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14 giugno 2023

Il Carnevale in Abruzzo: le varie tradizioni popolari e nuovi spunti di analisi delle varie Mascherate carnevalesche.

Carnevale a Castiglione Messer Marino - Foto Anna Marrama

Il Carnevale in Abruzzo: le varie tradizioni popolari e nuovi spunti di analisi delle varie Mascherate carnevalesche

di Angelo Iocco

Questo articolo vuole essere un ragguaglio, insieme a un mio prossimo scritto che si incentrerà sul Natale abruzzese, sulla Pasquetta, ovvero l’Epifania, e sulle tradizioni della Settimana santa e della Pasqua nella nostra terra d’Abruzzo. Ci si è spesso interrogati sulle origini e le peculiarità del Carnevale Abruzzese, ad esempio quali siano le sue Maschere tipiche, sul perché così poco si sappia di questa tradizione regionale. Nella mappatura delle Maschere tipiche della Commedia dell’Arte, con alcune illustrazioni reperibili anche sul web, purtroppo l’Abruzzo e il Molise o sono del tutto assenti, oppure, per la nostra regione viene riportata la Maschera del Fra’ Piglia di Guardiagrele, che trattasi di una realizzazione recente dell’attore Fabio Di Cocco, ispirata a un personaggio buontempone realmente esistito nel suo paese, come vedremo. Il Carnevale in Abruzzo è anche questo, citando l’esempio della più famosa Rassegna del Carnevale di Francavilla al mare: realizzare una Maschera buffonesca ispirata a un personaggio tipo realmente esistito, per esorcizzarne i difetti attraverso la risata, le azioni grottesche, per far divertire il pubblico.

Del Carnevale Abruzzese si occupò Padre Donatangelo Lupinetti in un suo scritto molto breve: Il Carnevale nelle tradizioni popolari abruzzesi, Pescara 1958, ricorda le probabili origini delle Carnevalate abruzzesi dalla tradizione napoletana, da cui ha tratto il personaggio trickster di Pulcinella. Lupinetti ricorda il periodo della Quaresima in cui si svolge il Carnevale, ne collega le origini alle sceneggiate del Sant’Antonio, che le compagnie vanno cantando di casa in casa il 17 gennaio. Opinione ancora oggi condivisa da diversi etnologi abruzzesi, dato che il copricapo molto allungato del Santo anacoreta, usato in alcune zone come Caramanico, Palena, Lama, somiglierebbe al grande copricapo conico allungato del Pulcinella abruzzese, e dato che sia il Pulcinella che il Sant’Antonio alla fine, nonostante il tema sacro trattato nelle rappresentazioni di quest’ultime, il povero protagonista si lascia andare a lazzi e buffonate, ora combattendo contro il Demonio, ora contro la Bella ragazza tentatrice, ora contro il riccone che gli offre la via della felicità, ora contro i diavoloni, finché gli angeli non vengono a salvarlo.

Lupinetti nel suo saggio ricorda due canti abruzzesi, che potrebbero esser collegati alla tradizione Carnevalesca: il Lamento della vedova o Scura maje, che si canta a Scanno e Vasto, canto trascritto dal poeta Romualdo Parente nel ‘700, e il Maramao perché sei morto. Il primo canto effettivamente, come ricorda Lupinetti, dopo le strofe ufficiali, spesso veniva deformato dalle compagnie, con strofe aggiuntive e con epiteti ingiuriosi e sessualmente allusivi, dato che come sappiamo, il tema è il pianto di una vedova, che ha appena perso il marito, e non sa più come vivere, ora si trascina dal compare per avere aiuto, e viene scacciata, è rifiutata dalla comunità, e si augura di morire. Specialmente ai versi:

So’ na pechera spirdiute,

lu muntone m’à lassate,

lu cacciùne sembr’abbaje,

pe’ la fame mo’ m’arraje!

 

Mare maje, mare maje,

scura maje, scura maje,

mo’ m’accide ‘ngolla a tte’!

 

Su questo filone del Carnevale in Abruzzo, ossia quello del Carnevale morto, differente dalle allegre brigate con le sfilate dei carri per il Carnevale allegro, il Lupinetti nel suo scritto riporta la filastrocca:

Carnevà, perché scì mortu?

La ‘nzalata c’avì nell’ortu,

pane e vinu nun te mancava,

drentu a la casa tutto ce stava!

 

Riporta anche alcune rappresentazioni farsesche spontanee, scritte spesso da persone semplici del porto, che avevano insito il germe della poesia. Si tratta della Rappresentazione de lu Rre di Babbilonia di Penne, che oggi purtroppo non si rappresenta più, dove è rappresentato il crapuloso e festaiolo riccastro Re della Babilonia, città di perdizione per tradizione, il quale è corteggiato da tante contadinelle che vendono piccioni, moscardelli, melelle ecc. finché non interviene la regina. Lupinetti riporta anche una Mascherata di Frisa vicino Lanciano, con gli incontri allusivi tra un militare che ha fame, una contadinella e una zingarella. Le distorsioni musicali e le parodie, che accompagnano queste Mascherate, hanno sempre fatto parte della tradizione abruzzese, ad esempio in un Sant’Antonio della contrada Corpisanti di Lama dei Peligni, a un tratto viene parodiato il Va’ pensiero di Verdi, nel Sant’Antonio di Casoli viene parodiata l’aria “Quell’uom dal fiero aspetto” dell’operetta Fra’ Diavolo di Auber, ancora oggi, come ci è capitato di sentire, nella Mascherata di Palombaro, alcune canzoni celebri sono parodiate, e ci è capitato di sentire la distorsione, per rispettare il soggetto della farsa, del canto abruzzese Quande la fija me’; dunque una tradizione comica per natura che ancora oggi si ripete!

A Lanciano e nei dintorni esistevano degli appositi sparatori per il pupazzo di Carnevale, anche se non esisteva un vero e proprio mastro di professione, ma a rotazione, dei buontemponi che avevano bottega, preparavano la pupazza ogni anno, e poi la esibivano nella piazze  al facevano saltare in aria coi botti. Peppino Crognale e Claudio Rosato, lancianesi doc che hanno partecipato negli ultimi 40 anni a queste manifestazioni, ricordano come tra gli sparatori di Lanciano figurassero Tanino De Vincentiis che aveva la bottega in via sotto al Torre della Basilica, esattamente quel famoso Tanino che animava la banda di Lanciano col suo trombone, scomparso purtroppo nel 2015; a seguire i fabbri Rosato nel rione Civitanova, e poi Francesco “Ciccillo” Di Florio De Grandis, nella sua bottega in via U. Cipollone nel rione 167, recentemente scomparso per un agguato folle.

Una Maschera di Carnevale di Francesco Di Florio De Grandis, 2022, presso l’auditorium Diocleziano di Lanciano

Dell’argomento si sono occupati con saggi e studi Adriana Gandoli, fondatrice del gruppo ASTRA per le tradizioni popolari abruzzesi, ed ex direttrice del Museo Genti d’Abruzzo di Pescara, e il prof. Francesco G. Maria Stoppa fondatore del gruppo CATA Compagnia Tradizioni popolari Teatine in Torrevecchia Teatina. I loro articoli riguardano le probabili origini del Carnevale abruzzese, anche se in mancanza di documenti, ma soltanto di tradizione orale, passata attraverso innumerevoli elaborazioni, derivazioni, modificazioni dei secoli (almeno dal XVI-XVII sec. sino a oggi!), stabilire le corrette origini di questa tradizione, resta compito assai arduo.

