Vita sociale e religiosa in Abruzzo dal 1919 al 1922
Introduzione
Con il presente
saggio si vuole apportare un contributo riassuntivo utile a sviluppare la
conoscenza della storia abruzzese dall’anno successivo alla fine del primo
conflitto mondiale sino all’inizio del regime fascista.
L’analisi
storica inizierà con la citazione di brevi riferimenti nazionali poiché è fondamentale
che qualasiasi storia regionale sia inquadrata nel contesto statale che
concorre a determinarla.
Per la
descrizione dei vari fatti sono state utilizzate fonti archivistiche e
pubblicazioni varie.
La situazione nazionale
Il periodo
storico in esame, in tutto il territorio nazionale è ricco di avvenimenti di
notevole interesse storico, politico e religioso.
Con la fine del
primo conflitto mondiale in Italia si aprì una profonda crisi politico-sociale
i cui caratteri essenziali sono riassumibili nei seguenti punti: 1) la crisi
dello Stato liberale che nonostante avesse portato a termine l'unità nazionale
lasciava irrisolti ancora molti problemi tra cui la questione meridionale; 2)
il disagio degli ex combattenti che non furono adeguatamente
ricompensati per
gli sforzi e i sacrifici sostenuti durante la permanenza al fronte; 3) la
coscienza della nazione che l’Italia aveva subito una vittoria mutilata in
quanto non le furono riconosciuti tutti i diritti previsti dagli accordi di
Londra del 1915; 4) la svalutazione della lira e l’inflazione
galoppante che provocò un aumento del costo della vita di oltre il 400%; 5) la
mancanza di materie prime, la difficoltà delle industrie a riconvertirsi, la
disoccupazione e l’eccesso di manodopera causato dai soldati che tornarono dal
fronte.
Questi problemi alimentarono
in parte della popolazione uno spirito rivoltoso che diede vita a varie forme
di protesta sociale, rivendicazioni operaie e contadine tra cui: 1) i moti per
il carovita che scoppiarono nell’estate del 1919 e si estesero in tutto il
paese; 2) le rivendicazioni operaie che nel 1920 culminarono con gli scioperi e
l'occupazione delle fabbriche dell’Italia settentrionale; 3) le agitazioni
delle masse rurali per la conquista della terra.
I governi e le
forze d’opposizione esistenti dall’inizio del conflitto, non riuscirono ad imporre
le loro scelte e a trovare soddisfacenti soluzioni ai problemi dell’epoca. Di
conseguenza, accanto ai socialisti ed alle forze risorgimentali emersero nuove formazioni
politiche che proponevano di dare risposte più concrete per risolvere i
problemi dell’epoca o di contrapporre soluzioni conservatrici ai movimenti di
protesta. Tra essi il partito popolare, l’associazione nazionale combattenti,
il partito comunista e quello fascista.
Nel 1919, durante il
pontificato di Benedetto XV e in seguito all’abrogazione ufficiale del non expedit imposto dalla gerarchia cattolica, il sacerdote siciliano Luigi Sturzo fondò il partito popolare, già
vagheggiato nel 1905 come
partito di ispirazione cattolica, aconfessionale ed indipendente dalle autorità
ecclesiastiche per le sue scelte politiche.
Il partito
assunse come proprio simbolo lo stemma dei comuni medioevali con la scritta
"Libertas", trovò ispirazione nella dottrina sociale della chiesa e
portò al riavvicinamento dei cattolici alla vita politica nazionale.
I popolari
entrarono per la prima volta nella scena politica nelle elezioni politiche del
1919 in cui, grazie anche al supporto assicurato dalle parrocchie, riuscirono a
far eleggere 100 candidati delle loro liste.
La sua rapida diffusione
nella penisola fu favorita dalle strutture ed organizzazioni ecclesiastiche
esistenti nei Comuni peninsulari. In alcuni casi, il partito popolare fu
guardato con diffidenza e sospetto dalle autorità delle Chiesa, in particolare
nelle località dell'Italia meridionale in cui fu fondato dai vecchi notabili
liberali che si riconvertirono e resero conto che l'adesione ad un partito
d'ispirazione cattolica avrebbe allargato la base del consenso politico.
Un altro raggruppamento politico che sorse
nell’immediato dopoguerra fu l’Associazione Nazionale Combattenti (ANC) che fu
fondata a Milano il 18 marzo 1919 allo scopo di tutelare i diritti dei reduci e
assicurare la loro rappresentanza nelle istituzioni. Nel giro di pochi mesi raggiunse
la quota di circa 600000 iscritti. Nel 1919,
dopo lo scioglimento della Camera, l'ANC decise di prendere direttamente parte
alle elezioni politiche con la denominazione di partito dei combattenti, ottenendo
il 4,1% dei voti e 20 seggi. Alle successive elezioni
politiche anticipate del 1921, il partito ottenne l'1,7% dei voti e 10
seggi.
Il 21 gennaio
1921 a Livorno, durante lo svolgimento del 17° congresso
del partito socialista italiano, avvenne un’importante scissione nella quale
una parte dei convenuti fondò un nuovo raggruppamento politico a cui diede il nome di Partito Comunista d'Italia (PCdI)
- sezione italiana dell'Internazionale comunista,
una denominazione che fu mantenuta fino al 15
maggio 1943. Questa scissione anziché portare alla rivoluzione
proletaria, come auspicavano i fondatori del PCdI, provocò un indebolimento
della sinistra italiana che favorì le forze reazionarie e conservatrici. Il
PCdI si presentò alle elezioni politiche del 1921 ottenendo nel complesso 304 719 voti (4,6%) e 15 seggi.
