Carnevale a Castiglione Messer Marino - Foto Anna Marrama |
Il Carnevale in Abruzzo: le varie tradizioni
popolari e nuovi spunti di analisi delle varie Mascherate carnevalesche
di Angelo Iocco
Questo articolo vuole essere un ragguaglio, insieme a un mio prossimo scritto che si incentrerà sul Natale abruzzese, sulla Pasquetta, ovvero l’Epifania, e sulle tradizioni della Settimana santa e della Pasqua nella nostra terra d’Abruzzo. Ci si è spesso interrogati sulle origini e le peculiarità del Carnevale Abruzzese, ad esempio quali siano le sue Maschere tipiche, sul perché così poco si sappia di questa tradizione regionale. Nella mappatura delle Maschere tipiche della Commedia dell’Arte, con alcune illustrazioni reperibili anche sul web, purtroppo l’Abruzzo e il Molise o sono del tutto assenti, oppure, per la nostra regione viene riportata la Maschera del Fra’ Piglia di Guardiagrele, che trattasi di una realizzazione recente dell’attore Fabio Di Cocco, ispirata a un personaggio buontempone realmente esistito nel suo paese, come vedremo. Il Carnevale in Abruzzo è anche questo, citando l’esempio della più famosa Rassegna del Carnevale di Francavilla al mare: realizzare una Maschera buffonesca ispirata a un personaggio tipo realmente esistito, per esorcizzarne i difetti attraverso la risata, le azioni grottesche, per far divertire il pubblico.
Del Carnevale Abruzzese si occupò Padre
Donatangelo Lupinetti in un suo scritto molto breve: Il Carnevale nelle tradizioni
popolari abruzzesi, Pescara 1958, ricorda le probabili origini delle
Carnevalate abruzzesi dalla tradizione napoletana, da cui ha tratto il
personaggio trickster di Pulcinella. Lupinetti ricorda il periodo della
Quaresima in cui si svolge il Carnevale, ne collega le origini alle sceneggiate
del Sant’Antonio, che le compagnie vanno cantando di casa in casa il 17
gennaio. Opinione ancora oggi condivisa da diversi etnologi abruzzesi, dato che
il copricapo molto allungato del Santo anacoreta, usato in alcune zone come
Caramanico, Palena, Lama, somiglierebbe al grande copricapo conico allungato
del Pulcinella abruzzese, e dato che sia il Pulcinella che il Sant’Antonio alla
fine, nonostante il tema sacro trattato nelle rappresentazioni di quest’ultime,
il povero protagonista si lascia andare a lazzi e buffonate, ora combattendo
contro il Demonio, ora contro la Bella ragazza tentatrice, ora contro il
riccone che gli offre la via della felicità, ora contro i diavoloni, finché gli
angeli non vengono a salvarlo.
Lupinetti nel suo saggio ricorda due canti
abruzzesi, che potrebbero esser collegati alla tradizione Carnevalesca: il Lamento
della vedova o Scura maje, che si canta a Scanno e Vasto, canto
trascritto dal poeta Romualdo Parente nel ‘700, e il Maramao perché sei
morto. Il primo canto effettivamente, come ricorda Lupinetti, dopo le
strofe ufficiali, spesso veniva deformato dalle compagnie, con strofe
aggiuntive e con epiteti ingiuriosi e sessualmente allusivi, dato che come
sappiamo, il tema è il pianto di una vedova, che ha appena perso il marito, e
non sa più come vivere, ora si trascina dal compare per avere aiuto, e viene
scacciata, è rifiutata dalla comunità, e si augura di morire. Specialmente ai
versi:
So’ na pechera spirdiute,
lu muntone m’à lassate,
lu cacciùne sembr’abbaje,
pe’ la fame mo’ m’arraje!
Mare maje, mare maje,
scura maje, scura maje,
mo’ m’accide ‘ngolla a tte’!
Su questo filone del Carnevale in Abruzzo,
ossia quello del Carnevale morto, differente dalle allegre brigate con le
sfilate dei carri per il Carnevale allegro, il Lupinetti nel suo scritto
riporta la filastrocca:
Carnevà, perché scì mortu?
La ‘nzalata c’avì nell’ortu,
pane e vinu nun te mancava,
drentu a la casa tutto ce stava!
Riporta anche alcune rappresentazioni
farsesche spontanee, scritte spesso da persone semplici del porto, che avevano
insito il germe della poesia. Si tratta della Rappresentazione de lu Rre di
Babbilonia di Penne, che oggi purtroppo non si rappresenta più, dove è
rappresentato il crapuloso e festaiolo riccastro Re della Babilonia, città di
perdizione per tradizione, il quale è corteggiato da tante contadinelle che
vendono piccioni, moscardelli, melelle ecc. finché non interviene la regina.
Lupinetti riporta anche una Mascherata di Frisa vicino Lanciano, con gli
incontri allusivi tra un militare che ha fame, una contadinella e una
zingarella. Le distorsioni musicali e le parodie, che accompagnano queste
Mascherate, hanno sempre fatto parte della tradizione abruzzese, ad esempio in
un Sant’Antonio della contrada Corpisanti di Lama dei Peligni, a un tratto
viene parodiato il Va’ pensiero di Verdi, nel Sant’Antonio di Casoli
viene parodiata l’aria “Quell’uom dal fiero aspetto” dell’operetta Fra’
Diavolo di Auber, ancora oggi, come ci è capitato di sentire, nella
Mascherata di Palombaro, alcune canzoni celebri sono parodiate, e ci è capitato
di sentire la distorsione, per rispettare il soggetto della farsa, del canto
abruzzese Quande la fija me’; dunque una tradizione comica per natura
che ancora oggi si ripete!
A Lanciano e nei dintorni esistevano degli
appositi sparatori per il pupazzo di Carnevale, anche se non esisteva un vero e
proprio mastro di professione, ma a rotazione, dei buontemponi che avevano
bottega, preparavano la pupazza ogni anno, e poi la esibivano nella piazze al facevano saltare in aria coi botti.
