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29 gennaio 2025

Loris Di Giovanni, Appunti sulla storia della sollevazione d'Abruzzo e del contributo dato dalla Carboneria.


APPUNTI SULLA STORIA DELLA SOLLEVAZIONE D’ABRUZZO E DEL CONTRIBUTO DATO DALLA CARBONERIA

Spero nel volgere di questo breve articolo di riuscire a farvi conoscere ed apprezzare il valore dei martiri, degli audaci, dei congiuratori abruzzesi, che con saldo volere ed incuranti di ceppi e patiboli, gettarono le prime basi dell’Italia nuova. Cercherò, quindi, di darvi alcuni spunti che spero possano esser utili per uno studio più approfondito sul contributo dato dalla Carboneria alla sollevazione d’Abruzzo, narrandovene gli episodi salienti ed i personaggi, molti dei quali finiti nell’oblio.
Intorno alle origini della Carboneria molto si è scritto e discusso; ma la questione non è stata ancora definita, né io, nei modesti limiti di questo lavoro, potrei lusingarmi di risolverla. Quindi, senza dire col Botta che “la Carboneria ebbe la sua origine e si mostrò la prima volta fra le montagne dell’Abruzzo, ove si fa una gran quantità di carbone”, giacché, pur avendo in sé comunque un valido indizio, mi pare un’opinione inesatta, tuttavia è certo che quest’ordine ebbe vita rigogliosa e piena negli Abruzzi e non poco contribuì a tutto il movimento politico del XIX secolo.
Carboneria da associazione di mestiere a organizzazione politica rivoluzionaria… V’è stato sicuramente nelle montagne degli Abruzzi, chi ha esercitato per secoli il mestiere di carbonaio, famosissimi quelli di Torlinparte, unica attività che potesse integrare nelle province interne, il reddito familiare derivante dall’allevamento e da una stentata agricoltura. Generalmente le zone di bosco destinate a legna per il carbone erano quelle più impervie e senza strade di accesso. Strumento indispensabile era l’accetta, utensile principe, d’acciaio temprato, di poi divenuta simbolo. Veniva trattata come una “creatura”, tenuta avvolta in un panno di lana per non farla raffreddare troppo nei mesi invernali: se era troppo fredda poteva spezzarsi e non sempre se ne possedeva una di ricambio. Nei borghi d’Abruzzo i carbonai formavano delle compagnie che unite ad altre e comandate dai capimacchina raggiungevano località montane dove procedevano al processo di carbonizzazione.
Ma torniamo a quella, per così dire, “speculativa”.
Narra il Pansa, esimio studioso di sfragistica carbonara, che “durante l’occupazione francese di Giuseppe Napoleone, allo scopo di educare i popolo e di distruggere l’influenza del regime borbonico, si radicò in Abruzzo la setta della Carboneria, ritenuta generalmente una riforma del massonismo, che mirò poi al riscatto nazionale ed ebbe la virtù di non cedere alle lusinghe dei napoleonici, che ne volevano trar vantaggio, e la forza e la costanza di resistere alla violenza del principe di Canosa, che voleva annientarla”.
Una cosa è certa: quando la carboneria si mostrò amica di Ferdinando, fu proscritta dal Murat e quando era da questi accarezzata, fu dal Borbone sconosciuta, allorché, infine, fu dall’uno e dall’altro per propri scopi tenuta da parte e finì col congiurare e nascondersi.
Anni fa, un mio studio portò alla ri-scoperta e valorizzazione di importanti documenti donati alla biblioteca di Villa Vascello a Roma dall’avvocato Umberto Cipollone, più volte Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Per uno studio approfondito degli stessi rimando alla mirabile opera di Francesco Landolina.
L’importanza dei cd. “documenti di Lanciano”, così sono ormai noti da una mostra tenuta nel 2005 dal Servizio Biblioteca del Grande Oriente d’Italia al Museo Garibaldino in occasione dei 200 anni dalla fondazione del Grande Oriente d’Italia, se da una parte è rinvenibile nelle doppie firme carboniche e massoniche e nella prima manifestazione del Rito di Misraim, dall’altra è evidenziata dalla presenza accertata dell’Intendente per l’Abruzzo Citeriore e primo propagatore della carboneria in Italia, il francese Pierre Joseph Briot.
