I GUARDIANI DI VASTO
di Antonio Secondo.
E’ la Vasto quieta dei pomeriggi estivi ad attenderci una volta scesi dall’auto, con la parte alta della città svuotata dalla masnada di indigeni e forestieri migrati a est, verso l’Adriatico, alla ricerca di un po’ di fresco sotto gli ombrelloni della marina.
Tutto chiuso dunque, tutto fermo, almeno per qualche ora: i radi avventurieri al nostro pari li troviamo rifugiati nei pochi bar e ristoranti aperti a pranzo, a consumare pasti veloci con bicchieri di birra ghiacciata tra le mani da poggiare sulla giugulare o sui polsi tra una sorsata e l’altra.
Vasto, città che secondo la leggenda deve il suo toponimo a Diomede, eroe acheo della guerra degli Epigoni e di Troia, urbe i cui antichi vicoli sbiancati dal sole ancora parlano a chi vi si addentra di una storia tanto antica quanto ignara ai più, che dall’orgoglioso popolo dei Frentani procede parallela a quella delle fiorenti corti dei d’Avalos e dei Caldora, degli Aragonesi, e dei domini longobardi, bizantini e ostrogoti, successivi alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Una storia spesso romantica fatta di carezzevoli albe sul mare Adriatico, castelli e torri medievali illuminati dal chiaro di luna decantati dalla penna e dai pennelli di illustri cittadini vastesi quali Gabriele Rossetti, Floriano Pietrocola, Luigi Anelli, Ettore Janni, Femo Molino, ora da terribili accadimenti quali pestilenze e terremoti, che in epoche passate sconvolsero a tal punto questa sincera città affacciata sul mare da lasciar credere ai più di essere caduti vittima di un perfido demonio, intenzionato a distruggerla.
Proprio in virtù di quest’ultimo timore i cittadini vastesi rivolsero nel 1656 le proprie suppliche a San Michele Arcangelo, uccisore di demoni per antonomasia, ereggendo in suo onore una chiesa nei pressi dell’ingresso cittadino di Porta Santa Maria, a scudo del centro abitato. L’arcangelo guerriero sembrò soddisfare le aspettative tanto attese risparmiando i fedeli dalle calamità naturali in corso, ma come un vero Generale d’armata in lotta contro le forze del male anch’egli necessitò di un esercito di valorosi al suo fianco. Forse per questo nella piccola chiesa di San Michele in questione, oltre alla statua del patrono, che orgogliosa riposa nella sua edicola lignea intarsiata e dorata, sono conservate anche quelle dei sei arcangeli che lo accompagnarono in battaglia.
Nell’iconografia tradizionale gli arcangeli maggiori sono riconosciuti in sette figure:
Michele, Generale di Dio, che impugna fiero una spada a volte riposta ma molto più spesso in procinto di trafiggere il demonio che calpesta sotto i suoi piedi. Gabriele, messaggero di Dio, colui che annunciò alla Vergine l’immacolata concezione di Gesù Cristo. Raffaele, guaritore e medico. Uriele, fiamma di Dio, colui che arde dell’ira e della giustizia del Signore. Barachiele, adiuvante degli oppressi e dei deboli. Jeudiele, lodatore della parola di Dio. Sealtiele, mediatore e uditore di suppliche.
Queste sette figure, ricalcate secondo taluni sulla base di valorosi guerrieri templari che si distinsero in battaglia per via delle loro gesta leggendarie e secondo altri, molto più probabilmente, su riciclati miti pagani di uccisori di draghi e uomini di fede, furono divisi nel corso della loro storia da improbabili accadimenti, che ne minarono l’unione.
Nonostante il culto ampiamente diffuso di ognuno degli appartenenti a questa sacra congrega biblica, come testimoniano numerose effigi sparse in ogni dove e diverse scritture apocrife, solo tre di essi, Michele, Raffaele e Gabriele furono mantenuti dalla chiesa cattolica che, a partire dai secoli prossimi al 1000 d.C. vietò la venerazione dei restanti quattro per questioni di carattere iconografico e di coerenza alla tradizione ecclesiastica.
Tra tutti forse il caso più noto appartiene ad Uriele, la cui figura fu occultata e scomunicata da ogni sacra rappresentazione in quanto omonimo di un noto demone conosciuto per la sua spietatezza. In diverse opere cabalistiche e apocrife infatti il nome di Uriele viene spesso confuso con quello di Azrael, l’angelo della morte islamico, detentore della chiave degli inferi.
Per questa ed altre ragioni il Concilio di Aquisgrana nel 798 d.C. ne proibì culto e venerazione e in ogni chiesa le figure degli arcangeli rinnegati vennero mutilate delle ali e “spogliati” degli abiti talari per far si che assumessero i caratteri di normali fedeli in contemplazione della parola di Dio. Statue di Barachiele, Jeudiele e Sealtiele scomparvero dalle nicchie, rimpiazzate da più note e stimate figure. Così la compagnia fu divisa. Quell’ardito gruppo di commilitoni separato per gli anni avvenire.
Così accadde anche in questa modesta chiesa, avamposto a guardia di una città ignara, i cui custodi furono in parte svestiti degli abiti talari e costretti a continuare la propria opera di controllo in borghese fino ad un restauro avvenuto negli anni ’50 che riportò in vista il colore sacro delle loro vesti, sino a quel momento occultato, e soprattutto le loro ali, simbolo della missione celeste a cui erano stati destinati.
Ed è così dunque che nel fare il proprio ingresso in questo sacro tempio nel silenzio del primo pomeriggio, passando in rassegna i suoi guardiani, sembra quasi di assistere ad una rimpatriata tra compagni d’arme, fino ad un momento prima presi nelle loro faccende a discutere di mitologiche battaglie e della nostalgia dei bei tempi andati, quando peste, guerre e carestie davano loro modo di combattere ardentemente com’è nella loro indole. Oggi assai fiaccati dal tempo, reduci da conflitti ultraterreni, sorridono al passaggio di chi fa loro visita, per niente disturbati da quegli editti che per anni negarono loro la gloria che si confà ad icone del loro rango, ma perfettamente consci del fatto che l’errore è peculiarità propria degli uomini mentre loro, nonostante tutto, restano militi di un armata celeste.
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