Sulmona, Morrone: 22 secoli di storia
di Mario
Setta
Premessa: Succede che un luogo diventi parte importante della propria vita. Personalmente arrivai a Badia di Sulmona il primo ottobre 1970, nominato parroco, proveniente da Roma, dove, in qualità di cappellano del lavoro, mi occupavo dei lavoratori dell’edilizia, soprattutto pendolari abruzzesi, tanto che uno degli obiettivi assistenziali fu la creazione per loro di una casa di ospitalità durante la settimana. Ci riuscimmo, con gli stessi lavoratori, ed è durata venti anni. Giunto alla casa parrocchiale di Badia di Sulmona, aprii le porte e cercai di accogliere gli operai pendolari che lavoravano alla nuova fabbrica della Fiat. La casa divenne “centro di comunità”. Di sera, usavamo i locali come scuola per operai di preparazione alla terza media. Fu uno sconvolgimento per la gente delle frazioni (Fonte d’Amore, Badia, Case Lupi, San Pietro, Bagnaturo), anche se io studiavo sociologia alla Gregoriana, per acquisire strumenti scientifici nei rapporti con la gente. Capirono a fatica, ma con gioia, che cercavo di creare una comunità di fratelli. Vi rimasi nove anni, sempre in tensione con l’autorità ecclesiastica, sempre contraria ad ogni novità pastorale. Ero convinto e determinato per ciò che facevo. Incrementai con altri preti la linea di rinnovamento, sopprimendo le tariffe della Messa e dei sacramenti. Organizzammo un convegno di oltre settanta preti, laici e religiosi, alla casa parrocchiale, appellandoci all’esempio di Celestino V, tanto che alcuni salirono all’eremo, e tra loro un famoso gesuita insegnante all’Università Gregoriana, che tenne una conferenza in città. Sono rimasto fino al 7 aprile 1979.
Ho raccontato le mie vicende personali, e non solo, nel libro autobiografico “Il volto scoperto”, esprimendo la mia critica nei confronti dei dogmi ecclesiali, primo fra tutti quello del peccato originale, pubblicando “HOMO, Elogio di Eva”, un piccolo libro poetico-teologico.
Per essere sincero, e lo sono ancora, dopo la cacciata dalla casa parrocchiale di Badia, a me è andata benissimo, avendo cercato di superare le difficoltà. Ho insegnato storia e filosofia al Liceo Scientifico, abbiamo realizzato la manifestazione internazionale “Il sentiero della Libertà/Freedom Trail”, abbiamo pubblicato le testimonianze dei prigionieri del Campo 78, abbiamo ottenuto e pubblicato il diario del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, della sua traversata a piedi il 24 marzo 1944 da Sulmona a Casoli. Abbiamo creato l’associazione culturale “Il Sentiero Della Libertà/ Freedom Trail” e realizzate diciannove edizioni della Marcia.
Spero e mi auguro
che queste storie diventino lezione di vita per ciascuno.
La Memoria del Morrone:
Lo Spazio-Il Tempo-Gli Uomini
Sul monte Morrone, contrafforte della Maiella, che
domina la Valle Peligna, nello SPAZIO di pochi chilometri di perimetro, si
conserva la memoria d’un TEMPO più che bimillenario: dall’era pre-cristiana del
santuario di Ercole Curino al medioevo dell’Eremo di Pier da Morrone-Celestino
V e l’Abbazia di Santo Spirito fino alle due guerre mondiali con il Campo di
concentramento di Fonte d’Amore. Un territorio che unisce spiritualità
religiosa e solidarietà umana. “Epopea”,
“Resistenza Umanitaria” è stata definita dagli storici la solidarietà
dimostrata dalla gente peligna ai
prigionieri di guerra, che ricordano “the
Sulmona’s spirit, lo spirito di Sulmona” (cfr. AA.VV. (a cura di
Rosalba Borri, Maria Luisa Fabiilli, Mario Setta, E si divisero il pane che non c’era, ed. Labor, Sulmona 1995: II ed. Qualevita, Torre dei Nolfi 2009)
Santuario di Ercole Curino
Sul monte, luogo
sacro già dai tempi precedenti alla nascita di Cristo, esisteva un santuario
dedicato ad Ercole. Era il nome latinizzato dell’eroe greco Eracle, con
l’appellativo di Curino o Quirino, “culto nazionale dei Peligni” e di cui si
ammirava la straordinaria forza, avendo superato le famose 12 fatiche,
ottenendo l’immortalità. Il complesso
monumentale si compone di due grandi terrazze addossate al pendio della
montagna. L’accesso avveniva mediante scalinate. Sulla terrazza superiore, si
trova un piccolo ambiente quadrato, di carattere cultuale, con pavimento a
mosaico. In esso furono rinvenute due immagini votive di Ercole, l’una in
bronzo, l’altra in marmo, rappresentante l’eroe sdraiato. Il santuario risale
al primo secolo a.C. e sembra documentato che all’epoca delle guerre sociali
(91 a.C.) fungesse da centro religioso della lega tra i popoli italici
che nell’ 87 a.C. ottennero la cittadinanza romana. La festa nel santuario di
Ercole Curino avveniva il 13 agosto (“Idi di agosto”), mediante un rito che
prevedeva l’offerta, la purificazione nell’acqua, l’accesso al “Sancta
sanctorum”, ed anche l’“incubatio”,
cioè il pernottamento all’interno del luogo sacro per ottenere qualche grazia.