Questo avvocato della Franca-Contea, nato il 17 aprile 1771 ad Orchamps Vennes, nel Dipartimento del Jura, fu un personaggio politico importante.
Fu Massone nelle Logge di Bésançon, ma anche Buon Cugino Carbonaro del rito di Alexandre-la Confiance, molto strutturato nell'est della Francia, dal Giura alla Foresta Nera. Fonti certe lo danno nelle file della società segreta dei Buoni Cugini carbonari già dal novembre del 1793. Fu iniziato a Gray, ove esisteva una “Chambre d’Honneur” di detta società.
Tra l’8 settembre e il 20 ottobre il Briot incorse in una singolare avventura. A parlarcene nella sua “Storia pittoresca della Massoneria e delle società segrete” è lo scrittore di fatti massonici, massone anch’egli, Clavel: <Fatto prigioniero degli austriaci nella foresta nera egli fece i “segni” di buon cugino e tosto venne liberato dai suoi assalitori. Quest’ultimi lo posero sotto la loro fraterna protezione e lo accompagnarono fino agli avamposti>.
Dal 1804 al 1806 si perdono le sue tracce, in una maniera tale che diversi autori suggeriscono che Briot proprio in questo periodo abbia cominciato certe attività clandestine. Altri avanzano l'ipotesi, non priva di fondamento pur se non documentata, che egli abbia avuto allora dei contatti serrati con Filippo Buonarroti, allora esiliato a Sospello, a nord di Nizza, che preparava molto discretamente la formazione di una società segreta italiana con finalità rivoluzionarie, la “Società dei Raggi”.
Il progetto del Carbonarismo sembra proprio esser stato messo in piedi in quei momenti, ed è probabile che una sinergia "Buonarroti - Briot" ne sia stata uno dei fattori determinanti fra il 1804 e il 1806: col Buonarroti teorico in esilio che lo adattava alle specificità del problema italiano, e col Briot operatore sul campo grazie alle larghe protezioni di cui godeva.
Ma veniamo all’Abruzzo. Nel 1806 il Briot compare di nuovo in Italia, e precisamente a Chieti, in qualità di Intendente della provincia degli Abruzzi, sotto la brevissima autorità di Giuseppe Bonaparte.
Durante la presenza nella città d’Achille fondò un giornale provinciale che venne però immediatamente soppresso perché considerato “troppo liberale”.
Sia la città di Chieti che quella di Lanciano gli tributarono onori e gli conferirono addirittura una medaglia d’argento per le sue benemerenze cittadine.
Sicuramente è da Chieti che il Briot inizia a propagare i primi semi della Carboneria. All’inizio diffusa solo tra i soldati, tra i quali molti erano massoni, poi tra la gente di cultura e non.
Un Carbonarismo rivoluzionario ed a priori repubblicano si sviluppò in una maniera a tal punto fulminea che Briot ne perse il controllo, malgrado la simpatia che la sua persona suscitava fra le popolazioni rurali, delle quali si occupava con bontà e competenza.
Nel 1807 è destinato a Cosenza, in Calabria, ed immediatamente un nuovo focolaio carbonaro si forma, con lo stesso successo. La coincidenza fra i movimenti di Briot e la nascita di focolai Carbonari nell'Italia del Sud sembra poter dimostrare la sua incondizionata partecipazione alla diffusione internazionale di un carbonarismo repubblicano.
Dal “Quadro delle Logge Regolari Dipendenti dal Grande Oriente di Napoli”, riportato in uno studio dello Stolper, scorrendo l’indice delle logge si scorge di nuovo il nome di Briot, quale Deputato della Loggia Gioacchino I° di Cosenza, segno inequivocabile che l’attività massonica era usata dal francese per i primi contatti sul posto e come “cuneo” alla propagazione delle idee carbonare.