Riportiamo qui due fotografie anni ’80 dei Pulginelli in sfilata a Roccaspinalveti, vicino Castiglione, fotografie gentilmente concesse da Tarquinio Bruno.



La Gandolfi, comparando varie tradizioni oggi esistenti, parla di due paesi del chietino dove c’è un’usanza, quella dei “Mazzaroni” a Schiavi d’Abruzzo, e i “Pulginelli abruzzesi” di Castiglione Messer Marino, due paesetti tra l’altro assai vicini. Queste persone sfilano con dei vestiti bianchi molto larghi, alcune varianti li vogliono variopinti come il costume d’Arlecchino, come copricapo hanno un grosso cono da cui cadono vari fili colorati intrecciati, che sono retti dalle mani dei figuranti, per reggerlo. Ci si è domandato come mai l’abito così variopinto e buffonesco, che ha molto a che vedere con il Pulcinella napoletano, anche se oggi la maschera della Commedia dell’arte si è “normalizzata” nel vestito e nell’aspetto, non più colorato nelle vesti rattoppate con mille pezze, ma solo un grosso velo bianco con maniche troppo larghe, alla Pierrot, la faccia completamente nera, e una maschera con un naso un po’ prominente, e un cappellone che ricade all’indietro. Eppure anche prima Pulcinella aveva vari attributi, dal bastone per percuotere e arraffare alla gobba, assumeva solitamente nei canovacci della Commedia un ruolo di “deux ex machina”, un trickster dal sapore plautino o aristofaneo, un buffone del popolo che coi suoi lazzi, le sue astuzie e imbrogli, coi suoi basi istinti riusciva a risolvere la situazione dell’intreccio nella storia presentata dalla compagnia, che ora volgeva sul difficile rapporto degli innamorati, ora dal padrone avido e vecchio che nasconde l’oro per non farlo avere ai figli o ai nipoti, o al dottore tronfio e inconcludente ecc. il Pulcinella nei canovacci carnevaleschi di queste zone abruzzesi, tra il Sangro e il Vastese, aveva un ruolo centrale, anche se non da protagonista, come del resto accade nei copioni della Commedia dell’Arte, o interpretava il prologo della vicenda, con lazzi e comicità varie, oppure interrompeva la rappresentazione scenica con le sue buffoneria, e doveva soprattutto coinvolgere il pubblico, e ora veniva malmenato, ora scacciato, ora si prendevano gioco di lui. Yuri Moretti, giovane ricercatore peranese, ricorda come a Perano delle volte venne un Pulcinella con vari attributi, compresa una cosa, segno di come la maschera veniva in Abruzzo liberamente interpretata, di come poteva figurarsi nell’immaginario collettivo e culturale del paese di turno, e date le sue origini demoniache, doveva avere le sembianze di un selvaggio, di un cafone dai poteri quasi sovrannaturali, non era uno di noi, un essere umano, ma uno spirito che giungeva ad allietare la giornata.

Si pensa, ipotesi nostra, che queste compagnie teatrali, probabilmente molte delle quali del napoletano, essendo l’Abruzzo una ex provincia del Regno di Napoli, siano giunte girovaghe nelle contrade e nelle città d’Abruzzo, e che il popolo nel periodo della quaresima, a partire dal ciclo dell’Epifania del 17 gennaio fino alla Settimana Santa, col tempo abbia assimilato queste usanze “a soggetto” del teatro comico italiano, e le abbia riproposte periodicamente, e in maniera del tutto diversa, per le scenette e sceneggiate da rappresentare in occasione della festa del Martedì grasso.

Il nostro amico Yuri Moretti di Perano, studioso di tradizioni abruzzesi, ricorda le sceneggiate che cambiavano a soggetto periodicamente, composte ad esempio negli anni ’50 dal pastore protestante dell’ex Chiesa Cristiana Evangelica di Perano, una delle più antiche d’Abruzzo, fondata alla fine dell’800, con una filiale a Palombaro, paese poco distate. I canovacci erano più o meno gli stessi nell’impostazione: inscenare un processo a Re Carnevale, su cui catarticamente ricadevano tutte le colpe dell’annata, del cattivo raccolto, delle gelate d’inverno, delle sofferenze familiari; il re Carnevale, per dirla alla maniera di Castelfrentano “ha spurcellìte tutte cose”, si è mangiato tutto, affamando il povero popolo, e ora è processato da un tribunale del popolo, con un aizzatore, una specie di Avvocato del Diavolo, che lo condanna a morte, e dalla mascherata, sarebbero uscite tutte le leccornie per “ingrassare” il popolo, guarito dal periodo di magra. Ecco come da queste innocenti buffonate teatrali abruzzesi, in realtà si scopre come, in una maniera tuttavia da non definire con certezza, “linea diretta di derivazione”, le sceneggiate abruzzesi del Carnevale possano avere qualche collegamento simbiotico con il rito della rinascita della natura dopo il freddo inverno, con la rinascita della vita, con l’abbondanza, che viene prima della Quaresima e dei digiuni per la Settimana santa, e che risorge tuttavia in Maggio con la fioritura degli alberi, con la mietitura, con l’abbondanza e lo sbocciare degli amori. Quanti contadini e quanti poeti abruzzesi hanno contato “E’ rimenute Magge!”

Notiamo altri Carnevali di interesse nell’area chietina, quello di Palombaro e quello di Crocetta di Castelfrentano. Il primo è una sceneggiata portata avanti da una compagnia di girovaghi delle varie contrade del paese. Sono rappresentate brevi spaccati della vita quotidiana, come si viveva nella casa una volta, come si lavorava il terreno. Però il tutto mostrato sotto la veste buffonesca, con lazzi e battute volgari, vengono descritti con simpatia catartica ed esorcizzante i problemi del lavoro nella terra, con le grandinate, le nevicate, le inondazioni dei fiumi, o i cinghiali che mangiano il raccolto. Poi alcune volte, gli uomini per far ridere di più la gente, si mascherano da donne, si truccano in maniera clownesca, e con vocetta stridula, recitano appassionatamente. Ci sono allusioni personali a certuni personaggi tipici di Palombaro, tipi famosi, politici, fattarelli, spesso a sfondo sessuale, che durante l’anno sono accaduti. Il popolo compiaciuto, in quel lasso di tempo, sembra uscire dalla realtà, e si  concede una risata generale per guardarsi allo specchio, in comunità, e ridere delle proprie mancanze e dei propri “peccatucci”. Alla fine di tutto c’è un momento conviviale.

