Amelio Pezzetta: Vita sociale e religiosa in Abruzzo durante il fascismo.
Nel saggio in questione si riporta uno schema
riassuntivo delle principali vicende di vita sociale e religiosa che hanno
caratterizzato l’Abruzzo durante il ventennio fascista. Al fine di una piena e
consapevole comprensione delle vicende regionali si ritiene opportuno iniziare
la trattazione con alcuni paragrafi contenenti brevi richiami a fatti di
maggior rilevanza nazionale.
IL FASCISMO E LA
CHIESA.
L’inizio
ufficiale dell’era fascista in Italia risale al mese di ottobre del 1922,
quando dopo la marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III incaricò Benito
Mussolini di formare un nuovo governo. Il 3 gennaio 1925 con un famoso discorso
alla Camera, Mussolini annunciò la nascita dello Stato totalitario che durò
ininterrottamente sino al 1943.
I rapporti
iniziali del fascismo con il cattolicesimo e i suoi rappresentanti non furono
improntati alla reciproca collaborazione e rispetto. Infatti, inizialmente il
fascismo era anticlericale e con le sue violente attività squadristiche colpì
alcuni esponenti cattolici, le leghe bianche e nel 1925 anche l’Azione
Cattolica in Emilia. In seguito l’atteggiamento dei gerarchi del regime cambiò
e il suo capo usò strumentalmente la religione cattolica per rinforzare il
potere.
Al primo gabinetto
Mussolini collaborarono varie forze politiche tra cui il partito popolare che
ottenne quattro sottosegretari e due ministeri. Dopo che nel 10 luglio 1923 don
Luigi Sturzo lasciò la segreteria del partito popolare, alcuni suoi esponenti
entrarono in quello fascista. Durante le elezioni politiche del 1924 il
movimento conservatore dei cattolici nazionali affisse per le vie di Roma un
proprio manifesto in cui invitava gli elettori ad appoggiare il fascismo.
Un’altra
componente cattolica prese le distanze dal fascismo, gli dimostrò una netta
opposizione e ne patì le conseguenze con le violenze squadristiche e il
carcere.
Nel 1922 prima
della marcia su Roma sulla rivista “Civiltà cattolica” fu pubblicato un
articolo in cui si faceva presente che il fascismo ha caratteristiche di
violenza e supera il socialismo per le prepotenze, le uccisioni e le barbarie.
A loro volta diversi ordinari diocesani, durante i primi anni del regime
diffusero lettere pastorali in cui sottolineavano che il fascismo, per la sua
natura violenta era contrario ai principi cristiani e pertanto non poteva
godere l'appoggio della Chiesa.
Una parte della
Curia Pontificia anche dopo la marcia su Roma era convinta che il fascismo,
alla stessa stregua del liberalismo, della massoneria e del socialismo fosse
un’ideologia sviluppatasi a causa
dell’abbandono della religione e della secolarizzazione affermatisi nel
mondo moderno dopo la rivoluzione francese. Un’altra sua parte, invece riteneva
che potesse apportare un efficace contributo al processo di ricristianizzazione
della società che perseguiva il papa Pio
XI.
Durante il periodo
di dittatura ebbe una svolta politica nei riguardi della Chiesa che portò
all'abbandono di molte posizioni anticlericali assunte prima della presa del
potere. Infatti, Mussolini e le autorità del regime adottarono nei confronti
della gerarchia ecclesiastica e di tutto il mondo cattolico, un atteggiamento
conciliante e di disponibilità che contrastava con il laicismo dei governi
italiani precedenti e si tramutò in una serie di notevoli concessioni a favore
della Chiesa stessa. Tenendo conto di tutte le iniziative intraprese, si può
dire che l’avvento del fascismo fu caratterizzato dalla messa in atto una
politica che si può definire di “riconfessionalizzazione cattolica” dello Stato
che ebbe la sua massima espressione con la firma dei Patti Lateranensi avvenuta nel 1929.
Nel periodo
1923-1928 i rappresentanti del regime promulgarono varie leggi e decreti
riguardanti i rapporti con le gerarchie
ecclesiastiche che nel loro complesso produssero i seguenti effetti: 1) l’ordine
di ricollocare il crocifisso nelle aule giudiziarie, nelle caserme, nelle
scuole e in tutti gli altri uffici pubblici; 2) il ripristino tra l’elenco
delle feste civili di alcune importanti solennità religiose; 3) l’adozione e il
riconoscimento di vari benefici economici a favore del clero; 4) lo
stanziamento di una ingente cifra (tre milioni di lire dell’epoca) per il
restauro e la ricostruzione delle chiese danneggiate durante la prima guerra
mondiale; 4) l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole
di ogni ordine e grado; 5) il riconoscimento degli effetti civili del
matrimonio religioso e della relativa giurisdizione ecclesiastica; 6) la
reintroduzione dei cappellani militari nelle forze armate; 7) il salvataggio
del cattolico Banco di Roma.
Dopo queste
concessioni migliorarono i rapporti tra Stato e Chiesa, mentre la gerarchia
cattolica nel suo complesso si convinse che in Italia con l’avvento del
fascismo si erano create le condizioni necessarie per favorire il processo di
ricristianizzazione a cui ambiva il papa Pio XI. A tal proposito va rilevato
che le concezioni religiose del pontefice, per diversi aspetti si conciliavano
con le esigenze del regime poichè erano ispirate a una religiosità
caratterizzata dall'ubbidienza, l'umiltà, la rassegnazione e il rispetto per
l'ordine e la gerarchia.
Questo positivo
rapporto di collaborazione ebbe il suo importante culmine nella firma dei Patti
Lateranensi che avvenne l’11 febbraio del 1929 tra Benito Mussolini in
rappresentanza del governo italiano e il cardinale Gasparri che a sua volta
rappresentava la Santa Sede.
Con la stesura
del Concordato innanzitutto avvenne la riapertura formale dei buoni rapporti
bilaterali tra lo Stato Italiano e l’autorità pontificia. Inoltre dopo circa sessanta
anni rinasceva uno “Stato della Chiesa” indipendente e riconosciuto da quello
italiano che fu sottoposto all’esclusiva autorità della Santa Sede, fu chiamato
Città del Vaticano e comprendeva i Palazzi del Vaticano, il Laterano e la villa
papale di Castel Gandolfo. In questo modo fu chiusa la questione romana apertasi nel 1870 con
la presa di Roma. Il secondo importante aspetto dei Patti Lateranensi riguarda
il fatto che lo Stato Italiano cessava di essere laico e neutrale in campo
religioso e diventava confessionale poiché riconosceva il cattolicesimo come
religione di stato. Di conseguenza il suo insegnamento fu reso obbligatorio in
tutte le scuole di ogni ordine e grado. La Chiesa ottenne il riconoscimento del
libero esercizio del potere spirituale, del culto, della legislazione
ecclesiastica, della validità agli effetti civili del matrimonio religioso,
della libera comunicazione con tutto il mondo cattolico e della sua richiesta
d’impedire ai sacerdoti scomunicati di insegnare nelle scuole e nelle
università statali. L’ultimo aspetto riguarda una Convenzione finanziaria che impegnava lo Stato Italiano a versare alle
casse vaticane l’ingente cifra di 750 milioni di lire e una rendita perpetua, a
titolo d’indennizzo per la perdita di tutti i proventi che le autorità
pontificie ricavavano dallo Stato della Chiesa prima del 1860.
Le concessioni del regime alla Chiesa
continuarono anche dopo il Concordato. Infatti, il nuovo Codice Civile Rocco del 1930, con
gli articoli dal 402 al 406 riconobbe come reati perseguibili penalmente tutte
le offese fatte nei confronti della Chiesa Cattolica e il sentimento religioso
degli italiani.
L’universo
ecclesiastico dopo le concessioni fasciste ricambiò i favori con diversi
appoggi, riconoscimenti e valutazioni positive sulle personalità e gli operati
del regime. Infatti, dopo il Concordato, molti ordinari diocesani diffusero
lettere pastorali d’invito alla collaborazione con le autorità fasciste. A sua
volta il papa Pio XI definì Mussolini "L'Uomo della Provvidenza" poiché
a suo avviso ebbe il merito di riconoscere e riportare alla ribalta i veri ed
autentici valori nazionali quali erano quelli cristiano-cattolici. Inoltre
l'apparato ecclesiastico mise a disposizione del regime le proprie forze e
collaborò alla realizzazione di molte sue iniziative. Una prova tangibile di
questo rapporto collaborativo è rappresentata dalla figura dell'assistente
spirituale esercitata da un sacerdote che la gerarchia cattolica mise a
disposizione di tutte le organizzazioni fasciste che la prevedevano.
Anche i parroci
in questo periodo storico, per motivi vari collaborarono frequentemente con le
autorità del regime. Infatti, spesso erano invitati a partecipare alle loro
manifestazioni, a far suonare le campane in occasione di alcune solennità
civili fasciste e a benedire le bandiere, i gagliardetti e le sedi del partito.
Nel 1935 in molte diocesi nazionali fu organizzata la raccolta di metalli
preziosi per la patria. Inoltre in occasione della guerra d'Etiopia molti
ordinari e parroci appoggiarono l'impresa coloniale e dopo la sua conclusione
bandirono quasi una crociata per la civilizzazione e cristianizzazione della
popolazione abissina.
Mussolini e i
suoi gerarchi si servirono della Chiesa per l’appoggio ad altre loro iniziative
e campagne propagandistiche tra cui quella dello sviluppo demografico. In
questo caso tutti i giornali dell'epoca fiancheggiatori del regime per
invogliare le coppie italiane a una maggiore procreatività ricordavano spesso i
canoni e le leggi ecclesiastiche riguardanti la famiglia e il matrimonio e
altrettanto fecero diversi parroci durante le loro omelie domenicali.
