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21 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, L'atroce morte della principessa Caracciolo di Santobono.

Modesto Faustini, "L'arresto di Luisa Sanfelice", 1877

L'atroce morte della principessa Caracciolo di Santobono
di Antonio Mezzanotte

Raccontare su un breve post domenicale di facebook la Rivoluzione Napoletana del 1799 è impresa ardua e impossibile, ma se ne deve parlare, perlomeno di alcuni profili, perché di storia se ne parla poco, ovvero troppo e male (ed i programmi ministeriali ci mettono del loro). Se ne deve parlare, però, non fosse altro per comprendere che il nostro Risorgimento è stato iniziato, preparato e forgiato anche dall’illuminismo napoletano, dalla scuola del Filangieri, del Genovesi e del Galiani. Per la prima volta, infatti, affievolite le speranze di una monarchia riformatrice (anche per l’ostilità della regina Maria Carolina dopo la morte della sorella Maria Antonietta di Francia), quegli insegnamenti trovarono concretezza di idee (ma purtroppo non di piena azione politica) nei tanti giovani avvocati, medici, funzionari, letterati, ecclesiastici e militari che aderirono alle idee rivoluzionarie e sognarono di trasformare le genti meridionali, soggiogate per secoli dall’oppressione feudale e straniera, in un popolo dotato di coscienza civica, di strutture statali moderne ed aperte al cambiamento.
Non ci riuscirono, un po’ per colpa dei Francesi invasori (per i quali, a parte rare eccezioni, Napoli era soltanto terra di conquista), un po’ per la loro stessa incapacità di tradurre le idee in pratica e di comprendere le aspirazioni del popolo. Contrariamente, però, a quello che la storiografia tradizionale ci ha insegnato, furono davvero in tanti a Napoli, nelle province e nei piccoli centri a aderire a quella esigenza di cambiamento, segno di una diffusa volontà di partecipazione al processo di miglioramento della società meridionale. La successiva, violenta restaurazione borbonica ha cancellato gran parte dei ricordi di quella formidabile stagione, durata solo alcuni mesi, nei quali per la prima volta anche le donne hanno avuto un ruolo da protagoniste nell’imprimere una visione per il futuro della società.
Tutti (sono ottimista!) ricorderanno Eleonora Fonseca Pimetel, Luisa Sanfelice, Giulia Carafa Cantelmo di Serra di Cassano e sua sorella Maria Antonia duchessa di Popoli (le Madri della Patria), Teresina Ricciardi, Vittoria Pellegrini insieme alle altre meno conosciute, che, in nome della libertà, sono state umiliate, morte suicide, esiliate o incarcerate o che, in silenzio e di nascosto, hanno dato il loro contributo a quella breve esperienza repubblicana.
Erano giorni maledetti, le bande del Cardinale Ruffo avevano ripreso ormai la città di Napoli, spalleggiate da contingenti austriaci, russi, inglesi, perfino ottomani, ed i francesi erano fuggiti. Re Ferdinando ancora in Sicilia, nessuno aveva più fiducia e rispetto di alcuno, si scatenò un’ondata di violenza senza paragoni. In quel turbine di sangue, di uccisioni e di macabra crudeltà che sfociò anche in episodi di cannibalismo, è doveroso ricordare la tragica fine della principessa Caracciolo di Santobono, una delle tante vittime innocenti della barbarie sanfedista.
Il 18 febbraio 1799 si sparse per tutta Napoli la voce che il generale Jean Etienne Championnet, il comandante in capo del corpo di spedizione francese (colui che aveva offerto un anello di diamanti a San Gennaro per ripagarlo del trafugamento del tesoro portato dal Re a Palermo, gesto apprezzato dal Santo che compì per tre volte il miracolo della liquefazione, e che alloggiava nel Palazzo Caracciolo alla Carbonara) avesse sposato la bellissima figlia del Principe Ferdinando di Santobono. La notizia venne smentita, però, il mattino successivo: non vi era stato alcun sposalizio, ma solo una dichiarazione d’amore del Generale, follemente innamorato della giovane, e forse una richiesta di fidanzamento.
Pochi giorni dopo, Championnet fu richiamato in Francia. Gli eventi precipitarono, a fine giugno del 1799 ormai la Repubblica partenopea non esisteva più e si scatenò la caccia al giacobino.
Fu allora che la massa abietta dei lazzari rammentò quella voce di vento, quel sentimento del Generale francese verso la giovane figlia del principe di Santobono (del tutto estranea alle vicende della rivoluzione), che fu rapita da una turba penetrata nel Palazzo Caracciolo e trascinata in pubblico per la città completamente nuda fino alla chiesa dello Spirito Santo in Via Toledo e lì, proprio sulla soglia del portone della basilica, venne dapprima stuprata innumerevoli volte e poi orrendamente e lentamente seviziata fino alla morte.
Lo stesso Cardinale Ruffo, dinnanzi ad un crimine così efferato di una vittima innocente, volle in qualche modo prendere le distanze dai lazzari, sostenendo che egli aveva a che fare con gente violenta, feroce ed ignorante, che ormai non riusciva più a trattenere.