Il Carnevale di Crocetta frazione di Castelfrentano è un esempio di come nei vari paesi d’Abruzzo, ci furono, poiché oggi l’usanza è sempre meno frequente, si scegliessero di rappresentare dei Carnevali personalizzati. Ogni contrada faceva quasi a gara con l’altra e con il paese principale, nel rappresentare la mascherata più pacchiana e più festaiola, e naturalmente c’era un canovaccio da seguire. L’ex presidente del Circolo culturale Crocetta, Pietro Angelucci, ci ha messo a disposizione dei filmati degli anni ’90 e 2000, in cui a Castelfrentano si celebrava la sceneggiata scritta da Di Loreto e Liberati, di cui parleremo; mentre a Crocetta portavano fino al piazzale del santuario dell’Assunta un’altra carnevalata, “Lu ‘mbasciatòre” (L’ambasciatore), recitata in versi, dove il protagonista, a differenza della Mascherata castellina, si presentava come una specie di Re Mida, che poteva compiere miracoli, sfamare il popolo, portarlo all’eterna gioia tra lazzi e canti, e non mancavano riferimenti personali e sberleffi a qualcuno della contrada. Si concludeva il tutto in balli e allegrezze varie, prima in piazza, e poi al ristorante.

Nel 2023 abbiamo assistito alla Carnevalata di Palombaro, la cui compagnia si sposta nella giornata di Martedì grasso, in vari punti del paese, fino alla contrada Limiti, per mettere in scena la Mascherata. Si tratta di canovacci estemporanei, che hanno sempre una  base comune, quella del matrimonio contrastato, la figlia bruttina e pasticciona (interpretata da un ragazzo con la barba per rendere il tutto più ridicolo), figlia di una madre possessiva e isterica, e di un padre sonnolento e sornione, che deve sposare il ricco del paese, scemo anche lui, manco a dirlo. Però iniziano gli ostacoli, le peripezie, le invidie malcelate dei paesani; per ricollegarci sempre al tema comico della Commedia dell’Arte, che sfocia nel farsesco e nell’inverosimile, in questo soggetto rappresentato a Palombaro, la moglie e padrona di casa, non riuscendo ad avere buoni rapporti sessuali con uno spasimante, procura una pozione “molto stimolante”, che però viene ingerita per sbaglio dal marito, il quale pieno di “voglie”, si innamora perdutamente della domestica di casa, brutta e racchia, e bigotta, suscitando le immancabili ire della moglie; e naturalmente c’è un’altra tresca che contorna la gustosa storiella, la figlia bruttina è segretamente innamorata del giovane prete che deve celebrare il matrimonio!

Carnevalata di Orsogna, anni 70

Soggetti simili li abbiamo rintracciati anche in altri canovacci di Mascherate in contrada Tripio di Guardiagrele, dove fino a qualche anno fa, si rappresentava la Mascherata di zi’ Cesarino Verna (1920-1983). Cesare Verna fu grande animatore, data la sua capacità innata di mimare e intrattenere il pubblico, delle feste di San Vincenzo di Guardiagrele, e scrisse oltre 100 strofe di una Mascherata, di cui grazie agli eredi, possediamo copia: anche qui ricorrono tutti gli elementi della Commedia dell’Arte, il matrimonio contrastato, il prete, l’avvocato, il padre scemo, il Pulcinella che introduce e conclude la commedia coi suoi lazzi. I versi dialettali sono contornati spesso di battute piccanti nei confronti di alcuni personaggi tipo di Guardiagrele e dintorni, e rispecchiano il sentimento comune del Carnevale, della festa dei pazzi, dove ogni eccesso è lecito, anche il liberarsi spiritualmente, per qualche ora, dei propri problemi, schernendo e beffeggiando i prossimi, specialmente gli avversari, senza pudore. L’andamento della Mascherata di San Vincenzo, ora ha momenti stimolanti, ora nei momenti di difficoltà dei protagonisti assume canti e andamenti mesti, lenti, tristi, ma il tutto è prontamente scardinato da Pulcinella che son le sue battute piccanti, induce il pubblico presente nuovamente al riso sguaiato.

Un’altra Mascherata che fu rappresentata qualche anno fa, fu scritta dal poeta Attilio Micozzi di Filetto, di cui possediamo copia, oltre alle Mascherate di Orsogna, che siamo riusciti a leggere grazie allo studioso Vittorio Pace. Grazie alla sua collezione fotografica, siamo riusciti a notare una fotografia degli anni ’70 con una compagnia della Carnevalata, dove appare un personaggio col copricapo conico molto allungato, e pieno di gingilli, tipico del Pulcinella. Questa foto è pubblicata nel libro album Orsogna nella memoria, dell’Ass.ne Il Teatro di Plinio, 2006. Le Mascherate orsognesi conservatesi in nostro possesso, si intitolano: la prima Itturì, dal nome del protagonista, scritta da Ettore Tenaglia nel 1937, nel momento in cui partì per la campagna d’Africa. Fu messa in scena anche, con alcune modifiche e allusioni contemporanee, dall’Associazione “Il Teatro di Plinio”; il tema è sempre quello amoroso, Itturì e Brunetta si incontrano in bicicletta sulla via per Orsogna e vanno insieme, immediatamente la notizia crea scompiglio, per il timore che Itturì voglia disonorarla, e la scena si risolve in un tripudio di lazzi e situazioni divertenti.

Altre due farse sono Una delle Carnivalate, messa in scena dall’Associazione Il Teatro di Plinio, molto breve, ha sempre il tema amoroso, Giuvine è contesa tra Alfredo e Nicole, ed è avvertita da Feliciane che Alfredo sta facendo una pazzia con il rivale. Naturalmente l’intreccio si risolve positivamente; l’ultima è L’Amore sufferte tra Mariucce e Giuvanne, anch’essa breve: tema sempre l’amore contrastato, i due protagonisti si amano, ma i genitori di Mariucce sono troppo guardinghi e possessivi, e alla fine Giuvanne deve convincere con grande fatica la mamma a concederle la figlia in sposa, lui che è squattrinato e che cerca di far capire alla brutta megera che i soldi non sono tutto nella vita.

Fra’ Piglia (o anche Frappiglia) è la vera maschera del Carnevale abruzzese?

Il dialettologo e attore teatrale di Guardiagrele Fabio Di Cocco invece ha riutilizzato, di recente, una maschera popolaresca che ancora merita una rivalutazione, il "Frappiglia", una sorta di miscuglio tra Pulcinella per gli istinti bestiali e burleschi e Arlecchino per il costume di toppe cucite. Innegabile la derivazione da una figura sacra molto venerata nell'hinterland di Guardiagrele, Sant'Antonio abate, un santo patrono dei contadini di campagna, così come ha origini cafone il Frappiglia, che viene visto come un irriverente e scomunicato Sant'Antonio che fa il bene dei poveri e dei bisognosi, lo stesso nome "fra (da frate) + piglia (cioè il prendere, l'arraffare)" si ricollega a una figura religiosa. Naturalmente il Frappiglia, considerato sul web (occorrono ancora saggi critici su carta da pubblicare!) la maschera abruzzese della Commedia dell’arte, è in realtà una recentissima invenzione del Di Cocco; mancano dei veri e propri collegamenti di questa parte d’Abruzzo con la tradizione secolare della Commedia dell’arte, con i Brighella, i Gianduja, gli Arlecchini, i Balanzoni, i Pantaloni, i Capitani e i Dottori! L’idea del Di Cocco tuttavia è risultata felice, poiché è una derivazione di tutte le basse qualità di queste Maschere storiche, da Pulcinella a Trappola, a Brighella. Il Frappiglia è l’eroe del popolo, colui che con i suoi modi di agire bassi e farseschi, riesce a risolvere tutti i problemi, quasi un novello Sant’Antonio abate, tanto caro agli abruzzesi.