Nonostante gli
episodi riportati, il rapporto di collaborazione tra lo Stato Fascista e la
Chiesa durante l’intero ventennio non fu sempre pienamente positivo e idilliaco
poiché, come ha rilevato Quazza, fu accompagnato da connotazioni ambivalenti,
momenti di tensione e diverse sfumature. Queste ambiguità e ambivalenze sono
molto evidenti quando si tiene conto che mentre da un lato le autorità del regime
formalmente rendevano omaggio e manifestavano rispetto alla Chiesa, dall’altro
s’impegnavano per sottrarle il controllo della gioventù e per l'eliminazione di
tutte le forze cattoliche che si opponevano ai loro progetti politici. In
quest'ambito si collocano tutte le iniziative delle autorità fasciste contro
l’Azione Cattolica che era il principale strumento di cui si serviva la Chiesa
per imprimere il suo segno sull’educazione religiosa giovanile. I gerarchi
fascisti la guardavano sempre con notevole sospetto poiché la ritenevano
un’istituzione concorrente che intralciava contro la loro ambizione di
assicurarsi il monopolio dell'educazione dei giovani. Le violenze squadristiche
contro alcune sedi dell’Azione Cattolica iniziarono nel 1921 e proseguirono nei
primi anni del ventennio. In seguito si attenuarono ma dallo scontro fisico si
passò a quello legale poiché le violenze furono sostituite dai decreti e le
leggi che avevano il fine di sciogliere i gruppi cattolici giovanili. Uno dei
primi provvedimenti che autorizzava lo scioglimento dell'Azione Cattolica fu il
regio decreto del 9/1/1927. Dopo la sua promulgazione nacque un duro scontro
con le autorità ecclesiastiche e il papa Pio XI con l'enciclica "Non
abbiamo bisogno" prese posizione contro il regime. Mussolini per non compromettere il buon esito dei Patti Lateranensi fu costretto a fare
marcia indietro e a ritirare il decreto. Nonostante questo tentativo
conciliante, i contrasti tra la Santa Sede e il Regime a causa dell’Azione
Cattolica non si attenuarono, ripresero tra il 1930 e il 1931 e, Mussolini
emanò un nuovo decreto di scioglimento dei circoli della gioventù e delle
federazioni universitarie cattoliche.
Negli anni
1938-1939 si riaccesero i contrasti tra la Chiesa e il regime a causa di nuove
restrizioni e limiti imposti alle associazioni cattoliche, il divieto ai
giovani di portare il distintivo di adesione alla Gioventù Italiana di Azione
cattolica e le leggi razziali. In particolare, quest’ultime furono osteggiate
da diversi chierici e credenti di molte località italiane poiché erano ritenute
contrarie alla Chiesa che invece predica l'uguaglianza di tutti gli uomini
davanti a Dio. A tal proposito il 28 luglio
1938, Pio XI disse: “Il genere umano non è che una sola e
universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali”.
A conclusione del presente paragrafo si fa presente che durante l’arco del ventennio, le autorità del regime impedirono al movimento cattolico di svolgere qualsiasi attività politica. Di conseguenza esso si concentrò su iniziative culturali, educative e prettamente religiose: l’apostolato degli ordini religiosi e delle congregazioni, la struttura parrocchiale, delle associazioni giovanili ed altro.
L’Abruzzo e il fascismo
In
Abruzzo le prime sedi fasciste iniziarono ad essere fondate agli inizi del 1921
ma l’affermazione definitiva del movimento in regione avvenne negli anni
successivi. Alcune sue fasi furono: il congresso regionale del partito che si
organizzò a Pescara nel mese di agosto del 1922; una festa regionale
organizzata nel 1923 a Castellamare Adriatico; le elezioni provinciali e
politiche che si tennero in regione sino al 1924. Alcune squadre di fascisti
provenienti da diverse località abruzzesi parteciparono anche alla marcia di
Roma[1].
In Abruzzo il
fascismo assunse propri connotati e caratteristiche specifiche. A tal
proposito, Amodei ha fatto presente che “Il fascismo abruzzese si
caratterizzò per due fattori specifici. In primo luogo, per il rapporto
strettissimo con il notabilato locale, che intese il fascismo come uno
strumento di mantenimento dello status quo, delle proprie posizioni e dei propri
poteri. Lo stesso fascismo, d’altro canto, si servì delle reti locali
preesistenti l’avvento del fascismo nella regione come cinghia di trasmissione
tra potere centrale e humus locale. Nella città di Chieti, per esempio, il
notabilato aveva guidato il fascismo al potere e cogestì l’azione politica con
i rappresentanti fascisti: prima dello scioglimento del Consiglio Provinciale,
nel 1926, i liberali detenevano il governo della provincia mentre i fascisti
reggevano la città” [2]. Ad
ulteriore precisazione di questi connotati Amodei aggiunge altre importanti
osservazioni. Nella prima di esse ha fatto presente che il fascismo in Abruzzo
“conservò, nel piano locale e non solo, le normali distinzioni cetuali, gli
antagonismi personali e i tradizionali privilegi accordati agli elementi di
spicco del tessuto sociale microlocale”[3].
Nella sua seconda osservazione lo studioso ha affermato che “Nelle sue prime
fasi di affermazione, il fascismo abruzzese scelse di acquisire una precisa
identità: quella di forza patriottica, oppositrice di qualsiasi politica
internazionalista che mettesse in secondo piano, relativizzandoli, gli
interessi regionali e nazionali” [4].
In Abruzzo
durante le elezioni politiche del 1924, il fascismo ottenne un largo successo
elettorale con circa l’86% dei consensi a suo favore. L’anno dopo il prefetto
di Chieti al fine di giustificare l’ampio successo che il partito raggiunse in
Provincia scrisse: “Per naturale inclinazione e per innata tendenza queste
popolazioni sono propense a seguire il partito che comanda, che assicura ordine
e disciplina per potersi dedicare assiduamente al lavoro ed alle cure della
famiglia che qui ha salde radici. A ciò si aggiunga il profondo sentimento di
amor patrio e di devozione alla monarchia ed alle istituzioni che ci reggono. È
naturale quindi che il partito fascista che tali principi esalta, sostiene e
difende ad oltranza raccolga ovunque consensi”[5].
Dopo questi
momenti iniziali anche in Abruzzo il fascismo continuò la sua affermazione e
perseguì una politica completamente ispirata ed aderente alle finalità
nazionali.
GLI ORDINARI DIOCESANI ABRUZZESI DURANTE IL VENTENNIO
FASCISTA
Nel periodo in
esame i Comuni che ora appartengono all’Abruzzo erano ripartiti in otto diocesi
di cui in questa sede si riporta la cronotassi dei loro presuli.
Arcidiocesi di
Chieti-Vasto:
Nicola Monterisi (15 dicembre 1919 - 5 ottobre 1929) e Giuseppe Venturi (1931 - 1947).
Arcidiocesi di
Lanciano-Ortona:
Nicola Piccirilli (25 aprile 1918 - 4 marzo 1939) e Pietro Tesauri (25
maggio 1939 - 25
agosto 1945 ).
Arcidiocesi de
L’Aquila:
Adolfo Turchi (17 luglio 1918 - 2
maggio 1929), Gaudenzio Manuelli (18 febbraio 1931 - 9
febbraio 1941) e Carlo
Confalonieri (27 marzo 1941 -
25 gennaio 1950).
Diocesi di
Avezzano o dei Marsi:
Pio Marcello Bagnoli (14 dicembre 1910 - 17 gennaio 1945).
Diocesi di
Sulmona-Valva: Nicola Jezzoni (6 dicembre 1906 -
18 luglio 1936) e Luciano Marcante (14
marzo 1937 - 29 gennaio 1972).
Diocesi di Penne
e Atri:
Carlo Pensa (27 agosto 1912 - 16 dicembre 1948).
Diocesi di
Teramo: Settimio Quadraroli (26 agosto 1921 - 4
agosto 1927) e Antonio
Micozzi (23 dicembre 1927 - 4 settembre 1944).
Diocesi di
Trivento.
Nell’epoca in esame appartenevano alla diocesi triventina i comuni abruzzesi di
Alfedena, Borrello, Castel di Sangro, Castelguidone, Castiglione Messer Marino,
Celenza sul Trigno, Roio del Sangro, Rosello, San Giovanni Lipioni, Schiavi di
Abruzzo e Torrebruna. I vescovi che la ressero furono: Geremia Pascucci (1922 -
1926), Attilio Adinolfi (1928 - 1931), Giovanni
Giorgis (1931 -1937) e Epimenio
Giannico
(1937 - 1957).
L’atteggiamento
che alcuni di questi presuli assunsero verso il fascismo e i rapporti che
ebbero con le autorità del regime saranno riportati nei paragrafi che seguono.
LA CHIESA E IL
FASCISMO IN ABRUZZO.
Innanzitutto è
da premettere che anche in Abruzzo il fascismo si presentò con un risvolto di
una religione civile che affiancava quella cattolica ed era fondata sul culto dello Stato totalitario, il carisma
di Mussolini e la dottrina di rigenerazione della stirpe latina[6]. A
dimostrazione di questa tesi concorre il seguente testo che fu pubblicato il 6 settembre 1923 sul
Risorgimento d’Abruzzo: “Il fascismo da noi sorvola sul partito, è religione,
profonda religione di razza, nei millenni passati era purezza di libertà, era
Roma Imperiale, ora è l’Italia che risorge e incede luminosa”[7]. Questa
particolare visione contrariamente alla laicità affermata dai liberali e
socialisti dell’epoca, riconosceva una certa importanza ai fatti religiosi e
con molta probabilità era accolta favorevolmente da una buona parte del clero
regionale. Infatti, dopo la marcia su Roma, secondo Trinchese, in Abruzzo
sarebbe avvenuta “una non meditata ma quasi simpatetica adesione di buona
parte del clero regionale al regime in una sorte d’indifferentismo politico da
parte ecclesiale” [8].
