teodoro pare essere stata recepita anche in
Atessa, benché non siano attestate sue opere nelle chiese. Un esempio è
l’affresco della volta della sala grande del palazzo De Marco-Giannico, ex casa
di riposo, in Largo Castello, la cui scena illustra al primo piano Ercole che
combatte l’Idra di Lerna, e al centro il Giudizio di Paride con Giunone,
Minerva e Venere con l’Amorino, e attorno nelle nuvole dell’Olimpo, figure
femminili e Grazie. La scena, ripresa anche dalle stampe che circolavano in
quei tempi, ricorda per la divisione in due scomparti,. Le due tele del Teodoro
di Chieti (chiesa di Santa Maria della
Civitella) e Guardiagrele (chiesa di Santa Chiara) con il tema della Cacciata
del Demonio e degli Angeli ribelli dal Paradiso.
Dal volume A. e D. Jovacchini, Per una storia di Atessa, Cassa di Risparmio, Atessa, 1993 |
Ludovico figlio di Donato, attivo nella
seconda metà del Settecento, fu ugualmente pittore, e non dimenticò
l’insegnamento paterno, apprezzava le grandi scene corali, spesso
rintracciabili nei dipinti di Luca Giordano a Napoli, dove andò a formarsi,
come fece suo padre; e non mancava sicuramente di avere una personale
collezione di stampe, da cui traeva ispirazione per i suoi affreschi di ampio
respiro. Al momento, pienamente attribuibile a Ludovico, sono la tela di San
Leucio vescovo col dragone, presente nell’altare maggiore del Duomo di Atessa,
firmato e datato 1779. Benché non firmate, mi sento di attribuirli anche le due
tele laterali del coro dei Canonici, che ritraggono la Natività con la Sacra
Famiglia, e l’Adorazione dei Pastori. Opere un di gusto teodoriano per la ben costruita
scenografia, anche se con le immancabili grossolane superfetazioni del Bravo, e
i fondi oscuri tipici dell’ultimo Donato, di chiara derivazione tardo
caravaggesca[2].
Anonimo, Annunciazione, chiesa della Santissima Annunziata, Civitaluparella, 1790.
Il secondo riquadro:
“David accoglie Saul vincitore contro Golia” è molto simile al quadro dipinto
dal padre Donato che mostra la scena di “Davide con la testa di Golia davanti a
Saul”, oggi conservata nel palazzo Martinetti-Bianchi di Chieti, oppure allo
stesso soggetto per la volta della chiesa madre di Colledimezzo. La
composizione del soggetto ha la stessa matrice, ma il risultato di Ludovico è
più scadente. In parte è dovuto ai restauri di Ennio Bravo, che ha cambiato
alcuni volti, in parte alla stanca ripetizione dei modelli, come il barbuto
Saul sul trono che è impaurito dalla scena macabra, e il giovane David, che con
la sua smorfia di sofferenza esprime quel mansuetismo, quasi senso di colpa per
i propri trionfi, che accomuna diverse opere di Donato che abbiano questa peculiarità
del Trionfo del Bene sul Male, quasi uno strizzare l’occhio al Davide con la
testa di Golia del Caravaggio. Ma appunto, ciò non riguarda tutte le opere del
Donato, basta riferirsi ai volti trionfanti di Giuditta con la testa di
Oloferne nella chiesa di Sant’Agata di Chieti, o ad altri soggetti simili, come
lo stesso tema nella cupoletta del santuario dell’Assunta di Castelfrentano, et
similia.
Donato Teodoro, Incontro tra Salomone e la Regina di Saba, Museo d’arte “C. Barbella”, Chieti, foto M. Vaccaro per gentile concessione |
La scena “Saul placato
dall’arpa di David e l’Arca dell’Alleanza” si divide in tre momenti, sulla
sinistra il coro di cantatrici con strumenti musicali, al centro Saul che suona
l’arpa, a destra i sacerdoti e l’Arca.
Navata del Duomo di Atessa |
Osserviamo le fotografie delle pitture della volta del Duomo.