Fabio Di Cocco, al centro nella maschera di Frappiglia, con Tommaso Bernabeo a sinistra, e Rossella Gesini, a destra, che interpretano Brighella e Colombina

Frappiglia, nei canovacci riproposti da Di Cocco, è un burlone mangione, che ruba ai ricchi per fare "li cumblìmende" ai poveri e i bisognosi, regalando il cibo. “Lu cumplimente”, ossia il companatico, è un altro segno dell’ospitalità rituale abruzzese, specialmente sacra tra le popolazioni contadine; nelle feste d’Abruzzo ci sono vari esempi, in primis dalle allegre brigate che inscenano il Sant’Antonio il 17 gennaio, chiedendo alle case un po’ di cibo e qualche bicchiere di vino, prima ancora il giorno dell’Epifania (la Pasquetta), vanno in giro per le case, annunciando la festività e chiedendo da mangiare, poi a Natale con gli zampognari, e via dicendo. Il nome originale era Antonio De Sorte, un contadino povero e sciancato, che tuttavia aveva un gran cuore, e agli amici durante i periodi di festa, che invitava, offriva il poco che aveva, con l’esclamazione: “frà, piglia!”. Dunque come nel caso della figura principale "Zi Patanello", maschera del Carnevale di Francavilla al Mare, c'è un collegamento a una persona realmente esistita, la cui figura fu poi caricata e mitizzata in modo da creare una distorsione parodistica per la festa del Carnevale; è un essere dagli istinti bestiali e primitivi, ma anche benevolo verso i suoi simili, ossia i derelitti e gli oppressi dai potenti. Il collegamento con la figura di Sant'Antonio è da vedersi nel fatto che lui nel suo peregrinare si accolla tutti i problemi degli altri, subendone le conseguenze, come nei cammini nel deserto di Sant'Antonio durante le tentazioni diaboliche.

 

Immagine della maschera del Pulcinella, in Abruzzo è stato elevato il copricapo per le maschere di Schiavi d'Abruzzo, Chieti e Castiglione Messer Marino

Solo che Frappiglia ribalta il concetto positivo del sopportare in silenzio le tentazioni e i soprusi del Demone, per ricaricarsi e scaricare tutte le brutture in modo burlesco contro i potenti con lazzi e scherzi. Altro collegamento alla tradizione popolare, specialmente a quella branca di storie che parla di imbrogli fatti dai popolani al Diavolo, è quello di Fra Piglia che distorce il valore morale delle fiabe deniniane e finamoriane della tradizione popolare, poiché il Diavolo riesce sempre a vincere contro i desiderosi di oro nelle caverne o nei ruderi di castelli, di cui è custode; invece Frappiglia imbroglia il Diavolo facendo testamento davanti ai notai degli Inferi, lasciando tutto quel poco che ha a sé stesso, e cioè la sua stessa vita. Il Diavolo scornato sparisce, e Frappiglia diventa un essere immortale, potendo fare il bene per gli altri rubando, e dando al popolo quell'orto che desidera.

Come il Pulcinella napoletano, Frappiglia, maschera di Guardiagrele, veste abiti poveri, camicia bianca per ricordare il Paradiso, dato che egli comunque è un uomo di Chiesa che si è deformato e ridotto alla miseria per la sua stessa natura, facendo però il bene del popolo, abito grigiastro con chiazze rosse per ricordare il fuoco dell'Inferno, la maschera nera del Pulcinella per ricordare che gabbò il Diavolo, il quale lo sfregiò per sempre come punizione. Nell'iconografia dei canovacci studiati da Fabio Cocco, Frappiglia appare ora con un bastone da pellegrino, come Sant'Antonio, ora con una falce, per le burle e i lazzi contro i potenti.

Veniamo alla descrizione dei Pulginelli di Castiglione Messer Marino.

Insieme ai Pulginelli di Castiglione, sono dei costumi molto arcaici che consistono in un copricapo a cimiero di vario aspetto, ricoperto di colori e fiori di carta policromi e nastri, detti zagarelle. Il gruppo di questi giovani che indossano il copricapo, è preceduto dal Pulcinella che porta trionfalmente la mazza detta "scagliocca", simbolo del potere e di prosperità per il raccolto. Per questo alcuni vogliono che queste figure carnevalesche vadano a ricollegarsi a quei riti italici pre-romani, nelle cui feste campagnole, per portare augurio di pace e prosperità, soprattutto al livello sessuale, e per il buon raccolto, inscenavano processioni burlesche con lazzi e giochi osceni.

I Mazzaroni, così chiamati perché sono il corteo del Pulcinella con la mazza, peregrinano per le case del paese, intonando stornelli improvvisati di augurio o battute piccanti, e chiedendo del cibo in cambio. Ci si raduna successivamente nella piazza per la danza della "spallata", con scambi di coppie disposte in file parallele, frontali o cerchi.

Domenica di carnevale con i Pulginelli abruzzesi - Castiglione Messer Marino

Detti "Pulgenèlle", sono maschere arcaiche abruzzesi, di ispirazione napoletana; secondo la studiosa Gandolfi anche questa tradizione si rifà a quelle pre-cristiane, del rito sacro-burlesco popolare per l'augurio del buon raccolto. I Pulcinelli di Castiglione indossano un copricapo a cono molto alto, in origine era bianco; in questo caso esso rappresenta l'antenato morto che torna dal sottosuolo per un giorno, affinché dia prosperità alla famiglia e fecondi la terra del raccolto. In passato i Pulcinello di Castiglione avevano anche la faccia tinta di nero per somigliare di più alla Maschera napoletana, la Gandolfi ipotizza che ci siano collegamenti anche con la maschera comica Maccus dell'epoca romana. Nel carnevale di Castiglione dunque il tema è la rigenerazione della natura in questo periodo dell'anno, scacciando la personificazione del Male; ma la Gandolfi, ricollegandosi a Giovanni Pansa per il carnevale di Tagliacozzo, ricorda che in passato, quando Castiglione e altri paesi erano soggetti al controllo feudale, il Carnevale risultava un giorno di sfogo delle masse, uno sfogo controllato, in cui ci abbandonava alla lussuria, al gozzoviglio e all'allegria dopo mesi di lavoro.

Domenica di Carnevale e sfilata di Re Carnevale - Pettorano sul Gizio

Anche questo Carnevale, riproposto da poco come rievocazione, ha a che fare con un'antica tradizione, in cui si sceglie il giorno della morte di Re Carnevale, che impersona tutti i mali della comunità, e che morendo fa sicché le nuove generazioni risorgano. Il figurante che inscena Re Carnevale si traveste da turco, legge un testamento fittizio di burle e scherzi al popolo, in cui lascia quello che ha, fino a che non cade a terra stecchito.