In linea di
massima si può ammettere che in Abruzzo: 1) prevalse una linea d’incontro tra le
autorità del regime e quelle ecclesiastiche; 2) l’atteggiamento e i rapporti
che i vari ordinari diocesani e gli ambienti curiali ebbero con le autorità
abruzzesi con il fascismo e i suoi gerarchi sostanzialmente furono improntati
alla collaborazione reciproca.
La
curia arcivescovile di Lanciano era considerata una roccaforte del fascismo
tanto che il segretario provinciale del fascio di Chieti Tommaso Bottari per
l’apporto dato al regime sin dal suo inizio, definì le gerarchie ecclesiastiche
frentane la faccia più aderente al regime dell’intero clero provinciale, mentre
un segretario di zona fece presente che l’arcivescovo Nicola Piccirilli era un “fervente
e palese fautore del Regime”[9].
A sua volta il presule frentano Pietro Tesauri, secondo Colapietra ammirava Mussolini, “Armonizzava
perfettamente Religione e Patria e non smentiva il suo antisocialismo
giovanile, mettendo in luce la propria impeccabile ortodossia”[10].
Anche il vescovo dei Marsi Pio Marcello
Bagnoli appoggiò pienamente il regime e per questo motivo Pitoni in un articolo
giornalistico lo ha definito un colluso con il fascismo[11].
A
Teramo il settimanale diocesano L’Araldo in un primo momento manifestò un
aperto antifascismo denunciando le violenze squadristiche
contro i cattolici teramani. In seguito corresse il tiro e fece propria la
politica di collaborazione con il regime che assunsero le gerarchie
ecclesiastiche della curia locale. Il vescovo
aprutino Settimio Quadraroli in
diverse occasioni inneggiò pubblicamente al fascismo e il locale prefetto lo
definì un “prelato devoto all’attuale ordine di cose e di spiccati
sentimenti patriottici”[12]. Il suo successore Antonio Micozzi
è considerato un esponente clerico-fascista che collaborò con le locali
autorità del regime e approvò con entusiasmo il progetto di
"romanizzazione" del centro storico teramano.
All’Aquila
nel 1932, il moderatismo adottato dall’arcivescovo Gaudenzio Manuelli
attenuò lo scontro sorto con il potestà a causa dell’Azione Cattolica. Il
presule ebbe anche buoni rapporti diretti con Benito Mussolini che
fornendo proprio denaro, contribuì alla costruzione della chiesa di
Cristo Re nel quartiere aquilano della Villa comunale. In seguito mons.
Manuelli in segno di ringraziamento donò al duce una copia della Madonna
del Popolo Aquilano.
L’arcivescovo
di Chieti Nicola Monterisi è l’unica voce del panorama cattolico abruzzese che
nel rispetto dei principi dell’ortodossia cristiana, mantenne una certa
autonomia e distacco dal fascismo che in alcuni casi rasentò anche
l’opposizione. Tuttavia negli anni, non mancarono gli episodi di collaborazione
con le autorità provinciali del regime.
Anche
il vescovo di Penne Carlo Pensa è considerato una personalità che non manifestò
piena adesione ed acquiescenza al regime fascista[13].
Mons. Giuseppe Venturi,
il successore di Monterisi, pur non allineandosi al fascismo, dimostrò maggiore
apertura verso il regime e riuscì anche a ottenere un’udienza con Mussolini, a cui chiese un contributo per
restaurare la cattedrale di San
Giustino.
A
sua volta il presule della diocesi di Sulmona-Valva, Mons. Luciano Marcante
ebbe un rapporto dialettico con le autorità civili dell’epoca[14].
La sua diocesi era ripartita in sessanta parrocchie, i sacerdoti sottoposti
all’autorità vescovile nel complesso ammontavano a 140 unità, mentre le suore
erano 110 [15].
Nel
1929, all’indomani dei Patti Lateranensi, la conciliazione raggiunta in ambito
nazionale ebbe riflessi positivi anche nei rapporti tra le gerarchie
ecclesiastiche e fasciste dell’Abruzzo. L’evento sul giornale “Il nuovo Abruzzo”
fu così commentato: “Il miracolo è compiuto! Miracolo voluto e attuato da un
uomo di ferma tenacia e da un uomo di fede incrollabile e ineffabile…Eterna e
immortale le Chiesa Cattolica Apostolica Romana accoglie nel proprio seno lo
Stato Fascista…”[16].
Anche
da parte delle gerarchie ecclesiastiche regionali non mancarono le voci di
approvazione. Tra esse, quelle del sacerdote vastese Don Vincenzo Canci che il
27 febbraio 1929 sulle pagine de “L’Abruzzo Giovanile” scrisse: “Il cuore
magnanimo di un Padre di popoli e l’alta sapienza di un sovrano cristiano,
l’ardimento illuminato di un Capo di Governo, Duce invitto delle nuove scelte
della Patria e la provata sapienza di un eminente Segretario di Stato, nelle
mani della Provvidenza, sono stati gli artefici dello storico evento”[17].
Tra
gli anni 1931 e 1932, i gerarchi del fascismo abruzzese attuarono una politica
di vigilanza sul comportamento del clero regionale che in Provincia di Chieti
si tradusse in numerose relazioni inviate dai segretari di zona a quelli
federali provinciali e da questi ultimi al prefetto[18].
In particolare il 24 dicembre 1932 il prefetto di Chieti inviò al segretario
federale della Provincia di Chieti Tommaso Bottari la seguente ordinanza: “Prego
la S.V. di volermi trasmettere alla fine di ogni mese, una breve relazione
sull’attività del clero in questa provincia. Dovrà essere particolarmente
indicato: 1) quale sia l’atteggiamento politico del vescovo o dei vescovi,
specificando eventualmente fatti concreti; 2) quali sacerdoti possano
giudicarsi ostili al Regime (specificando anche per essi fatti concreti); 3)
quale attività svolgono l’Azione Cattolica e i suoi organi”[19].
Tenendo conto di quest’ordinanza, il 28 dicembre 1932, il segretario provinciale
del fascio di Chieti inviò una lettera ai
dirigenti di zona invitandoli a raccogliere
tutte le informazioni richieste dal prefetto[20].
Dopo aver ricevuto le risposte, Bottari scrisse al prefetto facendo
presente che solo pochi sacerdoti erano antifascisti e “in linea generale il
clero della Provincia può considerarsi simpatizzante per il regime”[21].
Nonostante
le simpatie clericali per il fascismo, in diversi comuni abruzzesi sorsero
alcuni contrasti tra le autorità locali del regime e i parroci che generalmente
riguardarono i seguenti temi: la benedizione e il suono delle campane in
occasione di alcune ricorrenze tipiche del regime stesso; il rilascio di
rendite e dei residui dei comitati feste alle autorità e associazioni fasciste
e, infine le associazioni cattoliche che con le sue iniziative attraeva i
giovani e li allontanava dalle sedi fasciste e le attività del regime.
Nonostante
le restrizioni, i controlli e i sospetti delle autorità civili sulle
associazioni cattoliche soprattutto giovanili, nelle varie diocesi regionali le
iniziative per fondarle continuarono a manifestarsi. Un sacerdote molto attivo
in tal senso fu Don Nicola De Luca che: 1) nel 1930 fondò a Penne il gruppo
donne cattoliche e l’Unione parrocchiale uomini; 2) nel 1935 fondò a Città
Sant’Angelo la sezione studentesca dell’Azione Cattolica e nel 1937
l’associazione di studi religiosi Sant’Agnese[22].
Nell’arcidiocesi
teatina, nel 1930 per opera di vari sacerdoti furono fondate in sette parrocchie
diverse, altrettanti nuovi gruppi dei Fanciulli Cattolici. Essi si aggiunsero
alle seguenti associazioni già esistenti nel 1929: sette circoli degli Uomini
Cattolici, diciotto circoli della Gioventù Cattolica, quindici circoli
dell’Unione Femminile e ventiquattro circoli della Gioventù Cattolica [23].
Nel 1939 nella diocesi di Sulmona-Valva, erano presenti novantadue associazioni
laicali che nel loro complesso comprendevano 2456 membri effettivi, 1054
aspiranti tesserati e 2000 fanciulli di cui 196 di sesso femminile [24].
Tra le associazioni citate assumono una notevole importanza quelle femminili
poichè proponendo alle donne un impegno nell’apostolato favorirono il loro
protagonismo, l’autonomia, nuove forme aggregative e di socializzazione che
consentivano alle stesse di realizzarsi anche nella vita civile e non solo
nell’ambito famigliare come mogli e madri.
Altre
frizioni tra alcuni rappresentanti della chiesa abruzzese e il regime sorsero
nel 1938-39, a seguito della proclamazione delle leggi razziali che furono
pubblicamente criticate da alcuni ecclesiastici. Un sacerdote regionale che non
le condivise ed espose pubblicamente le sue idee fu l’arciprete di Montorio al Vomano,
don Fioravante d'Ascanio che sulle pagine del settimanale diocesano L'Araldo
Abruzzese affermò l'incompatibilità del cristianesimo con qualsiasi forma di
razzismo. Per questi motivi don Fioravante rischiò l’arresto che gli fu evitato
grazie all’intervento dell’arcivescovo Micozzi.