Peppino Crognale e Claudio Rosato, lancianesi doc che hanno partecipato negli
ultimi 40 anni a queste manifestazioni, ricordano come tra gli sparatori di
Lanciano figurassero Tanino De Vincentiis che aveva la bottega in via sotto al
Torre della Basilica, esattamente quel famoso Tanino che animava la banda di
Lanciano col suo trombone, scomparso purtroppo nel 2015; a seguire i fabbri
Rosato nel rione Civitanova, e poi Francesco “Ciccillo” Di Florio De Grandis, nella
sua bottega in via U. Cipollone nel rione 167, recentemente scomparso per un
agguato folle.
Una Maschera di Carnevale di Francesco Di Florio De Grandis, 2022, presso l’auditorium Diocleziano di Lanciano |
Riportiamo qui due fotografie anni ’80 dei
Pulginelli in sfilata a Roccaspinalveti, vicino Castiglione, fotografie
gentilmente concesse da Tarquinio Bruno.
Si pensa, ipotesi nostra, che queste
compagnie teatrali, probabilmente molte delle quali del napoletano, essendo
l’Abruzzo una ex provincia del Regno di Napoli, siano giunte girovaghe nelle
contrade e nelle città d’Abruzzo, e che il popolo nel periodo della quaresima,
a partire dal ciclo dell’Epifania del 17 gennaio fino alla Settimana Santa, col
tempo abbia assimilato queste usanze “a soggetto” del teatro comico italiano, e
le abbia riproposte periodicamente, e in maniera del tutto diversa, per le
scenette e sceneggiate da rappresentare in occasione della festa del Martedì
grasso.
Il nostro amico Yuri Moretti di Perano,
studioso di tradizioni abruzzesi, ricorda le sceneggiate che cambiavano a
soggetto periodicamente, composte ad esempio negli anni ’50 dal pastore
protestante dell’ex Chiesa Cristiana Evangelica di Perano, una delle più
antiche d’Abruzzo, fondata alla fine dell’800, con una filiale a Palombaro,
paese poco distate. I canovacci erano più o meno gli stessi nell’impostazione:
inscenare un processo a Re Carnevale, su cui catarticamente ricadevano tutte le
colpe dell’annata, del cattivo raccolto, delle gelate d’inverno, delle
sofferenze familiari; il re Carnevale, per dirla alla maniera di Castelfrentano
“ha spurcellìte tutte cose”, si è mangiato tutto, affamando il povero popolo, e
ora è processato da un tribunale del popolo, con un aizzatore, una specie di
Avvocato del Diavolo, che lo condanna a morte, e dalla mascherata, sarebbero
uscite tutte le leccornie per “ingrassare” il popolo, guarito dal periodo di
magra. Ecco come da queste innocenti buffonate teatrali abruzzesi, in realtà si
scopre come, in una maniera tuttavia da non definire con certezza, “linea
diretta di derivazione”, le sceneggiate abruzzesi del Carnevale possano avere
qualche collegamento simbiotico con il rito della rinascita della natura dopo
il freddo inverno, con la rinascita della vita, con l’abbondanza, che viene
prima della Quaresima e dei digiuni per la Settimana santa, e che risorge
tuttavia in Maggio con la fioritura degli alberi, con la mietitura, con
l’abbondanza e lo sbocciare degli amori. Quanti contadini e quanti poeti
abruzzesi hanno contato “E’ rimenute Magge!”
Notiamo altri Carnevali di interesse
nell’area chietina, quello di Palombaro e quello di Crocetta di Castelfrentano.
Il primo è una sceneggiata portata avanti da una compagnia di girovaghi delle
varie contrade del paese. Sono rappresentate brevi spaccati della vita
quotidiana, come si viveva nella casa una volta, come si lavorava il terreno.
Però il tutto mostrato sotto la veste buffonesca, con lazzi e battute volgari,
vengono descritti con simpatia catartica ed esorcizzante i problemi del lavoro
nella terra, con le grandinate, le nevicate, le inondazioni dei fiumi, o i
cinghiali che mangiano il raccolto. Poi alcune volte, gli uomini per far ridere
di più la gente, si mascherano da donne, si truccano in maniera clownesca, e
con vocetta stridula, recitano appassionatamente. Ci sono allusioni personali a
certuni personaggi tipici di Palombaro, tipi famosi, politici, fattarelli,
spesso a sfondo sessuale, che durante l’anno sono accaduti. Il popolo
compiaciuto, in quel lasso di tempo, sembra uscire dalla realtà, e si concede una risata generale per guardarsi
allo specchio, in comunità, e ridere delle proprie mancanze e dei propri
“peccatucci”. Alla fine di tutto c’è un momento conviviale.
Il Carnevale di Crocetta frazione di
Castelfrentano è un esempio di come nei vari paesi d’Abruzzo, ci furono, poiché
oggi l’usanza è sempre meno frequente, si scegliessero di rappresentare dei
Carnevali personalizzati. Ogni contrada faceva quasi a gara con l’altra e con
il paese principale, nel rappresentare la mascherata più pacchiana e più
festaiola, e naturalmente c’era un canovaccio da seguire. L’ex presidente del Circolo
culturale Crocetta, Pietro Angelucci, ci ha messo a disposizione dei filmati
degli anni ’90 e 2000, in cui a Castelfrentano si celebrava la sceneggiata
scritta da Di Loreto e Liberati, di cui parleremo; mentre a Crocetta portavano
fino al piazzale del santuario dell’Assunta un’altra carnevalata, “Lu
‘mbasciatòre” (L’ambasciatore), recitata in versi, dove il protagonista, a
differenza della Mascherata castellina, si presentava come una specie di Re
Mida, che poteva compiere miracoli, sfamare il popolo, portarlo all’eterna
gioia tra lazzi e canti, e non mancavano riferimenti personali e sberleffi a
qualcuno della contrada. Si concludeva il tutto in balli e allegrezze varie,
prima in piazza, e poi al ristorante.