Martedì grasso di Chieti

Rievocato da pochi anni dal gruppo CATA del prof. Francesco Maria Stoppa, riprende la maschera abruzzese del Pulcinella col l'alto copricapo conico a punta, variopinto, insieme alla veste multicolore. Il gruppo dei Pulcinelli di Chieti, simile a quello dei Pulcinelli di Castiglione, percorre in corteo con vari carri allegorici le strade della città, da piazza Garibaldi a piazzale Giambattista Vico, seguendo via Arniense e poi il corso Marrucino, inscenando nel piazzale anche il rito della "quadriglia del palo", in cui quattro persone intrecciano ordinatamente a ritmo di danza, quattro nastri collegati per estremità tutti in cima al palo cilindrico; i nastri devono essere correttamente intrecciati e strecciati, e tale gioco di ripete nella vicina villa comunale.

Una questione sul Carnevale di Tagliacozzo nei “Miti, leggende e superstizioni degli Abruzzesi” di Giovanni Pansa

Nel secondo volume dei suoi studi di superstizioni abruzzesi, Pansa accenna alla condanna del 1787 del Signor Carnevale, una figura simbolica del popolo che veniva eletta re delle feste ogni anno. Nei processi della Regia Udienza di Aquila di quell’anno, Pansa riporta come in Tagliacozzo ci fosse l’usanza di eleggere un “re delle feste”, una persona del popolo, o un artigiano, o anche una persona di buone condizioni economiche, in tempo di Quaresima. Egli era considerato un sovrintendente delle feste, da parte dei giovinastri che lo eleggevano, anche se il sui potere effettivo non era equiparabile a quello del feudatario di turno del paese. Nel processo sono elencati tuttavia, in quell’anno, gravi disordini avvenuti da parte del Signore del Carnevale, eccessi di euforia e baldoria, disturbo dell’ordine pubblico, schiamazzi, richieste e pretese di denaro verso gli sposi novelli del paese, aggressioni, assalti ai fondachi, al procaccio di Napoli, accuse insomma di banditismo vero e proprio. Pansa trae le sue conclusioni, da questi pretesi, passa in rassegna le varie tradizioni popolari del Carnevale abruzzese, visto appunto come un periodo festaiolo, dove si dà spazio agli eccessi, che quasi vengono ritualmente repressi per un anno intero, per poi esplodere in tutte le loro nequizie e insolenze il Martedì grasso. Parla dei pupazzi bruciati a Lanciano e dintorni, oppure dei fantocci che assumono i mali della società, e sono scacciati come degli “appestati” (tanto caro ci sembra il paragone col apro espiatori di re Edipo nella tragedia di Sofocle, benché la cosa non sia equiparabile, essendo tradizione colta, alle usanze del popolo!), e gridano “Fora fora Carnevale!”. Nelle campagne di Città Sant’Angelo e Penne si accendono dei covoni in campagna, si crea il fantoccio del Carnevale, e lo getta via con processo rituale, sempre ripetendo a gran voce “Esce fore, esce fore Carnevale!”.

 

La tradizione del Giovedì degli amici


Carnevale Aquilano, Sala Baiocco, 1925

Teodorico Marino nel suo “Francavilla nella storia e nell’arte”, 1889, parla delle sceneggiate che si facevano in Francavilla in tempo di Carnevale, mascherate allusive e satiriche e personaggi realmente esistiti, o a situazione politiche e sociali che hanno particolarmente caratterizzato negli ultimi tempi, o mesi, la comunità francavillese; situazioni comiche ed allegoriche che ancora oggi rivediamo nei Carnevali di Persiceto o Viareggio, o ancora nelle moderne edizioni del Carnevale Francavillese. Il popolo si abbandona ai bassi istinti, alla goliardia, è periodo di grassa, non più di magra, ricordiamolo, ed ecco i veglioni nei ristoranti e nelle osterie, come ricorda Marino, le sbornie, le compagnie che vanno cantilenando a squarciagola per le strade, il periodo di maggior euforia è quello del Giovedì degli amici, il Giovedì dei parenti, il Giovedì grasso.

I due Giovedì precedenti si festeggiano con particolare affetto anche oggi in Orsogna, vicino Lanciano. La tradizione vuole che gli amici di una combriccola si riuniscano fuori casa in un ristorante, per tutta la giornata, tra lauti pranzi e gozzoviglie. Ma non si deve pensare a una scenata di bassi istinti, il Giovedì a Orsogna è vissuto con particolare devozione, come detto, persone che hanno litigato, fanno la pace, persone che non si vedono da anni, si re-incontrano, c’è occasione per scambiare chiacchiere, pareri, ricordi, stare insieme felici, mangiando a sazietà…a crepapelle invece! Tra balli e canti. Stessa cosa avviene con il Giovedì dei parenti. Di recente Vittorio Pace, ex presidente dell’Associazione culturale “Il Teatro di Plinio”, ha ricordato questa tradizione in un suo spettacolo rievocativo sulle tradizioni orsognesi: “Il fascino dei ricordi”, rappresentato con successo nel 2012.

III Carnevale Teramano, 1935, locandina di Giovanni Melarangelo – Archivio Teramo fotografie


Carnevale teramano dei primi del ‘900 – Archivio “Teramo fotografie”

Questa tradizione del ritrovarsi, è simile in tutto l’Abruzzo, dove non figurano tracce di queste antiche festività popolari. Dove la cultura è più borghese, nelle grandi città di Chieti, L’Aquila, Teramo, Pescara, la tradizione è proprio quella del rivedersi tra amici, in allegria; i bambini si vestono naturalmente con tutte le maschere possibili, corrono a spruzzare coriandoli, da qualche parte, come a Ortona, molto scenografica è la sfilata dei carri allegorici sul corso, così come sin dai primi del ‘900 si faceva anche a Teramo.

Carnevale Teramano, il carro della Spica, foto Pierluigi Tarquini

 

Il Carnevale di Francavilla al mare, dalle note di Teodorico Marino alla sfilata dei nostri giorni

Carro di Re Patanello, Carnevale di Francavilla al mare

Come detto poco prima, a Francavilla le carnevalate erano sfilate di buontemponi, giovanotti e ragazzini, che si riunivano per le strade in maschera, a esorcizzare la fame e la miseria con l’allegria e la baldoria. Si facevano il Giovedì degli amici e dei parenti. Poi arrivava la settimana vera e propria del Martedì e Giovedì grasso. Esisteva un tipo curioso, considerato una vera maschera, Zi Patana, calzolaio e sagrestano, un buontempone, che usciva per le strade truccato da vecchio (simbolo dell’anno vecchio che muore per far posto al nuovo), sopra un asino, simbolo caratteristico caro al popolino; Carnevale, a detta nostra, è uno di loro, cui per necessità naturale occorre addossare i vari peccati, e condurlo alla morte tra gli sberleffi generali, per poter sopravvivere alla notte, e guardare speranzosi a un nuovo giorno. Zi Patana porta in braccio un bamboccio vestito, il Carnevale, brutto e deforme, ma che deve suscitare l’ilarità, e dopo un processo-farsa, lo buttano al fuoco della piazza.

Molto bello è un canto augurale, in realtà assai triste, riportato dal Marino nel suo libro:


Addio tutti cari amici,

più non lice far baccano,

da qui parto e vo’ a Milano

e mi sento da morir.