Ma la sua firma di maestro carbonaro (Pietro Giuseppe Briot seguita da 5 puntini, tre ravvicinati più due a breve distanza, tra due righe parallele) la troviamo, assieme a quella del Laroux, quale visitatore della Rispettabile Loggia “La Concorde” all’Oriente di Lanciano. Trattasi della medesima loggia ove militava il sacerdote carbonaro Floraspe Renzetti, cui è ancor oggi dedicato l’attuale ospedale nato dal munifico lascito del suo testamento nuncupativo, e tanti esponenti di spicco della comunità frentana, massoni e carbonari al tempo stesso, come s’evince dalle segnature nei documenti prima richiamati. La Concorde nasce nel 1806 come loggia castrense appartenente al Sesto Reggimento di stanza in Lanciano. Era di Rito Riformato ed all’obbedienza del Grande Oriente di Francia e di Napoli.
È fondata da Luis Eynard, che ne è anche Maestro Venerabile. La prima sede era nel casino degli eredi Liborio de Crecchio. Molti i militari francesi presenti, anche di alto grado, quasi tutti buoni cugini.
I tre puntini tra due linee indicano il grado di apprendente carbonaro, mentre i cinque puntini quello di maestro carbonaro.
Tali segnature carbonare è dato riscontrare anche innanzi ad alcuni nomi in diversi brevetti di logge massoniche del Grande Oriente di Napoli del 1807 e in brevetti di Vendite carbonare del 18105. In alcune di esse i puntini sono semplicemente allineati dopo il nome.
Dello stesso periodo “La Pairfaite Union” all’Oriente di Chieti, anch’essa loggia castrense i cui membri non disdegnavano i sacri travagli e progettavano insieme di “ purgare la foresta dai lupi”.
Ma è uno studio dei primi del novecento del sulmonese Pansa che ci restituisce i sigilli di diverse vendite carbonari di quel tempo. Nei titoli distintivi e nell’iconografia, sono racchiusi principi ed idee della carboneria abruzzese.
La vendita di Torre dei Passeri era detta ”Scevola colla mano al fuoco” e raffigurava Muzio Scevola col pugnale nella mano sinistra ed in atto di protendere la destra sul braciere ardente.
In quella di Vacri detta “I seguaci di Achille” era effigiato un sole nascente con la baracca, il tronco dell’albero, il globo, la scure ed un pugnale.
Molto particolare il sigillo della vendita “I dissidenti di Poppedio” di Ortona dei Marsi: rappresenta un esercito che muove a fucili spianati contro una baracca. In calce la dicitura “Pro Patria”. Quanto mai efficace il richiamo a “Quintus Poppaedius Silo”, condottiero marso, uno dei due comandanti in capo degli Italici ribelli nella Guerra sociale contro Roma. Notasi come anche il conterraneo Ignanzio Silone, al secolo Secondo Tranquilli, lo usò anch’egli, mutandolo, come cognome.
Il sigillo della vendita “Il Trionfo” di Roccamorice venne rinvenuto dal dott. Domenico Tinozzi ed illustrato in uno studio del 1912: rappresentava un trofeo alla cui base uscivano un fascio littorio sormontato da una scure e da una spada incrociata e un asta sormontata dal berretto frigio.
In quella degli “Gli Amici della Patria” all’Ordine di Montenerodomo era effigiata una figura femminile appoggiata all’albero della libertà. Alla sua sinistra la baracca, luogo delle riunioni.
Forse il suggello più bello per la sua semplicità era quello della Vendita “La Redenzione” di Loreto Aprutino, nel quale campeggiavano intrecciate una vanga, una zappa e una scure, simboli dei sacri travagli.
L’abate Luigi di Vestea nel suo opuscolo “Un comitato di setta carbonara in Loreto Aprutino”, riporta addirittura una foto dei dignitari, il Gran Maestro, caso non raro in Abruzzo, era l’abate Michelangelo Forchetti, sacerdote della città vestina. Tra i dignitari Pietro Valentini, di poi Gran Maestro della vendita “La Filantropia Aternina” all’Or. Di Pescara, il cui sigillo in ceralacca è stato rinvenuto grazie allo storico Bruno Sulli di Pescara.
