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5 gennaio 2024

Amelio Pezzetta: Vita sociale e religiosa in Abruzzo durante il fascismo.

Amelio Pezzetta: Vita sociale e religiosa in Abruzzo durante il fascismo.

     INTRODUZIONE

 Nel saggio in questione si riporta uno schema riassuntivo delle principali vicende di vita sociale e religiosa che hanno caratterizzato l’Abruzzo durante il ventennio fascista. Al fine di una piena e consapevole comprensione delle vicende regionali si ritiene opportuno iniziare la trattazione con alcuni paragrafi contenenti brevi richiami a fatti di maggior rilevanza nazionale.

  

IL FASCISMO E LA CHIESA.

L’inizio ufficiale dell’era fascista in Italia risale al mese di ottobre del 1922, quando dopo la marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III incaricò Benito Mussolini di formare un nuovo governo. Il 3 gennaio 1925 con un famoso discorso alla Camera, Mussolini annunciò la nascita dello Stato totalitario che durò ininterrottamente sino al 1943.

I rapporti iniziali del fascismo con il cattolicesimo e i suoi rappresentanti non furono improntati alla reciproca collaborazione e rispetto. Infatti, inizialmente il fascismo era anticlericale e con le sue violente attività squadristiche colpì alcuni esponenti cattolici, le leghe bianche e nel 1925 anche l’Azione Cattolica in Emilia. In seguito l’atteggiamento dei gerarchi del regime cambiò e il suo capo usò strumentalmente la religione cattolica per rinforzare il potere.

Al primo gabinetto Mussolini collaborarono varie forze politiche tra cui il partito popolare che ottenne quattro sottosegretari e due ministeri. Dopo che nel 10 luglio 1923 don Luigi Sturzo lasciò la segreteria del partito popolare, alcuni suoi esponenti entrarono in quello fascista. Durante le elezioni politiche del 1924 il movimento conservatore dei cattolici nazionali affisse per le vie di Roma un proprio manifesto in cui invitava gli elettori ad appoggiare il fascismo.

Un’altra componente cattolica prese le distanze dal fascismo, gli dimostrò una netta opposizione e ne patì le conseguenze con le violenze squadristiche e il carcere.

Nel 1922 prima della marcia su Roma sulla rivista “Civiltà cattolica” fu pubblicato un articolo in cui si faceva presente che il fascismo ha caratteristiche di violenza e supera il socialismo per le prepotenze, le uccisioni e le barbarie. A loro volta diversi ordinari diocesani, durante i primi anni del regime diffusero lettere pastorali in cui sottolineavano che il fascismo, per la sua natura violenta era contrario ai principi cristiani e pertanto non poteva godere l'appoggio della Chiesa.

Una parte della Curia Pontificia anche dopo la marcia su Roma era convinta che il fascismo, alla stessa stregua del liberalismo, della massoneria e del socialismo fosse un’ideologia sviluppatasi a causa  dell’abbandono della religione e della secolarizzazione affermatisi nel mondo moderno dopo la rivoluzione francese. Un’altra sua parte, invece riteneva che potesse apportare un efficace contributo al processo di ricristianizzazione della società che perseguiva il papa Pio XI.

Durante il periodo di dittatura ebbe una svolta politica nei riguardi della Chiesa che portò all'abbandono di molte posizioni anticlericali assunte prima della presa del potere. Infatti, Mussolini e le autorità del regime adottarono nei confronti della gerarchia ecclesiastica e di tutto il mondo cattolico, un atteggiamento conciliante e di disponibilità che contrastava con il laicismo dei governi italiani precedenti e si tramutò in una serie di notevoli concessioni a favore della Chiesa stessa. Tenendo conto di tutte le iniziative intraprese, si può dire che l’avvento del fascismo fu caratterizzato dalla messa in atto una politica che si può definire di “riconfessionalizzazione cattolica” dello Stato che ebbe la sua massima espressione con la firma dei Patti Lateranensi avvenuta nel 1929.



Nel periodo 1923-1928 i rappresentanti del regime promulgarono varie leggi e decreti riguardanti i  rapporti con le gerarchie ecclesiastiche che nel loro complesso produssero i seguenti effetti: 1) l’ordine di ricollocare il crocifisso nelle aule giudiziarie, nelle caserme, nelle scuole e in tutti gli altri uffici pubblici; 2) il ripristino tra l’elenco delle feste civili di alcune importanti solennità religiose; 3) l’adozione e il riconoscimento di vari benefici economici a favore del clero; 4) lo stanziamento di una ingente cifra (tre milioni di lire dell’epoca) per il restauro e la ricostruzione delle chiese danneggiate durante la prima guerra mondiale; 4) l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole di ogni ordine e grado; 5) il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso e della relativa giurisdizione ecclesiastica; 6) la reintroduzione dei cappellani militari nelle forze armate; 7) il salvataggio del cattolico Banco di Roma.

Dopo queste concessioni migliorarono i rapporti tra Stato e Chiesa, mentre la gerarchia cattolica nel suo complesso si convinse che in Italia con l’avvento del fascismo si erano create le condizioni necessarie per favorire il processo di ricristianizzazione a cui ambiva il papa Pio XI. A tal proposito va rilevato che le concezioni religiose del pontefice, per diversi aspetti si conciliavano con le esigenze del regime poichè erano ispirate a una religiosità caratterizzata dall'ubbidienza, l'umiltà, la rassegnazione e il rispetto per l'ordine e la gerarchia.

Questo positivo rapporto di collaborazione ebbe il suo importante culmine nella firma dei Patti Lateranensi che avvenne l’11 febbraio del 1929 tra Benito Mussolini in rappresentanza del governo italiano e il cardinale Gasparri che a sua volta rappresentava la Santa Sede.

Con la stesura del Concordato innanzitutto avvenne la riapertura formale dei buoni rapporti bilaterali tra lo Stato Italiano e l’autorità pontificia. Inoltre dopo circa sessanta anni rinasceva uno “Stato della Chiesa” indipendente e riconosciuto da quello italiano che fu sottoposto all’esclusiva autorità della Santa Sede, fu chiamato Città del Vaticano e comprendeva i Palazzi del Vaticano, il Laterano e la villa papale di Castel Gandolfo. In questo modo fu chiusa la questione romana apertasi nel 1870 con la presa di Roma. Il secondo importante aspetto dei Patti Lateranensi riguarda il fatto che lo Stato Italiano cessava di essere laico e neutrale in campo religioso e diventava confessionale poiché riconosceva il cattolicesimo come religione di stato. Di conseguenza il suo insegnamento fu reso obbligatorio in tutte le scuole di ogni ordine e grado. La Chiesa ottenne il riconoscimento del libero esercizio del potere spirituale, del culto, della legislazione ecclesiastica, della validità agli effetti civili del matrimonio religioso, della libera comunicazione con tutto il mondo cattolico e della sua richiesta d’impedire ai sacerdoti scomunicati di insegnare nelle scuole e nelle università statali. L’ultimo aspetto riguarda una Convenzione finanziaria che impegnava lo Stato Italiano a versare alle casse vaticane l’ingente cifra di 750 milioni di lire e una rendita perpetua, a titolo d’indennizzo per la perdita di tutti i proventi che le autorità pontificie ricavavano dallo Stato della Chiesa prima del 1860.

Le concessioni del regime alla Chiesa continuarono anche dopo il Concordato. Infatti, il nuovo Codice Civile Rocco del 1930, con gli articoli dal 402 al 406 riconobbe come reati perseguibili penalmente tutte le offese fatte nei confronti della Chiesa Cattolica e il sentimento religioso degli italiani.

L’universo ecclesiastico dopo le concessioni fasciste ricambiò i favori con diversi appoggi, riconoscimenti e valutazioni positive sulle personalità e gli operati del regime. Infatti, dopo il Concordato, molti ordinari diocesani diffusero lettere pastorali d’invito alla collaborazione con le autorità fasciste. A sua volta il papa Pio XI definì Mussolini "L'Uomo della Provvidenza" poiché a suo avviso ebbe il merito di riconoscere e riportare alla ribalta i veri ed autentici valori nazionali quali erano quelli cristiano-cattolici. Inoltre l'apparato ecclesiastico mise a disposizione del regime le proprie forze e collaborò alla realizzazione di molte sue iniziative. Una prova tangibile di questo rapporto collaborativo è rappresentata dalla figura dell'assistente spirituale esercitata da un sacerdote che la gerarchia cattolica mise a disposizione di tutte le organizzazioni fasciste che la prevedevano.

Anche i parroci in questo periodo storico, per motivi vari collaborarono frequentemente con le autorità del regime. Infatti, spesso erano invitati a partecipare alle loro manifestazioni, a far suonare le campane in occasione di alcune solennità civili fasciste e a benedire le bandiere, i gagliardetti e le sedi del partito. Nel 1935 in molte diocesi nazionali fu organizzata la raccolta di metalli preziosi per la patria. Inoltre in occasione della guerra d'Etiopia molti ordinari e parroci appoggiarono l'impresa coloniale e dopo la sua conclusione bandirono quasi una crociata per la civilizzazione e cristianizzazione della popolazione abissina.

Mussolini e i suoi gerarchi si servirono della Chiesa per l’appoggio ad altre loro iniziative e campagne propagandistiche tra cui quella dello sviluppo demografico. In questo caso tutti i giornali dell'epoca fiancheggiatori del regime per invogliare le coppie italiane a una maggiore procreatività ricordavano spesso i canoni e le leggi ecclesiastiche riguardanti la famiglia e il matrimonio e altrettanto fecero diversi parroci durante le loro omelie domenicali.