Carnevalata di Orsogna, anni 70 |
Un’altra
Mascherata che fu rappresentata qualche anno fa, fu scritta dal poeta Attilio
Micozzi di Filetto, di cui possediamo copia, oltre alle Mascherate di Orsogna,
che siamo riusciti a leggere grazie allo studioso Vittorio Pace. Grazie alla
sua collezione fotografica, siamo riusciti a notare una fotografia degli anni ’70
con una compagnia della Carnevalata, dove appare un personaggio col copricapo
conico molto allungato, e pieno di gingilli, tipico del Pulcinella. Questa foto
è pubblicata nel libro album Orsogna nella memoria, dell’Ass.ne Il
Teatro di Plinio, 2006. Le Mascherate orsognesi conservatesi in nostro
possesso, si intitolano: la prima Itturì, dal nome del protagonista, scritta
da Ettore Tenaglia nel 1937, nel momento in cui partì per la campagna d’Africa.
Fu messa in scena anche, con alcune modifiche e allusioni contemporanee,
dall’Associazione “Il Teatro di Plinio”; il tema è sempre quello amoroso,
Itturì e Brunetta si incontrano in bicicletta sulla via per Orsogna e vanno
insieme, immediatamente la notizia crea scompiglio, per il timore che Itturì
voglia disonorarla, e la scena si risolve in un tripudio di lazzi e situazioni
divertenti.
Altre
due farse sono Una delle Carnivalate, messa in scena dall’Associazione
Il Teatro di Plinio, molto breve, ha sempre il tema amoroso, Giuvine è contesa
tra Alfredo e Nicole, ed è avvertita da Feliciane che Alfredo sta facendo una
pazzia con il rivale. Naturalmente l’intreccio si risolve positivamente;
l’ultima è L’Amore sufferte tra Mariucce e Giuvanne, anch’essa breve:
tema sempre l’amore contrastato, i due protagonisti si amano, ma i genitori di
Mariucce sono troppo guardinghi e possessivi, e alla fine Giuvanne deve
convincere con grande fatica la mamma a concederle la figlia in sposa, lui che
è squattrinato e che cerca di far capire alla brutta megera che i soldi non
sono tutto nella vita.
Fra’ Piglia (o anche Frappiglia) è la vera
maschera del Carnevale abruzzese?
Il
dialettologo e attore teatrale di Guardiagrele Fabio
Di Cocco invece ha riutilizzato, di recente, una maschera popolaresca che
ancora merita una rivalutazione, il "Frappiglia", una sorta di miscuglio
tra Pulcinella per
gli istinti bestiali e burleschi e Arlecchino per
il costume di toppe cucite. Innegabile la derivazione da una figura sacra molto
venerata nell'hinterland di Guardiagrele, Sant'Antonio
abate, un santo patrono dei contadini di campagna, così
come ha origini cafone il Frappiglia, che viene visto come un irriverente e
scomunicato Sant'Antonio che fa il bene dei poveri e dei bisognosi, lo stesso
nome "fra (da frate) + piglia (cioè il prendere, l'arraffare)" si
ricollega a una figura religiosa. Naturalmente il Frappiglia, considerato sul
web (occorrono ancora saggi critici su carta da pubblicare!) la maschera
abruzzese della Commedia dell’arte, è in realtà una recentissima invenzione del
Di Cocco; mancano dei veri e propri collegamenti di questa parte d’Abruzzo con
la tradizione secolare della Commedia dell’arte, con i Brighella, i Gianduja,
gli Arlecchini, i Balanzoni, i Pantaloni, i Capitani e i Dottori! L’idea del Di
Cocco tuttavia è risultata felice, poiché è una derivazione di tutte le basse
qualità di queste Maschere storiche, da Pulcinella a Trappola, a Brighella. Il
Frappiglia è l’eroe del popolo, colui che con i suoi modi di agire bassi e
farseschi, riesce a risolvere tutti i problemi, quasi un novello Sant’Antonio
abate, tanto caro agli abruzzesi.
Fabio Di Cocco, al centro nella maschera di Frappiglia, con Tommaso Bernabeo a sinistra, e Rossella Gesini, a destra, che interpretano Brighella e Colombina |
Immagine della maschera del Pulcinella, in Abruzzo è stato elevato il copricapo per le maschere di Schiavi d'Abruzzo, Chieti e Castiglione Messer Marino |
Solo che Frappiglia ribalta il concetto positivo del sopportare in silenzio le tentazioni e i soprusi del Demone, per ricaricarsi e scaricare tutte le brutture in modo burlesco contro i potenti con lazzi e scherzi. Altro collegamento alla tradizione popolare, specialmente a quella branca di storie che parla di imbrogli fatti dai popolani al Diavolo, è quello di Fra Piglia che distorce il valore morale delle fiabe deniniane e finamoriane della tradizione popolare, poiché il Diavolo riesce sempre a vincere contro i desiderosi di oro nelle caverne o nei ruderi di castelli, di cui è custode; invece Frappiglia imbroglia il Diavolo facendo testamento davanti ai notai degli Inferi, lasciando tutto quel poco che ha a sé stesso, e cioè la sua stessa vita. Il Diavolo scornato sparisce, e Frappiglia diventa un essere immortale, potendo fare il bene per gli altri rubando, e dando al popolo quell'orto che desidera.
Come
il Pulcinella napoletano,
Frappiglia, maschera di Guardiagrele, veste abiti poveri, camicia bianca per
ricordare il Paradiso, dato che egli comunque è un uomo di Chiesa che si è
deformato e ridotto alla miseria per la sua stessa natura, facendo però il bene
del popolo, abito grigiastro con chiazze rosse per ricordare il fuoco
dell'Inferno, la maschera nera del Pulcinella per ricordare che gabbò il
Diavolo, il quale lo sfregiò per sempre come punizione. Nell'iconografia dei
canovacci studiati da Fabio Cocco, Frappiglia appare ora con un bastone da
pellegrino, come Sant'Antonio, ora con una falce, per le burle e i lazzi contro
i potenti.
Veniamo alla descrizione dei Pulginelli di Castiglione Messer Marino.