Un’altra importantissima forza politica dell'immediato
dopoguerra fu il partito dei Fasci di Combattimento che fu fondato il 23 marzo
1919 da Benito Mussolini, un ex socialista e direttore dell'Avanti. Mussolini
riuscì a coagulare nel suo partito un insieme di forze sociali conservatrici
che con la crisi del partito liberale, erano preoccupate da un’eventuale affermazione
socialista e manifestavano la propensione al mantenimento dell'ordine
precostituito: elementi di destra, ex combattenti, esponenti del ceto medio, possidenti
agrari, industriali, ecc.
Dopo il
Congresso di Roma del 1921 gli iscritti ai Fasci di Combattimento fondarono il
Partito Nazionale Fascista a cui tra l’altro aderirono molte sezioni dell’ANC
disperse lungo la penisola.
Agli
inizi, i fascisti avevano accettato un atteggiamento anticlericale che fu riportato
nel loro programma politico e dimostrato dalla violenza con cui tra il 1921-1922,
i suoi squadristi colpirono le leghe bianche.
Il giudizio iniziale della
Chiesa su questa formazione politica fu molto duro. Infatti,
nel 1922, in un’editoriale della Civiltà Cattolica si scrisse: “Il Fascismo ha
lo spirito di violenza del socialismo a cui pretende di rimediare, imitandone
non solo ma superandone ben anche le prepotenze, le uccisioni e le barbarie”. Diversi ordinari diocesani, durante i primi anni del
regime diffusero lettere pastorali in cui sottolineavano che il fascismo, per
la sua natura violenta era contrario ai principi cristiani e pertanto non
poteva godere l'appoggio della Chiesa. Una parte della Curia Pontificia anche
dopo la marcia su Roma era convinta che il fascismo, alla stessa stregua del
liberalismo, della massoneria e del socialismo fosse un’ideologia sviluppatasi
a causa dell’abbandono della religione e della secolarizzazione affermatisi nel
mondo moderno dopo la rivoluzione francese. Un’altra parte, invece riteneva che
potesse apportare un efficace contributo al processo di ricristianizzazione della società che perseguiva il papa Pio XI.
Nell'ottobre del
1922, dopo la marcia su Roma, il re Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di
formare un nuovo governo ed ebbe così inizio l'era fascista.
Al primo gabinetto mussoliniano collaborarono alcune forze politiche, tra cui i popolari che ottennero 4 sottosegretari, il ministero del Lavoro assegnato a Stefano Cavazzoni e quello del Tesoro che fu assegnato a Vincenzo Tangorra.
Altro importante
fatto dell’epoca in considerazione è il governo della chiesa cattolica che fu
affidato dal 3 settembre 1914 al 22 gennaio 1922 al papa Benedetto XV e dal 6
febbraio 1922 al 10 febbraio 1939 a Pio XI.
Benedetto XV
promosse il culto del Cuore di Gesù, si adoperò per evitare la guerra e con
l’enciclica Pacem Dei Munus Pulcherrimum
scritta nel 1920 dettò le sue idee per avere una pace stabile.
Nelle
relazioni con il Regno
d'Italia eliminò il non expedit
e appoggiò la formazione del Partito
Popolare Italiano d’ispirazione cristiana.
Il suo
successore PIO XI con l’enciclica Ubi arcano
Dei consilio del 23 dicembre 1922, manifestò il programma del suo
pontificato facendo presente che i cattolici dovevano impegnarsi nella
fondazione di una società totalmente cristiana.
Regione ecclesiale Abruzzo-Molise |
La situazione
abruzzese
Le varie vicende
politico-sociali e di crisi che investirono la nazione toccarono anche
l’Abruzzo. Infatti, agli inizi del 1919 questa regione era profondamente scossa
dalle vicende del primo conflitto mondiale in cui persero la vita oltre 23000
giovani soldati provenienti dai suoi Comuni.
In diverse
località il successivo ritorno dei reduci delusi nelle loro aspettative favorì
nuovi motivi di scontri sociali e contribuì a riacutizzare quelli esistenti
prima della guerra.
La maggioranza
della popolazione regionale dell’epoca continuava a vivere in condizioni di
notevole indigenza poiché ricavava i mezzi di sussistenza da un’agricoltura
poco redditizia, particolarmente sensibile ai capricci della natura e praticata
su terreni generalmente aridi, montagnosi non propri e gravati da pesanti
prestazioni e tributi.
A questi
problemi sono da aggiungere quelli creati da: 1) la lunga permanenza dei
soldati al fronte e la massiccia emigrazione, due eventi che ridussero la forza
lavoro disponibile e i redditi di diverse famiglie; 2) il carovita che investì
la Regione; 3) la crisi della pastorizia dovuto alla caduta del prezzo della
lana e all’aumento di quello di pascolo nei luoghi di transumanza [1].
In particolare
l’emigrazione che colpì in modo più intenso le zone rurali ebbe anche diversi
riflessi culturali e politici. Infatti, quando gli emigranti arrivavano nei
luoghi d’accoglienza scoprivano che esistevano nuovi stili di vita che in parte
acquisirono e con il loro ritorno trasferirono nelle terre d’origine contribuirono a modificare antiche abitudini e atteggiamenti locali.
Anche i reduci, a causa del contatto quotidiano con i soldati di altre regioni,
acquisirono nuovi modelli culturali che trasferirono ai luoghi d’origine.