A questi episodi di contrasti fanno da contraltare i numerosi
casi di collaborazione ed appoggio delle autorità fasciste alle attività
promosse dalla gerarchia cattolica regionale.
Un’iniziativa
ecclesiastica che incontrò i favori del regime fu organizzata nel 1935 dalla
curia teatina che, per favorire
l'educazione religiosa dei giovani aderenti alle associazioni fasciste,
raccomandò ai parroci di stabilire adeguati accordi con le autorità comunali
dell'Opera Nazionale Balilla. Questa disposizione dell’autorità diocesana non è
indicativa di una completa acquiescenza al regime ma dell'esigenza della Chiesa
di portare il messaggio cristiano in tutte le situazioni che la realtà
contingente imponeva e anche di una nuova funzione che i parroci assunsero
durante il ventennio.
Nello
stesso anno le autorità del regime non si opposero all’organizzazione a Teramo
dal quattro all’otto settembre, dell'XI Congresso Eucaristico Nazionale
Italiano. Esso fu indetto dall'arcivescovo Antonio
Minozzi, ebbe come tema "L'Eucaristia e la Sacra
Scrittura" e vide la partecipazione del cardinale Pietro Fumasoni Biondi
come legato pontificio.
Ad avviso di Tosco il congresso teramano assunse
connotazioni nazionalistiche poiché fu caratterizzato da molti interventi che
identificarono il cattolicesimo con l’italianità[25]. Di
conseguenza esso da un lato fornì una risposta ecclesiale alle manifestazioni di
fede e dall’altro evidenziò alcune vedute che accomunavano il fascismo con la
gerarchia cattolica.
Nel 1935 si è
osservato che anche altre iniziative e manifestazioni tipiche del regime furono
appoggiate da vari presuli abruzzesi. Una di esse
vide la partecipazione del vescovo dei Marsi Pio Marcello Bagnoli che,
dopo aver reso omaggio ai caduti, benedisse i Labari delle Figlie della Lupa e
dei Giovani Fascisti. In quell’anno fu dichiarata anche la guerra all’Etiopia e
i volontari abruzzesi che vi parteciparono ricevettero la benedizione da
parroci e vescovi. In particolare, l’8 settembre 1935 l'arcivescovo di Chieti
mons. Giuseppe Venturi si recò di persona a benedire i volontari della
provincia che partirono in guerra e ordinò a ogni parroco di conservare gli
elenchi dei soldati partiti, mantenere con loro relazioni epistolari, inviare
la rivista "Voce Amica" o qualche libro e soprattutto contribuire a
sostenere il loro coraggio e spirito religioso.
Agli
inizi del secondo conflitto mondiale non mancarono le prese di posizione degli
ordinari diocesani regionali a favore del fascismo e della guerra. Infatti nel
1940 l’arcivescovo aquilano Mons. Gaudenzio
Manuelli si produsse in una ridondante benedizione pubblica di
Mussolini, mentre il presule marsicano Mons. Pio Marcello Bagnoli pronunciò
un’omelia affinchè “il Signore doni alla patria la gioia della vittoria”,
due iniziative che Fimiani ha definito di “crociata filofascista”[26].
Ad
avviso di D’Amore il presule marsicano mostrò
un certo zelo patriottico e in una lettera pastorale scrisse: “Alla vittoria
di questa nostra Italia, alla sua nuova era di potenza e di gloria, tutti
dobbiamo portare il nostro contributo di attività e di preghiera”[27]. A sua
volta il presule frentano Mons. Tesauri sostenne la scelta interventista al
fine di difendere la civiltà cristiana minacciata dal bolscevismo.
Durante
il periodo di occupazione tedesca dell’Abruzzo in genere i presuli si resero
protagonisti di diverse iniziative per tentare di alleviare le sorti avverse
alla popolazione delle loro diocesi. Il vescovo di Sulmona-Valva Luciano
Marcante, ad avviso di Fimiani pur moderando il fenomeno resistenziale, nascose
nel palazzo vescovile partigiani, sfollati ed ex prigionieri, allestì la mensa
dei poveri nel cortile della curia, intervenne presso il comando tedesco per
salvare Sulmona dall’evacuazione, protesse famiglie ebree e fece distribuire
rimanenze di cassa ai poveri[28].
L’arcivescovo Giuseppe
Venturi evitò la distruzione bellica di Chieti riuscendo a farla dichiarare "città aperta" che di conseguenza rinunciò alla difesa armata contro le forze
tedesche d’occupazione. Il presule aquilano Carlo
Confalonieri s’impegnò in un’opera di mediazione presso il comando
tedesco per salvare diversi prigionieri e presso la Santa Sede per ottenere dai
comandi alleati la possibilità di risparmiare L’Aquila dai bombardamenti.
A
Lanciano Mons. Tesauri dette rifugio a sacerdoti, donne e bambini nella
cappella del seminario, si recò nelle zone di guerra e bombardate per portare
soccorso e assistenza spirituale alle popolazioni colpite e mediò con il
comando tedesco di Castelfrentano per evitare il paese dalle rappresaglie e i
bombardamenti. A sua volta il vescovo di Trivento Epimenio
Giannico il 20 ottobre 1943 si
offrì come prigioniero ai tedeschi in cambio della liberazione di dieci giovani
catturati per rappresaglia.
LA RELIGIOSITA’
IN ABRUZZO DURANTE IL FASCISMO.
Al
fine di avere una soddisfacente visione della vita religiosa in Abruzzo nel
periodo in esame, si ritiene opportuno riportare e premettere alcuni ragguagli
generali sui temi più importanti riguardanti la religiosità di tutta l’Italia Centro-Meridionale. A tal proposito va innanzitutto fatto presente che durante il
ventennio fascista, in tutta la penisola e quindi anche nel suo settore centro-meridionale, la vita religiosa della gente comune fu oggetto di alcune
modifiche generate da un profondo intreccio che univa le esigenze popolari, le
finalità della chiesa e quelle del regime che per perseguire i propri fini
politici, con la sua intensa propaganda inventò nuove tradizioni, rivalorizzò
altre abbandonate e introdusse nuovi miti e modelli culturali nella società
italiana.
Le autorità
fasciste fecero un uso strumentale del folklore e della religione cattolica.
Nello stesso tempo cercarono di favorire la diffusione di una sorte di
religione civile che non si opponeva a quella cattolica, ne esaltava alcuni
suoi valori, richiedeva ubbidienza e fede, promuoveva il culto della patria e
prevedeva una propria ritualità con la diffusione di una morale guerresca, il
saluto romano, l’adozione di vari simboli materiali, riferimenti storici,
propri comandamenti (tra essi il celebre motto “credere, obbedire e
combattere”) e l'istituzione di un calendario di regime con tipiche
celebrazioni festive che contribuivano a diffondere ed enfatizzare vari aspetti
della filosofia fascista.
Come visto
alcune pubblicazioni ufficiali del regime degli anni Venti-Trenta diffondevano
l’idea che il fascismo fosse una religione civile. Tra esse c’era anche
l'Organo dei Fasci Giovanili che verso la fine degli anni 20 scrisse “Un
buon fascista è un religioso. Noi crediamo in una mistica fascista, perché è
una mistica che ha i suoi martiri, che ha i suoi devoti, che tiene ed umilia
tutto un popolo intorno a un'idea” [29]. Anche
la figura del duce fu mitizzata, caricata di religiosità e assimilata a quella
di un nume protettore che assicurava il successo della patria.
Durante il ventennio, il calendario
annuale prevedeva la celebrazione delle seguenti feste religiose: primo gennaio
Capodanno; 6 gennaio Epifania; 2 febbraio la presentazione di Gesù al tempio;
19 marzo San Giuseppe; la Pasqua; il Corpus Domini, l’Ascensione; 8 settembre
la Natività di Maria; 8 dicembre, L’Immacolata Concezione; 25 dicembre Natale. Il 4 ottobre
1926 fu dichiarato giorno di festa nazionale, poiché ricorreva il 7º centenario
della morte di San Francesco di Assisi. A queste feste che riguardavano tutto il
territorio nazionale, bisogna aggiungere quelle dei santi patroni e di altri
importanti santi locali che ovviamente cambiavano da località a località.
Inoltre all’epoca alcune ricorrenze religiose quali l’Epifania e l’Assunta
furono ricoperte di pregnanti significati civili. In particolare a partir dal 6
gennaio 1928 fu istituita la “Befana Fascista” e in quest’occasione ai bambini
delle famiglie bisognose si donavano vestiti, giocattoli e un po’ di cibo.
Inoltre negli stessi anni nel periodo ferragostano, quindi in coincidenza con
la festa dell’Assunta, le associazioni dopolavoristiche del regime iniziarono a
organizzare gite popolari ed escursioni con i cosiddetti Treni popolari di
Ferragosto a prezzi scontati e poiché non prevedevano il vitto nacque anche la
tradizione del pranzo al sacco.
Le feste
religiose precedentemente menzionate, durante il ventennio furono affiancate
dalle seguenti feste nazionali e civili introdotte in tempi diversi: il Natale
di Roma (21 aprile) istituito nel 1923; L’Anniversario della Marcia su Roma (28
ottobre) istituito nel 1930; la firma dei Patti lateranensi (11 febbraio) che
fu istituita il 15 ottobre 1930 dal Consiglio dei Ministri; la Proclamazione
dell'impero (9 maggio), istituita nel 1939. Ad esse si aggiungono le seguenti
ricorrenze che contribuivano ad alimentare i valori della cosiddetta
religiosità civile del regime ma che in alcuni casi non prevedevano
l’interruzione del lavoro quotidiano: l’anniversario della fondazione dei Fasci
di combattimento (23 marzo), l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi
(25 aprile), l’anniversario della dichiarazione di guerra dell'Italia del 1915
(24 maggio), l’anniversario della scoperta dell'America (12 ottobre), la Giornata della madre e del fanciullo (24 dicembre),
il sabato fascista, la festa degli alberi, la festa dell’uva e la festa
dell’Opera Nazionale Balilla. In particolare la
Giornata della madre e del fanciullo assecondava la politica di sviluppo
demografico che propagandava il regime e in Italia fu celebrata la prima volta il
24 dicembre 1933. Nell'occasione furono premiate le madri più prolifiche
d'Italia.