Insieme ai Pulginelli di Castiglione, sono dei costumi molto arcaici che consistono in un copricapo a cimiero di vario aspetto, ricoperto di colori e fiori di carta policromi e nastri, detti zagarelle. Il gruppo di questi giovani che indossano il copricapo, è preceduto dal Pulcinella che porta trionfalmente la mazza detta "scagliocca", simbolo del potere e di prosperità per il raccolto. Per questo alcuni vogliono che queste figure carnevalesche vadano a ricollegarsi a quei riti italici pre-romani, nelle cui feste campagnole, per portare augurio di pace e prosperità, soprattutto al livello sessuale, e per il buon raccolto, inscenavano processioni burlesche con lazzi e giochi osceni.
I
Mazzaroni, così chiamati perché sono il corteo del Pulcinella con la mazza,
peregrinano per le case del paese, intonando stornelli improvvisati di augurio
o battute piccanti, e chiedendo del cibo in cambio. Ci si raduna
successivamente nella piazza per la danza della "spallata", con
scambi di coppie disposte in file parallele, frontali o cerchi.
Domenica di carnevale con i Pulginelli abruzzesi - Castiglione Messer Marino
Detti
"Pulgenèlle", sono maschere arcaiche abruzzesi, di ispirazione
napoletana; secondo la studiosa Gandolfi anche questa tradizione si rifà a
quelle pre-cristiane, del rito sacro-burlesco popolare per l'augurio del buon
raccolto. I Pulcinelli di Castiglione indossano un copricapo a cono molto alto,
in origine era bianco; in questo caso esso rappresenta l'antenato morto che
torna dal sottosuolo per un giorno, affinché dia prosperità alla famiglia e
fecondi la terra del raccolto. In passato i Pulcinello di Castiglione avevano
anche la faccia tinta di nero per somigliare di più alla Maschera napoletana,
la Gandolfi ipotizza che ci siano collegamenti anche con la maschera comica
Maccus dell'epoca romana. Nel carnevale di Castiglione dunque il tema è la
rigenerazione della natura in questo periodo dell'anno, scacciando la
personificazione del Male; ma la Gandolfi, ricollegandosi a Giovanni Pansa per
il carnevale di Tagliacozzo,
ricorda che in passato, quando Castiglione e altri paesi erano soggetti al
controllo feudale, il Carnevale risultava un giorno di sfogo delle masse, uno
sfogo controllato, in cui ci abbandonava alla lussuria, al gozzoviglio e
all'allegria dopo mesi di lavoro.
Domenica di Carnevale e sfilata di Re Carnevale -
Pettorano sul Gizio
Anche
questo Carnevale, riproposto da poco come rievocazione, ha a che fare con
un'antica tradizione, in cui si sceglie il giorno della morte di Re Carnevale,
che impersona tutti i mali della comunità, e che morendo fa sicché le nuove
generazioni risorgano. Il figurante che inscena Re Carnevale si traveste da
turco, legge un testamento fittizio di burle e scherzi al popolo, in cui lascia
quello che ha, fino a che non cade a terra stecchito.
Martedì grasso di Chieti
Rievocato
da pochi anni dal gruppo CATA del prof. Francesco Maria Stoppa, riprende la
maschera abruzzese del Pulcinella col l'alto copricapo conico a punta,
variopinto, insieme alla veste multicolore. Il gruppo dei Pulcinelli di Chieti,
simile a quello dei Pulcinelli di Castiglione, percorre in corteo con vari
carri allegorici le strade della città, da piazza Garibaldi a piazzale
Giambattista Vico, seguendo via Arniense e poi il corso Marrucino, inscenando
nel piazzale anche il rito della "quadriglia del palo", in cui
quattro persone intrecciano ordinatamente a ritmo di danza, quattro nastri
collegati per estremità tutti in cima al palo cilindrico; i nastri devono
essere correttamente intrecciati e strecciati, e tale gioco di ripete nella
vicina villa comunale.
Una questione sul Carnevale di Tagliacozzo nei “Miti, leggende e superstizioni degli Abruzzesi” di Giovanni Pansa
Nel secondo volume dei suoi studi di
superstizioni abruzzesi, Pansa accenna alla condanna del 1787 del Signor
Carnevale, una figura simbolica del popolo che veniva eletta re delle feste
ogni anno. Nei processi della Regia Udienza di Aquila di quell’anno, Pansa
riporta come in Tagliacozzo ci fosse l’usanza di eleggere un “re delle feste”,
una persona del popolo, o un artigiano, o anche una persona di buone condizioni
economiche, in tempo di Quaresima. Egli era considerato un sovrintendente delle
feste, da parte dei giovinastri che lo eleggevano, anche se il sui potere
effettivo non era equiparabile a quello del feudatario di turno del paese. Nel
processo sono elencati tuttavia, in quell’anno, gravi disordini avvenuti da
parte del Signore del Carnevale, eccessi di euforia e baldoria, disturbo
dell’ordine pubblico, schiamazzi, richieste e pretese di denaro verso gli sposi
novelli del paese, aggressioni, assalti ai fondachi, al procaccio di Napoli,
accuse insomma di banditismo vero e proprio. Pansa trae le sue conclusioni, da
questi pretesi, passa in rassegna le varie tradizioni popolari del Carnevale
abruzzese, visto appunto come un periodo festaiolo, dove si dà spazio agli
eccessi, che quasi vengono ritualmente repressi per un anno intero, per poi
esplodere in tutte le loro nequizie e insolenze il Martedì grasso. Parla dei
pupazzi bruciati a Lanciano e dintorni, oppure dei fantocci che assumono i mali
della società, e sono scacciati come degli “appestati” (tanto caro ci sembra il
paragone col apro espiatori di re Edipo nella tragedia di Sofocle, benché la
cosa non sia equiparabile, essendo tradizione colta, alle usanze del popolo!),
e gridano “Fora fora Carnevale!”. Nelle campagne di Città Sant’Angelo e Penne
si accendono dei covoni in campagna, si crea il fantoccio del Carnevale, e lo
getta via con processo rituale, sempre ripetendo a gran voce “Esce fore, esce
fore Carnevale!”.