1° dipinto: L. Teodoro, Giuditta e Oloferne, particolare |
2° dipinto, Saul e David con la testa di Golia, particolare di David |
3° dipinto: David suona l’arpa con l’Arca dell’Alleanza, veduta d’insieme e particolare |
4° dipinto: Salomone e la Regina di Saba. |
L’ultima scena “La Regina di Saba” ha moltissime somiglianze con il dipinto di Giacinto Diano che realizzerà nel 1788 ca. nella Basilica cattedrale di Lanciano, la matrice della stampa da cui i due pittori hanno attinto è la stessa. Anche qui notiamo l’esasperazione dei volti, l’abbruttimento dei tratto somatici dei sacerdoti e delle cariche ebraiche, nonché i lunghi nasi, gli occhi strabuzzati, i pizzetti appuntiti, i turbanti delle figure di religione islamica contro cui si scontrano gli ebrei. Le pennellate sono molto chiare, seppur Ludovico non riesca a eguagliare la grandezza paterna. Osservando queste pitture, ci viene in mente il primo Donato Teodoro, non ancora trentenne, che fu attivo nel cantiere del santuario dell’Assunta di Castel Frentano, con la controfacciata della “Cacciata dei mercanti dal Tempio”; le pennellate simili, i colori leggermente sbiaditi, l’affresco orale di personaggi che si intrecciano in un turbinio di azioni, di giravolte, di scene concitate che inducono al movimento, a riguardare più volte la scena per adocchiarne i particolari.
Ludovico nel Duomo
dipinse anche i tondi laterali con le figure degli Apostoli, e delle tele applicate
ai pilastri della navata maggiore del Duomo, con le scene della Via Crucis.
Altre opere d’arte a
San Leucio
Nel Duomo. Il pulpito
in legno è della bottega Mascio di Atessa.
NAVATA DI SINISTRA,
altare di San Michele che sconfigge Lucifero, è brutta copia di Francesco
De Benedictis[3]
del quadro di Guido Reni (sia De Benedictis che il suo predecessore Giuliano
Crognale di Castelfrentano ne sfornarono di queste orride copie del quadro di
Guido Reni per le chiese del chietino!), che però forse avrà copiato dal suo
maestro Nicola Ranieri, per il san Michele presente nell’altare maggiore della
chiesa di sant’Antonio di Lanciano, o da una stampa del quadro di Reni che
circolava molto facilmente tra i disegnatori dei suoi tempi.
2° altare: Santa Lucia
martire, quadro moderno di Ennio Bravo[4]
A seguire. Statua di
san Pietro seduto, del XVI secolo, in pietra, dall’atteggiamento meditativo.
3° altare di San
Giuseppe in cammino col Bambino, dell’800, autore locale, della scuola di
Giacomo Falcucci
4° altare di San
Bartolomeo martirizzato, opera dello stesso autore del precedente San
Giuseppe col Bambino
CAPOALTARE NAVATA
SINISTRA A CAPPELLA: nicchie con statue
del Sacro Cuore, San Donato e Madonna Immacolata, bottega locale. Il soffitto è
stato rifatto da Bravo con i soliti cassettoni e fioroni.
Nella nicchia di
controfacciata della seconda navata di sinistra, c’è il busto di San Leucio in
argento di scuola napoletana datato 1857, e la costola del drago.
Ritratto del Prevosto Giandomenico Maccafani, presso la Sagrestia |
NAVATA DESTRA: a muro
in controfacciata, tela dell’Ultima Cena, autore ignoto, ma forse Giacomo
Falcucci o di un suo seguace.
Altari laterali:
1° altare di Sant’Anna
con Maria Bambina, tela di F. De Benedictis, di poco interesse.
2° altare con Martirio
di San Sebastiano, con ex voto, forse di Giacomo Falcucci[5], è
classificato come di anonimo dell’800.
3° altare di San
Martino in gloria, con i putti che reggono le spighe. Ignoto, forse questo
è un altro dipinto ignoto di Ludovico Teodoro; la postura è identica alla tela
di san Leucio nell’altare maggiore. Il Santo con il braccio destro benedice,
con l’altro regge il Vangelo e il pastorale. Accanto due angeli che reggono
fasci di spighe. Quasi
sempre Martino vescovo ha in mano un
grappolo d’uva e un fascio di spighe di grano, per
ricordare il suo protettorato sulle messi. A san Martino si rivolgevano
preghiere per un raccolto prospero di grano, uva ed altro. Questa iconografia è
presente in diverse opere pittoriche e scultoree che ritraggono il Santo. I due
angeli hanno i volti tipici delle figure di Donato Teodoro, che riutilizzò
questi modelli per diverse altre sue pitture, specialmente quello dell’angelo
di destra che è di profilo, riutilizzato nei servitori delle pitture di
Castelfrentano, Lanciano, Chieti. Interessante è anche la veduta in prospettiva
di Atessa, dietro il santo, dal lato di Vallaspra, sulla destra vediamo il
Duomo, con parte della facciata antica, privata nel 1935 delle volute laterali
baroccheggianti, un restauro che forse ha restituito un aspetto troppo
“razionalista” all’antica facciata gotica, a giudicare il periodo storico in
cui venne recuperata. Sulla sinistra vediamo le mura di Porta Sant’Antonio, con
il chiostro dell’antico convento dei Cappuccini e poi delle Clarisse di San
Giacinto, demolito negli anni ’60, di cui resta una porzione con degli archi, e
la torre massiccia della chiesa di Santa Croce.