I fatti
descritti e i problemi elencati furono le principali cause che in Abruzzo crearono
gli spunti per la nascita di nuovi atteggiamenti, modelli di comportamento, aspettative
di vita, formazioni politiche e forme di protesta organizzata che saranno ampiamente
descritti ed analizzati nei paragrafi successivi del presente saggio.
La vita religiosa e l’organizzazione ecclesiastica in Abruzzo dal 1919 al 1922.
Nel periodo in
esame i Comuni che ora appartengono all’Abruzzo erano ripartiti in otto diocesi
di cui in questa sede si riporta la cronotassi
dei loro vescovi e i principali aspetti della vita religiosa.
Mons. Gennaro Costagliola |
Nell’epoca
in considerazione l’Arcidiocesi fu
retta da Gennaro Costagliola, (15
aprile 1901 -
15 febbraio 1919) e Nicola Monterisi
(15 dicembre 1919 -
5 ottobre 1929).
Il 21 marzo 1920, l'ingresso a Chieti di mons. Monterisi fu accolto favorevolmente dai rappresentanti delle organizzazioni cattoliche e dal clero diocesano. Nello stesso tempo alcuni militanti socialisti, radicali e di altre forze anticlericali inscenarono una contromanifestazione ostile al presule, come tra l’altro dimostra il seguente scritto che pubblicato il primo aprile 1920 su “La Conquista Proletaria”: “I socialisti hanno voluto avvertire il sig. Monterisi che il popolo di Chieti non è composto di tutte pecore rassegnate a farsi quotidianamente tosare” [2].
Mons. Nicola Monterisi |
Arcidiocesi di Lanciano e amministratori apostolici di Ortona.
L’arcidiocesi
lancianese da Nicola Piccirilli (25 aprile 1918 - 4 marzo 1939). Per suo
volere, nel 1921 si tiene a Lanciano il primo Congresso eucaristico regionale. A Ortona fece costruire la chiesa del Sacro Cuore la cui
prima pietra fu posta nel giugno del 1922. Nel mese di ottobre del 1922, nella
Parrocchia di Santa Lucia del Comune di Lanciano fu fondato il circolo della
Gioventù Femminile di Azione Cattolica.
Arcidiocesi de L’Aquila.
Dal
1916 al 1918 l’arcidiocesi rimase vacante. Il 17 luglio 1918 fu nominato arcivescovo Adolfo Turchi che occupò la cattedra sino al 2
maggio 1929.
Diocesi di Avezzano o dei Marsi.
Dopo
il terremoto del 1915 la sede fu temporaneamente spostata al palazzo ducale di
Tagliacozzo ove rimase sino al 1924. Nel periodo in considerazione la diocesi era
affidata a. Pio Marcello Bagnoli che la
tenne ininterrottamente dal 14 dicembre 1910 al 17 gennaio 1945.
Diocesi di
Sulmona-Valva
Nell’epoca
considerata occupò la cattedra vescovile
valvense Nicola Jezzoni che la tenne dal 6 dicembre 1906 al 18
luglio 1936.
Diocesi di Teramo
La
cronotassi vescovile nel caso in esame è rappresentata da due figure:
Alessandro Beniamino Zanecchia-Ginnetti (13 luglio 1902 - 21 febbraio 1920)
e
Settimio Quadraroli (26 agosto 1921 - 4 agosto 1927).
Diocesi
di Penne e Atri.
La diocesi nel
periodo considerato era affidata a Carlo Pensa
che la tenne dal 27 agosto 1912 al 16 dicembre 1948.
Diocesi di
Trivento.
Nell’epoca in
esame appartenevano alla diocesi i Comuni abruzzesi di Alfedena, Borrello,
Castel di Sangro, Castelguidone, Castiglione
Messer Marino, Celenza
sul Trigno, Roio del Sangro, Rosello, San
Giovanni Lipioni, Schiavi
di Abruzzo e Torrebruna. La diocesi fu
retta da Antonio Lega che la tenne dal 25
maggio 1914 e
13 giugno 1921 e a Geremia Pascucci dal 12 settembre 1922 al 14 maggio 1926.
Per quanto
riguarda altri aspetti della vita socio-religiosa, in linea di massima nelle
province abruzzesi rispetto agli anni precedenti il conflitto mondiale e a
quelli dei primi anni del fascismo, si registrarono pochi sussulti di
cambiamenti che tuttavia ebbero notevole rilievo.
Innanzitutto è
da dire che in continuità con il passato la maggioranza della popolazione
regionale continuava a manifestare una religiosità strumentale legata alla vita
quotidiana e alla necessità di assicurarsi la protezione celeste dai disagi
esistenziali, le malattie, gli scarsi raccolti, etc.
Un particolare
sussulto alla vita religiosa fu apportato dal calendario festivo che nel
dopoguerra si arricchì con nuove celebrazioni in cui assunsero rilievo le date
d’inizio e conclusione della Grande Guerra, la
commemorazione dei suoi caduti e l’inaugurazione di monumenti in loro onore.
Questi momenti furono oggetto di pubbliche festività e contribuirono a
diffondere una sorte di religione politica che esaltava il culto della patria e
dimostrava il legame che si venne a creare tra il cattolicesimo, il nazionalismo
e il patriottismo. A livello nazionale, il più grande esempio di queste
celebrazioni religiose patriottico-nazionalistiche si ebbe nel 1921 con il
rituale del milite ignoto che vide un’ampia partecipazione dei rappresentanti
della chiesa. Anche nei comuni abruzzesi si osservò un’ampia diffusione di eventi
commemorativi dei combattenti caduti a cui partecipavano sempre molti
ecclesiastici che oltre alle benedizioni, generalmente pronunciavano omelie e
discorsi che esaltavano i sacrifici dei caduti e legavano la religione
cattolica al culto patriottico.