Nonostante gli episodi riportati, il rapporto di collaborazione tra lo Stato Fascista e la Chiesa durante l’intero ventennio non fu sempre pienamente positivo e idilliaco poiché, come ha rilevato Quazza, fu accompagnato da connotazioni ambivalenti, momenti di tensione e diverse sfumature. Queste ambiguità e ambivalenze sono molto evidenti quando si tiene conto che mentre da un lato le autorità del regime formalmente rendevano omaggio e manifestavano rispetto alla Chiesa, dall’altro s’impegnavano per sottrarle il controllo della gioventù e per l'eliminazione di tutte le forze cattoliche che si opponevano ai loro progetti politici. In quest'ambito si collocano tutte le iniziative delle autorità fasciste contro l’Azione Cattolica che era il principale strumento di cui si serviva la Chiesa per imprimere il suo segno sull’educazione religiosa giovanile. I gerarchi fascisti la guardavano sempre con notevole sospetto poiché la ritenevano un’istituzione concorrente che intralciava contro la loro ambizione di assicurarsi il monopolio dell'educazione dei giovani. Le violenze squadristiche contro alcune sedi dell’Azione Cattolica iniziarono nel 1921 e proseguirono nei primi anni del ventennio. In seguito si attenuarono ma dallo scontro fisico si passò a quello legale poiché le violenze furono sostituite dai decreti e le leggi che avevano il fine di sciogliere i gruppi cattolici giovanili. Uno dei primi provvedimenti che autorizzava lo scioglimento dell'Azione Cattolica fu il regio decreto del 9/1/1927. Dopo la sua promulgazione nacque un duro scontro con le autorità ecclesiastiche e il papa Pio XI con l'enciclica "Non abbiamo bisogno" prese posizione contro il regime. Mussolini per non compromettere il buon esito dei Patti Lateranensi fu costretto a fare marcia indietro e a ritirare il decreto. Nonostante questo tentativo conciliante, i contrasti tra la Santa Sede e il Regime a causa dell’Azione Cattolica non si attenuarono, ripresero tra il 1930 e il 1931 e, Mussolini emanò un nuovo decreto di scioglimento dei circoli della gioventù e delle federazioni universitarie cattoliche. 

Negli anni 1938-1939 si riaccesero i contrasti tra la Chiesa e il regime a causa di nuove restrizioni e limiti imposti alle associazioni cattoliche, il divieto ai giovani di portare il distintivo di adesione alla Gioventù Italiana di Azione cattolica e le leggi razziali. In particolare, quest’ultime furono osteggiate da diversi chierici e credenti di molte località italiane poiché erano ritenute contrarie alla Chiesa che invece predica l'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. A tal proposito il 28 luglio 1938, Pio XI disse: “Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali”.

A conclusione del presente paragrafo si fa presente che QQQQdurante l’arco del ventennio, le autorità del regime impedirono al movimento cattolico di svolgere qualsiasi attività politica. Di conseguenza esso si concentrò su iniziative culturali, educative e prettamente religiose: l’apostolato degli ordini religiosi e delle congregazioni, la struttura parrocchiale, delle associazioni giovanili ed altro.

 

L’Abruzzo e il fascismo

In Abruzzo le prime sedi fasciste iniziarono ad essere fondate agli inizi del 1921 ma l’affermazione definitiva del movimento in regione avvenne negli anni successivi. Alcune sue fasi furono: il congresso regionale del partito che si organizzò a Pescara nel mese di agosto del 1922; una festa regionale organizzata nel 1923 a Castellamare Adriatico; le elezioni provinciali e politiche che si tennero in regione sino al 1924. Alcune squadre di fascisti provenienti da diverse località abruzzesi parteciparono anche alla marcia di Roma[1].

In Abruzzo il fascismo assunse propri connotati e caratteristiche specifiche. A tal proposito, Amodei ha fatto presente che “Il fascismo abruzzese si caratterizzò per due fattori specifici. In primo luogo, per il rapporto strettissimo con il notabilato locale, che intese il fascismo come uno strumento di mantenimento dello status quo, delle proprie posizioni e dei propri poteri. Lo stesso fascismo, d’altro canto, si servì delle reti locali preesistenti l’avvento del fascismo nella regione come cinghia di trasmissione tra potere centrale e humus locale. Nella città di Chieti, per esempio, il notabilato aveva guidato il fascismo al potere e cogestì l’azione politica con i rappresentanti fascisti: prima dello scioglimento del Consiglio Provinciale, nel 1926, i liberali detenevano il governo della provincia mentre i fascisti reggevano la città[2]. Ad ulteriore precisazione di questi connotati Amodei aggiunge altre importanti osservazioni. Nella prima di esse ha fatto presente che il fascismo in Abruzzo “conservò, nel piano locale e non solo, le normali distinzioni cetuali, gli antagonismi personali e i tradizionali privilegi accordati agli elementi di spicco del tessuto sociale microlocale”[3]. Nella sua seconda osservazione lo studioso ha affermato che “Nelle sue prime fasi di affermazione, il fascismo abruzzese scelse di acquisire una precisa identità: quella di forza patriottica, oppositrice di qualsiasi politica internazionalista che mettesse in secondo piano, relativizzandoli, gli interessi regionali e nazionali[4].

In Abruzzo durante le elezioni politiche del 1924, il fascismo ottenne un largo successo elettorale con circa l’86% dei consensi a suo favore. L’anno dopo il prefetto di Chieti al fine di giustificare l’ampio successo che il partito raggiunse in Provincia scrisse: “Per naturale inclinazione e per innata tendenza queste popolazioni sono propense a seguire il partito che comanda, che assicura ordine e disciplina per potersi dedicare assiduamente al lavoro ed alle cure della famiglia che qui ha salde radici. A ciò si aggiunga il profondo sentimento di amor patrio e di devozione alla monarchia ed alle istituzioni che ci reggono. È naturale quindi che il partito fascista che tali principi esalta, sostiene e difende ad oltranza raccolga ovunque consensi[5].

Dopo questi momenti iniziali anche in Abruzzo il fascismo continuò la sua affermazione e perseguì una politica completamente ispirata ed aderente alle finalità nazionali.

 

     GLI ORDINARI DIOCESANI ABRUZZESI DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Nel periodo in esame i Comuni che ora appartengono all’Abruzzo erano ripartiti in otto diocesi di cui in questa sede si riporta la cronotassi dei loro presuli.

Arcidiocesi di Chieti-Vasto: Nicola Monterisi (15 dicembre 1919 - 5 ottobre 1929) e Giuseppe Venturi (1931 - 1947).

Arcidiocesi di Lanciano-Ortona: Nicola Piccirilli (25 aprile 1918 - 4 marzo 1939) e Pietro Tesauri (25 maggio 1939 - 25 agosto 1945 ).

Arcidiocesi de L’Aquila: Adolfo Turchi (17 luglio 1918 - 2 maggio 1929), Gaudenzio Manuelli (18 febbraio 1931 - 9 febbraio 1941) e Carlo Confalonieri (27 marzo 1941 - 25 gennaio 1950).

Diocesi di Avezzano o dei Marsi: Pio Marcello Bagnoli (14 dicembre 1910 - 17 gennaio 1945).

Diocesi di Sulmona-Valva: Nicola Jezzoni (6 dicembre 1906 - 18 luglio 1936) e Luciano Marcante (14 marzo 1937 - 29 gennaio 1972). 

Diocesi di Penne e Atri: Carlo Pensa (27 agosto 1912 - 16 dicembre 1948).

Diocesi di Teramo: Settimio Quadraroli (26 agosto 1921 - 4 agosto 1927) e Antonio Micozzi (23 dicembre 1927 - 4 settembre 1944).

Diocesi di Trivento. Nell’epoca in esame appartenevano alla diocesi triventina i comuni abruzzesi di Alfedena, Borrello, Castel di Sangro, Castelguidone, Castiglione Messer Marino, Celenza sul Trigno, Roio del Sangro, Rosello, San Giovanni Lipioni, Schiavi di Abruzzo e Torrebruna. I vescovi che la ressero furono: Geremia Pascucci (1922 - 1926), Attilio Adinolfi (1928 - 1931), Giovanni Giorgis (1931 -1937) e Epimenio Giannico (1937 - 1957).

L’atteggiamento che alcuni di questi presuli assunsero verso il fascismo e i rapporti che ebbero con le autorità del regime saranno riportati nei paragrafi che seguono.

  

LA CHIESA E IL FASCISMO IN ABRUZZO.

Innanzitutto è da premettere che anche in Abruzzo il fascismo si presentò con un risvolto di una religione civile che affiancava quella cattolica ed era fondata sul culto dello Stato totalitario, il carisma di Mussolini e la dottrina di rigenerazione della stirpe latina[6]. A dimostrazione di questa tesi concorre il seguente testo che fu pubblicato il 6 settembre 1923 sul Risorgimento d’Abruzzo: “Il fascismo da noi sorvola sul partito, è religione, profonda religione di razza, nei millenni passati era purezza di libertà, era Roma Imperiale, ora è l’Italia che risorge e incede luminosa[7]. Questa particolare visione contrariamente alla laicità affermata dai liberali e socialisti dell’epoca, riconosceva una certa importanza ai fatti religiosi e con molta probabilità era accolta favorevolmente da una buona parte del clero regionale. Infatti, dopo la marcia su Roma, secondo Trinchese, in Abruzzo sarebbe avvenuta “una non meditata ma quasi simpatetica adesione di buona parte del clero regionale al regime in una sorte d’indifferentismo politico da parte ecclesiale[8].