Le “Feste dell’Uva”, invece iniziarono a
essere organizzate dagli anni 30 al fine di favorire lo sviluppo vitivinicolo,
valorizzare le produzioni locali, soddisfare le richieste di divertimento
popolare e divulgare l’immagine di un partito di cultura rurale che esaltava i valori della società contadina.
All’enfatizzazione
della cultura rurale corrispose l’elaborazione dell’ideologia del ruralismo che
faceva propri i valori famigliari religiosi tradizionali, l’alta prolificità,
il rispetto dell’autorità, il ritorno a un modello di economia considerato
naturale e di socializzazione popolare del mondo contadino. Alla diffusione di quest’ideologia contribuirono i
filmati dell’epoca con le immagini del duce impegnato nei lavori agricoli,
alcune riviste e movimenti letterari tra cui Strapaese che si sviluppò attorno
al 1926 e si poneva come obiettivo la restaurazione di un’Italia contadina,
rispettosa della religione cattolica e amante della patria. Un sintetico motto
dell’ideologia ruralista del regime è “L’aratro traccia il solco, ma è la
spada che lo difende”.
Per
quanto riguarda la Chiesa è da far presente che condivideva diversi aspetti del
ruralismo fascista tra cui i valori della famiglia numerosa e della vita
contadina che riteneva sana e laboriosa.
Oltre a queste
condivisioni con il regime, durante il ventennio la Chiesa elaborò nuove
pratiche che contribuirono a rinnovare i modelli di vita religiosa dei propri
fedeli. Infatti, in quegli anni attraverso i sinodi, le lettere pastorali e
anche l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione che lentamente allargavano la
propria diffusione (la radio e la stampa cattolica quotidiana e periodica) la
gerarchia ecclesiastica diffuse nuove liturgie, modelli di santità, vita
religiosa e di partecipazione alla vita parrocchiale e alle feste.
Durante l’arco
del ventennio, i vescovi e parroci meridionali rivolsero una certa cura agli
aspetti religiosi degli emigrati. Infatti, i vescovi ricordavano ai parroci di
mantenere i contatti con gli emigrati della propria parrocchia e di provvedere
ai loro bisogni, in particolare a quelli spirituali. Spesso i parroci, in
continuità con i periodi storici precedenti, scrivevano le lettere tra i
parenti analfabeti, fornivano informazioni a chi richiedeva notizie sugli
emigranti che si volevano sposare, ricordavano a mogli, figlie e sorelle di
tenere un comportamento moralmente corretto in assenza dei loro uomini. Ai
lavoratori emigrati si rivolgevano anche le commissioni feste che per poterle
organizzare richiedevano loro i contributi in denaro.
Nell'immediato
dopoguerra e durante i primi anni del fascismo alcuni vescovi centro-meridionali
denunciarono un affievolimento del sentimento religioso ed un'immoralità
crescente soprattutto nelle campagne. A loro avviso la religiosità popolare
accentuava i caratteri di materialità ed esteriorità, le chiese erano poco
frequentate, specie dagli ex combattenti ed il precetto festivo non era
osservato. A tal proposito nel 1924 l’arcivescovo di Chieti Mons. Nicola
Monterisi, sulla base della sua esperienza pastorale in Puglia ed Abruzzo
scrisse: "Al principio nelle pratiche di culto entrava anche la
frequenza dei sacramenti ed almeno il precetto pasquale ma a poco a poco
l'influenza dell'incredulità moderna è andata svuotando il culto dal suo
contenuto sostanziale ed è restata la parte esterna ed il semplice formalismo
religioso, che è la gran piaga che oggi ci rode e ci minaccia la morte. Il
laico ignorante in religione, alieno dai sacramenti, spesso in vita irregolare,
non solo non rinuncia alla chiesa ed alle confraternite, ma avendo nel sangue
lo spirito regalista si vuole comandare e converte chiesa, confraternite e
commissioni religiose in agenzie di divertimento spingendo sino al fanatismo le
esteriorità e le antiche accidentalità del culto e profondendo somme ingenti in
spari, bande e luminarie"[30]. Nello
stesso periodo, Antonio Gramsci, quasi da contraltare a Mons. Monterisi,
partendo da presupposti e finalità completamente diverse, esprimeva la seguente
personale opinione sulla religiosità popolare: "l'Italia popolare è
ancora nelle condizioni create dalla Controriforma: la religione tutt'al più si
è combinata col folklore pagano ed è rimasta in questo stadio"[31].
A prima vista,
può sembrare strano che un comunista ateo professo qual’era Antonio Gramsci, in
fatto di religiosità popolare potesse avere alcune vedute molto simili a quelle
di un rigoroso esponente della gerarchia cattolica. Questa coincidenza è
spiegabile tenendo conto che Gramsci nei suoi progetti politici rivoluzionari
di costruzione di una nuova società attribuiva una notevole importanza alla
religione e ai parroci. Infatti, a suo avviso il parroco era la figura
intellettuale che con la sua attività educatrice poteva contribuire
all'emancipazione sociale della classe lavoratrice e quindi riteneva opportuno
che fosse adeguatamente preparato a svolgere questo ruolo.
Altri ragguagli
sulla religiosità dell'Italia centro-meridionale nell’epoca in esame, li fornisce
l'arcivescovo Nicola Monterisi che nel 1923 scrisse le seguenti annotazioni
sulle pratiche di culto: "Il culto si esagera fino a diventare esterno
e vuoto, ed in nome del culto, cioè di una processione, di una statua, di una
tradizione, si prende il pretesto di ribellarsi alla gerarchia"[32].
Le osservazioni
riportate di Mons. Monterisi sostanzialmente denunciavano una religiosità
caratterizzata da un accentuato formalismo e dalla valorizzazione degli aspetti
più esteriori del culto mentre a suo avviso erano trascurati gli aspetti
spirituali più profondamente cristiani. A questa situazione che era abbastanza
generalizzata, la gerarchia ecclesiastica cercò di porre rimedio promuovendo
attraverso le lettere pastorali, le associazioni cattoliche, le deliberazioni
sinodali ed i decreti conciliari nuove forme di vita religiosa e di devozione
popolare. In particolare gli iscritti all’Azione cattolica e ad altre
associazioni religiose impressero nuovi stimoli alla vita eucaristica, alla
partecipazione alla messa, all'osservanza del precetto festivo, al culto
mariano, alla diffusione della stampa cattolica, alla lotta contro la bestemmia,
ecc. La gerarchia cercò di diffondere nuovi modi di amministrare i sacramenti e
di regolare la celebrazione e partecipazione alle attività di culto. In linea
di massima durante gli anni Venti e Trenta la gerarchia cattolica cercò di: 1)
evitare una dilagante diffusione di immagini e oggetti di devozione ivi
compresa la presenza di eccessive statue nelle chiese e l'edificazione senza
restrizioni numeriche di cappelle ed altari religiosi; 2) richiamare
l'attenzione sull’amministrazione dei sacramenti, ricordando ai fedeli che essi
sono innanzitutto espressione di fede e non momenti per festeggiare ricorrenze
familiari o altri aspetti di vita privata; 3) far sempre presente che ogni
manifestazione di culto si doveva celebrare in modo semplice e decoroso.
In molte
località dell'Italia centro-meridionale s’invitarono i sacerdoti a non celebrare le
messe a piedi nudi e si regolamentarono le processioni in modo che durante il
loro svolgimento non si appendessero banconote alle statue dei santi, non si
suonassero musiche popolari, non si arrestassero per le vie cittadine al fine
di consentire l'esecuzione di fuochi d'artificio o per motivi non strettamente
religiosi. In questa linea di rigore vanno inserire tutte le lettere pastorali
e le disposizioni che i presuli inviarono ai parroci.
Molto spesso gli
ordinari diocesani, nel tentativo di fissare gli aspetti di una nuova
religiosità cattolica individuale e sociale manifestarono un forte richiamo a
valori tradizionali, censurando vari aspetti dei modelli culturali a loro
contemporanei e contrapponendo la tradizione alla modernità.
Nel 1931 il papa
Pio XI con la Costituzione "Deus Scientiarum Dominus"
riorganizzò gli studi superiori ecclesiastici il che portò ad un nuovo
programma di formazione religiosa da adottare nei seminari i cui effetti sui
sacerdoti e sull’attività pastorale si avvertirono alcuni anni dopo.
Una tipica
espressione di religiosità e di devozione nell'Italia centro-meridionale che durante
il ventennio fascista continuava a persistere era la festa. Nonostante tutte le
limitazioni che gli ordinari diocesani imposero sulle modalità di celebrazione,
la festa religiosa continuava a conservare i suoi duplici significati di
momento di penitenza e di trasgressione. In quanto fatto trasgressivo, per le
popolazioni centro-meridionali essa era un’occasione per dimenticare almeno per
qualche giorno le angustie, le costrizioni della vita quotidiana e la miseria e
povertà tipiche del mondo contadino. Infatti, durante la festa religiosa si
mangiava di più e meglio, si facevano maggiori spese in pubblici divertimenti,
si cantava, si ballava, si riaffermavano i vincoli d’amicizia e di parentela.