La tradizione del Giovedì degli amici
Carnevale Aquilano, Sala Baiocco, 1925
Teodorico Marino nel suo “Francavilla nella
storia e nell’arte”, 1889, parla delle sceneggiate che si facevano in
Francavilla in tempo di Carnevale, mascherate allusive e satiriche e personaggi
realmente esistiti, o a situazione politiche e sociali che hanno
particolarmente caratterizzato negli ultimi tempi, o mesi, la comunità
francavillese; situazioni comiche ed allegoriche che ancora oggi rivediamo nei
Carnevali di Persiceto o Viareggio, o ancora nelle moderne edizioni del
Carnevale Francavillese. Il popolo si abbandona ai bassi istinti, alla
goliardia, è periodo di grassa, non più di magra, ricordiamolo, ed ecco i
veglioni nei ristoranti e nelle osterie, come ricorda Marino, le sbornie, le
compagnie che vanno cantilenando a squarciagola per le strade, il periodo di
maggior euforia è quello del Giovedì degli amici, il Giovedì dei parenti, il
Giovedì grasso.
I due Giovedì precedenti si festeggiano con
particolare affetto anche oggi in Orsogna, vicino Lanciano. La tradizione vuole
che gli amici di una combriccola si riuniscano fuori casa in un ristorante, per
tutta la giornata, tra lauti pranzi e gozzoviglie. Ma non si deve pensare a una
scenata di bassi istinti, il Giovedì a Orsogna è vissuto con particolare
devozione, come detto, persone che hanno litigato, fanno la pace, persone che
non si vedono da anni, si re-incontrano, c’è occasione per scambiare
chiacchiere, pareri, ricordi, stare insieme felici, mangiando a sazietà…a
crepapelle invece! Tra balli e canti. Stessa cosa avviene con il Giovedì dei
parenti. Di recente Vittorio Pace, ex presidente dell’Associazione culturale
“Il Teatro di Plinio”, ha ricordato questa tradizione in un suo spettacolo
rievocativo sulle tradizioni orsognesi: “Il fascino dei ricordi”, rappresentato
con successo nel 2012.
III Carnevale Teramano, 1935, locandina di Giovanni Melarangelo – Archivio Teramo fotografie |
Carnevale teramano dei primi del ‘900 – Archivio “Teramo fotografie” |
Carnevale Teramano, il carro della Spica, foto Pierluigi Tarquini |
Il Carnevale di Francavilla al mare, dalle
note di Teodorico Marino alla sfilata dei nostri giorni
Carro di Re Patanello, Carnevale di Francavilla al mare |
Come detto poco prima, a Francavilla le
carnevalate erano sfilate di buontemponi, giovanotti e ragazzini, che si
riunivano per le strade in maschera, a esorcizzare la fame e la miseria con
l’allegria e la baldoria. Si facevano il Giovedì degli amici e dei parenti. Poi
arrivava la settimana vera e propria del Martedì e Giovedì grasso. Esisteva un
tipo curioso, considerato una vera maschera, Zi Patana, calzolaio e sagrestano,
un buontempone, che usciva per le strade truccato da vecchio (simbolo dell’anno
vecchio che muore per far posto al nuovo), sopra un asino, simbolo
caratteristico caro al popolino; Carnevale, a detta nostra, è uno di loro, cui
per necessità naturale occorre addossare i vari peccati, e condurlo alla morte
tra gli sberleffi generali, per poter sopravvivere alla notte, e guardare
speranzosi a un nuovo giorno. Zi Patana porta in braccio un bamboccio vestito,
il Carnevale, brutto e deforme, ma che deve suscitare l’ilarità, e dopo un
processo-farsa, lo buttano al fuoco della piazza.
Molto bello è un canto augurale, in realtà
assai triste, riportato dal Marino nel suo libro:
Addio tutti cari amici,
più non lice far baccano,
da qui parto e vo’ a Milano
e mi sento da morir.
O donzella amata e cara,
io vi lascio in abbandono,
non ingrato perciò sono,
il destino vuol così […]
Francaville, nu belle paese,
l’ann’a redotte a nu ‘spedale,
chi sta bbone e chi sta male,
carnevale ha da scappà!”
con la seconda guerra mondiale, Francavilla
fu uno di quei paesi abruzzesi cancellati dalla storia. Ruelle, stradine,
piazzette, casette, chiese antiche, cancellate letteralmente dalla terra! Mai
cosa peggiore può eradicare la storia di un popolo, i francavillesi erano
rimasti senza una città, senza una identità, le case secolari, le torri, le
mura, le chiese, i conventi, tutto ridotto a un cumulo di macerie, solo
testimonianze di anziani, e di persone che avevano vissuto quei momenti tragici
sarebbero rimaste…ma le testimonianze orali con la morte dei testimoni, vanno
perdute, o si trasformano, si modificano, le foto e i documenti parlano! Francavilla
risorse, scrissero della sua storia, l’opera del Marino fu una fonte
importantissima per riparare a una cancellazione di massa della bestia
teutonica, archivi comunali, documenti privati che avrebbero potuto far luce
sulla storia Francavillese…tutto distrutto!!
Ma ecco che negli anni ’50 il sentimento
Francavillese darà avvio al più famosi dei Carnevali, il Carnevale d’Abruzzo,
con la maschera di Re Patanello come simbolo e logo.
La
tradizione di questo carnevale nasce subito dopo il secondo Dopoguerra nel 1956, frutto della volontà di alcune
persone al fine di animare il luogo di villeggiatura durante l'inverno. Il
Carnevale francavillese conta un periodo di sospensione dal 1974 al 1980. La sfilata segue sempre il
tradizionale percorso lungo il viale principale del paese (viale Nettuno), tra
la stazione ferroviaria e la vicina piazza della Sirena, svolgendosi nei giorni
della domenica di Quinquagesima e dell'ultimo martedì di Carnevale.
Inizialmente,
il Carnevale si festeggiava con l'esibizione del gruppo folkloristico
"Zazzà cerca Zuzzù", complesso originario francavillese, che si
esibiva lungo le strade, con balli e travestimenti. Dato il successo iniziale,
la piccola ricorrenza divenne una festa ufficiale con l'organizzazione del comitato
cittadino per l'organizzazione del carnevale annuale. Furono presi contatti con
maestri cartapestai regionali e poi del Paese, insieme a orchestratori e
musicisti vari, in modo di far avere a questa piccola manifestazione risonanza
regionale e anche nazionale.