In linea di massima si può ammettere che in Abruzzo: 1) prevalse una linea d’incontro tra le autorità del regime e quelle ecclesiastiche; 2) l’atteggiamento e i rapporti che i vari ordinari diocesani e gli ambienti curiali ebbero con le autorità abruzzesi con il fascismo e i suoi gerarchi sostanzialmente furono improntati alla collaborazione reciproca.

La curia arcivescovile di Lanciano era considerata una roccaforte del fascismo tanto che il segretario provinciale del fascio di Chieti Tommaso Bottari per l’apporto dato al regime sin dal suo inizio, definì le gerarchie ecclesiastiche frentane la faccia più aderente al regime dell’intero clero provinciale, mentre un segretario di zona fece presente che l’arcivescovo Nicola Piccirilli era un “fervente e palese fautore del Regime[9]. A sua volta il presule frentano Pietro Tesauri, secondo Colapietra ammirava Mussolini, “Armonizzava perfettamente Religione e Patria e non smentiva il suo antisocialismo giovanile, mettendo in luce la propria impeccabile ortodossia”[10].

Anche il vescovo dei Marsi Pio Marcello Bagnoli appoggiò pienamente il regime e per questo motivo Pitoni in un articolo giornalistico lo ha definito un colluso con il fascismo[11].

A Teramo il settimanale diocesano L’Araldo in un primo momento manifestò un aperto antifascismo denunciando le violenze squadristiche contro i cattolici teramani. In seguito corresse il tiro e fece propria la politica di collaborazione con il regime che assunsero le gerarchie ecclesiastiche della curia locale. Il vescovo aprutino Settimio Quadraroli in diverse occasioni inneggiò pubblicamente al fascismo e il locale prefetto lo definì un “prelato devoto all’attuale ordine di cose e di spiccati sentimenti patriottici[12]. Il suo successore Antonio Micozzi è considerato un esponente clerico-fascista che collaborò con le locali autorità del regime e approvò con entusiasmo il progetto di "romanizzazione" del centro storico teramano.

All’Aquila nel 1932, il moderatismo adottato dall’arcivescovo Gaudenzio Manuelli attenuò lo scontro sorto con il potestà a causa dell’Azione Cattolica. Il presule ebbe anche buoni rapporti diretti con Benito Mussolini che fornendo proprio denaro, contribuì alla costruzione della chiesa di Cristo Re nel quartiere aquilano della Villa comunale. In seguito mons. Manuelli in segno di ringraziamento donò al duce una copia della Madonna del Popolo Aquilano.

L’arcivescovo di Chieti Nicola Monterisi è l’unica voce del panorama cattolico abruzzese che nel rispetto dei principi dell’ortodossia cristiana, mantenne una certa autonomia e distacco dal fascismo che in alcuni casi rasentò anche l’opposizione. Tuttavia negli anni, non mancarono gli episodi di collaborazione con le autorità provinciali del regime.

Anche il vescovo di Penne Carlo Pensa è considerato una personalità che non manifestò piena adesione ed acquiescenza al regime fascista[13].

Mons. Giuseppe Venturi, il successore di Monterisi, pur non allineandosi al fascismo, dimostrò maggiore apertura verso il regime e riuscì anche a ottenere un’udienza con Mussolini, a cui chiese un contributo per restaurare la cattedrale di San Giustino.

A sua volta il presule della diocesi di Sulmona-Valva, Mons. Luciano Marcante ebbe un rapporto dialettico con le autorità civili dell’epoca[14]. La sua diocesi era ripartita in sessanta parrocchie, i sacerdoti sottoposti all’autorità vescovile nel complesso ammontavano a 140 unità, mentre le suore erano 110 [15].

Nel 1929, all’indomani dei Patti Lateranensi, la conciliazione raggiunta in ambito nazionale ebbe riflessi positivi anche nei rapporti tra le gerarchie ecclesiastiche e fasciste dell’Abruzzo. L’evento sul giornale “Il nuovo Abruzzo” fu così commentato: “Il miracolo è compiuto! Miracolo voluto e attuato da un uomo di ferma tenacia e da un uomo di fede incrollabile e ineffabile…Eterna e immortale le Chiesa Cattolica Apostolica Romana accoglie nel proprio seno lo Stato Fascista…[16]. 

Anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche regionali non mancarono le voci di approvazione. Tra esse, quelle del sacerdote vastese Don Vincenzo Canci che il 27 febbraio 1929 sulle pagine de “L’Abruzzo Giovanile” scrisse: “Il cuore magnanimo di un Padre di popoli e l’alta sapienza di un sovrano cristiano, l’ardimento illuminato di un Capo di Governo, Duce invitto delle nuove scelte della Patria e la provata sapienza di un eminente Segretario di Stato, nelle mani della Provvidenza, sono stati gli artefici dello storico evento[17].

Tra gli anni 1931 e 1932, i gerarchi del fascismo abruzzese attuarono una politica di vigilanza sul comportamento del clero regionale che in Provincia di Chieti si tradusse in numerose relazioni inviate dai segretari di zona a quelli federali provinciali e da questi ultimi al prefetto[18]. In particolare il 24 dicembre 1932 il prefetto di Chieti inviò al segretario federale della Provincia di Chieti Tommaso Bottari la seguente ordinanza: “Prego la S.V. di volermi trasmettere alla fine di ogni mese, una breve relazione sull’attività del clero in questa provincia. Dovrà essere particolarmente indicato: 1) quale sia l’atteggiamento politico del vescovo o dei vescovi, specificando eventualmente fatti concreti; 2) quali sacerdoti possano giudicarsi ostili al Regime (specificando anche per essi fatti concreti); 3) quale attività svolgono l’Azione Cattolica e i suoi organi[19]. Tenendo conto di quest’ordinanza, il 28 dicembre 1932, il segretario provinciale del fascio di Chieti inviò una lettera ai dirigenti di zona invitandoli a raccogliere tutte le informazioni richieste dal prefetto[20]. Dopo aver ricevuto le risposte, Bottari scrisse al prefetto facendo presente che solo pochi sacerdoti erano antifascisti e “in linea generale il clero della Provincia può considerarsi simpatizzante per il regime[21].

Nonostante le simpatie clericali per il fascismo, in diversi comuni abruzzesi sorsero alcuni contrasti tra le autorità locali del regime e i parroci che generalmente riguardarono i seguenti temi: la benedizione e il suono delle campane in occasione di alcune ricorrenze tipiche del regime stesso; il rilascio di rendite e dei residui dei comitati feste alle autorità e associazioni fasciste e, infine le associazioni cattoliche che con le sue iniziative attraeva i giovani e li allontanava dalle sedi fasciste e le attività del regime.

Nonostante le restrizioni, i controlli e i sospetti delle autorità civili sulle associazioni cattoliche soprattutto giovanili, nelle varie diocesi regionali le iniziative per fondarle continuarono a manifestarsi. Un sacerdote molto attivo in tal senso fu Don Nicola De Luca che: 1) nel 1930 fondò a Penne il gruppo donne cattoliche e l’Unione parrocchiale uomini; 2) nel 1935 fondò a Città Sant’Angelo la sezione studentesca dell’Azione Cattolica e nel 1937 l’associazione di studi religiosi Sant’Agnese[22].

Nell’arcidiocesi teatina, nel 1930 per opera di vari sacerdoti furono fondate in sette parrocchie diverse, altrettanti nuovi gruppi dei Fanciulli Cattolici. Essi si aggiunsero alle seguenti associazioni già esistenti nel 1929: sette circoli degli Uomini Cattolici, diciotto circoli della Gioventù Cattolica, quindici circoli dell’Unione Femminile e ventiquattro circoli della Gioventù Cattolica [23]. Nel 1939 nella diocesi di Sulmona-Valva, erano presenti novantadue associazioni laicali che nel loro complesso comprendevano 2456 membri effettivi, 1054 aspiranti tesserati e 2000 fanciulli di cui 196 di sesso femminile [24]. Tra le associazioni citate assumono una notevole importanza quelle femminili poichè proponendo alle donne un impegno nell’apostolato favorirono il loro protagonismo, l’autonomia, nuove forme aggregative e di socializzazione che consentivano alle stesse di realizzarsi anche nella vita civile e non solo nell’ambito famigliare come mogli e madri.

Altre frizioni tra alcuni rappresentanti della chiesa abruzzese e il regime sorsero nel 1938-39, a seguito della proclamazione delle leggi razziali che furono pubblicamente criticate da alcuni ecclesiastici. Un sacerdote regionale che non le condivise ed espose pubblicamente le sue idee fu l’arciprete di Montorio al Vomano, don Fioravante d'Ascanio che sulle pagine del settimanale diocesano L'Araldo Abruzzese affermò l'incompatibilità del cristianesimo con qualsiasi forma di razzismo. Per questi motivi don Fioravante rischiò l’arresto che gli fu evitato grazie all’intervento dell’arcivescovo Micozzi.

A questi episodi di contrasti fanno da contraltare i numerosi casi di collaborazione ed appoggio delle autorità fasciste alle attività promosse dalla gerarchia cattolica regionale.