Ludovico Teodoro (?), San Martino in gloria, con paesaggio, Duomo di Atessa
14 gennaio 2024
Lamberto De Carolis, Maestro, musica. Piccola storia delle bande d'Abruzzo.
10 gennaio 2024
Francesco Paolo Michetti e il Cenacolo di Francavilla al Mare.
9 gennaio 2024
Mare maje e Vola vola vola, Corale Verdi di Teramo, vinile LP.
Cesare De Cesaris, Acquerelli Abruzzesi, Lu Piante de le fojje.
5 gennaio 2024
Amelio Pezzetta: Vita sociale e religiosa in Abruzzo durante il fascismo.
Amelio Pezzetta: Vita sociale e religiosa in Abruzzo durante il fascismo.
Nel saggio in questione si riporta uno schema
riassuntivo delle principali vicende di vita sociale e religiosa che hanno
caratterizzato l’Abruzzo durante il ventennio fascista. Al fine di una piena e
consapevole comprensione delle vicende regionali si ritiene opportuno iniziare
la trattazione con alcuni paragrafi contenenti brevi richiami a fatti di
maggior rilevanza nazionale.
IL FASCISMO E LA
CHIESA.
L’inizio
ufficiale dell’era fascista in Italia risale al mese di ottobre del 1922,
quando dopo la marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III incaricò Benito
Mussolini di formare un nuovo governo. Il 3 gennaio 1925 con un famoso discorso
alla Camera, Mussolini annunciò la nascita dello Stato totalitario che durò
ininterrottamente sino al 1943.
I rapporti
iniziali del fascismo con il cattolicesimo e i suoi rappresentanti non furono
improntati alla reciproca collaborazione e rispetto. Infatti, inizialmente il
fascismo era anticlericale e con le sue violente attività squadristiche colpì
alcuni esponenti cattolici, le leghe bianche e nel 1925 anche l’Azione
Cattolica in Emilia. In seguito l’atteggiamento dei gerarchi del regime cambiò
e il suo capo usò strumentalmente la religione cattolica per rinforzare il
potere.
Al primo gabinetto
Mussolini collaborarono varie forze politiche tra cui il partito popolare che
ottenne quattro sottosegretari e due ministeri. Dopo che nel 10 luglio 1923 don
Luigi Sturzo lasciò la segreteria del partito popolare, alcuni suoi esponenti
entrarono in quello fascista. Durante le elezioni politiche del 1924 il
movimento conservatore dei cattolici nazionali affisse per le vie di Roma un
proprio manifesto in cui invitava gli elettori ad appoggiare il fascismo.
Un’altra
componente cattolica prese le distanze dal fascismo, gli dimostrò una netta
opposizione e ne patì le conseguenze con le violenze squadristiche e il
carcere.
Nel 1922 prima
della marcia su Roma sulla rivista “Civiltà cattolica” fu pubblicato un
articolo in cui si faceva presente che il fascismo ha caratteristiche di
violenza e supera il socialismo per le prepotenze, le uccisioni e le barbarie.
A loro volta diversi ordinari diocesani, durante i primi anni del regime
diffusero lettere pastorali in cui sottolineavano che il fascismo, per la sua
natura violenta era contrario ai principi cristiani e pertanto non poteva
godere l'appoggio della Chiesa.
Una parte della
Curia Pontificia anche dopo la marcia su Roma era convinta che il fascismo,
alla stessa stregua del liberalismo, della massoneria e del socialismo fosse
un’ideologia sviluppatasi a causa
dell’abbandono della religione e della secolarizzazione affermatisi nel
mondo moderno dopo la rivoluzione francese. Un’altra sua parte, invece riteneva
che potesse apportare un efficace contributo al processo di ricristianizzazione
della società che perseguiva il papa Pio
XI.