Tra il ’19 e il ’20 in tutti i paesi dell’Abruzzo si istallarono vendite carboniche e non v’è paesello sperduto tra i monti, senza strade carrozzabili, senza medico o farmacia, che non ne abbia avuto una.
Una curiosità: nei cosiddetti “stati delle persone sospette distinto per ordine alfabetico” redatti dalla polizia delle tre province e conservati negli archivi di stato, in maggior copia in quello di Chieti, si legge, a volte, tra i sospettati di appartenere alla carboneria o tra i certi: antico “masone”. Controprova di quanto scritto ho avuto modo di riscontrarla nei piedilista delle logge della prima decade dell’800.
All’Aquila la prima vendita fu impiantata nel 1813 col titolo “I Figli del pericolo”, giacché il titolo generale, per tutta la provincia, era “Amiternini Risorti”, come nell’Abruzzo teramano fu chiamata “Regione Petruziana” e in quella di Chieti “Tribù Marrucina”.
La vendita aquilana sorse per opera del marchese Giacinto Dragonetti, uomo di volontà ferrea, di larga e forte cultura. Ne fu Gran Maestro e se ne fece vanto; anzi, nel 1820, prima della rivoluzione, volle che la vendita gli rilasciasse un attestato a titolo di onore con la firma di tutti i carbonari.
Ma nel capoluogo esistevano altre tre vendite. “I figli di Ieros”, “Filomena la Rupe”, esclusiva dei militi e retta dal barone Ottavio De Nardis e “La Morte”, il cui gran maestro era Don Giocondo Vicentini, padre di Mons. Augusto, arcivescovo di L’Aquila fino al 1892.
È il successivo e famoso “processo Dragonetti”, intentato contro il marchese, massone e carbonaro al tempo stesso, che ci ha restituito una serie di interessantissimi documenti, conservati nell’Archivio di Stato dell’Aquila, tra i quali, segnalatomi dall’Avv. Riccardo Lopardi, “Il catechismo del carbonaro istruito nei doveri di uomo, di cristiano e di cittadino” appartenuto al marchese stesso. Ha colpito la mia attenzione in particolare un verbale della vendita di Sassa, in provincia dell’Aquila, che rende i fini, anche non politici, della carboneria abruzzese. Ve lo leggo: “I sguardi dell’universo intero sono rivolti sopra questo punto del globo, mostriamo d’essere degni della nostra rigenerazione. Ora siamo oggetto di meraviglia e d’invidia, lo saremo di ammirazione e di esempio, se condurremo l’iniziato lavoro al sospirato fine”.
Un altro verbale di una tornata riportato dal segretario suona così: <Cessin le cure private, l’ambizione non più nei nostri cuori rinvenga un asilo, l’amore dei simili occupi il nostro pensiero, che il vile interesse non sia la molla dei nostri affetti. La Patria cercherà l’integrità dei costumi (parole quanto mai attuali). Essi avran per base quella morale, unica e sola norma delle umane azioni. Miei buoni cugini che decorate gli ordini, che per nostra virtù questa baracca risplende, la comune felicità in noi tutti il suo scudo rinvenga, ognuno di noi a chiare note conosca quale e quanto felice sia stato il cambiamento>.
La repressione della carboneria ad opera degli intendenti è documentata in una busta dell’Archivio di Stato di L’Aquila. In una circolare datata 1 agosto 1814 ed indirizzata ai sottointendenti, giudici di pace e sindaci si vietano “le segrete associazioni essendo contrarie ai principi della cattolica religione e disdicevoli ad ogni governo amministrato e saggio”.
Per paralizzare l’opera dei carbonari in Abruzzo e nel Regno fu dalla moglie del re Ferdinando, Carolina, promossa la setta dei Calderari, detta anche “caroliniana”, di cui fu organizzatore e capo supremo il Principe di Canosa. Documenti relativi alla setta de’ Calderai sono tutt’oggi conservati nell’Archivio di Stato di Chieti ed erano un tempo posseduti dal notaio Giustino De Bernardinis di Chieti, Gran Maestro della carboneria in san Vito Chetino.