Un’iniziativa ecclesiastica che incontrò i favori del regime fu organizzata nel 1935 dalla curia teatina che, per favorire l'educazione religiosa dei giovani aderenti alle associazioni fasciste, raccomandò ai parroci di stabilire adeguati accordi con le autorità comunali dell'Opera Nazionale Balilla. Questa disposizione dell’autorità diocesana non è indicativa di una completa acquiescenza al regime ma dell'esigenza della Chiesa di portare il messaggio cristiano in tutte le situazioni che la realtà contingente imponeva e anche di una nuova funzione che i parroci assunsero durante il ventennio.

Nello stesso anno le autorità del regime non si opposero all’organizzazione a Teramo dal quattro all’otto settembre, dell'XI Congresso Eucaristico Nazionale Italiano. Esso fu indetto dall'arcivescovo Antonio Minozzi, ebbe come tema "L'Eucaristia e la Sacra Scrittura" e vide la partecipazione del cardinale Pietro Fumasoni Biondi come legato pontificio. Ad avviso di Tosco il congresso teramano assunse connotazioni nazionalistiche poiché fu caratterizzato da molti interventi che identificarono il cattolicesimo con l’italianità[25]. Di conseguenza esso da un lato fornì una risposta ecclesiale alle manifestazioni di fede e dall’altro evidenziò alcune vedute che accomunavano il fascismo con la gerarchia cattolica.

Nel 1935 si è osservato che anche altre iniziative e manifestazioni tipiche del regime furono appoggiate da vari presuli abruzzesi. Una di esse vide la partecipazione del vescovo dei Marsi Pio Marcello Bagnoli che, dopo aver reso omaggio ai caduti, benedisse i Labari delle Figlie della Lupa e dei Giovani Fascisti. In quell’anno fu dichiarata anche la guerra all’Etiopia e i volontari abruzzesi che vi parteciparono ricevettero la benedizione da parroci e vescovi. In particolare, l’8 settembre 1935 l'arcivescovo di Chieti mons. Giuseppe Venturi si recò di persona a benedire i volontari della provincia che partirono in guerra e ordinò a ogni parroco di conservare gli elenchi dei soldati partiti, mantenere con loro relazioni epistolari, inviare la rivista "Voce Amica" o qualche libro e soprattutto contribuire a sostenere il loro coraggio e spirito religioso.

Agli inizi del secondo conflitto mondiale non mancarono le prese di posizione degli ordinari diocesani regionali a favore del fascismo e della guerra. Infatti nel 1940 l’arcivescovo aquilano Mons. Gaudenzio Manuelli si produsse in una ridondante benedizione pubblica di Mussolini, mentre il presule marsicano Mons. Pio Marcello Bagnoli pronunciò un’omelia affinchè “il Signore doni alla patria la gioia della vittoria”, due iniziative che Fimiani ha definito di “crociata filofascista[26]. Ad avviso di D’Amore il presule marsicano mostrò un certo zelo patriottico e in una lettera pastorale scrisse: “Alla vittoria di questa nostra Italia, alla sua nuova era di potenza e di gloria, tutti dobbiamo portare il nostro contributo di attività e di preghiera[27]. A sua volta il presule frentano Mons. Tesauri sostenne la scelta interventista al fine di difendere la civiltà cristiana minacciata dal bolscevismo.

Durante il periodo di occupazione tedesca dell’Abruzzo in genere i presuli si resero protagonisti di diverse iniziative per tentare di alleviare le sorti avverse alla popolazione delle loro diocesi. Il vescovo di Sulmona-Valva Luciano Marcante, ad avviso di Fimiani pur moderando il fenomeno resistenziale, nascose nel palazzo vescovile partigiani, sfollati ed ex prigionieri, allestì la mensa dei poveri nel cortile della curia, intervenne presso il comando tedesco per salvare Sulmona dall’evacuazione, protesse famiglie ebree e fece distribuire rimanenze di cassa ai poveri[28]. L’arcivescovo Giuseppe Venturi evitò la distruzione bellica di Chieti riuscendo a farla dichiarare "città aperta" che di conseguenza rinunciò alla difesa armata contro le forze tedesche d’occupazione. Il presule aquilano Carlo Confalonieri s’impegnò in un’opera di mediazione presso il comando tedesco per salvare diversi prigionieri e presso la Santa Sede per ottenere dai comandi alleati la possibilità di risparmiare L’Aquila dai bombardamenti.

A Lanciano Mons. Tesauri dette rifugio a sacerdoti, donne e bambini nella cappella del seminario, si recò nelle zone di guerra e bombardate per portare soccorso e assistenza spirituale alle popolazioni colpite e mediò con il comando tedesco di Castelfrentano per evitare il paese dalle rappresaglie e i bombardamenti. A sua volta il vescovo di Trivento Epimenio Giannico il 20 ottobre 1943 si offrì come prigioniero ai tedeschi in cambio della liberazione di dieci giovani catturati per rappresaglia.

  

LA RELIGIOSITA’ IN ABRUZZO DURANTE IL FASCISMO.

Al fine di avere una soddisfacente visione della vita religiosa in Abruzzo nel periodo in esame, si ritiene opportuno riportare e premettere alcuni ragguagli generali sui temi più importanti riguardanti la religiosità di tutta l’Italia Centro-Meridionale. A tal proposito va innanzitutto fatto presente che durante il ventennio fascista, in tutta la penisola e quindi anche nel suo settore centro-meridionale, la vita religiosa della gente comune fu oggetto di alcune modifiche generate da un profondo intreccio che univa le esigenze popolari, le finalità della chiesa e quelle del regime che per perseguire i propri fini politici, con la sua intensa propaganda inventò nuove tradizioni, rivalorizzò altre abbandonate e introdusse nuovi miti e modelli culturali nella società italiana.

Le autorità fasciste fecero un uso strumentale del folklore e della religione cattolica. Nello stesso tempo cercarono di favorire la diffusione di una sorte di religione civile che non si opponeva a quella cattolica, ne esaltava alcuni suoi valori, richiedeva ubbidienza e fede, promuoveva il culto della patria e prevedeva una propria ritualità con la diffusione di una morale guerresca, il saluto romano, l’adozione di vari simboli materiali, riferimenti storici, propri comandamenti (tra essi il celebre motto “credere, obbedire e combattere”) e l'istituzione di un calendario di regime con tipiche celebrazioni festive che contribuivano a diffondere ed enfatizzare vari aspetti della filosofia fascista.

Come visto alcune pubblicazioni ufficiali del regime degli anni Venti-Trenta diffondevano l’idea che il fascismo fosse una religione civile. Tra esse c’era anche l'Organo dei Fasci Giovanili che verso la fine degli anni 20 scrisse “Un buon fascista è un religioso. Noi crediamo in una mistica fascista, perché è una mistica che ha i suoi martiri, che ha i suoi devoti, che tiene ed umilia tutto un popolo intorno a un'idea[29]. Anche la figura del duce fu mitizzata, caricata di religiosità e assimilata a quella di un nume protettore che assicurava il successo della patria.

Durante il ventennio, il calendario annuale prevedeva la celebrazione delle seguenti feste religiose: primo gennaio Capodanno; 6 gennaio Epifania; 2 febbraio la presentazione di Gesù al tempio; 19 marzo San Giuseppe; la Pasqua; il Corpus Domini, l’Ascensione; 8 settembre la Natività di Maria; 8 dicembre, L’Immacolata Concezione; 25 dicembre Natale. Il 4 ottobre 1926 fu dichiarato giorno di festa nazionale, poiché ricorreva il 7º centenario della morte di San Francesco di Assisi. A queste feste che riguardavano tutto il territorio nazionale, bisogna aggiungere quelle dei santi patroni e di altri importanti santi locali che ovviamente cambiavano da località a località. Inoltre all’epoca alcune ricorrenze religiose quali l’Epifania e l’Assunta furono ricoperte di pregnanti significati civili. In particolare a partir dal 6 gennaio 1928 fu istituita la “Befana Fascista” e in quest’occasione ai bambini delle famiglie bisognose si donavano vestiti, giocattoli e un po’ di cibo. Inoltre negli stessi anni nel periodo ferragostano, quindi in coincidenza con la festa dell’Assunta, le associazioni dopolavoristiche del regime iniziarono a organizzare gite popolari ed escursioni con i cosiddetti Treni popolari di Ferragosto a prezzi scontati e poiché non prevedevano il vitto nacque anche la tradizione del pranzo al sacco.

Le feste religiose precedentemente menzionate, durante il ventennio furono affiancate dalle seguenti feste nazionali e civili introdotte in tempi diversi: il Natale di Roma (21 aprile) istituito nel 1923; L’Anniversario della Marcia su Roma (28 ottobre) istituito nel 1930; la firma dei Patti lateranensi (11 febbraio) che fu istituita il 15 ottobre 1930 dal Consiglio dei Ministri; la Proclamazione dell'impero (9 maggio), istituita nel 1939. Ad esse si aggiungono le seguenti ricorrenze che contribuivano ad alimentare i valori della cosiddetta religiosità civile del regime ma che in alcuni casi non prevedevano l’interruzione del lavoro quotidiano: l’anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo), l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi (25 aprile), l’anniversario della dichiarazione di guerra dell'Italia del 1915 (24 maggio), l’anniversario della scoperta dell'America (12 ottobre), la Giornata della madre e del fanciullo (24 dicembre), il sabato fascista, la festa degli alberi, la festa dell’uva e la festa dell’Opera Nazionale Balilla. In particolare la Giornata della madre e del fanciullo assecondava la politica di sviluppo demografico che propagandava il regime e in Italia fu celebrata la prima volta il 24 dicembre 1933. Nell'occasione furono premiate le madri più prolifiche d'Italia.