Anche se conteneva vari elementi di trasgressione umanamente
comprensibilissimi, la festa religiosa si organizzava sostanzialmente per celebrare
un santo e riconoscere pubblicamente la propria fede e devozione partecipando
alla messa ed alla processione. Di conseguenza associava ai momenti
trasgressivi quelli di preghiera e pubblica penitenza. Il suo principale piano
di riferimento era sempre quello religioso per cui la festa costituiva una
tipica espressione di fede popolare cristiana in cui gli aspetti più
tipicamente religiosi si mescolavano ai desideri, gli atteggiamenti e gli
interessi di un mondo che voleva esprimere la propria gioia di vivere e di
rivolta contro le difficoltà della vita quotidiana.
Il programma religioso delle feste durante l'era fascista non era molto dissimile da quello dei periodi precedenti e di conseguenza prevedeva oltre alla processione del santo per le vie comunali anche la celebrazione di messe. I programmi civili che di solito accompagnavano le feste religiose non sempre incontravano il parere favorevole della gerarchia ecclesiastica. Infatti, nel 1930 l'arcivescovo Nicola Monterisi scrisse: "Si è tornato al concetto dei romani i quali per onorare i loro dei celebravano i giochi Olimpici, Augustali, Scenici, Baccanali, ecc. Ciò risulta dai manifesti delle Commissioni delle Feste i quali, premesso un breve e gonfio cappello per ricordare che si vuole onorare il Santo Miracoloso e soddisfare alla infinita devozione del popolo, senza alcun cenno di vita interiore spirituale, espongono il loro programma materiale di giochi e rappresentazioni nelle quali le consuete intercalazioni di qualche funzione sacra ha strano sapore eterogeneo. Notoriamente le cosiddette feste patronali dappertutto sono diventate programma di commercio locale. Le opportunità commerciali ne determinano il giorno: l'interesse del gelatiere regola l'ora di sparare i fuochi artificiali e quelli della processione"[33].
All’epoca, molto
spesso al fine di aumentare la partecipazione popolare, la giornata di
celebrazione della festa di un santo si spostava in data diversa da quella
fissata dal calendario liturgico [34]. A tal
proposito, di solito si privilegiava il periodo estivo quando i lavoratori
emigrati facendo ritorno ai luoghi d’origine, potevano dimostrare
l’attaccamento alle loro tradizioni religiose e ai santi protettori. In diversi
casi le feste creavano motivi di scontro con i parroci e tra la popolazione.
Uno di essi si aveva quando si dovevano scegliere le strade che le processioni
dovevano percorrere.
Per quanto
riguarda l’Abruzzo va fatto presente che molti fatti e situazioni
precedentemente accennati hanno riscontro anche in questa regione e tra essi
l’intreccio nazionale sulla religiosità e le feste che si registrò assumendo
una propria originalità ed espressività che sarà messa in luce nel prosieguo
del presente saggio. Di conseguenza la religiosità popolare abruzzese
dell’epoca è il risultato finale dell'intreccio sintetico dell'opera di
evangelizzazione della Chiesa con tradizioni culturali e bisogni esistenziali
locali. È a causa di ciò che ogni comunità ha il proprio santo protettore, le
proprie leggende, i propri canti religiosi, i propri culti, le proprie feste e
via dicendo. Trinchese ha sottolineato che in Abruzzo durante il
ventennio fascista ci fu “un opaco coagulo di moralità contadina e
indottrinamento cattolico, tale da esprimersi in un conservatorismo di marca
prefascista, la cui dura scorza risulta di difficile penetrazione anche per
quelle novità in senso sociale comunque apportate dal fascismo”[35].
In questa
regione la Chiesa cattolica con la sua capillare organizzazione e rete di
parrocchie era profondamente radicata e presente in ogni centro abitato anche
se piccolo e sperduto. A tal proposito il Felice ha scritto: “In un
paese sperduto della montagna abruzzese può mancare il medico, il farmacista,
l'avvocato, ma il prete c'è sempre”[36] .
Il clero gestiva
e regolava lo stile di vita individuale e collettivo, sacralizzando i suoi
momenti più importanti e segnando quelli di lavoro, riposo, divertimento
popolare e festa. La popolazione abruzzese legava la religione ai propri
bisogni esistenziali e ai problemi della vita quotidiana e, in particolare
quella regionale che viveva d’agricoltura, anche alla bontà dei raccolti.
Spesso molte feste religiose si organizzavano all’inizio o alla fine del ciclo
agrario e tenendo conto di questo erano caratterizzate da rituali propiziatori
o di ringraziamento che molto spesso si ricollegavano o riattualizzavano
antichi rituali pagani mai completamente dimenticati.
La persistenza
di credenze d’origine pagana si manifestava non solo nei rituali agrari ma
anche nelle numerose superstizioni che caratterizzavano l’universo popolare
religioso abruzzese. A tal proposito in uno scritto riguardante la religiosità
nella diocesi di Lanciano dell’epoca in esame si fece presente quanto segue: “Religione e superstizione spesso si confondevano, le
pratiche magiche erano famigliari alla maggior parte della popolazione rurale,
l’ignoranza anche delle più importanti verità di fede si toccava con mano”[37].
Riguardo il
clero dell’epoca e la sua condotta non si può dire che disponesse sempre di
un’adeguata preparazione o fosse all’altezza dei compiti assegnati. A tal
proposito nel 1940 riguardo il clero della diocesi di Sulmona-Valva, il presule
Mons. Luciano Marcante scrisse: “Non è
infrequente il caso di trovare ministri del Dio della carità in lotta fra di
loro oppure che conservano odio, rancore a vicenda, che non si salutano;
sacerdoti che non si perdonano, che non si prestano mai volentieri a fare un
favore ad un confratello, che si lasciano dominare dall’invidia e dalla
gelosia….Certi sacerdoti invece esercitano il loro ministero non per la gloria
di Dio, ma quasi direi, per il denaro, per arricchire i propri parenti[38].
Le feste
religiose regionali, sempre molto numerose avevano l’appoggio delle comunità
locali e l’approvazione delle autorità civili. A dimostrarlo concorre una
lettera riguardante chiarimenti richiesti per sussidi a feste patronali
stanziate dal Comune di Chieti che il 5 giugno 1922 fu inviata dal prefetto di
Chieti al Ministero degli Interni. Il prefetto nella sua missiva fece presente
che le feste religiose concorrevano a realizzare benefici in ambito commerciale
e al pubblico decoro della città.
Nell’epoca in
esame le autorità ecclesiastiche regionali s’impegnarono in numerose iniziative
finalizzate a migliorare la vita religiosa della popolazione e la preparazione
del clero, come dimostrano i fatti che seguono.
Nel 1924 i
vescovi abruzzesi si riunirono a Chieti, dal 23 al 25 maggio per concordare
norme comuni di azione pastorale. All’incontro parteciparono i presuli Nicola
Piccirilli di Lanciano, Adolfo Turchi dell’Aquila, Nicola Monterisi di Chieti,
Pio Marcello Bagnoli dei Marsi, Carlo Pensa di Penne e Atri, Settimio
Quadraroli di Teramo, Geremia Pascucci di Trivento, Nicola Jezzoni di Valva e
Sulmona e i provinciali dei frati minori e cappuccini. Durante le sedute furono
affrontati e discussi vari temi: la predicazione, la catechesi,
l’organizzazione dei seminari, la disciplina del clero, le associazioni dei
fedeli, le pratiche di culto, l’amministrazione dei sacramenti, i beni
ecclesiastici, gli abusi da evitare durante le processioni, le cerimonie religiose in chiesa ed altro.
Nel 1926
l’arcivescovo Nicola Monterisi, al fine di rinnovare la vita religiosa convocò
un sinodo diocesano che a partire dal 1924 fu preceduto da lettere inviate ai
vicari foranei al fine di avere notizie sulla disciplina del clero e la vita
religiosa nelle parrocchie di loro competenza. Ad avviso di Liberatoscioli
dalla consultazione delle risposte fornite emerge che in generale nelle
parrocchie della diocesi: persisteva una religiosità condizionata da vecchie
tradizioni devozionistiche con credenze e usi magico-superstiziosi; una
mentalità formalistica e regalistica, segno della superficiale penetrazione del
cristianesimo nella visione del mondo e dell’uomo [39]. Alcune
pratiche che all’epoca accompagnavano le feste religiose, erano abbastanza
diffuse e si dovevano eliminare erano le seguenti: i balli e i canti profani in
chiesa, la scarsa osservanza dei digiuni quaresimali, la licitazione delle
statue, il trasporto di conche di grano e l’abitudine di appendere banconote
sulle statue dei santi durante le processioni. Il vicario foraneo di Pescara,
Don Giuseppe Verna, nella sua relazione di preparazione al sinodo diocesano
fece presente che la disciplina del clero era molto lontana da quella prevista
dal diritto canonico e l’influenza delle dottrine moderne aveva generato
persone ibride che non sono né buoni sacerdoti né buoni borghesi, rattristano e
non ispirano fiducia ma ripugnanza[40]. In
particolare egli scrisse: “Grande è l’ignoranza della religione; Le nostre
popolazioni si mantengono calme fino a che non vengono toccate nella loro
suscettibilità, nei loro capricci superstiziosi, nei loro interessi materiali.
Quali le cause? Non ultimo il prete, il quale di disciplina al popolo non
parla, non conoscendo la sua e molto meno praticandola[41]. Don
Giuseppe aggiunse che nella sua forania persistevano tradizioni pagane, i corsi
di catechismo erano disertati dai giovani, i battesimi si ritardavano, di
solito le estreme unzioni s’impartivano dopo i decessi e la stampa cattolica
era poco diffusa[42].