O donzella amata e cara,

io vi lascio in abbandono,

non ingrato perciò sono,

il destino vuol così […]

Francaville, nu belle paese,

l’ann’a redotte a nu ‘spedale,

chi sta bbone e chi sta male,

carnevale ha da scappà!”

 

con la seconda guerra mondiale, Francavilla fu uno di quei paesi abruzzesi cancellati dalla storia. Ruelle, stradine, piazzette, casette, chiese antiche, cancellate letteralmente dalla terra! Mai cosa peggiore può eradicare la storia di un popolo, i francavillesi erano rimasti senza una città, senza una identità, le case secolari, le torri, le mura, le chiese, i conventi, tutto ridotto a un cumulo di macerie, solo testimonianze di anziani, e di persone che avevano vissuto quei momenti tragici sarebbero rimaste…ma le testimonianze orali con la morte dei testimoni, vanno perdute, o si trasformano, si modificano, le foto e i documenti parlano! Francavilla risorse, scrissero della sua storia, l’opera del Marino fu una fonte importantissima per riparare a una cancellazione di massa della bestia teutonica, archivi comunali, documenti privati che avrebbero potuto far luce sulla storia Francavillese…tutto distrutto!!

Ma ecco che negli anni ’50 il sentimento Francavillese darà avvio al più famosi dei Carnevali, il Carnevale d’Abruzzo, con la maschera di Re Patanello come simbolo e logo.

La tradizione di questo carnevale nasce subito dopo il secondo Dopoguerra nel 1956, frutto della volontà di alcune persone al fine di animare il luogo di villeggiatura durante l'inverno. Il Carnevale francavillese conta un periodo di sospensione dal 1974 al 1980. La sfilata segue sempre il tradizionale percorso lungo il viale principale del paese (viale Nettuno), tra la stazione ferroviaria e la vicina piazza della Sirena, svolgendosi nei giorni della domenica di Quinquagesima e dell'ultimo martedì di Carnevale.

Inizialmente, il Carnevale si festeggiava con l'esibizione del gruppo folkloristico "Zazzà cerca Zuzzù", complesso originario francavillese, che si esibiva lungo le strade, con balli e travestimenti. Dato il successo iniziale, la piccola ricorrenza divenne una festa ufficiale con l'organizzazione del comitato cittadino per l'organizzazione del carnevale annuale. Furono presi contatti con maestri cartapestai regionali e poi del Paese, insieme a orchestratori e musicisti vari, in modo di far avere a questa piccola manifestazione risonanza regionale e anche nazionale.

Raggiunta l'organizzazione classica annuale della sfilata dei carri, ad aprire la parata è il carro di Re Patanello (la maschera ufficiale del Carnevale d'Abruzzo a Francavilla), personaggio ispirato alla storia di Zì Patane, ciabattino francavillese vissuto alla fine dell'800, burlone e stravagante, che rispecchia l'anima festosa della comunità. Negli anni i carri a seguire si sono sempre più aggiornati, proponendo figure e allegorie satiriche e sbeffeggianti la politica, la società contemporanea. Il percorso è sempre lo stesso, da Piazzale Stazione, passando per viale Nettuno fino a raggiungere Piazza Sirena, dove si seleziona il carro vincitore, e dove alla fine della festa si brucia la "pupazza".

Le tipicità di questo carnevale consistono soprattutto nel cibo: si gusta la "cicerchiata", dolce tipico abruzzese con forma a ciambella, composta da palline di impasto fritte nell'olio d'oliva e comparse di miele; in seguito le "frappe" o "chiacchiere" diffuse nel resto d'Italia. Altra ricorrenza locale è la recitazione della filastrocca scritta dal poeta Gabriele d'Annunzio, con riferimenti alla festa e all'allegria, ma anche alla religione, parlando del mercoledì delle ceneri:

«Carnevale vecchio e pazzo s'è venduto il materasso
per comprare pane, vino,
tarallucci e cotechino.
E mangiando a crepapelle
la montagna di frittelle
gli è cresciuto un gran pancione
che somiglia a un pallone.
Beve e beve e all'improvviso
gli diventa rosso il viso,
poi gli scoppia anche la pancia
mentre ancora mangia, mangia...
così muore il Carnevale
gli fanno il funerale,
dalla polvere era nato
ed in polvere è tornato.»

(Gabriele d'AnnunzioCarnevale di Francavilla)

Le associazioni culturali locali sfilano coi carri sul viale, arrivando in piazza Sirena, che si riempie anche dei cittadini in costume. I carri vengono presentati, mostrano scene allegoriche, spesso riferimenti comici a situazioni locali politiche e sociali, oppure i bersagli sono politici e figure di rilievo internazionali, oppure ancora si prendono a modello personaggi della fantasia e dei fumetti internazionali. Il carro aprente è sempre quello della maschera di Re Patanello.

Alla fine della festa in piazza una giuria sceglie il carro vincente. Nel corso degli anni la cerimonia è stata divisa in 3 giornate, la prima che si svolge nel Mercoledì delle Ceneri, la seconda il Martedì grasso e l'ultima con elezione del carro vincente il Giovedì grasso.

Le tipiche sceneggiate Carnevalesche del processo a Re Carnevale

Sono quasi tutte simili. A Penne inscenano una sfilata di carri allegorici per festeggiare il Re dei Maccheroni, ovverosia il Carnevale. Di recente un gruppo rievocativo di giovanotti, “I Giovani Briganti” di Salle nel pescarese, vengono ad allietare la giornata con canzoni carnascialesche, in costume tipico.

La Mascherata di Villa San Vincenzo di Guardiagrele, prevede una sceneggiata a monologo di un attore, con un altro che gli fa da spalla, dopo la filata tradizionale dei festaioli mascherati. Non si sa con precisione quando questa tradizione abbia preso definitivamente forma, fatto sta che il sentimento della farsa recitata è sempre quello di mostrare, da parte del popolo, una critica alla società, al malcostume e ai politici; quasi che il giorno di Carnevale il popolino affamato e vessato, si riappropri dei diritti, che si sfoghi, che dia libertà ai suoi istinti; ma lo fa col teatro, con la battuta di spirito, che sfocia quasi sempre per scatenare l’ilarità tutta, nelle volgarità e nelle oscenità. In sostanza a Villa San Vincenzo, come testimonia anche una rara registrazione audio anni ’70, l’attore rappresenta il popolo, e il Carnevale, e inizia a elencare in rime baciate varie tristi situazioni che gli sono capitate durante l’anno, prima di lasciare questo mondo. Sono sempre lazzi che hanno per allusione il sesso, il mangiare, insomma gli istinti della pancia, e alcune battute sono del tenore seguente:

“C’hanno prumesse la pinziune!

C’acchette paste e maccarìne,

vute, e batte, e ppicciarìlle,

ecche lu decotte di camumille!”

 

“Lu cafè, teng’a urdenà

Ecche lu cafè mo’ escen

Nin mi cunzignà lu pesce!”

La gente applaude sganasciandosi dalle risate, fino al finale.