 Le “Feste dell’Uva”, invece iniziarono a essere organizzate dagli anni 30 al fine di favorire lo sviluppo vitivinicolo, valorizzare le produzioni locali, soddisfare le richieste di divertimento popolare e divulgare l’immagine di un partito di cultura rurale che esaltava i valori della società contadina.

All’enfatizzazione della cultura rurale corrispose l’elaborazione dell’ideologia del ruralismo che faceva propri i valori famigliari religiosi tradizionali, l’alta prolificità, il rispetto dell’autorità, il ritorno a un modello di economia considerato naturale e di socializzazione popolare del mondo contadino. Alla diffusione di quest’ideologia contribuirono i filmati dell’epoca con le immagini del duce impegnato nei lavori agricoli, alcune riviste e movimenti letterari tra cui Strapaese che si sviluppò attorno al 1926 e si poneva come obiettivo la restaurazione di un’Italia contadina, rispettosa della religione cattolica e amante della patria. Un sintetico motto dell’ideologia ruralista del regime è “L’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende”.

Per quanto riguarda la Chiesa è da far presente che condivideva diversi aspetti del ruralismo fascista tra cui i valori della famiglia numerosa e della vita contadina che riteneva sana e laboriosa.

Oltre a queste condivisioni con il regime, durante il ventennio la Chiesa elaborò nuove pratiche che contribuirono a rinnovare i modelli di vita religiosa dei propri fedeli. Infatti, in quegli anni attraverso i sinodi, le lettere pastorali e anche l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione che lentamente allargavano la propria diffusione (la radio e la stampa cattolica quotidiana e periodica) la gerarchia ecclesiastica diffuse nuove liturgie, modelli di santità, vita religiosa e di partecipazione alla vita parrocchiale e alle feste.

Durante l’arco del ventennio, i vescovi e parroci meridionali rivolsero una certa cura agli aspetti religiosi degli emigrati. Infatti, i vescovi ricordavano ai parroci di mantenere i contatti con gli emigrati della propria parrocchia e di provvedere ai loro bisogni, in particolare a quelli spirituali. Spesso i parroci, in continuità con i periodi storici precedenti, scrivevano le lettere tra i parenti analfabeti, fornivano informazioni a chi richiedeva notizie sugli emigranti che si volevano sposare, ricordavano a mogli, figlie e sorelle di tenere un comportamento moralmente corretto in assenza dei loro uomini. Ai lavoratori emigrati si rivolgevano anche le commissioni feste che per poterle organizzare richiedevano loro i contributi in denaro.

Nell'immediato dopoguerra e durante i primi anni del fascismo alcuni vescovi centro-meridionali denunciarono un affievolimento del sentimento religioso ed un'immoralità crescente soprattutto nelle campagne. A loro avviso la religiosità popolare accentuava i caratteri di materialità ed esteriorità, le chiese erano poco frequentate, specie dagli ex combattenti ed il precetto festivo non era osservato. A tal proposito nel 1924 l’arcivescovo di Chieti Mons. Nicola Monterisi, sulla base della sua esperienza pastorale in Puglia ed Abruzzo scrisse: "Al principio nelle pratiche di culto entrava anche la frequenza dei sacramenti ed almeno il precetto pasquale ma a poco a poco l'influenza dell'incredulità moderna è andata svuotando il culto dal suo contenuto sostanziale ed è restata la parte esterna ed il semplice formalismo religioso, che è la gran piaga che oggi ci rode e ci minaccia la morte. Il laico ignorante in religione, alieno dai sacramenti, spesso in vita irregolare, non solo non rinuncia alla chiesa ed alle confraternite, ma avendo nel sangue lo spirito regalista si vuole comandare e converte chiesa, confraternite e commissioni religiose in agenzie di divertimento spingendo sino al fanatismo le esteriorità e le antiche accidentalità del culto e profondendo somme ingenti in spari, bande e luminarie"[30]. Nello stesso periodo, Antonio Gramsci, quasi da contraltare a Mons. Monterisi, partendo da presupposti e finalità completamente diverse, esprimeva la seguente personale opinione sulla religiosità popolare: "l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create dalla Controriforma: la religione tutt'al più si è combinata col folklore pagano ed è rimasta in questo stadio"[31].

A prima vista, può sembrare strano che un comunista ateo professo qual’era Antonio Gramsci, in fatto di religiosità popolare potesse avere alcune vedute molto simili a quelle di un rigoroso esponente della gerarchia cattolica. Questa coincidenza è spiegabile tenendo conto che Gramsci nei suoi progetti politici rivoluzionari di costruzione di una nuova società attribuiva una notevole importanza alla religione e ai parroci. Infatti, a suo avviso il parroco era la figura intellettuale che con la sua attività educatrice poteva contribuire all'emancipazione sociale della classe lavoratrice e quindi riteneva opportuno che fosse adeguatamente preparato a svolgere questo ruolo.

Altri ragguagli sulla religiosità dell'Italia centro-meridionale nell’epoca in esame, li fornisce l'arcivescovo Nicola Monterisi che nel 1923 scrisse le seguenti annotazioni sulle pratiche di culto: "Il culto si esagera fino a diventare esterno e vuoto, ed in nome del culto, cioè di una processione, di una statua, di una tradizione, si prende il pretesto di ribellarsi alla gerarchia"[32].

Le osservazioni riportate di Mons. Monterisi sostanzialmente denunciavano una religiosità caratterizzata da un accentuato formalismo e dalla valorizzazione degli aspetti più esteriori del culto mentre a suo avviso erano trascurati gli aspetti spirituali più profondamente cristiani. A questa situazione che era abbastanza generalizzata, la gerarchia ecclesiastica cercò di porre rimedio promuovendo attraverso le lettere pastorali, le associazioni cattoliche, le deliberazioni sinodali ed i decreti conciliari nuove forme di vita religiosa e di devozione popolare. In particolare gli iscritti all’Azione cattolica e ad altre associazioni religiose impressero nuovi stimoli alla vita eucaristica, alla partecipazione alla messa, all'osservanza del precetto festivo, al culto mariano, alla diffusione della stampa cattolica, alla lotta contro la bestemmia, ecc. La gerarchia cercò di diffondere nuovi modi di amministrare i sacramenti e di regolare la celebrazione e partecipazione alle attività di culto. In linea di massima durante gli anni Venti e Trenta la gerarchia cattolica cercò di: 1) evitare una dilagante diffusione di immagini e oggetti di devozione ivi compresa la presenza di eccessive statue nelle chiese e l'edificazione senza restrizioni numeriche di cappelle ed altari religiosi; 2) richiamare l'attenzione sull’amministrazione dei sacramenti, ricordando ai fedeli che essi sono innanzitutto espressione di fede e non momenti per festeggiare ricorrenze familiari o altri aspetti di vita privata; 3) far sempre presente che ogni manifestazione di culto si doveva celebrare in modo semplice e decoroso.

In molte località dell'Italia centro-meridionale s’invitarono i sacerdoti a non celebrare le messe a piedi nudi e si regolamentarono le processioni in modo che durante il loro svolgimento non si appendessero banconote alle statue dei santi, non si suonassero musiche popolari, non si arrestassero per le vie cittadine al fine di consentire l'esecuzione di fuochi d'artificio o per motivi non strettamente religiosi. In questa linea di rigore vanno inserire tutte le lettere pastorali e le disposizioni che i presuli inviarono ai parroci.

Molto spesso gli ordinari diocesani, nel tentativo di fissare gli aspetti di una nuova religiosità cattolica individuale e sociale manifestarono un forte richiamo a valori tradizionali, censurando vari aspetti dei modelli culturali a loro contemporanei e contrapponendo la tradizione alla modernità.

Nel 1931 il papa Pio XI con la Costituzione "Deus Scientiarum Dominus" riorganizzò gli studi superiori ecclesiastici il che portò ad un nuovo programma di formazione religiosa da adottare nei seminari i cui effetti sui sacerdoti e sull’attività pastorale si avvertirono alcuni anni dopo.

Una tipica espressione di religiosità e di devozione nell'Italia centro-meridionale che durante il ventennio fascista continuava a persistere era la festa. Nonostante tutte le limitazioni che gli ordinari diocesani imposero sulle modalità di celebrazione, la festa religiosa continuava a conservare i suoi duplici significati di momento di penitenza e di trasgressione. In quanto fatto trasgressivo, per le popolazioni centro-meridionali essa era un’occasione per dimenticare almeno per qualche giorno le angustie, le costrizioni della vita quotidiana e la miseria e povertà tipiche del mondo contadino. Infatti, durante la festa religiosa si mangiava di più e meglio, si facevano maggiori spese in pubblici divertimenti, si cantava, si ballava, si riaffermavano i vincoli d’amicizia e di parentela. Anche se conteneva vari elementi di trasgressione umanamente comprensibilissimi, la festa religiosa si organizzava sostanzialmente per celebrare un santo e riconoscere pubblicamente la propria fede e devozione partecipando alla messa ed alla processione. Di conseguenza associava ai momenti trasgressivi quelli di preghiera e pubblica penitenza. Il suo principale piano di riferimento era sempre quello religioso per cui la festa costituiva una tipica espressione di fede popolare cristiana in cui gli aspetti più tipicamente religiosi si mescolavano ai desideri, gli atteggiamenti e gli interessi di un mondo che voleva esprimere la propria gioia di vivere e di rivolta contro le difficoltà della vita quotidiana.