Dopo aver preso
atto della vita religiosa nella diocesi, dei problemi che presentava e di tutti
gli apporti ai temi oggetto di discussione, i partecipanti al sinodo discussero
ed approvarono vari decreti finali che dovevano essere seguiti e rispettati.
Alcune di essi sono i seguenti: 1) il sacerdote deve pregare tre volte al
giorno; 2) la domestica di un sacerdote non abbia meno di 40 anni; 3) è
proibito ai sacerdoti specialmente in cura di anime d'immischiarsi in partiti
politici, prendere parte a comizi, pranzi elettorali e pronunziarvi discorsi;
4) i parroci devono combattere la noncuranza dell'istruzione religiosa, la
scarsa educazione cristiana degli adolescenti, la violazione del riposo
festivo, la bestemmia, l'alcoolismo, il giuramento falso, la falsa
testimonianza, la frode, il concubinato, la moda invereconda, la stampa
lasciva, la coabitazione tra fidanzati prima del sacramento, lo spiritismo, la
superstizione, l'oblio della Santa Messa, il rifiuto dei sacramenti, la non
osservanza del digiuno ecclesiastico, ecc.; 5) i cappellani rurali oltre alla
spiegazione del Vangelo sono obbligati ad insegnare prima e dopo la messa la
dottrina cristiana ai fanciulli o con il consiglio del parroco farla insegnare
da persone idonee; 6) i parroci e i predicatori spieghino spesso ai fedeli la
vera natura della devozione ai Santi ed il vero modo di onorarli per non cadere
dall'ordine spirituale nell'umano e materiale; 7) curino i parroci di
introdurre l'uso che per essere ammessi all'ufficio di padrino, i fedeli
interessati presentino l'attestato personale di aver adempiuto nell'anno in
corso al precetto pasquale; 8) sono considerate profanazioni intollerabili in
chiesa le cosiddette frasche e canocchie, carri con polli e dolci, saltarelle,
convegni pubblici con regali reciproci tra fidanzati o fidanzandi nella notte
di Natale e nella festa di San Giovanni Battista, le licitazioni di statue per
le processioni ed altri abusi simili; 9) si esortino i fedeli ad osservare il
digiuno delle quattro tempore secondo lo Spirito della chiesa, che è quello di
ottenere santi sacerdoti; 10) si promuovano le pratiche del primo venerdì del
mese in onore del Sacro Cuore di Gesù, del mese mariano, del mese dedicato a
San Giuseppe, della via Crucis almeno nelle domeniche di quaresima, le
preghiere per la definizione dommatica dell'Assunzione e della Mediazione
Universale della Beata Vergine Maria; 11) i principali abusi, deviazioni e
corruzioni di culto sono: a) trascurare, intralciare o sopprimere l'istruzione
religiosa per l’esuberanza di funzioni; b) trascurare Gesù in Sacramento per i
Santi; c) assegnare esclusiva importanza ai santi ritenuti patroni contro
disgrazie e temporali poiché ciò è religione utilitaria; d) celebrare feste
sfarzose, dispendiosissime che di religioso hanno quasi solo il titolo del
programma poiché è vuoto formalismo religioso; e) aggiungere alle feste
spettacoli di senso pagano come le maggiolate, i concorsi di bellezza e le
cinematografie scorrette all'aperto poiché ciò è profanazione indegna; f) il
gran numero di statue e di quadri spesso grossolani, non di rado del medesimo
santo, o del medesimo mistero sul medesimo altare, o accanto ad esso; g) fare
della drammatica con le statue in chiesa, specialmente nel Venerdì Santo, fare
apparire croci luminose, ecc.; h) far suonare la banda in chiesa; i) l'uso
prolungato e materiale e quindi superstizioso di campane durante i temporali,
di sacramentali e scongiuri per cause lievissime o inesistenti; l) l'uso di
amuleti superstiziosi e il loro commercio in chiesa; m) esporre la fotografia
del defunto durante il funerale; 12) si curi la devota assistenza dei fedeli ai
riti sacri; sono profanazioni intollerabili la moda femminile indecente,
sedersi con una gamba a cavalcioni, restare seduti in chiesa durante i momenti
più solenni della consacrazione o benedizione, il convegno del mondo profano
specialmente nelle ultime messe festive; 13) i principali abusi o deformazioni
che si commettono nelle processioni sono i seguenti: a) la loro imposizione e
direzione dai laici e non dall'autorità ecclesiastica; b) l’itinerario lungo,
le fermate arbitrarie e i rinfreschi lungo il percorso con abuso di bevande
alcoliche; c) i cortei religiosi non di preghiera ma coreografici con continui
ed assordanti rumori di bande e spari; d) il grande impegno nel raccogliere
offerte con le quali la commissione laica senza darne conto all'Autorità
ecclesiastica copre le spese dei pubblici divertimenti onde si ha l'industria
delle processioni; e) la troppa frequenza delle processioni senza ragione
canonica, ordine e dignità di corteo; f) inserire molte statue nelle
processioni, farne la licitazione a denaro e affidarle a donne, cristiani non
praticanti, bestemmiatori e persone che non osservano le leggi della morale cristiana;
g) affiggere alle statue biglietti di banca; h) fare della drammatica poco
dignitosa con le varie statue; i) fare della cosiddetta torcia un oggetto sacro
da portare col Santo in processione e licitarla continuamente lungo il percorso
al migliore offerente; 14) introducano i sacerdoti lungo il percorso delle
processioni la recita del Rosario, i canti liturgici e popolari, mentre la
banda deve suonare musiche solo per accompagnare tali canti; 15) siano tenuti i
sacerdoti a celebrare il matrimonio al mattino con la Santa Messa e la Santa
Comunione degli Sposi; 16) è proibito a tutti i sacerdoti e religiosi di dare
lezioni private a persone di altro sesso, sotto qualsiasi pretesto e per
qualsiasi motivo; 17) è obbligo dei parroci di spiegare durante tutte le
domeniche e le feste la consueta omelia, specialmente durante la messa più
frequentata; 18) si operi affinchè in tutte le parrocchie vi sia nei suoi
quadri l'Azione Cattolica; 19) la musica in chiesa dovrà essere sacra e rispondente alle norme dei Sommi Pontefici Pio IX e Pio XI; 20) mentre
si raccomanda il canto liturgico popolare, si ricordi che non è permesso a
gruppi di sole donne, anche se appartenenti all'Azione Cattolica, di cantare in
pubblica chiesa[43].
Durante il
sinodo si deliberò anche che ogni parroco si doveva occupare degli emigranti
dirigendoli agli istituti religiosi d'assistenza dei luoghi di arrivo e
fornendo loro gratis una tessera ecclesiastica al fine di essere riconosciuti
dalle autorità religiose. La tessera suddetta doveva riportare: 1) il nome, il
luogo di nascita e lo stato civile del lavoratore; 2) dove e quando aveva
ricevuto il battesimo; 3) la firma e il timbro del parroco[44].
I decreti
sinodali sopra riportati dimostrano che una delle finalità che la curia
diocesana voleva perseguire era la completa eliminazione dalle pratiche di
culto di tutti i residui di religiosità naturale, pagana e non tipicamente
cristiani che all’epoca continuavano a persistere. Alla luce dell'esperienza
futura si può affermare che in questo senso non tutti gli sforzi furono
coronati da successo, specie per le disposizioni che riguardavano la
celebrazione e l’organizzazione delle processioni e delle feste religiose.
Dopo la
divulgazione dei decreti sinodali, numerosi parroci e vicari foranei
comunicarono alla curia che s’impegnarono a renderle esecutive ottenendo anche
dei successi.
La curia teatina
per perseguire alcune finalità prescritte nei decreti sinodali coinvolse anche
le autorità civili tra cui il prefetto di Chieti che accolse l’invito
dell’episcopato ad adoperarsi per limitare certi abusi durante le processioni.
Di conseguenza il 5 marzo 1927 diffuse una circolare sulle feste religiose in
cui invitava a collaborare con le autorità ecclesiastiche per convincere i
promotori delle feste ad evitare sperperi di denaro e tutte le iniziative che
non si conciliassero con il carattere religioso delle ricorrenze sacre [45].
Tuttavia
la richiesta di collaborazione il tentativo di rendere esecutivi i decreti
sinodali non fu completamente appoggiato da tutte le autorità civili, causò
anche alcuni malumori e disapprovazioni che in un caso sfociarono in una
richiesta di trasferimento di un parroco rivolta da un potestà alla curia
diocesana.
Anche
l’arcivescovo Nicola Monterisi nel 1928 fece presente che sorsero dei dissidi
tra i fedeli e un parroco della diocesi. Infatti, in una nota egli scrisse: “Da
un importante paese della parrocchia ci si scrive che, essendo venuta la
grandine dopo l’Ascensione, il popolo l’attribuisce al parroco per non aver
fatto la processione, com’era solito, con le statue dei santi. è noto si tratta di statue di Madonne
vestite con fogge più disparate, anche goffe, una decina di S. Antoni e di
altrettanti S. Franceschi e mezzo paradiso moltiplicato. Tanta ignoranza,
fanatismo e superstizione nel popolo non fa onore al clero. Perché quel parroco
non comincia subito la pubblicazione di un Bollettino parrocchiale, nel quale
combatta anche col ridicolo, tali sciocchezze? E che siano tali non si deve
permettere che il popolo lo sappia dal ministro protestante o dal maestro
incredulo o dal compagno sotto le armi o dal reduce americano. Lo deve sapere
dal suo padre in Cristo, che è il parroco. Così si difende e incrementa la vera
fede”[46].