(Nella foto: Modesto Faustini, "L'arresto di Luisa Sanfelice", 1877, olio su tela. La particolarità del dipinto sta, tra l'altro, nelle truci figure dei gendarmi, visibili soltanto nell'immagine riflessa allo specchio)

14 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, "Giovanni Costanzo Caracciolo di Santobono, il Cardinale della Fontana di Trevi".

Il Leone dei Caracciolo di Santobono e un ritratto di Giovanni Costanzo Caracciolo 
Giovanni Costanzo Caracciolo di Santobono, il Cardinale della Fontana di Trevi
di Antonio Mezzanotte

Fontana di Trevi
Chi non conosce la celebre Fontana di Trevi a Roma? Ma probabilmente pochi hanno notato i due stemmi che vi campeggiano: il primo è quello di papa Clemente XII (committente e finanziatore dell'opera), in alto. L’altro, scolpito vicino al cosiddetto Asso di Coppe, ossia al vaso in travertino posto a sinistra del monumento, raffigura il leone rampante dei Caracciolo di San Buono sovrastato dal cappello dei prelati della curia pontificia dell'epoca. Vediamo come sono andati i fatti. In un mio precedente post ho narrato le vicende di Carmine Nicola Caracciolo, principe di San Buono (nonché Duca di Castel di Sangro, Marchese di Bucchianico e padrone feudale di tanti altri paesi posti tra l'Abruzzo ed il Molise), il quale, come premio per la sua fedeltà alla casa dei Borbone di Spagna e per i servizi resi, fu nominato Vicerè del Perù. 
Da Bucchianico (CH), paese natio, a Lima capitale del Perù (ossia di tutta l’America meridionale spagnola) ebbe una vita movimentata e ricca di soddisfazioni, ma anche di grandi amarezze, come quando, dopo esser salpato da Cadice con tutta la famiglia il 13.11.1715, attraversò l’Oceano Atlantico in poco più di un mese e mezzo, ma prima di giungere a destinazione, quando ormai la piccola flotta era entrata nel Mar dei Caraibi, al largo delle coste colombiane di Cartagena l’amata moglie Costanza morì di parto dando alla luce il piccolo Giovanni, al quale venne aggiunto il nome Costanzo in memoria della madre. Era il 19.12.1715.
Dopo gli anni trascorsi in Sudamerica, nel 1721 Carmine Nicola Caracciolo (che nel frattempo si era risposato) tornò in Europa con parte della propria famiglia, per spegnersi a Madrid nel 1726.
Il figlio Giovanni Costanzo fu avviato presto alla carriera nell’amministrazione pontificia e ricoprì vari incarichi: fu segretario generale della Fabbrica di San Pietro, uditore presso la Camera Apostolica e, dal 1732 al 1762 divenne Procuratore delle Acque di Roma, in buona sostanza il capo dell’organo gestore degli acquedotti romani. In tale veste, fu presidente della Commissione che esaminò i progetti di rinnovamento della Fontana di Trevi, attribuendo l’appalto al romano, ma forse di origini aquilane, Nicola Salvi (il cui progetto, tra l'altro, era il più economico tra i 16 presentati, preferito anche a quello del Vanvitelli, che pure piacque molto al Papa). Come gestore delle acque di Roma, il Caracciolo seguì assiduamente i lavori per la nuova Fontana di Trevi.

7 novembre 2021

Antonio Mezzanotte, Da Bucchianico al Perù: Carmine Nicola Caracciolo di Santobono.

Carmine Nicola Caracciolo nel giorno del suo ingresso a Lima, capitale del Perù,
il 5 ottobre 1716, di artista anonimo
.