Il programma religioso delle feste durante l'era fascista non era molto dissimile da quello dei periodi precedenti e di conseguenza prevedeva oltre alla processione del santo per le vie comunali anche la celebrazione di messe. I programmi civili che di solito accompagnavano le feste religiose non sempre incontravano il parere favorevole della gerarchia ecclesiastica. Infatti, nel 1930 l'arcivescovo Nicola Monterisi scrisse: "Si è tornato al concetto dei romani i quali per onorare i loro dei celebravano i giochi Olimpici, Augustali, Scenici, Baccanali, ecc. Ciò risulta dai manifesti delle Commissioni delle Feste i quali, premesso un breve e gonfio cappello per ricordare che si vuole onorare il Santo Miracoloso e soddisfare alla infinita devozione del popolo, senza alcun cenno di vita interiore spirituale, espongono il loro programma materiale di giochi e rappresentazioni nelle quali le consuete intercalazioni di qualche funzione sacra ha strano sapore eterogeneo. Notoriamente le cosiddette feste patronali dappertutto sono diventate programma di commercio locale. Le opportunità commerciali ne determinano il giorno: l'interesse del gelatiere regola l'ora di sparare i fuochi artificiali e quelli della processione"[33].

All’epoca, molto spesso al fine di aumentare la partecipazione popolare, la giornata di celebrazione della festa di un santo si spostava in data diversa da quella fissata dal calendario liturgico [34]. A tal proposito, di solito si privilegiava il periodo estivo quando i lavoratori emigrati facendo ritorno ai luoghi d’origine, potevano dimostrare l’attaccamento alle loro tradizioni religiose e ai santi protettori. In diversi casi le feste creavano motivi di scontro con i parroci e tra la popolazione. Uno di essi si aveva quando si dovevano scegliere le strade che le processioni dovevano percorrere.

Per quanto riguarda l’Abruzzo va fatto presente che molti fatti e situazioni precedentemente accennati hanno riscontro anche in questa regione e tra essi l’intreccio nazionale sulla religiosità e le feste che si registrò assumendo una propria originalità ed espressività che sarà messa in luce nel prosieguo del presente saggio. Di conseguenza la religiosità popolare abruzzese dell’epoca è il risultato finale dell'intreccio sintetico dell'opera di evangelizzazione della Chiesa con tradizioni culturali e bisogni esistenziali locali. È a causa di ciò che ogni comunità ha il proprio santo protettore, le proprie leggende, i propri canti religiosi, i propri culti, le proprie feste e via dicendo. Trinchese ha sottolineato che in Abruzzo durante il ventennio fascista ci fu “un opaco coagulo di moralità contadina e indottrinamento cattolico, tale da esprimersi in un conservatorismo di marca prefascista, la cui dura scorza risulta di difficile penetrazione anche per quelle novità in senso sociale comunque apportate dal fascismo[35].

In questa regione la Chiesa cattolica con la sua capillare organizzazione e rete di parrocchie era profondamente radicata e presente in ogni centro abitato anche se piccolo e sperduto. A tal proposito il Felice ha scritto: “In un paese sperduto della montagna abruzzese può mancare il medico, il farmacista, l'avvocato, ma il prete c'è sempre[36] .

Il clero gestiva e regolava lo stile di vita individuale e collettivo, sacralizzando i suoi momenti più importanti e segnando quelli di lavoro, riposo, divertimento popolare e festa. La popolazione abruzzese legava la religione ai propri bisogni esistenziali e ai problemi della vita quotidiana e, in particolare quella regionale che viveva d’agricoltura, anche alla bontà dei raccolti. Spesso molte feste religiose si organizzavano all’inizio o alla fine del ciclo agrario e tenendo conto di questo erano caratterizzate da rituali propiziatori o di ringraziamento che molto spesso si ricollegavano o riattualizzavano antichi rituali pagani mai completamente dimenticati.

La persistenza di credenze d’origine pagana si manifestava non solo nei rituali agrari ma anche nelle numerose superstizioni che caratterizzavano l’universo popolare religioso abruzzese. A tal proposito in uno scritto riguardante la religiosità nella diocesi di Lanciano dell’epoca in esame si fece presente quanto segue: “Religione e superstizione spesso si confondevano, le pratiche magiche erano famigliari alla maggior parte della popolazione rurale, l’ignoranza anche delle più importanti verità di fede si toccava con mano[37].

Riguardo il clero dell’epoca e la sua condotta non si può dire che disponesse sempre di un’adeguata preparazione o fosse all’altezza dei compiti assegnati. A tal proposito nel 1940 riguardo il clero della diocesi di Sulmona-Valva, il presule Mons. Luciano Marcante scrisse: “Non è infrequente il caso di trovare ministri del Dio della carità in lotta fra di loro oppure che conservano odio, rancore a vicenda, che non si salutano; sacerdoti che non si perdonano, che non si prestano mai volentieri a fare un favore ad un confratello, che si lasciano dominare dall’invidia e dalla gelosia….Certi sacerdoti invece esercitano il loro ministero non per la gloria di Dio, ma quasi direi, per il denaro, per arricchire i propri parenti[38].

Le feste religiose regionali, sempre molto numerose avevano l’appoggio delle comunità locali e l’approvazione delle autorità civili. A dimostrarlo concorre una lettera riguardante chiarimenti richiesti per sussidi a feste patronali stanziate dal Comune di Chieti che il 5 giugno 1922 fu inviata dal prefetto di Chieti al Ministero degli Interni. Il prefetto nella sua missiva fece presente che le feste religiose concorrevano a realizzare benefici in ambito commerciale e al pubblico decoro della città.

Nell’epoca in esame le autorità ecclesiastiche regionali s’impegnarono in numerose iniziative finalizzate a migliorare la vita religiosa della popolazione e la preparazione del clero, come dimostrano i fatti che seguono.

Nel 1924 i vescovi abruzzesi si riunirono a Chieti, dal 23 al 25 maggio per concordare norme comuni di azione pastorale. All’incontro parteciparono i presuli Nicola Piccirilli di Lanciano, Adolfo Turchi dell’Aquila, Nicola Monterisi di Chieti, Pio Marcello Bagnoli dei Marsi, Carlo Pensa di Penne e Atri, Settimio Quadraroli di Teramo, Geremia Pascucci di Trivento, Nicola Jezzoni di Valva e Sulmona e i provinciali dei frati minori e cappuccini. Durante le sedute furono affrontati e discussi vari temi: la predicazione, la catechesi, l’organizzazione dei seminari, la disciplina del clero, le associazioni dei fedeli, le pratiche di culto, l’amministrazione dei sacramenti, i beni ecclesiastici, gli abusi da evitare durante le processioni, le cerimonie religiose in chiesa ed altro.

Nel 1926 l’arcivescovo Nicola Monterisi, al fine di rinnovare la vita religiosa convocò un sinodo diocesano che a partire dal 1924 fu preceduto da lettere inviate ai vicari foranei al fine di avere notizie sulla disciplina del clero e la vita religiosa nelle parrocchie di loro competenza. Ad avviso di Liberatoscioli dalla consultazione delle risposte fornite emerge che in generale nelle parrocchie della diocesi: persisteva una religiosità condizionata da vecchie tradizioni devozionistiche con credenze e usi magico-superstiziosi; una mentalità formalistica e regalistica, segno della superficiale penetrazione del cristianesimo nella visione del mondo e dell’uomo [39]. Alcune pratiche che all’epoca accompagnavano le feste religiose, erano abbastanza diffuse e si dovevano eliminare erano le seguenti: i balli e i canti profani in chiesa, la scarsa osservanza dei digiuni quaresimali, la licitazione delle statue, il trasporto di conche di grano e l’abitudine di appendere banconote sulle statue dei santi durante le processioni. Il vicario foraneo di Pescara, Don Giuseppe Verna, nella sua relazione di preparazione al sinodo diocesano fece presente che la disciplina del clero era molto lontana da quella prevista dal diritto canonico e l’influenza delle dottrine moderne aveva generato persone ibride che non sono né buoni sacerdoti né buoni borghesi, rattristano e non ispirano fiducia ma ripugnanza[40]. In particolare egli scrisse: “Grande è l’ignoranza della religione; Le nostre popolazioni si mantengono calme fino a che non vengono toccate nella loro suscettibilità, nei loro capricci superstiziosi, nei loro interessi materiali. Quali le cause? Non ultimo il prete, il quale di disciplina al popolo non parla, non conoscendo la sua e molto meno praticandola[41]. Don Giuseppe aggiunse che nella sua forania persistevano tradizioni pagane, i corsi di catechismo erano disertati dai giovani, i battesimi si ritardavano, di solito le estreme unzioni s’impartivano dopo i decessi e la stampa cattolica era poco diffusa[42].