Atri
importanti esempi riguardanti la vita religiosa regionale sono riassunti in vari
scritti di Trinchese, Mons. Nicola Monterisi. e dei vescovi meridionali.
Trinchese, in
particolare nei suoi studi si è occupato di vari aspetti dellla vita religiosa
abruzzese. In suo saggio ha sostenuto che in Abruzzo era diffusa un tipo di
pietà che esasperava i propri lati esterni sino alla superstizione e a livello
popolare si sovrapponeva a residui di religiosità pagana [3].
In un altro
saggio ha espresso la sua tesi sulle caratteristiche del clero regionale
evidenziando che durante gli anni 20-30 del secolo scorso, esso era
caratterizzato dalle seguenti carenze e problemi: 1) l’assenza di una
consapevole valutazione autonoma della realtà sociale; 2) un’incomprensione
diffusa della coscienza autonoma del laicato; 3) un vuoto di coscienza
teologica [4].
A sua volta,
l’Arcivescovo di Chieti Nicola Monterisi nella sua prima lettera pastorale fece
presente che si era precipitati in una fase di crisi profonda con una
deficiente formazione cristiana che portò alla mancanza di Dio.
Altri vescovi
meridionali dell'immediato dopoguerra e dei primi anni dell’era fascista, condivisero
l’idea della crisi sostenuta da Mons. Monterisi, denunciarono un affievolimento
del sentimento religioso e lo sviluppo di un'immoralità crescente soprattutto
nelle zone rurali. A loro avviso la religiosità popolare accentuava i caratteri
di materialità ed esteriorità, le chiese erano poco frequentate, specie dagli
ex combattenti ed il precetto festivo non era osservato.
La materialità ed
esteriorità interessava anche le feste religiose e su quelle celebrate nella
diocesi teatina Mons. Monterisi annotò quanto segue: "Nella nostra
diocesi di Chieti e Vasto si spendono certamente oltre un milione all'anno in
feste esterne numerose, con bande, luminarie e fuochi d'artificio. Se dicessimo
di darci l'un per cento per aiutare la Chiesa ed i poveri saremmo messi alla
gogna. Eppure sarebbe risolto un problema importante della nostra società
cristiana" [5].
Il prefetto di Chieti, invece, in una lettera inviata al Ministero degli Interni il 5 giugno 1922 relativa a chiarimenti richiesti per sussidi a feste patronali stanziate dal Comune di Chieti fece presente che le feste religiose concorrevano a realizzare benefici commerciali e al giusto livello un'antica tradizione di pubblico decoro della città.
Per quanto
riguarda le pratiche di culto in generale, il presule nel 1923 scrisse annotò
quanto segue: "Il culto si esagera fino a diventare esterno e vuoto, ed
in nome del culto, cioè di una processione, di una statua, di una tradizione,
si prende il pretesto di ribellarsi alla gerarchia. Il diavolo qui non si veste
di rosso o con la camicia nera ma prende l’abito di sacrestano o di priore di
confraternita o di presidente di commissione per le feste religiose ecc."
[6].
A queste
osservazioni, nel 1924 l’arcivescovo Monterisi aggiunse: "Al principio
nelle pratiche di culto entrava anche la frequenza dei sacramenti ed almeno il
precetto pasquale ma a poco a poco l'influenza dell'incredulità moderna è
andata svuotando il culto dal suo contenuto sostanziale ed è restata la parte
esterna ed il semplice formalismo religioso, che è la gran piaga che oggi ci
rode e ci minaccia la morte. Il laico ignorante in religione, alieno dai
sacramenti, spesso in vita irregolare, non solo non rinuncia alla chiesa ed alle
confraternite, ma avendo nel sangue lo spirito regalista si vuole comandare e
converte chiesa, confraternite e commissioni religiose in agenzie di
divertimento spingendo sino al fanatismo le esteriorità e le antiche
accidentalità del culto e profondendo somme ingenti in spari, bande e luminarie"[7].
In generale le
osservazioni di Mons. Monterisi riportate evidenziano che c’era poca ubbidienza
alle autorità ecclesiastiche, esisteva un’indisciplina dei fedeli e la
religiosità vissuta era caratterizzata da un accentuato formalismo che
valorizzava gli aspetti più esteriori del culto e trascurava quelli spirituali
più profondamente cristiani. Non è difficile immaginare che problemi simili
anche se espressi in forme più o meno accentuate esistessero anche nelle altre
diocesi della Regione.
Dopo la
conclusione della grande guerra, anche in Abruzzo si riaccese la vita politica:
i partiti tradizionali esistenti nell’anteguerra ripresero la loro attività e
videro l’aggiunta di nuove formazioni politiche che cercavano di imprimere
particolari orientamenti e direttive al malcontento popolare: le associazioni
degli ex combattenti, i popolari, i comunisti, i fascisti e altri movimenti
minori.
Gli ex combattenti,
accomunati dagli anni d’esperienza trascorsi al fronte, dalla necessità di
riinserirsi adeguatamente nella vita sociale e veder riconosciuti gli immani sforzi
sostenuti durante la guerra, quasi in ogni Comune regionale iniziarono a
organizzarsi in proprie associazioni che aderirono all’ANC, promossero numerose
manifestazioni patriottico-nazionalistiche e parteciparono alle varie
competizioni elettorali che si svolsero dal 1919 all’avvento del fascismo.