Raggiunta
l'organizzazione classica annuale della sfilata dei carri, ad aprire la parata
è il carro di Re Patanello (la maschera ufficiale del Carnevale d'Abruzzo a
Francavilla), personaggio ispirato alla storia di Zì Patane, ciabattino
francavillese vissuto alla fine dell'800, burlone e stravagante, che rispecchia
l'anima festosa della comunità. Negli anni i carri a seguire si sono sempre più
aggiornati, proponendo figure e allegorie satiriche e sbeffeggianti la
politica, la società contemporanea. Il percorso è sempre lo stesso, da Piazzale
Stazione, passando per viale Nettuno fino a raggiungere Piazza Sirena, dove si
seleziona il carro vincitore, e dove alla fine della festa si brucia la
"pupazza".
Le tipicità di questo carnevale consistono soprattutto nel cibo: si gusta la "cicerchiata", dolce tipico abruzzese con forma a ciambella, composta da palline di impasto fritte nell'olio d'oliva e comparse di miele; in seguito le "frappe" o "chiacchiere" diffuse nel resto d'Italia. Altra ricorrenza locale è la recitazione della filastrocca scritta dal poeta Gabriele d'Annunzio, con riferimenti alla festa e all'allegria, ma anche alla religione, parlando del mercoledì delle ceneri:
«Carnevale vecchio
e pazzo s'è venduto il materasso |
(Gabriele
d'Annunzio, Carnevale di Francavilla) |
Le
associazioni culturali locali sfilano coi carri sul viale, arrivando in piazza
Sirena, che si riempie anche dei cittadini in costume. I carri vengono
presentati, mostrano scene allegoriche, spesso riferimenti comici a situazioni
locali politiche e sociali, oppure i bersagli sono politici e figure di rilievo
internazionali, oppure ancora si prendono a modello personaggi della fantasia e
dei fumetti internazionali. Il carro aprente è sempre quello della maschera di
Re Patanello.
Alla
fine della festa in piazza una giuria sceglie il carro vincente. Nel corso
degli anni la cerimonia è stata divisa in 3 giornate, la prima che si svolge
nel Mercoledì delle Ceneri, la seconda il Martedì grasso e l'ultima con
elezione del carro vincente il Giovedì grasso.
Le tipiche sceneggiate Carnevalesche del processo a Re Carnevale
Sono quasi tutte simili. A Penne inscenano
una sfilata di carri allegorici per festeggiare il Re dei Maccheroni, ovverosia
il Carnevale. Di recente un gruppo rievocativo di giovanotti, “I Giovani
Briganti” di Salle nel pescarese, vengono ad allietare la giornata con canzoni
carnascialesche, in costume tipico.
La Mascherata di Villa San Vincenzo di
Guardiagrele, prevede una sceneggiata a monologo di un attore, con un altro che
gli fa da spalla, dopo la filata tradizionale dei festaioli mascherati. Non si
sa con precisione quando questa tradizione abbia preso definitivamente forma,
fatto sta che il sentimento della farsa recitata è sempre quello di mostrare,
da parte del popolo, una critica alla società, al malcostume e ai politici;
quasi che il giorno di Carnevale il popolino affamato e vessato, si riappropri
dei diritti, che si sfoghi, che dia libertà ai suoi istinti; ma lo fa col
teatro, con la battuta di spirito, che sfocia quasi sempre per scatenare
l’ilarità tutta, nelle volgarità e nelle oscenità. In sostanza a Villa San
Vincenzo, come testimonia anche una rara registrazione audio anni ’70, l’attore
rappresenta il popolo, e il Carnevale, e inizia a elencare in rime baciate
varie tristi situazioni che gli sono capitate durante l’anno, prima di lasciare
questo mondo. Sono sempre lazzi che hanno per allusione il sesso, il mangiare,
insomma gli istinti della pancia, e alcune battute sono del tenore seguente:
“C’hanno prumesse la pinziune!
C’acchette paste e maccarìne,
vute, e batte, e ppicciarìlle,
ecche lu decotte di camumille!”
“Lu cafè, teng’a urdenà
Ecche lu cafè mo’ escen
Nin mi cunzignà lu pesce!”
La gente applaude sganasciandosi dalle
risate, fino al finale.
Alcuni hanno visto in questa sceneggiata
un’elaborazione del più convenzionale “processo a Re Carnevale”, che si
celebrava un po’ in tutti i paesi dell’area Frentana. Un caso isolato di
“autocoscienza identitaria” in queste aree è dato dal paese di Castelfrentano,
grazie alla figura poetica del dottor Eduardo Di Loreto (1897-1958) e del suo
amico musicista provetto Pierino Liberati (1894-1963). Nel 1934 i due dettero
avvio a una farsa breve, in un atto, la Mascherata carnevalesca, che ancora
oggi, sebbene non sempre, si ripropone con grande gioia del pubblico.
Sicuramente Di Loreto e Liberati, al contrario di quanto fin’ora non sia stata
abbastanza preso in considerazione dalla critica, vollero rappresentare la
cosiddetta “castellinità”, il sentimento paesano. Ma questo contesto è più profondo
di quanto si pensi al campanilismo paesano. In effetti anche il campanilismo,
se coadiuvato da esempi e progetti costruttivi, certifica l’identità di un
popolo, questo Di Loreto e Liberati fecero per Castelfrentano, elaborando dei
sentimenti e dei gusti popolari, sia per la musica e le canzoni, che hanno per
ritmi e melodie delle unicità e tratti ben distintivi rispetto a varie altre
melodie musicali dei paesi attorno; e ancor più questa castellinità la vediamo
leggendo le farse del primo Di Loreto, dove egli si diverte a mettere in scena
situazioni varie paesane, episodi caratteristici di vita piccolo-borghese; e
naturalmente la Mascherata, scritta in versi e recentemente ripubblicata nei 4
voll. di Eduardo Di Loreto – Versi e Teatro, Itinerari, Lanciano 1988-2004, ma
senza lo spartito musicale, in possesso degli eredi Aroldo e Maria Di Nardo, e
concesso in copia all’Associazione teatrale Di Loreto-Liberati di
Castelfrentano per future esecuzioni.