Durante il periodo
di dittatura ebbe una svolta politica nei riguardi della Chiesa che portò
all'abbandono di molte posizioni anticlericali assunte prima della presa del
potere. Infatti, Mussolini e le autorità del regime adottarono nei confronti
della gerarchia ecclesiastica e di tutto il mondo cattolico, un atteggiamento
conciliante e di disponibilità che contrastava con il laicismo dei governi
italiani precedenti e si tramutò in una serie di notevoli concessioni a favore
della Chiesa stessa. Tenendo conto di tutte le iniziative intraprese, si può
dire che l’avvento del fascismo fu caratterizzato dalla messa in atto una
politica che si può definire di “riconfessionalizzazione cattolica” dello Stato
che ebbe la sua massima espressione con la firma dei Patti Lateranensi avvenuta nel 1929.
Nel periodo
1923-1928 i rappresentanti del regime promulgarono varie leggi e decreti
riguardanti i rapporti con le gerarchie
ecclesiastiche che nel loro complesso produssero i seguenti effetti: 1) l’ordine
di ricollocare il crocifisso nelle aule giudiziarie, nelle caserme, nelle
scuole e in tutti gli altri uffici pubblici; 2) il ripristino tra l’elenco
delle feste civili di alcune importanti solennità religiose; 3) l’adozione e il
riconoscimento di vari benefici economici a favore del clero; 4) lo
stanziamento di una ingente cifra (tre milioni di lire dell’epoca) per il
restauro e la ricostruzione delle chiese danneggiate durante la prima guerra
mondiale; 4) l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole
di ogni ordine e grado; 5) il riconoscimento degli effetti civili del
matrimonio religioso e della relativa giurisdizione ecclesiastica; 6) la
reintroduzione dei cappellani militari nelle forze armate; 7) il salvataggio
del cattolico Banco di Roma.
Dopo queste
concessioni migliorarono i rapporti tra Stato e Chiesa, mentre la gerarchia
cattolica nel suo complesso si convinse che in Italia con l’avvento del
fascismo si erano create le condizioni necessarie per favorire il processo di
ricristianizzazione a cui ambiva il papa Pio XI. A tal proposito va rilevato
che le concezioni religiose del pontefice, per diversi aspetti si conciliavano
con le esigenze del regime poichè erano ispirate a una religiosità
caratterizzata dall'ubbidienza, l'umiltà, la rassegnazione e il rispetto per
l'ordine e la gerarchia.
Questo positivo
rapporto di collaborazione ebbe il suo importante culmine nella firma dei Patti
Lateranensi che avvenne l’11 febbraio del 1929 tra Benito Mussolini in
rappresentanza del governo italiano e il cardinale Gasparri che a sua volta
rappresentava la Santa Sede.
Con la stesura
del Concordato innanzitutto avvenne la riapertura formale dei buoni rapporti
bilaterali tra lo Stato Italiano e l’autorità pontificia. Inoltre dopo circa sessanta
anni rinasceva uno “Stato della Chiesa” indipendente e riconosciuto da quello
italiano che fu sottoposto all’esclusiva autorità della Santa Sede, fu chiamato
Città del Vaticano e comprendeva i Palazzi del Vaticano, il Laterano e la villa
papale di Castel Gandolfo. In questo modo fu chiusa la questione romana apertasi nel 1870 con
la presa di Roma. Il secondo importante aspetto dei Patti Lateranensi riguarda
il fatto che lo Stato Italiano cessava di essere laico e neutrale in campo
religioso e diventava confessionale poiché riconosceva il cattolicesimo come
religione di stato. Di conseguenza il suo insegnamento fu reso obbligatorio in
tutte le scuole di ogni ordine e grado. La Chiesa ottenne il riconoscimento del
libero esercizio del potere spirituale, del culto, della legislazione
ecclesiastica, della validità agli effetti civili del matrimonio religioso,
della libera comunicazione con tutto il mondo cattolico e della sua richiesta
d’impedire ai sacerdoti scomunicati di insegnare nelle scuole e nelle
università statali. L’ultimo aspetto riguarda una Convenzione finanziaria che impegnava lo Stato Italiano a versare alle
casse vaticane l’ingente cifra di 750 milioni di lire e una rendita perpetua, a
titolo d’indennizzo per la perdita di tutti i proventi che le autorità
pontificie ricavavano dallo Stato della Chiesa prima del 1860.