Agli inizi del
1919 alle associazioni combattentistiche si aggiunse il Partito Popolare. Esso
a Chieti fu fondato da un gruppo di cattolici e in seguito, grazie all’appoggio
di vari intellettuali capeggiati da Giuseppe Spataro, ebbe una vasta diffusione
iniziale nel circondario di Vasto dove riuscì ad aprire varie sezioni.
A
Teramo il sacerdote Gaetano Cicioni di Mosciano Sant’Angelo, dopo aver fondato
il periodico cattolico “L'Araldo”, aderì al Partito Popolare di cui divenne
segretario provinciale.
A
L’Aquila l’arcivescovo preoccupato dalle tensioni sociali dell’epoca e dal
pericolo di un impegno politico più diretto mostrò una certa cautela nell’appoggio
ai popolari.
Il Partito
Popolare, nonostante che la maggioranza della popolazione abruzzese abbracciasse
la religione cattolica, non riuscì ad acquisire un considerevole peso politico
e rimase una formazione di minoranza [8].
Anche in Abruzzo
ai nuovi partiti che videro la luce si deve aggiungere il Partito Comunista
d’Italia (PCdI). Prima del citato congresso di Livorno in varie sezioni del
partito socialista era presente una componente minoritaria di comunisti
rivoluzionari. Essi dopo la scissione livornese, convocarono i congressi
provinciali a Chieti, L’Aquila e Teramo e aprirono sezioni del PCdI in vari
Comuni tra cui: Atessa, Avezzano, Bussi sul
Tirino, Carpineto Sinello, Castellammare, Chieti, Città Sant’Angelo,
Giulianova, l’Aquila, Montorio al Vomano, Pescara, Popoli, Sulmona, Teramo e Tollo.
Oltre ai partiti
citati, in Regione furono fondati altri raggruppamenti politici che si possono
considerare minori poichè ebbero meno accoglienza tra l’opinione pubblica o si
presentarono solo in occasione di particolari elezioni politiche e
ammnistrative. Tra essi, il Partito di Rinnovamento Nazionale che fu fondato da
un ex combattente e s’ispirò alla Lega Democratica di Gaetano Salvemini.
La nascita e l’affermazione del fascismo in Abruzzo.
Il movimento
fascista in Abruzzo fece la sua apparizione negli ultimi mesi del 1920 e si
consolidò nella seconda metà del 1921. La nascita delle organizzazioni fasciste
in questa regione ha sostanzialmente le seguenti radici; 1) l’insoddisfazione
degli ex combattenti; 2) la paura e reazione del padronato agrario e della
borghesia conservatrice contro la crescita dei movimenti socialisti, operai e
contadini. Secondo Amodei, invece in
Abruzzo il momento d’incubazione del futuro fascismo “sta nella prima guerra mondiale e soprattutto nel successivo
dopoguerra, passaggi fondanti di nuove modalità di pensare e di vivere la
politica” [9].
Anche in Abruzzo
un’importante fonte d’alimentazione del movimento fascista la costituirono le
associazioni degli ex combattenti che furono fondate subito dopo la conclusione
del primo conflitto mondiale, organizzarono il loro primo congresso regionale a
Chieti nel mese di settembre del 1920 e alla fine del 1921 annoverarono circa
300000 iscritti [10].
Diversi
militanti e associazioni abruzzesi dell’ANC dopo una breve parentesi di vita
autonoma decisero d’aderire ai fasci di combattimento che addirittura furono
fondati nelle loro sedi. Un importante di questa tesi e quindi del legame
d’origine tra l’associazione dei combattenti e il fascismo lo fornisce il caso aquilano.
Infatti a L’Aquila, il 31 gennaio 1921, l’assemblea dell’ANC riunita nella
propria sede proclamò la nascita del fascio aquilano.
Un altro caso di
convergenza tra fascisti e combattenti si registrò anche a Teramo. Anche in
questa città il Fascio provinciale di combattimento fu fondato nella sede della
federazione provinciale dei combattenti il 23 febbraio 1921 e la sua presidenza
fu affidata a a Giacomo Acerbo. In seguito, altrettanto avvenne nelle sezioni
comunali combattentistiche della provincia aprutina.
Nella Marsica il
fascismo iniziale fu favorito dai principi Torlonia che, durante le agitazioni
agrarie, al fine di riacquisire alcuni antichi privilegi, appoggiarono gli
squadristi nelle lotte contro i socialisti e le associazioni contadine. In
particolare ad avviso di Colapietra, ad Avezzano la fondazione del fascio di
combattimento avvenne il 30 gennaio 1921 e si pose al culmine di una parabola
rivendicativa estremamente risentita con i principi Torlonia che fu vanificata
dai combattenti [11]. Durante la primavera del 1922, anche in quest’ambito
regionale avvenne la convergenza tra fascisti e gli ex combattenti [12].
A Chieti si
costituì ufficialmente la Federazione dei Fasci di Combattimento il 22 dicembre
1921, mentre il suo atto informale di nascita, ad avviso di un gerarca
dell’epoca si ebbe il 20 settembre 1920 durante la sagra patriottica della
Majella che si tenne a Guardiagrele [13]. Questo particolare riferimento cronologico e
geografico conferma le relazioni parentali tra fascisti e combattenti che si
svilupparono in Abruzzo.
Il movimento
fascista teatino trovò l’opposizione aperta dell'arcivescovo Nicola Monterisi,
una delle rare voci tra gli ordinari diocesani che non accolsero favorevolmente
questo movimento politico.