Anni ’50, il carro della Mascherata carnevalesca di Castelfrentano – Archivio Mimmo Sciascia |
la moglie per difenderlo, abbozza maldestramente
“Ma pecché s’ha da murì, puverette, a ccuscì? / puverette puverette, pe nu
ccone di purchette, / pe nu ccone di vintricine / ha da fa sta brutta fine?”
Carnevale prova a difendersi dalle accuse: “E
l’ietre nen magne? Ne chenosce de magnune che tè la panze gne nu pallone de le
feste di Settembre, e che nn’arispette manche la quaresime! Sole ji aja
scumparì pe fa lu larghe all’ietre?”
Naturalmente una persona di versatilità
poetica come Di Loreto, non poteva passare dal teatro feticcio popolare, di
bassa lega e “di pancia”, al teatro della coscienza, come andare in sostanza
dal gusto di Plauto alla riflessione critica di un Terenzio o un Menandro
greco. Carnevale non è muto, parla, e deve difendersi, fa delle allusioni
all’abbondanza delle feste SETTEMBRINE DI Lanciano per la Madonna del Ponte; e
sa che deve scomparire per far sì che il popolo viva, che prosperi, un
sacrificio necessario, di antiche reminiscenze. Anche gli altri mangiano, e
spesso anche più di lui, e il riferimento e alla società più arraffona e
meschina, che schiaccia il popolo. Ma il popolo vuole il suo capro espiatorio,
non è affatto incline alla riflessione, al dialogo, vuole il colpevole per
soddisfare il suo basso gusto, vuole illudersi per poche ore di aver risolto i
suoi problemi di sempre, e ci vuole de facto una figura simbolica da
distruggere materialmente, Carnevale! Le suppliche della moglie, cantate nella
Mascherata castellina, non valgono a niente, anzi con la sua dabbenaggine,
nell’elencare altre malefatte del marito, fa infuriare ancora di più il popolo,
che alla fine reclama, quasi con un canto funebre magistralmente scritto dal
Liberati, la morte effettiva del Carnevale.
Alcuni raccontano, così come anche a Lanciano
quando in piazza presentavano le “pupazze” e i carri, che ritualmente, la
statua di cartapesta veniva sventrata, a somiglianza dello scannamento del
porco per Sant’Antonio abate, molto sentito in Abruzzo. E dalla pancia
sventrata, uscivano tante leccornie, che
fino a 50 anni fa, con la miseria che c’era, gran parte della gente si
sognava, forse solo a Natale poteva gustarne! E parliamo di salsicce,
porchetta, patate, dolciumi, una pignatta che si spacca e che offre tanti
regali, il popolo si ciba dello stesso Carnevale morente che con la sua
maschera contorta e buffonesca, sta lì, fisso, nei suoi occhi dipinti a
guardare il popolino, che anche quell’anno ha festeggiato, e si prepara alla
rinascita del raccolto.
I Carnevali con la Pupazza
Pochi Carnevali in Abruzzo si festeggiano con
la pupazza che balla, e che viene fatta saltare in aria. Ricordiamo nell’aree
vicine alla costa adriatica, la tradizione, forse di origine schiavona (per le
immigrazioni avvenute in Abruzzo nel XV-XVI sec), di far ballare un pupazzo di
cartapesta raffigurante una bella donna con una gonna prominente, e una cesta
di frutta sulla testa, da cui scintillano i fuochi artificiali. La pupazza, il
cui manichino è tenuto da ferri interni cui si aggrappa il figurante che deve
fare il ballo e le giravolte nella piazza tra gli astanti, balla ancora oggi
nei paesi di Cappelle sul Tavo vicino Pescara, un tempo ballava per la festa
della Madonna del Fuoco nella borgata omonima di Pescara. Oggi invece, anche se
da un po’ di anni l’usanza è caduta, la pupazza sfilava e ballava per il corso
Umberto a Casoli, nel chietino, per finire la sua danza con lo sparo finale nel
piazzale di Santa Reparata.
A Lanciano, come ricorda Gennaro Finamore
nelle sue “Tradizioni popolari abruzzesi”, l’usanza c’è ancora; ma non si sa se
la pupazza veniva fatta ballare. Come ci hanno testimoniato attualmente vari ex
mastri della cartapestra tra cui l’indimenticabile Claudio Rosato con il suo
magazzino nel rione Civitanova, maestro dell’arte del ferro, e per anni
presidente dell’Associazione culturale “Quartiere Civita nova”, la pupazza
veniva fabbricata in cartapestra su supporto o scheletro in legno, a rotazione,
qualunque mastro della città, calzolaio, fabbro, falegname, pittore, poteva
realizzarlo, e più di una volta è successo che in città abbiano sparato più
Carnevali insieme. Ricordiamo con nostalgia la bontà e il gran daffare del buon
mastro Tanino de Vincentiis, che nel tempo libero si dedicava anche alla banda,
fino alla morte nel 2015: egli dagli anni ’90 sino al 2014 fu l’anima del
Carnevale lancianese, fabbricava nella sua bottega in via sotto la Torre
campanaria il suo carro di Carnevale, a volte in piazza ne posizionava più di
uno: carri allegorici, buffoneschi, il tema era sempre quello, la satira, il
prendere in giro un politico dell’epoca come Veltroni, Berlusconi, Bersani,
Prodi, o un personaggio influente della città. Ricordiamo il carnevale di un
politico dedito a mangiarsi un gigantesco hamburger, che tutti sapevamo,
sarebbe stata la parte che nell’esplodere avrebbe fatto più chiasso di tutte le
altre bombe esplose durante lo spettacolo pirotecnico. Il Carnevale viene posizionato la sera del
Martedì grasso nella piazza Plebiscito, a volte accadeva anche in piazza
Garibaldi dove si tiene il mercato della verdura, raramente in altri spiazzi, e
dopo dei giochi pirotecnici di fuochi artificiali, tra cui l’immancabile
sequela di giochi osceni della “fumata del sigaro”, della “pisciata”, della
“cacata”, una scarica di botti parte dall’altro capo della piazza, collegati da
un filo, sino a raggiungere con crepitio sempre più crescente, la testa della
maschera, che salta per aria con scoppio fragoroso, tra gli applausi del
pubblico, che si riversa poi nei vari locali a brindare, e fare l’aperitivo,
che ormai da anni ha sostituito la tradizionale cena tra amici in simpatica
allegria.