Un’altra
iniziativa che le autorità ecclesiastiche abruzzesi promossero al fine di
rinnovare la religiosità nell’intera Regione, fu
il III Congresso Eucaristico Regionale che si tenne a Chieti dal 4 al 8
settembre 1929. Esso registrò un’ampia partecipazione popolare e nel giorno
della sua chiusura si osservò la presenza di circa 40000 persone[47].
Agli
stessi fini, nel 1932, per l’iniziativa del presule peligno Nicola Jezzoni fu
organizzato a Sulmona il IV Congresso Eucaristico Regionale.
Il 23 settembre, sua giornata finale, vide un’imponente processione con le
autorità civili, quelle religiose poste sotto un baldacchino, i rappresentanti
delle associazioni cattoliche, donne vestite con abiti tradizionali ed altro.
Il tentativo di
rinnovamento della vita religiosa che fu messo in atto investì anche le
parrocchie che ad avviso di Monterisi dovevano modificare alcuni suoi attributi
e diventare il luogo di promozione e sviluppo di un laicato con una religiosità
convinta e scevra da credenze superstiziose, un centro irradiatore di vita
religiosa e non un ufficio burocratico che risolveva le pratiche sacramentali[48].
Durante gli anni '30 la curia arcivescovile teatina impartì numerose disposizioni ai parroci al fine di promuovere nuove forme di devozione e culto e tentare di eliminare antichi cerimoniali e tradizioni non prettamente cristiani. A tal proposito nel 1933 fu chiesto ai parroci di non far suonare le campane della chiesa per atti civili, furono fornite accurate disposizioni per evitare i matrimoni "post-fugam", fu raccomandato di tenere le lezioni di catechismo ai fanciulli nel corso di più giorni della settimana e di non omettere mai di celebrare le funzioni religiose vespertine durante la domenica e le altre giornate festive. Inoltre il 25 marzo dello stesso anno l'arcivescovo Venturi, al fine di iniziare santamente l'anno giubilare della Redenzione, dispose che dal pomeriggio del 6 aprile si partecipasse a un'ora di pubblica adorazione per ricordare ai fedeli le sofferenze patite dal Divin Redentore nell'Orto degli Olivi.
Nel
1941 anche il presule frentano Mons. Tesauri convocò un sinodo nella sua
diocesi al fine di rinnovare la vita religiosa. Durante i lavori sinodali si
deliberò di indire la festa dei soldati partenti per la leva obbligatoria e la
guerra e si suggerì ai parroci di indirizzare questi giovani che per la prima
volta lasciavano la loro terra, verso le sedi dell’Azione Cattolica delle
località d’accoglienza al fine di non farli sentire completamente spaesati.
Ad operare
alcune modifiche della vita religiosa popolare concorse anche il regime
fascista con la sua particolare filosofia e le sue scelte politiche. Nell’epoca
in esame anche in Abruzzo s’impose il cosiddetto ruralismo fascista che con le
sue manifestazioni ebbe notevoli riflessi sulla vita sociale e religiosa dei
centri abruzzesi. Al fine di perseguire con più efficacia gli obiettivi che il
ruralismo si prefissava le autorità del regime chiesero l’appoggio del clero abruzzese
che nel suo complesso non lo negò poiché trovava corrispondenti alle sue
finalità la morale fascista della famiglia fondata sull’autorità maschile e
l’alta prolificità femminile. Alcune manifestazioni tipiche del ruralismo
fascista in Abruzzo furono le seguenti: 1) la festa del fiore che fu
organizzata a Teramo nel 1929; 2) le numerose feste degli alberi, dell’uva e
del grano che si organizzarono nei vari centri regionali; 3) la festa delle
massaie rurali, una delle quali fu organizzata a Lanciano nel 1938; 4) il festival delle Maggiolate di Ortona in cui si
presentarono nuove canzoni dialettali.
Generalmente
il programma festivo di queste manifestazioni prevedeva: esibizioni di
musicali di orchestrine, bande e/o gruppi folkloristici regionali, sfilate di
carri allegorici, balli popolari, gare comico-sportive (corse con i sacchi,
tiro alla fune ed altro), mostre con premiazioni, lotterie, degustazioni di
pietanze locali, alberi della cuccagna ed altro.
L’ultimo fattore dell’intreccio che modificò
la religiosità popolare del periodo in esame è costituito dai lavoratori
emigrati che durante la permanenza nei luoghi di lavoro venivano a contatto con
altre realtà culturali e religiose. Per questi motivi, spesso il loro ritorno
nei luoghi d’origine era visto con una certa diffidenza e molti parroci erano
convinti che a causa loro aumentava l’irreligiosità. Essi, tuttavia non sempre
accoglievano i modelli religiosi dei luoghi di lavoro, tendevano a conservare
quelli delle località d’origine e nel loro complesso erano portatori di una
religiosità con i seguenti tratti caratteristici: 1) la strumentalità
finalizzata a chiedere a Dio e i santi assistenza e grazie per la salute o il
benessere materiale; 2) il sentimentalismo basato sul rispetto della famiglia,
delle tradizioni e delle feste patronali. Spesso capitava che con la forte
influenza esercitata dai contributi in denaro e altri motivi, gli emigranti
imponevano i loro culti e riuscivano a ottenere modifiche ai calendari festivi
locali in modo da far coincidere alcune importanti celebrazioni con i loro
momenti di ferie e di ritorno in paese.
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[1]
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[2]
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devota: Pescara e il fascismo, pag. 4.
[3]
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devota: Pescara e il fascismo, pag. 6.
[4]
Amodei
G., La periferia
devota: Pescara e il fascismo, pag. 10.
[5]
Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pagg. 86-87.
[6] Si veda Gentile E., Il culto del littorio. La
sacralizzazione della politica nell’Italia fascista.
[7] Canosa R., Storia
dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pag. 69.
[8]Trinchese S.,
Società civile e società religiosa dall’unità ai nostri giorni, pag.
446.
[9]
Fimiani
E., Il fascismo
in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo
sociale nell’Abruzzo chietino, pag. 394.
[10] COLAPIETRA R., Il vescovo
Tesauri ad Isernia e a Lanciano: un impatto tra due mondi, pag. 85.
[11]
Pitoni
G.B., Il duomo,
emblema di rinascita dopo il sisma.
[12]
Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pag. 88.
[13]
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[14]
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gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e
dopoguerra (1937-1947),
pag. 168.
[15]
Fimiani
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gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e
dopoguerra (1937-1947),
pag. 169.
[16]
Paziente F., La provincia di Chieti da Giolitti a
Mussolini (1915-1929). Società, Stato e Chiesa tra rinnovamento
e restaurazione, pag. 278.
[17]
Paziente F., La provincia di Chieti da Giolitti a
Mussolini (1915-1929). Società, Stato e Chiesa tra rinnovamento
e restaurazione, pag. 278
[18]
Fimiani
E., Il fascismo
in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo
sociale nell’Abruzzo chietino, pag. 392.
[19]
Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pag. 151.
[20]
Fimiani
E., Il fascismo
in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo
sociale nell’Abruzzo chietino, pagg. 392-393.
[21]
Fimiani
E., Il fascismo
in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo
sociale nell’Abruzzo chietino, pag. 393.
[22]
Trinchese
S., La fondazione
della diocesi di Penne-Pescara, pag. 594.
[23]
Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo
di Chieti-Vasto (1920-1929), pagg. 140-141.
[24]
Fimiani
E., Clero e
gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e
dopoguerra (1937-1947),
pag. 169.
[25] TOSCO G., Al crocevia fra
Chiesa, Fascismo e colonialismo: il congresso eucaristico di Tripoli (1937),
pag. 288.
[26]
Fimiani
E., Clero e
gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e
dopoguerra (1937-1947),
pag. 176.
[27] D’AMORE F., L’inizio
della guerra, la miseria nella Marsica e l’inasprirsi
della sorveglianza della polizia (maggio-giugno 1940).
[28]
Fimiani
E., Clero e
gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e
dopoguerra (1937-1947),
pag. 194.
[29]
Gentile
E., Fascismo
storia ed interpretazioni, pagg. 217-218.
[30]
De
Rosa G., Vescovi,
popoli e magia nel sud, pagg. 231-232.
[31]
De
Rosa G., Vescovi,
popoli e magia nel sud, pag. 211.
[32]
Monterisi
N., Trent'anni
di episcopato nel Mezzogiorno (1913,1944), pag. 176
[33] Monterisi N., Trent'anni di episcopato nel
Mezzogiorno (1913,1944), pag. 185.
[34] Questa consuetudine tuttora
continua a persistere in diverse località.
[35]
Trinchese
S., Società
civile e società religiosa dall’unità ai nostri giorni, pag. 446.
[36]
Felice
C., La Chiesa
abruzzese dalla caduta di Mussolini alla Repubblica, pag. 8.
[37]
Mons. Pietro Tesauri
vescovo, pag. 25.
[38]
Fimiani
E., Clero e
gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e
dopoguerra (1937-1947),
pag. 172.
[39] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo
di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 310.
[40]
Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo
di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 232.
[41] Trinchese S., La fondazione della diocesi di Penne-Pescara,
pag. 592.
[42]
Trinchese
S., La fondazione
della diocesi di Penne-Pescara, pag. 593.
[43]
Monterisi
N., Sinodo diocesano teatino: primo dopo la pubblicazione del
codice, celebrato nei giorni 22, 23 e 24 luglio 1926 nella metropolitana di
Chieti da mons. N. M. per le Diocesi di Chieti e Vasto.
[44]
Qualche anno dopo anche il presule frentano Mons. Tesauri prestò
attenzione anche agli emigranti, fornendo loro la tessera ecclesiastica.
[46]
Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo
di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 99.
[47]
Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo
di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 300.
[48]
Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo
di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 313.
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