Il presule teatino sconsigliò i parroci di
benedire i gagliardetti e le sedi fasciste, di far suonare le campane durante
le loro manifestazioni. Inoltre Mons. Monterisi raccomandò al clero di non
impelagarsi nella politica in quanto il sacerdote ha compiti divini e non gli
sono permesse altre attività se non connesse con l'adempimento del suo
ministero. Nel seguente scritto del 1921 Mons. Monterisi illustrò le sue idee
riguardo il fascismo facendo presente che questo movimento: “ha contenuto politico
e la Chiesa ed il parroco come tali devono essere superiori ai partiti
politici. Il fascio non rifugge dalla violenza aggressiva, e la chiesa condanna
assolutamente la violenza da qualunque parte provenga. Il fascismo nei suoi
migliori esponenti va prendendo colore anticlericale. " [14].
Anche
il vescovo di Penne Carlo Pensa è considerato una personalità che non manifestò
piena adesione ed acquiescenza al regime fascista [15].
Ad eccezione di
queste due figure di ordinari diocesani e altri pochi elementi del mondo
ecclesiastico, in Abruzzo prevalse una linea d’incontro tra chiesa e fascismo
che ad avviso di Trinchese fu caratterizzato da “una non meditata ma quasi
simpatetica adesione di buona parte del clero al regime, in una sorta
d’indifferentismo politico di carattere ecclesiale” [16].
Il 30 marzo 1921
si organizzò a Pescara il primo congresso regionale del fascio e fu nominato
segretario politico Antonio Bruno.
Alla fine del 1921 nelle tre
province abruzzesi i fascisti avevano fondato le seguenti sezioni: 15 in
provincia di Chieti, altrettante a Teramo e 14 a L’Aquila [17]. Il numero degli iscritti che raggiunse fu di
2046 a Chieti, 1606 a Teramo e 1000 a L’Aquila [18].
Nel 1922 il fascismo
si affermò definitivamente anche in Abruzzo e quest’ascesa politica fu
caratterizzata da numerosi episodi di violenza squadristica che iniziarono
nella seconda metà degli anni 20, si accentuarono l’anno successivo [19] e si registrarono in numerose località della
Regione tra cui: Atri, Avezzano, Balsorano, Bussi sul Tirino, Campli,
Castellamare Adriatico, Catignano, Cheti, Città Sant’Angelo, Farindola, Gissi,
Guardiagrele, L’Aquila, Lanciano, Liscia, Montorio al Vomano, Nereto, Penne,
Pescara, Pescina, Piano d’Orta, San Vito Chietino, Tagliacozzo, Teramo, Torre
dei Passeri, Tortoreto, Trasacco e Vasto.
Nel mese di
ottobre del 1922 i fascisti abruzzesi, ordinati
per squadre e armati con moschetti e pistole, parteciparono anche alla marcia
su Roma, contribuendo all’affermazione definitiva di tale movimento politico. In quest’occasione, inizialmente nelle tre province
regionali si formarono le squadre dei militanti che si aggregarono nella legione
abruzzese-molisana e via treno raggiunsero Tivoli. In seguito la legione stessa
si unì alla colonna abruzzese-marchigiana comandata da Bottai che nel complesso
risultò composta da 2400 camerati e attese l’ordine di proseguire verso Roma
ove arrivò la mattina del 30 ottobre. Tra le personalità abruzzesi di una certa
importanza che parteciparono alla marcia su Roma figurano: Giacomo
Acerbo, Giuseppe Bottai, Nino Nanni che qualche anno dopo divenne potestà di Teramo,
Alessandro Sardi e Leonardo Pannella, ovvero il padre di Giacinto Marco.
Le manifestazioni di protesta e i risultati delle elezioni in Abruzzo dal 1919 al 1922.
La fase di forte
effervescenza sociale che si generò in Italia durante l’estate del 1919 portò anche
in Abruzzo a numerose forme organizzate di protesta contro il carovita. Infatti,
nel mese di luglio si registrarono manifestazioni con tali fini a Lama dei
Peligni, Lanciano, Orsogna, Penne, Pollutri, Sulmona, Teramo, Torre dè Passeri,
Torricella Peligna, etc. Esse, in particolare a Sulmona durarono diversi giorni
provocando le dimissioni della giunta comunale e la fuga del sindaco.
Molte azioni di
protesta furono organizzate e dirette dagli esponenti socialisti e della Camera
del Lavoro. In quest’occasione, come ha sottolineato Paziente, contro i
socialisti stessi, alcune frange di riformisti e i radicali, si formò un
embrionale blocco conservatore e di difesa dell’ordine costituito che
comprendeva i liberali, i moderati, gli ex combattenti e vari organi dello Stato
[20].
Alle pubbliche
proteste contro il carovita si aggiunsero le manifestazioni contro le penurie
di materie prime e le lotte agrarie che si svolsero in diverse località
regionali tra cui vari Comuni del chetino, Atri, Teramo e la Marsica. In
diversi casi queste manifestazioni portarono a vari arresti dei partecipanti
alle sommosse, occupazioni di terre, scioperi, scontri armati con le forze
dell’ordine, assalti alle caserme dei carabinieri e ai municipi.
Ad avviso di
Dante, nell’epoca in considerazione, la rivoluzione russa e il mito sovietico iniziò
a diffondersi coinvolgendo gli esponenti socialisti della campagna abruzzese e
provocando la nascita di alcune forme di “anarchia rurale” [21].