Per restare nel vastese non possiamo in questo escursus non ricordare Gabriele Rossetti, il poeta della carboneria.
Fu umile figlio del popolo. Suo padre, Nicola, era il fabbro ferraio di Vasto. Famiglia modesta s’è detto, di scarsa fortuna, nella quale tuttavia forte era l’amore per la cultura, vista come strumento di affinamento dello spirito e mezzo di elevazione sociale. Gabriele fin da piccolo compone versi e si diletta nella pittura; appena adolescente, fu testimone delle selvagge repressioni dell’infausto 1799 in cui le bande armate della “Santa Fede” massacrarono i membri della municipalità vastese fra cui Floriano Pietrocola, giovanissimo cugino del poeta.6
In quell’anno la città di Vasto, ove la casa dei suoi s’ergeva alta su una roccia dirupata, vide scene di sangue che si impressero profondamente nell’animo suo e tanto influenzarono i suoi versi.
Il giovane poeta improvvisa versi, compone odi, poemetti, sonetti che celebrano l’ingresso del conquistatore, il ritorno dalla Calabria a Napoli del “glorioso monarca Giuseppe I°”.
Il successo gli arrise facile e pieno, impensato a lui stesso.
Sicura è la sua affiliazione alla carboneria nel 1812, della stessa parla il figlio Dante Gabriel, fondatore a Londra della corrente dei preraffaelliti.7
Per quel che riguarda l’affiliazione a logge massoniche in Napoli ne abbiamo precisa indicazione dalle minute di alcune poesie autografe dell’autore spedite nei primi del ‘900 dal figlio Guglielmo Michele allo studioso Domenico Ciampoli.
Il Rossetti, forse a corto di carta, aveva usato il recto di un invito a lui rivolto dalla loggia “Giuseppe la Concordia” all’Or:. di Napoli datato 8 febbraio 1812.
Furono, infatti, gli eventi politico-militari del 1820-21 che rivelarono nel Rossetti un’anima nuova, un tono più maturo. Fu tra i firmatari di un proclama nell’ottobre del 1820 in qualità di “Buon Cugino Segretario dell’Assemblea Generale dei Carbonari delle Due Sicilie”..
I moti napoletani del 1820-21 fecero del nostro il “Tirteo delle battaglie della libertà”, l’anima di tutti i movimenti insurrezionali, il bardo della rivoluzione.
S’entusiasma per la libertà e sà interpretare su motivi di canzonetta metastasiana quella nota arcadica di ingenuità politica, propria dei rivoluzionari napoletani.
L’inno “Sei pur bella cogli astri sul crine” infiammò gli animi e nell’armonia del suo endecasillabo racchiuse gli entusiasmi del popolo.
Ristabilitosi in Napoli l’assolutismo borbonico Rossetti viene ricercato dalla polizia del Canosa.
Il decreto di amnistia firmato da Ferdinando, all’articolo 2, include nell’eccezione del beneficio proprio il Rossett; si dice di lui: “già impiegato nel Real Museo9”.
Grazie all’ammiraglio inglese Sir Yohn Graham Moore riesce ad imbarcarsi sulla nave Bockfort alla fonda nel porto partenopeo alla volta di Malta e di lì in Inghilterra.
Un profilo redatto dalla polizia borbonica che, pur in esilio, lo controllava attentamente così recitava: < Rossetti Gabriele. Vasto. Effervescente settario nel nonimestre. Nel giornale Costituzionale fu chiamato poeta della Costituzione. Sono poi notissime le sue perfide poesie colle quali elogia il braccio di Louvel. Escluso dall’indulto con decreto de’ 28 settembre 1822 >.
Il suo testamento spirituale ci piace ravvisarlo in una frase scritta a Giuseppe Ricciardi:
<… Finchè vita mi resti, griderò: Patria, Umanità, Libertà!>.