Alcuni hanno visto in questa sceneggiata un’elaborazione del più convenzionale “processo a Re Carnevale”, che si celebrava un po’ in tutti i paesi dell’area Frentana. Un caso isolato di “autocoscienza identitaria” in queste aree è dato dal paese di Castelfrentano, grazie alla figura poetica del dottor Eduardo Di Loreto (1897-1958) e del suo amico musicista provetto Pierino Liberati (1894-1963). Nel 1934 i due dettero avvio a una farsa breve, in un atto, la Mascherata carnevalesca, che ancora oggi, sebbene non sempre, si ripropone con grande gioia del pubblico. Sicuramente Di Loreto e Liberati, al contrario di quanto fin’ora non sia stata abbastanza preso in considerazione dalla critica, vollero rappresentare la cosiddetta “castellinità”, il sentimento paesano. Ma questo contesto è più profondo di quanto si pensi al campanilismo paesano. In effetti anche il campanilismo, se coadiuvato da esempi e progetti costruttivi, certifica l’identità di un popolo, questo Di Loreto e Liberati fecero per Castelfrentano, elaborando dei sentimenti e dei gusti popolari, sia per la musica e le canzoni, che hanno per ritmi e melodie delle unicità e tratti ben distintivi rispetto a varie altre melodie musicali dei paesi attorno; e ancor più questa castellinità la vediamo leggendo le farse del primo Di Loreto, dove egli si diverte a mettere in scena situazioni varie paesane, episodi caratteristici di vita piccolo-borghese; e naturalmente la Mascherata, scritta in versi e recentemente ripubblicata nei 4 voll. di Eduardo Di Loreto – Versi e Teatro, Itinerari, Lanciano 1988-2004, ma senza lo spartito musicale, in possesso degli eredi Aroldo e Maria Di Nardo, e concesso in copia all’Associazione teatrale Di Loreto-Liberati di Castelfrentano per future esecuzioni.

Anni ’50, il carro della Mascherata carnevalesca di Castelfrentano – Archivio Mimmo Sciascia

Il processo descritto nella farsa, prende elaborazione probabilmente da improvvisate che a Castelfrentano dovevano farsi da parte di buontemponi, sempre per il gusto popolare di appioppare tutte le colpe dei periodi rigidi del cattivo inverno, delle malattie, della morte degli animali di campagna, delle varie sventure, al Re Carnevale, una specie di demone da esorcizzare, da condannare….il Carnevale ha rappresentato varie malignità della società italiana, vuoi il Re di Napoli, vuoi un suo vicerè, governatore, ancora oggi si satireggia sui politici, sugli arraffoni, anche sui preti e sui cardinali. Ecco quindi a Castelfrentano la figura della grande maschera del Carnevale, in cartapesta, che non può difendersi, eretta in forme giganti (anche se racconta che in alcune versioni della farsa, un uomo vero rappresentava il Carnevale), la moglie che deve difenderlo dalle accuse, lu Core nere e lu Tirapiede, i due avvocati del diavolo che lo processano, il Predicatore e infine il coro. Il processo ha frasi che suscitano ilarità generale, da situazione drammatica si passa alla risata immediata: “Ji piacè la cumpagnije / la cartucce e la buttije, ha spurcellite tutte cose”, grida lu Tirapiede,

la moglie per difenderlo, abbozza maldestramente “Ma pecché s’ha da murì, puverette, a ccuscì? / puverette puverette, pe nu ccone di purchette, / pe nu ccone di vintricine / ha da fa sta brutta fine?”

Carnevale prova a difendersi dalle accuse: “E l’ietre nen magne? Ne chenosce de magnune che tè la panze gne nu pallone de le feste di Settembre, e che nn’arispette manche la quaresime! Sole ji aja scumparì pe fa lu larghe all’ietre?”

Naturalmente una persona di versatilità poetica come Di Loreto, non poteva passare dal teatro feticcio popolare, di bassa lega e “di pancia”, al teatro della coscienza, come andare in sostanza dal gusto di Plauto alla riflessione critica di un Terenzio o un Menandro greco. Carnevale non è muto, parla, e deve difendersi, fa delle allusioni all’abbondanza delle feste SETTEMBRINE DI Lanciano per la Madonna del Ponte; e sa che deve scomparire per far sì che il popolo viva, che prosperi, un sacrificio necessario, di antiche reminiscenze. Anche gli altri mangiano, e spesso anche più di lui, e il riferimento e alla società più arraffona e meschina, che schiaccia il popolo. Ma il popolo vuole il suo capro espiatorio, non è affatto incline alla riflessione, al dialogo, vuole il colpevole per soddisfare il suo basso gusto, vuole illudersi per poche ore di aver risolto i suoi problemi di sempre, e ci vuole de facto una figura simbolica da distruggere materialmente, Carnevale! Le suppliche della moglie, cantate nella Mascherata castellina, non valgono a niente, anzi con la sua dabbenaggine, nell’elencare altre malefatte del marito, fa infuriare ancora di più il popolo, che alla fine reclama, quasi con un canto funebre magistralmente scritto dal Liberati, la morte effettiva del Carnevale.

Alcuni raccontano, così come anche a Lanciano quando in piazza presentavano le “pupazze” e i carri, che ritualmente, la statua di cartapesta veniva sventrata, a somiglianza dello scannamento del porco per Sant’Antonio abate, molto sentito in Abruzzo. E dalla pancia sventrata, uscivano tante leccornie, che  fino a 50 anni fa, con la miseria che c’era, gran parte della gente si sognava, forse solo a Natale poteva gustarne! E parliamo di salsicce, porchetta, patate, dolciumi, una pignatta che si spacca e che offre tanti regali, il popolo si ciba dello stesso Carnevale morente che con la sua maschera contorta e buffonesca, sta lì, fisso, nei suoi occhi dipinti a guardare il popolino, che anche quell’anno ha festeggiato, e si prepara alla rinascita del raccolto.

I Carnevali con la Pupazza

Pochi Carnevali in Abruzzo si festeggiano con la pupazza che balla, e che viene fatta saltare in aria. Ricordiamo nell’aree vicine alla costa adriatica, la tradizione, forse di origine schiavona (per le immigrazioni avvenute in Abruzzo nel XV-XVI sec), di far ballare un pupazzo di cartapesta raffigurante una bella donna con una gonna prominente, e una cesta di frutta sulla testa, da cui scintillano i fuochi artificiali. La pupazza, il cui manichino è tenuto da ferri interni cui si aggrappa il figurante che deve fare il ballo e le giravolte nella piazza tra gli astanti, balla ancora oggi nei paesi di Cappelle sul Tavo vicino Pescara, un tempo ballava per la festa della Madonna del Fuoco nella borgata omonima di Pescara. Oggi invece, anche se da un po’ di anni l’usanza è caduta, la pupazza sfilava e ballava per il corso Umberto a Casoli, nel chietino, per finire la sua danza con lo sparo finale nel piazzale di Santa Reparata.