Le concessioni del regime alla Chiesa
continuarono anche dopo il Concordato. Infatti, il nuovo Codice Civile Rocco del 1930, con
gli articoli dal 402 al 406 riconobbe come reati perseguibili penalmente tutte
le offese fatte nei confronti della Chiesa Cattolica e il sentimento religioso
degli italiani.
L’universo
ecclesiastico dopo le concessioni fasciste ricambiò i favori con diversi
appoggi, riconoscimenti e valutazioni positive sulle personalità e gli operati
del regime. Infatti, dopo il Concordato, molti ordinari diocesani diffusero
lettere pastorali d’invito alla collaborazione con le autorità fasciste. A sua
volta il papa Pio XI definì Mussolini "L'Uomo della Provvidenza" poiché
a suo avviso ebbe il merito di riconoscere e riportare alla ribalta i veri ed
autentici valori nazionali quali erano quelli cristiano-cattolici. Inoltre
l'apparato ecclesiastico mise a disposizione del regime le proprie forze e
collaborò alla realizzazione di molte sue iniziative. Una prova tangibile di
questo rapporto collaborativo è rappresentata dalla figura dell'assistente
spirituale esercitata da un sacerdote che la gerarchia cattolica mise a
disposizione di tutte le organizzazioni fasciste che la prevedevano.
Anche i parroci
in questo periodo storico, per motivi vari collaborarono frequentemente con le
autorità del regime. Infatti, spesso erano invitati a partecipare alle loro
manifestazioni, a far suonare le campane in occasione di alcune solennità
civili fasciste e a benedire le bandiere, i gagliardetti e le sedi del partito.
Nel 1935 in molte diocesi nazionali fu organizzata la raccolta di metalli
preziosi per la patria. Inoltre in occasione della guerra d'Etiopia molti
ordinari e parroci appoggiarono l'impresa coloniale e dopo la sua conclusione
bandirono quasi una crociata per la civilizzazione e cristianizzazione della
popolazione abissina.
Mussolini e i
suoi gerarchi si servirono della Chiesa per l’appoggio ad altre loro iniziative
e campagne propagandistiche tra cui quella dello sviluppo demografico. In
questo caso tutti i giornali dell'epoca fiancheggiatori del regime per
invogliare le coppie italiane a una maggiore procreatività ricordavano spesso i
canoni e le leggi ecclesiastiche riguardanti la famiglia e il matrimonio e
altrettanto fecero diversi parroci durante le loro omelie domenicali.
Nonostante gli
episodi riportati, il rapporto di collaborazione tra lo Stato Fascista e la
Chiesa durante l’intero ventennio non fu sempre pienamente positivo e idilliaco
poiché, come ha rilevato Quazza, fu accompagnato da connotazioni ambivalenti,
momenti di tensione e diverse sfumature. Queste ambiguità e ambivalenze sono
molto evidenti quando si tiene conto che mentre da un lato le autorità del regime
formalmente rendevano omaggio e manifestavano rispetto alla Chiesa, dall’altro
s’impegnavano per sottrarle il controllo della gioventù e per l'eliminazione di
tutte le forze cattoliche che si opponevano ai loro progetti politici. In
quest'ambito si collocano tutte le iniziative delle autorità fasciste contro
l’Azione Cattolica che era il principale strumento di cui si serviva la Chiesa
per imprimere il suo segno sull’educazione religiosa giovanile. I gerarchi
fascisti la guardavano sempre con notevole sospetto poiché la ritenevano
un’istituzione concorrente che intralciava contro la loro ambizione di
assicurarsi il monopolio dell'educazione dei giovani. Le violenze squadristiche
contro alcune sedi dell’Azione Cattolica iniziarono nel 1921 e proseguirono nei
primi anni del ventennio. In seguito si attenuarono ma dallo scontro fisico si
passò a quello legale poiché le violenze furono sostituite dai decreti e le
leggi che avevano il fine di sciogliere i gruppi cattolici giovanili. Uno dei
primi provvedimenti che autorizzava lo scioglimento dell'Azione Cattolica fu il
regio decreto del 9/1/1927. Dopo la sua promulgazione nacque un duro scontro
con le autorità ecclesiastiche e il papa Pio XI con l'enciclica "Non
abbiamo bisogno" prese posizione contro il regime. Mussolini per non compromettere il buon esito dei Patti Lateranensi fu costretto a fare
marcia indietro e a ritirare il decreto. Nonostante questo tentativo
conciliante, i contrasti tra la Santa Sede e il Regime a causa dell’Azione
Cattolica non si attenuarono, ripresero tra il 1930 e il 1931 e, Mussolini
emanò un nuovo decreto di scioglimento dei circoli della gioventù e delle
federazioni universitarie cattoliche.