Dopo aver preso atto della vita religiosa nella diocesi, dei problemi che presentava e di tutti gli apporti ai temi oggetto di discussione, i partecipanti al sinodo discussero ed approvarono vari decreti finali che dovevano essere seguiti e rispettati. Alcune di essi sono i seguenti: 1) il sacerdote deve pregare tre volte al giorno; 2) la domestica di un sacerdote non abbia meno di 40 anni; 3) è proibito ai sacerdoti specialmente in cura di anime d'immischiarsi in partiti politici, prendere parte a comizi, pranzi elettorali e pronunziarvi discorsi; 4) i parroci devono combattere la noncuranza dell'istruzione religiosa, la scarsa educazione cristiana degli adolescenti, la violazione del riposo festivo, la bestemmia, l'alcoolismo, il giuramento falso, la falsa testimonianza, la frode, il concubinato, la moda invereconda, la stampa lasciva, la coabitazione tra fidanzati prima del sacramento, lo spiritismo, la superstizione, l'oblio della Santa Messa, il rifiuto dei sacramenti, la non osservanza del digiuno ecclesiastico, ecc.; 5) i cappellani rurali oltre alla spiegazione del Vangelo sono obbligati ad insegnare prima e dopo la messa la dottrina cristiana ai fanciulli o con il consiglio del parroco farla insegnare da persone idonee; 6) i parroci e i predicatori spieghino spesso ai fedeli la vera natura della devozione ai Santi ed il vero modo di onorarli per non cadere dall'ordine spirituale nell'umano e materiale; 7) curino i parroci di introdurre l'uso che per essere ammessi all'ufficio di padrino, i fedeli interessati presentino l'attestato personale di aver adempiuto nell'anno in corso al precetto pasquale; 8) sono considerate profanazioni intollerabili in chiesa le cosiddette frasche e canocchie, carri con polli e dolci, saltarelle, convegni pubblici con regali reciproci tra fidanzati o fidanzandi nella notte di Natale e nella festa di San Giovanni Battista, le licitazioni di statue per le processioni ed altri abusi simili; 9) si esortino i fedeli ad osservare il digiuno delle quattro tempore secondo lo Spirito della chiesa, che è quello di ottenere santi sacerdoti; 10) si promuovano le pratiche del primo venerdì del mese in onore del Sacro Cuore di Gesù, del mese mariano, del mese dedicato a San Giuseppe, della via Crucis almeno nelle domeniche di quaresima, le preghiere per la definizione dommatica dell'Assunzione e della Mediazione Universale della Beata Vergine Maria; 11) i principali abusi, deviazioni e corruzioni di culto sono: a) trascurare, intralciare o sopprimere l'istruzione religiosa per l’esuberanza di funzioni; b) trascurare Gesù in Sacramento per i Santi; c) assegnare esclusiva importanza ai santi ritenuti patroni contro disgrazie e temporali poiché ciò è religione utilitaria; d) celebrare feste sfarzose, dispendiosissime che di religioso hanno quasi solo il titolo del programma poiché è vuoto formalismo religioso; e) aggiungere alle feste spettacoli di senso pagano come le maggiolate, i concorsi di bellezza e le cinematografie scorrette all'aperto poiché ciò è profanazione indegna; f) il gran numero di statue e di quadri spesso grossolani, non di rado del medesimo santo, o del medesimo mistero sul medesimo altare, o accanto ad esso; g) fare della drammatica con le statue in chiesa, specialmente nel Venerdì Santo, fare apparire croci luminose, ecc.; h) far suonare la banda in chiesa; i) l'uso prolungato e materiale e quindi superstizioso di campane durante i temporali, di sacramentali e scongiuri per cause lievissime o inesistenti; l) l'uso di amuleti superstiziosi e il loro commercio in chiesa; m) esporre la fotografia del defunto durante il funerale; 12) si curi la devota assistenza dei fedeli ai riti sacri; sono profanazioni intollerabili la moda femminile indecente, sedersi con una gamba a cavalcioni, restare seduti in chiesa durante i momenti più solenni della consacrazione o benedizione, il convegno del mondo profano specialmente nelle ultime messe festive; 13) i principali abusi o deformazioni che si commettono nelle processioni sono i seguenti: a) la loro imposizione e direzione dai laici e non dall'autorità ecclesiastica; b) l’itinerario lungo, le fermate arbitrarie e i rinfreschi lungo il percorso con abuso di bevande alcoliche; c) i cortei religiosi non di preghiera ma coreografici con continui ed assordanti rumori di bande e spari; d) il grande impegno nel raccogliere offerte con le quali la commissione laica senza darne conto all'Autorità ecclesiastica copre le spese dei pubblici divertimenti onde si ha l'industria delle processioni; e) la troppa frequenza delle processioni senza ragione canonica, ordine e dignità di corteo; f) inserire molte statue nelle processioni, farne la licitazione a denaro e affidarle a donne, cristiani non praticanti, bestemmiatori e persone che non osservano le leggi della morale cristiana; g) affiggere alle statue biglietti di banca; h) fare della drammatica poco dignitosa con le varie statue; i) fare della cosiddetta torcia un oggetto sacro da portare col Santo in processione e licitarla continuamente lungo il percorso al migliore offerente; 14) introducano i sacerdoti lungo il percorso delle processioni la recita del Rosario, i canti liturgici e popolari, mentre la banda deve suonare musiche solo per accompagnare tali canti; 15) siano tenuti i sacerdoti a celebrare il matrimonio al mattino con la Santa Messa e la Santa Comunione degli Sposi; 16) è proibito a tutti i sacerdoti e religiosi di dare lezioni private a persone di altro sesso, sotto qualsiasi pretesto e per qualsiasi motivo; 17) è obbligo dei parroci di spiegare durante tutte le domeniche e le feste la consueta omelia, specialmente durante la messa più frequentata; 18) si operi affinchè in tutte le parrocchie vi sia nei suoi quadri l'Azione Cattolica; 19) la musica in chiesa dovrà essere sacra e rispondente alle norme dei Sommi Pontefici Pio IX e Pio XI; 20) mentre si raccomanda il canto liturgico popolare, si ricordi che non è permesso a gruppi di sole donne, anche se appartenenti all'Azione Cattolica, di cantare in pubblica chiesa[43].

Durante il sinodo si deliberò anche che ogni parroco si doveva occupare degli emigranti dirigendoli agli istituti religiosi d'assistenza dei luoghi di arrivo e fornendo loro gratis una tessera ecclesiastica al fine di essere riconosciuti dalle autorità religiose. La tessera suddetta doveva riportare: 1) il nome, il luogo di nascita e lo stato civile del lavoratore; 2) dove e quando aveva ricevuto il battesimo; 3) la firma e il timbro del parroco[44].

I decreti sinodali sopra riportati dimostrano che una delle finalità che la curia diocesana voleva perseguire era la completa eliminazione dalle pratiche di culto di tutti i residui di religiosità naturale, pagana e non tipicamente cristiani che all’epoca continuavano a persistere. Alla luce dell'esperienza futura si può affermare che in questo senso non tutti gli sforzi furono coronati da successo, specie per le disposizioni che riguardavano la celebrazione e l’organizzazione delle processioni e delle feste religiose.

Dopo la divulgazione dei decreti sinodali, numerosi parroci e vicari foranei comunicarono alla curia che s’impegnarono a renderle esecutive ottenendo anche dei successi.

La curia teatina per perseguire alcune finalità prescritte nei decreti sinodali coinvolse anche le autorità civili tra cui il prefetto di Chieti che accolse l’invito dell’episcopato ad adoperarsi per limitare certi abusi durante le processioni. Di conseguenza il 5 marzo 1927 diffuse una circolare sulle feste religiose in cui invitava a collaborare con le autorità ecclesiastiche per convincere i promotori delle feste ad evitare sperperi di denaro e tutte le iniziative che non si conciliassero con il carattere religioso delle ricorrenze sacre [45]. Tuttavia la richiesta di collaborazione il tentativo di rendere esecutivi i decreti sinodali non fu completamente appoggiato da tutte le autorità civili, causò anche alcuni malumori e disapprovazioni che in un caso sfociarono in una richiesta di trasferimento di un parroco rivolta da un potestà alla curia diocesana.

Anche l’arcivescovo Nicola Monterisi nel 1928 fece presente che sorsero dei dissidi tra i fedeli e un parroco della diocesi. Infatti, in una nota egli scrisse: “Da un importante paese della parrocchia ci si scrive che, essendo venuta la grandine dopo l’Ascensione, il popolo l’attribuisce al parroco per non aver fatto la processione, com’era solito, con le statue dei santi. è noto si tratta di statue di Madonne vestite con fogge più disparate, anche goffe, una decina di S. Antoni e di altrettanti S. Franceschi e mezzo paradiso moltiplicato. Tanta ignoranza, fanatismo e superstizione nel popolo non fa onore al clero. Perché quel parroco non comincia subito la pubblicazione di un Bollettino parrocchiale, nel quale combatta anche col ridicolo, tali sciocchezze? E che siano tali non si deve permettere che il popolo lo sappia dal ministro protestante o dal maestro incredulo o dal compagno sotto le armi o dal reduce americano. Lo deve sapere dal suo padre in Cristo, che è il parroco. Così si difende e incrementa la vera fede”[46].

Un’altra iniziativa che le autorità ecclesiastiche abruzzesi promossero al fine di rinnovare la religiosità nell’intera Regione, fu il III Congresso Eucaristico Regionale che si tenne a Chieti dal 4 al 8 settembre 1929. Esso registrò un’ampia partecipazione popolare e nel giorno della sua chiusura si osservò la presenza di circa 40000 persone[47].