Ma l’episodio chiave della sollevazione d’Abruzzo, forse il meno studiato sui libri di storia, è quello del 1814, noto come “moto di Città Sant’Angelo”. Lo storico Enrico Leo e gran parte dei libri scolastici sottolineano come il primo moto carbonaro venne tentato a Macerata, nello Stato pontificio, nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1817, ma la polizia papalina, informata dei preparativi, soffocò l'azione sul nascere. Tredici congiurati furono condannati a morte e poi graziati da papa Pio VII.
Pochi sanno che ben tre anni prima v’era stato quello abruzzese.
Pel 25 marzo 1814 i carbonari d’Abruzzo avevano deliberato di alzare risolutamente in Pescara la bandiera della rivoluzione impadronendosi della fortezza della città per poi propagare il moto in tutto il Regno, ma la delazione di uno dei settari mise in guardia il comandante, sicché la sollevazione popolare mancò.
Fu così che si decise di spostare il centro dell’azione a Città S. Angelo e la mattina del successivo 27, all’alba, i carbonari angolani disarmarono la modesta guarnigione di appena sei militi e costituirono un governo temporaneo (Michelangelo Castagna, capo, Filippo La Noce e Domenico Marulli) in attesa che, trionfando ovunque la setta, si potesse promulgare la forma popolare di governo. Ai segnali convenuti fatti dalla torre dell’orologio pubblico rispose solo Penne, patria della famiglia carbonara De Caesaris, alla quale fecero seguito solo Castiglion Messer Raimondo e Penne S. Andrea. La colonna di 300 armati proveniente da Teramo fu, invece, respinta e dovette riprendere la via del ritorno. Pescara non si mosse, a Vasto una spedizione di duecento carbonari venne dispersa e decimata a colpi di archibugio.
Col solito sistema delle astuzie e delle perfidie in cui era maestro, il Montigny riuscì a far arrestare nei quattro paesi gli esponenti della carboneria, che furono avviati a Chieti. La Corte Marziale pronunciò la sentenza che fu di morte per il canonico Domenico D’Andreamatteo che si firmava Ma rulli, per il medico Filippo La Noce, nonché per De Michaelis e per il giudice Pasquale Albi.
Ed ecco la crudeltà. <..Quando quelle nobilissime anime - scrive Pasquale Castagna - eran partite dai corpi, i carnefici mozzarono a quei morti il capo e, le di loro teste, misero ognuna in una gabbia graticciata di ferro per esser esposte all’ingresso dei loro paesi nativi>.
A quella macabra operazione furono costretti ad assistere i parenti degli uccisi, anzi gli si fece obbligo di batter le mani e di gridare “Viva il Re!”>.
Nella celebrazione del 1895 organizzata dall’allora sindaco di Città S. Angelo, l’Avv. Antonio Coppa - a Porta S. Angelo, accesso alla città - fece mettere una lapide, dettata per l’occasione dall’On. Giovanni Bovio.
Dice l’epigrafe: <Tra tirannide indigena e signoria straniera / lacerata l’Italia / questa piccola terra abruzzese / insorse nel 1814 / e al grido di riscossa / uscito dai carbonari e dal popolo / improvvisò militi, armi, guerra / vide i figli soperchiati uccisi / e qui appesi i capi diletti / di Filippo La Noce e di Domenico Marulli / il fato campò Michelangelo Castagna / destinandolo ai Parlamenti del 1820 e del 1848 / oratore della ragione popolare / O GENTE NUOVA / TENTA LA VETTA FUTURA / CON LA FEDE DEGLI ANTICHI>.