Nel 1920 fu indetto
in Provincia di Teramo uno sciopero generale, un importante evento
rappresentativo di una grande forma di protesta a cui parteciparono i contadini
della provincia che costrinsero i proprietari terrieri ad accettare le proposte
di revisione dei patti colonici.
Un altro
importante aspetto riguarda le formazioni politiche e i risultati che esse ottennero
con la partecipazione alle varie fasi elettorali che si tennero tra il 1919 e il
1922. A tal proposito in questa sede si riporteranno i risultati elettorali
regionali e di alcune province che sono stati trovati attraverso le ricerche
effettuate.
Le elezioni
politiche del 1919 in Abruzzo e Molise del 1919 videro la vittoria dei liberali
che raggruppati in più liste con altre formazioni fiancheggiatrici ottennero
nel complesso 12 seggi, mentre i socialisti e i combattenti ne ottennero tre ciascuno.
Nell’Abruzzo e Molise il partito popolare ottenne nel complesso 20044 voti pari
al 7,2%, mentre in provincia di Chieti
non si presentò.
In particolare i risultati elettorali delle elezioni politiche del 1919 nella
provincia teatina furono i seguenti: liberal-democratici 30.415 voti, lista dei
combattenti 20.343 voti, indipendenti 7.054 voti e socialisti 4.855 voti.
Nel 1920 i
popolari fecero la loro prima comparsa nella scena politica teatina con la
partecipazione alle elezioni amministrative della Provincia. Il loro programma
politico fu riportato nel seguente articolo pubblicato sul giornale abruzzese
"La Voce del Popolo" del 31 ottobre 1920: "Troppe sofferenze,
miserie e lutti si sono abbattuti sul nostro popolo, di molte ingiustizie esso
soffre. È necessario, urgente
risollevarsi, ricostruire, ripristinare il regno della giustizia. Contrariamente
a coloro che infatuati da dottrine straniere e deleterie dichiarano di voler
assumere l'amministrazione comunale e provinciale per insediare e distruggere
lo Stato nei suoi organi fondamentali; in opposizione all'insidia massonica,
che dopo aver scatenato la guerra ignora delittuosamente i bisogni delle masse
sitibonde di giustizia. La nostra opera sarà rivolta a migliorare le condizioni
delle classi lavoratrici. Riprendendo le tradizioni della gloriosa civiltà cristiana
daremo il nostro appoggio all'incremento delle organizzazioni di lavoro, alle
fondazioni di mestiere, alle cooperative di produzione ed alle casse rurali al
fine di perseguire il nobilissimo intento di elevare al loro giusto valore le
classi operaie e contadine che con le loro organizzazioni oltre al loro
miglioramento, dovranno costituire nei nuovi tempi la più potente leva di
progresso economico-sociale della nostra città".
A Vasto i
popolari vinsero le elezioni e, nel suo circondario durante lo svolgimento di
alcuni comizi elettorali si ebbero degli scontri fisici con i socialisti.
Un'idea del
carattere anticlericale e della lotta al partito popolare che fu condotta dai
socialisti abruzzesi emerge dal seguente manifesto diffuso a Chieti durante la
campagna elettorale del mese di ottobre del 1920: "ELETTORI! CONTADINI!
OPERAI! RICORDATEVI:1) Che la lista dei popolari è la lista dei preti e porta i
nomi di principi, baroni e marchesi che hanno sempre sfruttato i contadini e
gli operai. 2) Che i signori di Chieti che hanno rovinato il nostro Comune
governando una volta per uno, oggi si sono uniti nel cosiddetto partito
democratico perché‚ hanno paura che al Municipio vadano i contadini e gli
operai affratellati contro i Signori. Guardatevi dalle mosse di coloro che
vorrebbero farvi aggiungere i nomi dei principi e dei baroni che hanno sempre
succhiato il vostro sangue. Respingete la corruzione elettorale che avvilisce
il vostro animo e tradisce gli interessi vostri e delle vostre famiglie. Lottate
strenuamente votando i nomi dei vostri compagni così al Comune come alla
Provincia. Sarebbe un delitto se i contadini indipendenti aggiungessero i nomi
dei popolari, principi e baroni o di altri borghesi".
A loro volta gli
ex combattenti riassunsero le loro ambizioni politiche nel seguente manifesto:
"ITALIANI. I combattenti hanno deciso di combattere la battaglia purissima. La lista dei nostri candidati non è sorretta nè dalla forza del denaro, né da quella di clientele o di sette incatenate ed ubriache: essa è una volontà, una speranza. Gli avversari forti di ricchezze usurpate e sfruttate robusti di mercenaria disciplina, tentano la conquista perchè la storia precipiti o si arresti, con la rivoluzione o la reazione, nel corso fatale, irresistibile del progresso, che noi coscienti, determinammo con l'offerta del sangue per cinque anni, immolatisi alla Patria e all'umanità. Ribellatevi e siate con noi, perché in noi è il diritto, la verità. la giustizia. Le dittature che i rossi affermano nell'errore e che i neri (i popolari) scaltri e bugiardi per eccellenza vi celano insidiosamente cadranno per le nostre virtù per il sacrificio di chi è ancora pronto a donarsi. Fratelli! Oggi gli uomini sono sorpassati, vivono e si agitano le idee: la nostra che ha gli impeti di una passione, la bellezza di una fede, è in alto, troppo in alto perché possa essere contaminata dai mercanti che si ostinano a commerciare le coscienze. Essa deve vincere".
Alle elezioni
amministrative provinciali di Chieti del 1920 i liberal-democratici ottennero
la maggioranza relativa dei voti e furono seguiti dai socialisti, dai popolari
e dall'associazione nazionale combattenti. In tale occasione i socialisti conquistarono
la maggioranza in 13 comuni ed elessero tre
consiglieri provinciali.