Agli stessi fini, nel 1932, per l’iniziativa del presule peligno Nicola Jezzoni fu organizzato a Sulmona il IV Congresso Eucaristico Regionale. Il 23 settembre, sua giornata finale, vide un’imponente processione con le autorità civili, quelle religiose poste sotto un baldacchino, i rappresentanti delle associazioni cattoliche, donne vestite con abiti tradizionali ed altro.

Il tentativo di rinnovamento della vita religiosa che fu messo in atto investì anche le parrocchie che ad avviso di Monterisi dovevano modificare alcuni suoi attributi e diventare il luogo di promozione e sviluppo di un laicato con una religiosità convinta e scevra da credenze superstiziose, un centro irradiatore di vita religiosa e non un ufficio burocratico che risolveva le pratiche sacramentali[48].

Durante gli anni '30 la curia arcivescovile teatina impartì numerose disposizioni ai parroci al fine di promuovere nuove forme di devozione e culto e tentare di eliminare antichi cerimoniali e tradizioni non prettamente cristiani. A tal proposito nel 1933 fu chiesto ai parroci di non far suonare le campane della chiesa per atti civili, furono fornite accurate disposizioni per evitare i matrimoni "post-fugam", fu raccomandato di tenere le lezioni di catechismo ai fanciulli nel corso di più giorni della settimana e di non omettere mai di celebrare le funzioni religiose vespertine durante la domenica e le altre giornate festive. Inoltre il 25 marzo dello stesso anno l'arcivescovo Venturi, al fine di iniziare santamente l'anno giubilare della Redenzione, dispose che dal pomeriggio del 6 aprile si partecipasse a un'ora di pubblica adorazione per ricordare ai fedeli le sofferenze patite dal Divin Redentore nell'Orto degli Olivi.

Nel 1941 anche il presule frentano Mons. Tesauri convocò un sinodo nella sua diocesi al fine di rinnovare la vita religiosa. Durante i lavori sinodali si deliberò di indire la festa dei soldati partenti per la leva obbligatoria e la guerra e si suggerì ai parroci di indirizzare questi giovani che per la prima volta lasciavano la loro terra, verso le sedi dell’Azione Cattolica delle località d’accoglienza al fine di non farli sentire completamente spaesati.

Ad operare alcune modifiche della vita religiosa popolare concorse anche il regime fascista con la sua particolare filosofia e le sue scelte politiche. Nell’epoca in esame anche in Abruzzo s’impose il cosiddetto ruralismo fascista che con le sue manifestazioni ebbe notevoli riflessi sulla vita sociale e religiosa dei centri abruzzesi. Al fine di perseguire con più efficacia gli obiettivi che il ruralismo si prefissava le autorità del regime chiesero l’appoggio del clero abruzzese che nel suo complesso non lo negò poiché trovava corrispondenti alle sue finalità la morale fascista della famiglia fondata sull’autorità maschile e l’alta prolificità femminile. Alcune manifestazioni tipiche del ruralismo fascista in Abruzzo furono le seguenti: 1) la festa del fiore che fu organizzata a Teramo nel 1929; 2) le numerose feste degli alberi, dell’uva e del grano che si organizzarono nei vari centri regionali; 3) la festa delle massaie rurali, una delle quali fu organizzata a Lanciano nel 1938; 4) il festival delle Maggiolate di Ortona in cui si presentarono nuove canzoni dialettali.

Generalmente il programma festivo di queste manifestazioni prevedeva: esibizioni di musicali di orchestrine, bande e/o gruppi folkloristici regionali, sfilate di carri allegorici, balli popolari, gare comico-sportive (corse con i sacchi, tiro alla fune ed altro), mostre con premiazioni, lotterie, degustazioni di pietanze locali, alberi della cuccagna ed altro.

L’ultimo fattore dell’intreccio che modificò la religiosità popolare del periodo in esame è costituito dai lavoratori emigrati che durante la permanenza nei luoghi di lavoro venivano a contatto con altre realtà culturali e religiose. Per questi motivi, spesso il loro ritorno nei luoghi d’origine era visto con una certa diffidenza e molti parroci erano convinti che a causa loro aumentava l’irreligiosità. Essi, tuttavia non sempre accoglievano i modelli religiosi dei luoghi di lavoro, tendevano a conservare quelli delle località d’origine e nel loro complesso erano portatori di una religiosità con i seguenti tratti caratteristici: 1) la strumentalità finalizzata a chiedere a Dio e i santi assistenza e grazie per la salute o il benessere materiale; 2) il sentimentalismo basato sul rispetto della famiglia, delle tradizioni e delle feste patronali. Spesso capitava che con la forte influenza esercitata dai contributi in denaro e altri motivi, gli emigranti imponevano i loro culti e riuscivano a ottenere modifiche ai calendari festivi locali in modo da far coincidere alcune importanti celebrazioni con i loro momenti di ferie e di ritorno in paese.

 

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[1] Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pag. 35.

[2] Amodei G., La periferia devota: Pescara e il fascismo, pag. 4.

[3] Amodei G., La periferia devota: Pescara e il fascismo, pag. 6.

[4] Amodei G., La periferia devota: Pescara e il fascismo, pag. 10.

[5] Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pagg. 86-87.

[6] Si veda Gentile E., Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista.

[7] Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pag. 69.

[8]Trinchese S., Società civile e società religiosa dall’unità ai nostri giorni, pag. 446.

[9] Fimiani E., Il fascismo in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo sociale nell’Abruzzo chietino, pag. 394.

[10] COLAPIETRA R., Il vescovo Tesauri ad Isernia e a Lanciano: un impatto tra due mondi, pag. 85.

[11] Pitoni G.B., Il duomo, emblema di rinascita dopo il sisma.

[12] Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pag. 88.

[13] Trinchese S., Società civile e società religiosa dall’unità ai nostri giorni, pag. 452.

[14] Fimiani E., Clero e gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e dopoguerra (1937-1947), pag. 168.

[15] Fimiani E., Clero e gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e dopoguerra (1937-1947), pag. 169.

[16] Paziente F., La provincia di Chieti da Giolitti a Mussolini (1915-1929). Società, Stato e Chiesa tra rinnovamento e restaurazione, pag. 278.

[17] Paziente F., La provincia di Chieti da Giolitti a Mussolini (1915-1929). Società, Stato e Chiesa tra rinnovamento e restaurazione, pag. 278

[18] Fimiani E., Il fascismo in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo sociale nell’Abruzzo chietino, pag. 392.

[19] Canosa R., Storia dell’Abruzzo nel ventennio fascista, pag. 151.

[20] Fimiani E., Il fascismo in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo sociale nell’Abruzzo chietino, pagg. 392-393.

[21] Fimiani E., Il fascismo in Provincia. Organizzazione di partito, mobilitazione politica, controllo sociale nell’Abruzzo chietino, pag. 393.

[22] Trinchese S., La fondazione della diocesi di Penne-Pescara, pag. 594.

[23] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-1929), pagg. 140-141.

[24] Fimiani E., Clero e gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e dopoguerra (1937-1947), pag. 169.

[25] TOSCO G., Al crocevia fra Chiesa, Fascismo e colonialismo: il congresso eucaristico di Tripoli (1937), pag. 288.

[26] Fimiani E., Clero e gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e dopoguerra (1937-1947), pag. 176.   

[27] D’AMORE F., L’inizio della guerra, la miseria nella Marsica e l’inasprirsi della sorveglianza della polizia (maggio-giugno 1940).

[28] Fimiani E., Clero e gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e dopoguerra (1937-1947), pag. 194.

[29] Gentile E., Fascismo storia ed interpretazioni, pagg. 217-218.

[30] De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, pagg. 231-232.

[31] De Rosa G., Vescovi, popoli e magia nel sud, pag. 211.

[32] Monterisi N., Trent'anni di episcopato nel Mezzogiorno (1913,1944), pag. 176

[33] Monterisi N., Trent'anni di episcopato nel Mezzogiorno (1913,1944), pag. 185.

[34] Questa consuetudine tuttora continua a persistere in diverse località.

[35] Trinchese S., Società civile e società religiosa dall’unità ai nostri giorni, pag. 446.

[36] Felice C., La Chiesa abruzzese dalla caduta di Mussolini alla Repubblica, pag. 8.

[37] Mons. Pietro Tesauri vescovo, pag. 25.

[38] Fimiani E., Clero e gerarchia ecclesiastica delle diocesi di Valva-Sulmona tra fascismo, guerra e dopoguerra (1937-1947), pag. 172.

[39] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 310.

[40] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 232.

[41] Trinchese S., La fondazione della diocesi di Penne-Pescara, pag. 592.

[42] Trinchese S., La fondazione della diocesi di Penne-Pescara, pag. 593.

[43] Monterisi N., Sinodo diocesano teatino: primo dopo la pubblicazione del codice, celebrato nei giorni 22, 23 e 24 luglio 1926 nella metropolitana di Chieti da mons. N. M. per le Diocesi di Chieti e Vasto.

[44] Qualche anno dopo anche il presule frentano Mons. Tesauri prestò attenzione anche agli emigranti, fornendo loro la tessera ecclesiastica.

      [45] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-                    1929) pag. 281.

[46] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 99.

[47] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 300.

[48] Liberatoscioli G., Nicola Monterisi arcivescovo di Chieti-Vasto (1920-1929), pag. 313.

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