A Lanciano, come ricorda Gennaro Finamore nelle sue “Tradizioni popolari abruzzesi”, l’usanza c’è ancora; ma non si sa se la pupazza veniva fatta ballare. Come ci hanno testimoniato attualmente vari ex mastri della cartapestra tra cui l’indimenticabile Claudio Rosato con il suo magazzino nel rione Civitanova, maestro dell’arte del ferro, e per anni presidente dell’Associazione culturale “Quartiere Civita nova”, la pupazza veniva fabbricata in cartapestra su supporto o scheletro in legno, a rotazione, qualunque mastro della città, calzolaio, fabbro, falegname, pittore, poteva realizzarlo, e più di una volta è successo che in città abbiano sparato più Carnevali insieme. Ricordiamo con nostalgia la bontà e il gran daffare del buon mastro Tanino de Vincentiis, che nel tempo libero si dedicava anche alla banda, fino alla morte nel 2015: egli dagli anni ’90 sino al 2014 fu l’anima del Carnevale lancianese, fabbricava nella sua bottega in via sotto la Torre campanaria il suo carro di Carnevale, a volte in piazza ne posizionava più di uno: carri allegorici, buffoneschi, il tema era sempre quello, la satira, il prendere in giro un politico dell’epoca come Veltroni, Berlusconi, Bersani, Prodi, o un personaggio influente della città. Ricordiamo il carnevale di un politico dedito a mangiarsi un gigantesco hamburger, che tutti sapevamo, sarebbe stata la parte che nell’esplodere avrebbe fatto più chiasso di tutte le altre bombe esplose durante lo spettacolo pirotecnico.  Il Carnevale viene posizionato la sera del Martedì grasso nella piazza Plebiscito, a volte accadeva anche in piazza Garibaldi dove si tiene il mercato della verdura, raramente in altri spiazzi, e dopo dei giochi pirotecnici di fuochi artificiali, tra cui l’immancabile sequela di giochi osceni della “fumata del sigaro”, della “pisciata”, della “cacata”, una scarica di botti parte dall’altro capo della piazza, collegati da un filo, sino a raggiungere con crepitio sempre più crescente, la testa della maschera, che salta per aria con scoppio fragoroso, tra gli applausi del pubblico, che si riversa poi nei vari locali a brindare, e fare l’aperitivo, che ormai da anni ha sostituito la tradizionale cena tra amici in simpatica allegria.

Tempo fa nel rione Cappuccini, la parrocchia di San Pietro organizzava anch’essa una Carnevalata, chiamando sempre il buon Tanino, con un maschera che veniva fatta esplodere alla stessa maniera della solita della piazza Plebiscito, nel piazzaletto antistante la chiesa. Ma come festeggiavano gli altri il Carnevale? Gli anziani hanno ricordi foschi, all’epoca dopo la guerra c’era la miseria nera, si si vestiva con quel che si raccattava, lenzuola e cenci vecchi, in disuso, li si colorava a mano alla meno peggio, o chi aveva i genitori più abbienti, si faceva confezionare dei vestitini da baronetto, da Zorro, o da cowboy, o da principessa delle favole, e allegro usciva a gettare coriandoli ricavati da minutissimi ritagli di giornale, e a divertirsi con gli amici per strada, o nei locali.

 

Il Carnevale Vastese

Interessante è l’articolo a firma di Lino Spadaccini in NoiVastesi

https://noivastesi.blogspot.com/2019/02/carnevale-le-tradizioni-di-una-volta.html


Particolarmente apprezzata dagli inizi degli anni '50 la "Rassegna delle Maschere" alla S.A.L.T.O., lo stabilimento dei tabacchi del comm. Carlo Boselli. Oltre al pranzo sociale, offerto alle oltre trecento "saltine", con la tradizionale gastronomia carnevalesca vastese, dove spiccavano ravioli e ciciricchiata, prendeva il via la Rassegna Mascherata, con la premiazione dei vestiti più originali. Il canto de la Štoria, momenti ludici e le melodie proposte dall'orchestrina, contribuivano alla buona riuscita delle feste.

Le sfilate dei carri organizzate dal Centro Cattolico Diocesano, per iniziativa del parroco della Cattedrale di S. Giuseppe, don Felice Piccirilli, ottennero un coinvolgimento popolare davvero imponente. Nel 1957, in occasione del "Primo Carnevale dei Bimbi", la sfilata di carri allegorici,partita dalla storica residenza dei d’Avalos, percorse le principali strade cittadine, tra due ali di folla entusiasta.Le sfilate erano caratterizzate dalla semplicità, con l’unico scopo di far trascorrere una serena e festosa giornata, soprattutto ai tanti bambini presenti per le strade con le loro mascherine. Al rientro deicarri, sempre a Palazzo d’Avalos, la festa proseguiva con piacevoli scene folkloristiche e la tipica quadriglia, danzata da cavalieri e dame sul palco sistemato davanti il Monumento ai Caduti, quando si trovava in piazza L.V.Pudente.

Una rievocazione storica, citata anche da Luigi Marchesani, nella sua Storia di Vasto, che veniva saltuariamente proposta nel periodo di carnevale, era la "Cavallarëjje", ovvero la tradizionale mascherata a cavallo dei vetturali vastesi, in ricordo delle incursioni turchesche sulle nostre coste dal XVI al XVIII secolo."In origine, la mascherata consisteva in un corteo di cavalieri dalla pelle nera", si leggeva in un articolo degli anni '20 apparso sulle colonne de Il Vastese d’Oltre Oceano, diretto da Luigi Anelli, "che per prima coppia aveva un Pascià a lato di una fanciulla bianca, vestita di candidi veli. Oltre alla magnificenza dei vestiti, la mascherata si distingueva per la ricchezza dei turbanti e dei fez dei cavalieri della mezzaluna, letteralmente ricoperti di fiammanti collane di oro".

Con il passare degli anni anche la rievocazione perse il significato e il suo fascino iniziale: i costumi turchi passarono di moda e la caratteristica mascherata della Cavalleria venne trasformata in un corteo reale con la coppia coronata seguita dal codazzo di "cavalieri bianchi dai serici vestiti,dalle sgargianti gualdrappe dei loro destrieri ed armati di innocue sciabole di legno inargentato".

Un’antica tradizione carnascialesca molto seguita e apprezzata era "Lu Bballemîte" (Il Ballo muto), una specie di quadriglia, ben strutturata che veniva eseguita a suon di organetto da un gruppo di soli uomini, alcuni di quali vestiti da donna.

Questa tradizione, sin dall'immediato dopoguerra, è stata tenuta viva per tanti anni prima da Mastro Gino Pracilio, e successivamente dal compianto Ezio Pepe, che l’ha riproposta anno dopo anno, con il coinvolgimento dei giovani della parrocchia dei Salesiani, fino al 1994.

L’ultima edizione è stata quella del 1995, in un certo senso un omaggio al compianto Zì Culucce, scomparso solo qualche settimana prima, grazie alla regia di Ida Pepe, che ha pazientemente istruito le sedici coppie di ragazzi, seguendo minuziosamente i passi tramandi dell’antica tradizione.

Un'altra consuetudine abruzzese piuttosto lugubre e ripugnante, importata dai mercanti baresi, era quella del "carnevale morto". Su un carretto sgangherato veniva sistemato un fantoccio fatto di cenci e di paglia. Intorno c’erano il prete, il sagrestano e varie maschere con lumi accesi e grossi campanacci. Dietro il carretto, seguiva la moglie di carnevale, che addolorata piangeva e si strappava i capelli per il marito morto. Tutt’intorno i monelli schiamazzavano e gridavano lagnosamente: "È morto Carnivale, e po' po' po'!".

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