Da Bucchianico al Perù: Carmine Nicola Caracciolo di Santobono
di Antonio Mezzanotte

Suo nonno, Ferrante, era stato una gran testa calda: opportunista, spavaldo, attaccabrighe, ottimo spadaccino. Si scontrò varie volte a duello, fece da prestanome in operazioni finanziarie poco chiare, qualche tempo dopo riuscì a comprarsi all’asta la città di Chieti, poi rifiutò di levarsi il cappello dinnanzi a Masaniello, scappò per un pelo alla folla che voleva linciarlo (e che gli saccheggiò il palazzo di Napoli), fu colpito a morte da una archibugiata a Nola mentre, alla testa dei propri soldati, andava all'assalto dei rivoltosi. Una vita movimentata.
Carmine Nicola fu apparentemente l’esatto contrario dell'antenato: riflessivo, di buona cultura, anche un po’ piacione e bravo oratore. Aveva una inclinazione tutta particolare per gli studi letterari, compose numerose poesie, opere buffe, favole, anche un compendio storico della propria famiglia.
Non si trattava, però, di una famiglia qualunque: parliamo dei Caracciolo Principi di San Buono, Duchi di Castel di Sangro, Marchesi di Bucchianico e feudatari di mezza provincia di Chieti, dell’Alto Sangro, dell’Alto Molise e titolari di feudi anche nel pescarese.
Carmine Nicola nacque proprio a Bucchianico (CH) il 5 luglio 1671, rampollo di cotanta progenie. Da ragazzo visse in paese, con qualche puntata a Castel di Sangro e a San Buono, nella Valle del Treste. La madre curò molto la sua istruzione e, quando da adulto arrivò a Napoli, si circondò di poeti e giuristi, frequentò i circoli culturali più esclusivi della Capitale (le famose Accademie) e ne creò altrettanti, tutti accumunati dallo splendore della sua corte. Amava la bella vita e le belle donne (ci fu un mezzo scandalo per aver messo gli occhi su una cantante, che però era la favorita del viceré Medinaceli).

Antonio Mezzanotte, Storia di una truffa, di uno zio spendaccione e di un giudizio durato 109 anni.

"Il Tribunale della Vicaria" di Napoli, presso Castel Capuano,
olio su tela, sec. XVII, attribuito a Carlo Coppola ovvero ad Ascanio Luciani
 
Storia di una truffa, di uno zio spendaccione e di un giudizio durato 109 anni
di Antonio Mezzanotte

Un bambino di tredici mesi, rimasto orfano di padre, morto in guerra, viene affidato alla tutela dello zio paterno. Questo zio, amante della bella vita, ma notoriamente con le tasche bucate, in pochi anni svende buona parte del patrimonio che ha ereditato il nipote: terreni, case, mobili, preziosi, industrie ed intasca i soldi senza dichiarare nulla al Fisco. I compratori, che conoscono il carattere del personaggio, fanno finta di credere di acquistare beni di modico valore, terreni improduttivi, case in rovina. Invece l’affare è davvero lucroso: lo zio tutore realizza subito un bel gruzzolo, i compratori con poco prezzo si impadroniscono di grasse aziende agricole, palazzi, mobili d’arte e dei beni immobili così acquistati nulla trascrivono nei Pubblici Registri, sicché gli stessi continuano a figurare come intestati al minore.
Quando lo zio muore, il nipote, divenuto maggiorenne, scopre che molto probabilmente è stato frodato: in primo luogo dallo zio, che non ha mai avuto una contabilità separata del patrimonio amministrato per conto del nipote (e che, ovviamente, gli ha lasciato in eredità solo debiti), ma anche dal notaio, dai testimoni delle compravendite, dai periti che hanno attestato il falso e forse anche dal Giudice tutelare, che ha concesso con interessata e remunerata leggerezza le autorizzazioni per disporre del patrimonio intestato ad un minore. Così decide di promuovere un'azione legale contro i compratori ed i loro aventi causa per chiedere l’annullamento dei contratti e per rientrare in possesso di tutto.
Sembra una vicenda giudiziaria che potremmo leggere sui giornali di oggi; invece, risale a circa 350 anni fa e vide come protagonista una delle più potenti e influenti famiglie nobili che dominavano buona parte dell’Abruzzo: i Caracciolo, principi di San Buono, duchi di Castel di Sangro, marchesi di Bucchianico, nonché feudatari di numerosi paesi, tra cui Rosciano, Alanno, Cugnoli, ma anche Guardiagrele, Filetto, San Martino sulla Marrucina, Monteferrante e buona parte dell'Alto Sangro, dell'Alto Vastese e dell'Alto Molise.
Il bambino rimasto orfano era Marino V Caracciolo, figlio di quel Ferrante, avventuriero e brillante spadaccino, il quale riuscì persino a comprarsi la città di Chieti ma che perse la vita durante la rivolta di Masaniello, e lo zio era Gianbattista, cavaliere di Malta e, come tale, Priore di Messina. I compratori di immobili e feudi furono Ludovico de Pizzis di Ortona (uomo ambizioso e spregiudicato, il suo motto era: “chi non s’arrischia, non acquista”) e Marc’Antonio Leognani Fieramosca di Civitaquana (un personaggio calcolatore e con il fiuto per gli affari, di lui si diceva che “faceva valere per ducato il suo carlino”).