Tempo fa nel rione Cappuccini, la parrocchia
di San Pietro organizzava anch’essa una Carnevalata, chiamando sempre il buon
Tanino, con un maschera che veniva fatta esplodere alla stessa maniera della
solita della piazza Plebiscito, nel piazzaletto antistante la chiesa. Ma come
festeggiavano gli altri il Carnevale? Gli anziani hanno ricordi foschi,
all’epoca dopo la guerra c’era la miseria nera, si si vestiva con quel che si
raccattava, lenzuola e cenci vecchi, in disuso, li si colorava a mano alla meno
peggio, o chi aveva i genitori più abbienti, si faceva confezionare dei
vestitini da baronetto, da Zorro, o da cowboy, o da principessa delle favole, e
allegro usciva a gettare coriandoli ricavati da minutissimi ritagli di
giornale, e a divertirsi con gli amici per strada, o nei locali.
Il Carnevale Vastese
Interessante è l’articolo a firma di Lino Spadaccini in NoiVastesi
https://noivastesi.blogspot.com/2019/02/carnevale-le-tradizioni-di-una-volta.html
Particolarmente apprezzata dagli inizi degli anni '50 la "Rassegna delle Maschere" alla S.A.L.T.O., lo stabilimento dei tabacchi del comm. Carlo Boselli. Oltre al pranzo sociale, offerto alle oltre trecento "saltine", con la tradizionale gastronomia carnevalesca vastese, dove spiccavano ravioli e ciciricchiata, prendeva il via la Rassegna Mascherata, con la premiazione dei vestiti più originali. Il canto de la Štoria, momenti ludici e le melodie proposte dall'orchestrina, contribuivano alla buona riuscita delle feste.
Le sfilate dei carri organizzate dal Centro Cattolico
Diocesano, per iniziativa del parroco della Cattedrale di S. Giuseppe, don
Felice Piccirilli, ottennero un coinvolgimento
popolare davvero imponente. Nel 1957, in occasione del "Primo Carnevale
dei Bimbi", la sfilata di carri allegorici,partita dalla storica residenza
dei d’Avalos, percorse le principali strade cittadine, tra due ali di folla
entusiasta.Le sfilate erano caratterizzate dalla semplicità, con l’unico scopo
di far trascorrere una serena e festosa giornata, soprattutto ai tanti bambini
presenti per le strade con le loro mascherine. Al rientro deicarri, sempre a
Palazzo d’Avalos, la festa proseguiva con piacevoli scene folkloristiche e la
tipica quadriglia, danzata da cavalieri e dame sul palco sistemato davanti il
Monumento ai Caduti, quando si trovava in piazza L.V.Pudente.
Una rievocazione
storica, citata anche da Luigi Marchesani, nella sua Storia di Vasto,
che veniva saltuariamente proposta nel periodo di carnevale, era la "Cavallarëjje", ovvero
la tradizionale mascherata a cavallo dei vetturali vastesi, in ricordo delle
incursioni turchesche sulle nostre coste dal XVI al XVIII secolo."In
origine, la mascherata consisteva in un corteo di cavalieri dalla pelle nera",
si leggeva in un articolo degli anni '20 apparso sulle colonne de Il
Vastese d’Oltre Oceano, diretto da Luigi Anelli, "che per prima
coppia aveva un Pascià a lato di una fanciulla bianca, vestita di candidi veli.
Oltre alla magnificenza dei vestiti, la mascherata si distingueva per la
ricchezza dei turbanti e dei fez dei cavalieri della mezzaluna, letteralmente
ricoperti di fiammanti collane di oro".
Con il passare degli anni anche la rievocazione perse
il significato e il suo fascino iniziale: i costumi turchi passarono di moda e
la caratteristica mascherata della Cavalleria venne trasformata in un corteo
reale con la coppia coronata seguita dal codazzo di "cavalieri bianchi
dai serici vestiti,dalle sgargianti gualdrappe dei loro destrieri ed armati di
innocue sciabole di legno inargentato".
Un’antica tradizione carnascialesca molto seguita e
apprezzata era "Lu Bballemîte" (Il Ballo muto), una
specie di quadriglia, ben strutturata che veniva eseguita a suon di organetto
da un gruppo di soli uomini, alcuni di quali vestiti da donna.
Questa tradizione,
sin dall'immediato dopoguerra, è stata tenuta viva per tanti anni prima da
Mastro Gino Pracilio, e successivamente dal compianto Ezio Pepe, che l’ha
riproposta anno dopo anno, con il coinvolgimento dei giovani della parrocchia
dei Salesiani, fino al 1994.
L’ultima edizione è
stata quella del 1995, in un certo senso un omaggio al compianto Zì
Culucce, scomparso solo qualche settimana prima, grazie alla regia di
Ida Pepe, che ha pazientemente istruito le sedici coppie di ragazzi, seguendo
minuziosamente i passi tramandi dell’antica tradizione.
Un'altra consuetudine abruzzese piuttosto lugubre e ripugnante, importata dai mercanti baresi, era quella del "carnevale morto". Su un carretto sgangherato veniva sistemato un fantoccio fatto di cenci e di paglia. Intorno c’erano il prete, il sagrestano e varie maschere con lumi accesi e grossi campanacci. Dietro il carretto, seguiva la moglie di carnevale, che addolorata piangeva e si strappava i capelli per il marito morto. Tutt’intorno i monelli schiamazzavano e gridavano lagnosamente: "È morto Carnivale, e po' po' po'!".
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