Facendo un piccolo salto per arrivare ai moti del 1820-’21 troviamo che il deputato Michelangelo Castagna, durante l’adunanza del parlamento dell’1 febbraio 1821 ebbe a dire di quando l’esercito austriaco marciava verso il Regno : “<..l’entusiasmo patriottico dei teramani è superiore ad ogni elogio; si può ben immaginare, descrivere non mai. Persino i giovani del seminario della città di Penne non seppero resistere alla voce della patria che chiama tutti alla comune difesa: sono essi corsi alle armi per unirsi all’esercito, tra le lagrime di gioia dei loro congiunti e tra gli applausi generali>. Possiamo aggiungere a ciò un’affermazione del generale Pepe, il quale in un rapporto al parlamento del 5 ottobre si esprimeva in questo modo: <..Lo spirito veramente patriottico e l’entusiasmo che animano le legioni e le guardie nazionali rendono le montagne abruzzesi tutte fortezze inaccessibili e tremende per chi volesse attraversarne le gole>. La Carboneria era penetrata persino nel campo ecclesiastico in provincia di Teramo, la quale allora si estendeva fino alle sponde sinistre del fiume Pescara. In un documento del vescovo di Penne, indirizzato al ministero degli affari ecclesiastici di Napoli, si leggeva che “su dodici canonici solo uno non era con certezza carbonaro: degli altri undici, due sospetti e nove sicuramente affiliati”.
A Chieti, l’Arcivesco Mons. Francesco Saverio Bassi, venuto a conoscenza della penetrazione nella sua provincia della carboneria, in una lettera ai parroci, se da una parte ricordava loro come “malum odit lucem”, dall’altro, senza dare alcun peso alla scomunica, ricordava loro. <nel tribunale della penitenza, quando sono istruiti e veramente costriti, assolveteli!>.
E tali carbonari erano per lo più giovani: solo pochi superavano i quarant’anni, due soli ne contavano sessanta ed erano Gennaro De Lassis di Picciano e Pietro Tedesco di Pianella.
Anche a Pianella vi sono stati dei carbonari, tra essi spicca la figura di Antonio Sabucchi (senior), la notizia è datami dalla dott.ssa Silvia Cancelli, direttrice dell’Archivio Storico della città vestina, che in un suo studio privato ha rintracciato una deliberazione del Consiglio comunale del 28/10/1917 nella quale è scritto che <il sindaco presidente Ettore de Sanctis apre la seduta con un discorso: commemora il consigliere Novigno Silvestro scomparso da pochi giorni, parla delle notizie dal fronte e ricorda la figura di Antotonio Sabucchi, carbonaro e del discendente omonimo, figlio di Giacomo, che si trova al fronte come soldato volontario>. Sulla vendita "La Perseveranza" di Pianella ho già scritto assieme al prof. Serpentini nel libro "Il manoscritto di Pianella".
In questa città il Gran Maestro era Pasquale Sabucchi e dignitario il barone Domenico de Felici. Qualcuno toccava anche gli anni settanta, come Sebastiano Ciccone e Fulgenzio Lattanzi di Teramo. Molti patrioti considerati carbonari nel 1820-’21 erano stai ritenuti colpevoli verso lo Stato nel 1799 ed avevano congiurato nel 1814. Allo stesso modo molti di essi furono presenti nei moti del 1831 e durante la insurrezione mazziniana del 1837 a Penne. Quell’anno i patrioti vestini trovarono il momento più propizio e senza dubbio più maturo rispetto al 1814 per dar vita alla rivoluzione, repressa ancora nel sangue: sono passati alla Storia come i Martiri Pennesi gli otto fucilati a Teramo dall’esercito borbonico. Così i cittadini dell’Abruzzo si prepararono a rendere libera ed indipendente la nostra regione e l’Italia tutta.
Al volger del mio lavoro io rinnovo il voto, per coloro i quali possono, di contribuire alla storia del nostro Risorgimento, in particolare alla storia della Carboneria, con documenti, stampe, cimeli, scritti e ricordi. Io stesso ho voluto donare al Museo delle Genti per la sala del risorgimento un documento di Aurelio Saliceti, di Ripattoni di Bellante nel tramano, primo triunviro della Repubblica Romana.
Negli Abruzzi, come in tante contrade della nostra Patria, giacciono tesori nascosti o negletti: sarà opera meritoria di chi li possiede darli alla luce, non solo come doveroso omaggio a coloro che combatterono e soffersero, ma come prova di patriottismo, parola desueta, ma quanto mai attuale.

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