Antonio Mezzanotte, Quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta la città di Chieti.

Particolare del frontespizio della "Historia della Città di Chieti" di Girolamo Nicolino, 1657
 
Quando Ferrante Caracciolo di Santobono comprò all'asta la città di Chieti
di Antonio Mezzanotte

L’importanza della città di Chieti nelle vicende storiche abruzzesi è ben nota o perlomeno dovrebbe esserlo, considerato che nel 1558 veniva costituita Metropoli delle Provincie dell’Abruzzo con sede di Regia Udienza ed altri uffici governativi. Il Palazzo di Giustizia odierno, in piazza San Giustino, è stato costruito proprio dove in antico era la sede del Preside e Governatore Generale delle provincie abruzzesi.
Accadde però, agli inizi del XVII sec., che la cronica penuria di denaro nella casse dell’Erario spagnolo (sempre più impegnato a sostenere sfibranti guerre, senza che, per altro, la Corona di Spagna ne traesse particolari benefici) ed un debito di re Filippo IV nei confronti del re di Polonia, costrinsero il Governo Vicereale di Napoli a vendere i gioielli di famiglia, ossia le Città demaniali.
Com’è e come non è, il 7 luglio 1644 la città di Chieti fu venduta all’asta (metodo della candela vergine) per la somma di 81 ducati a fuoco (inteso come nucleo familiare fiscale), operazione che, per la ragione di 2000 fuochi più le spese, portò nelle casse dell’Erario la somma di 170mila ducati. All'epoca solo un personaggio poteva permettersi di sborsare una somma così ingente: il Duca di Castel di Sangro, Ferrante Caracciolo, della Casata dei Santobono (in un mio precedente post ne ho tracciato un breve ritratto), il quale, essendo già padrone della confinante Bucchianico, aveva da tempo accarezzato l'idea di mettere le mani proprio su Chieti.
Non starò qui a narrare tutte le vicende della infeudazione di Chieti e dei tentativi dei nobili teatini, capeggiati dai Valignani, di scongiurarne la vendita, degli episodi di rivolta e del riscatto al Regio Demanio durante le epiche giornate dell'insurrezione napoletana del 1647, nel corso delle quali Ferrante Caracciolo trovò la morte.

Antonio Mezzanotte, Ferrante Caracciolo di Santobono, Duca di Castel di Sangro.

Leone rampante dei Caracciolo di Santobono,
 posto sull'ingresso del Palazzo in via Carbonara a Napoli.
 
Ferrante Caracciolo di Santobono, Duca di Castel di Sangro
di Antonio Mezzanotte

Scaltro, astuto, spavaldo, dotato del senso per gli affari, privo di scrupoli, ottimo spadaccino, con una naturale predisposizione al comando, Ferrante si considerava pari a chiunque e superiore a molti, intelligente più di tanti e quanto basta per essere un tipico esponente della grande feudalità seicentesca ed attraverso di lui si affermava il potere della sua Casata, quella dei Caracciolo principi di San Buono.
A dire il vero, egli era secondogenito, pertanto in un’epoca nella quale titoli e patrimoni venivano ereditati esclusivamente dal figlio primogenito, da giovane (nacque a San Buono, CH, nella Valle del Treste, il 09.12.1605) morse il freno, destinato ad una carriera ecclesiastica ma privo di mezzi economici, lo sosteneva solo una grande ambizione.
Fu così che nel 1630, a 25 anni, iniziò un’altra carriera, battendosi a duello in Napoli con Adriano Acquaviva, dei Duchi di Atri, che uccise. All’epoca portava ancora la tonaca di chierico e, ferito, riuscì a rifugiarsi nella chiesa di S.Antonio di Padova, dove rimase nascosto e protetto dall’arcivescovo di Napoli Boncompagni fino a che le acque non si furono placate. Negli anni a venire si diede a diverse operazioni finanziarie, fungendo anche da prestanome di personaggi di rilievo, quale, ad esempio, lo stesso Vicerè di Napoli, trafficando spregiudicatamente con le polizze degli appalti delle tasse, accumulando ingenti profitti e beffando spudoratamente il Regio Fisco.