Negli anni
1938-1939 si riaccesero i contrasti tra la Chiesa e il regime a causa di nuove
restrizioni e limiti imposti alle associazioni cattoliche, il divieto ai
giovani di portare il distintivo di adesione alla Gioventù Italiana di Azione
cattolica e le leggi razziali. In particolare, quest’ultime furono osteggiate
da diversi chierici e credenti di molte località italiane poiché erano ritenute
contrarie alla Chiesa che invece predica l'uguaglianza di tutti gli uomini
davanti a Dio. A tal proposito il 28 luglio
1938, Pio XI disse: “Il genere umano non è che una sola e
universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali”.
A conclusione del presente paragrafo si fa presente che QQQQdurante l’arco del ventennio, le autorità del regime impedirono al movimento cattolico di svolgere qualsiasi attività politica. Di conseguenza esso si concentrò su iniziative culturali, educative e prettamente religiose: l’apostolato degli ordini religiosi e delle congregazioni, la struttura parrocchiale, delle associazioni giovanili ed altro.
L’Abruzzo e il fascismo
In
Abruzzo le prime sedi fasciste iniziarono ad essere fondate agli inizi del 1921
ma l’affermazione definitiva del movimento in regione avvenne negli anni
successivi. Alcune sue fasi furono: il congresso regionale del partito che si
organizzò a Pescara nel mese di agosto del 1922; una festa regionale
organizzata nel 1923 a Castellamare Adriatico; le elezioni provinciali e
politiche che si tennero in regione sino al 1924. Alcune squadre di fascisti
provenienti da diverse località abruzzesi parteciparono anche alla marcia di
Roma[1].
In Abruzzo il
fascismo assunse propri connotati e caratteristiche specifiche. A tal
proposito, Amodei ha fatto presente che “Il fascismo abruzzese si
caratterizzò per due fattori specifici. In primo luogo, per il rapporto
strettissimo con il notabilato locale, che intese il fascismo come uno
strumento di mantenimento dello status quo, delle proprie posizioni e dei propri
poteri. Lo stesso fascismo, d’altro canto, si servì delle reti locali
preesistenti l’avvento del fascismo nella regione come cinghia di trasmissione
tra potere centrale e humus locale. Nella città di Chieti, per esempio, il
notabilato aveva guidato il fascismo al potere e cogestì l’azione politica con
i rappresentanti fascisti: prima dello scioglimento del Consiglio Provinciale,
nel 1926, i liberali detenevano il governo della provincia mentre i fascisti
reggevano la città” [2]. Ad
ulteriore precisazione di questi connotati Amodei aggiunge altre importanti
osservazioni. Nella prima di esse ha fatto presente che il fascismo in Abruzzo
“conservò, nel piano locale e non solo, le normali distinzioni cetuali, gli
antagonismi personali e i tradizionali privilegi accordati agli elementi di
spicco del tessuto sociale microlocale”[3].
Nella sua seconda osservazione lo studioso ha affermato che “Nelle sue prime
fasi di affermazione, il fascismo abruzzese scelse di acquisire una precisa
identità: quella di forza patriottica, oppositrice di qualsiasi politica
internazionalista che mettesse in secondo piano, relativizzandoli, gli
interessi regionali e nazionali” [4].
In Abruzzo
durante le elezioni politiche del 1924, il fascismo ottenne un largo successo
elettorale con circa l’86% dei consensi a suo favore. L’anno dopo il prefetto
di Chieti al fine di giustificare l’ampio successo che il partito raggiunse in
Provincia scrisse: “Per naturale inclinazione e per innata tendenza queste
popolazioni sono propense a seguire il partito che comanda, che assicura ordine
e disciplina per potersi dedicare assiduamente al lavoro ed alle cure della
famiglia che qui ha salde radici. A ciò si aggiunga il profondo sentimento di
amor patrio e di devozione alla monarchia ed alle istituzioni che ci reggono. È
naturale quindi che il partito fascista che tali principi esalta, sostiene e
difende ad oltranza raccolga ovunque consensi”[5].
Dopo questi
momenti iniziali anche in Abruzzo il fascismo continuò la sua affermazione e
perseguì una politica completamente ispirata ed aderente alle finalità
nazionali.