Durante le
elezioni amministrative della Provincia di Teramo del 1920, i socialisti
ottennero 16000 voti e conquistarono 11 Comuni [22]. Nello stesso anno il Comune de L’Aquila fu
conquistato dagli ex combattenti. Nella Marsica le organizzazioni socialiste e
sindacali consolidarono il successo elettorale dell’anteguerra riuscendo ad
assicurarsi l’amministrazione di molti Comuni.
Alle
elezioni politiche anticipate del 1921 Giolitti
ripropose la formula dei blocchi nazionali che in Abruzzo si concretizzò con
una lista ministeriale a cui decisero di aderire anche i fascisti. Infatti,
l’adesione al blocco fu deliberata durante il secondo Convegno regionale
del fascio che si tenne il 15 aprile. Tuttavia questa scelta non fu accettata
all’unanimità e, di conseguenza a Teramo i simpatizzanti che contestavano
l’adesione al blocco si unirono con i rifornisti nella lista di Avanguardia
Nazionale. Anche i popolari non aderirono al blocco nazionale e prepararono
liste autonome nelle tre province. A queste elezioni partecipò anche il partito
comunista, mentre i combattenti si distribuirono tra tutte le liste.
Come visto queste elezioni
portarono alla realizzazione anche in Abruzzo del disegno giolittiano volto a
contrapporre fascisti e socialisti. Durante la campagna elettorale le squadre fasciste,
spesso tollerate e appoggiate dalle autorità civili e di polizia, si resero
responsabili di numerosi atti di violenze e soprusi contro gli esponenti e le
sedi dei socialisti e della sinistra.
In questa regione le elezioni politiche del 1921 furono vinte
dai ministeriali o blocco nazionale che ottennero 122649 voti, pari al 66,6% degli
elettori [23]. I socialisti ottennero 28129 voti, il gruppo di
Avanguardia Nazionale ottenne 17000 voti, i popolari 13292 e i comunisti 3223 [24].
Ad assicurare il
successo dei partiti governativi contribuirono: il clientelismo praticato dai
notabili liberali, i legami parentali, le amicizie, gli interessi particolari e
la scarsa formazione politica degli elettori.
In provincia di Chieti, i
vari raggruppamenti e partiti ottennero i seguenti voti: lista ministeriale
43.287, lista d'opposizione 9.854, socialisti 7.857, popolari 3.046, comunisti
513.
I popolari in questa tornata
elettorale e in quella precedente non riuscirono a raccogliere i voti necessari
per l’elezione di un proprio rappresentante alla Camera dei Deputati. Considerato
che all’epoca quasi tutti si professavano cattolici, sulla base dei risultati
elettorali è da ritenere che nel 1919 e nel 1921 l’appartenenza al credo
religioso non fu un elemento basilare che orientò l'atteggiamento politico
degli abruzzesi. Lo scarso successo elettorale dei popolari è da addebitarsi anche
al fatto che all’epoca in Abruzzo erano poco diffusi i comitati parrocchiali,
le casse rurali e le società cooperative e operaie cristiane, un insieme di
organizzazioni cattoliche collaterali che in altre regioni italiane furono capaci
di orientare il voto verso un partito d’ispirazione cristiana.
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[3] TRINCHESE S., Società civile e società religiosa
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[5] De Rosa G.
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[6]
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[7]
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[8] DANTE U., L’Italia dentro l’Italia.
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[9] AMODEI G., La periferia
devota: Pescara e il fascismo, Diacronie Studi di Storia Contemporanea,
pag. 9.
[10] Del Villano e Di Tillio, Abruzzo nel tempo, pag. 200.
[11] COLAPIETRA R., Il fascismo nell’Italia
meridionale adriatica: alcune proposte interpretative, pag. 88.
[12] COLAPIETRA R., Il fascismo
nell’Italia meridionale adriatica: alcune proposte interpretative, pag. 88.
[13] PAZIENTE F. La provincia di
Chieti da Giolitti a Mussolini (1919-1922), op. cit., pag. 86.
[14] De
Rosa G., (a cura), Monterisi N., Trent’anni di episcopato nel Mezzogiorno (1913-1944), pag, 331.
[15]
Trinchese S., Società civile e
società religiosa dall’unità ai nostri giorni, pag. 452.
[16] Trinchese S., Società civile e società religiosa
dall’unità ai nostri giorni, pag.446.
[17] PAZIENTE F. La provincia di
Chieti da Giolitti a Mussolini (1919-1922), op. cit., pag. 162.
[18] PAZIENTE F. La provincia di
Chieti da Giolitti a Mussolini (1919-1922), op. cit, pag. 162.
[19] CANOSA R., Storia dell’Abruzzo
nel ventennio fascista, op. cit. pag. 37.
[20] PAZIENTE F. La provincia di
Chieti da Giolitti a Mussolini (1919-1922), op. cit. pag. 29.
[21] DANTE U., L’Italia dentro
l’Italia. Storia dell’Abruzzo nell’età contemporanea, op. cit., pag. 251.
[22] CANOSA R., Storia
dell’Abruzzo nel ventennio fascista, op. cit. pag. 21.
[23] PAZIENTE F. La provincia di
Chieti da Giolitti a Mussolini (1919-1922), op. cit. pag. 154,
[24] PAZIENTE F. La provincia di Chieti da Giolitti a Mussolini (1919-1922), op. cit. pag. 155.
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