Notevole, dal punto di vista architettonico, l’ Opus
reticulatum. (Per informazioni più dettagliate: cfr. Alessandro Bencivenga, “Luoghi, tempi e modi del culto di Ercole tra i Paeligni”)
Oratorio di S. Onofrio (Alto medioevo)
L’oratorio,
dedicato a S. Onofrio, risale ad un’epoca di passaggio dal paganesimo al
cristianesimo. Vari furono i santuari dedicati a santi eremiti della Tebaide, in particolare a
S. Antonio Abate e a S. Onofrio. Di
S.Onofrio si sa ben poco. Anch’egli, probabilmente, era un eremita,
vissuto nei primi secoli del
Cristianesimo. Una raffigurazione di S. Onofrio, nella Yilanli Kilise di
Goreme, in Cappadocia (Turchia) lo presenta con lineamenti femminili, sulla
base di una leggenda che ne parlava come di donna convertita e consacratasi
alla vita eremitica. Anche qualche immagine e statua conservate nel santuario
lo presenta con capelli lunghi fino ai
piedi, quasi a nascondere i suoi
lineamenti. Il monachesimo benedettino, nato in Occidente, tenderà a modificare
lo stile di vita eremitica sintetizzandolo nel
motto “Ora et Labora” .
Eremo di Pietro da Morrone (Basso medioevo)
Accanto alla chiesetta di S.
Onofrio, raccogliendo e ravvivando lo spirito dell’anacoretismo, si stabilirà
fra’ Pietro da Morrone, divenuto in seguito
papa Celestino V. Ignazio Silone, nel proemio al dramma dal titolo L’avventura d’un povero cristiano,
racconta la sua ascensione verso l’Eremo: «Una tenera luce verde dorata bagna i
campi gli alberi i paesetti pedemontani, il grandioso scenario della Maiella e
dà una proporzione armoniosa a ogni minimo oggetto. Benché nato e cresciuto in
una valle attigua, da cui la Maiella è invisibile, nessuna montagna mi tocca
come questa. Elementi emotivi assai complessi si aggiungono all’ammirazione
naturalistica. La Maiella è il Libano di noi abruzzesi».
Nella Bibbia il Libano è
simbolo di maestosità e di potenza, tanto che Mosè chiese a Dio di vederlo e
non fu esaudito (Deut. 3,25-26). Ma
anche di gioia e di bellezza, come
viene spesso descritto nel
Cantico dei Cantici. Non solo il Morrrone e la Majella, ma in generale le
montagne abruzzesi erano considerate luoghi di nascondiglio e di difesa dalle
persecuzioni dei tiranni. Angoli di
speranza e di libertà. Gioacchino Volpe, famoso storico abruzzese, nel volume “Movimenti religiosi e sette ereticali”, riferisce di una bolla di Bonifacio VIII “contro quei bizochi o altrimenti chiamati
che, ricoveratisi nei monti dell’Abruzzo, in abiti ovini, ma veri vampiri,
spargevano eresia tra i semplici uomini”. Nella seconda guerra mondiale, dopo
l’8 settembre, i tedeschi che occuparono il campo di prigionia di Fonte d’Amore,
vi posero un cannone e distrussero l’eremo, ritenendo che vi fossero rifugiati
i prigionieri alleati. Nel dopoguerra l’eremo fu ricostruito con la
collaborazione dei cittadini delle frazioni morronesi.
Una questione
aperta resta quella della proprietà. In un articolo su “Rivista Abruzzese”
(Anno LXXI - 2018 - N. 1 Gennaio-Marzo), Roberto Carrozzo, responsabile
dell’Archivio di Stato di Sulmona dal titolo
“L’Eremo di S. Onofrio al Morrone,
un monumento in cerca di proprietario” espone una ricerca precisa e
documentata sulla questione,
concludendo: “A conclusione di questa breve esposizione si può ritenere che il
Comune abbia continuato a detenere in proprietà l'edificio, così come dovrebbe
detenerlo a tutt'oggi (salvo documenti che ne attestino il contrario, di cui si
dubita però l'esistenza), mentre la gestione del culto religioso rimase
affidata alla Diocesi. Infatti, questo giustificherebbe pienamente la lettera
inviata nel 1986 dall'allora sindaco della città, La Civita, con la quale fece
richiesta alla Cassa di Risparmio della Provincia dell'Aquila di un contributo
speciale per la esecuzione di lavori di pronto intervento all'eremo per la sua
salvaguardia, specificando che «sia questo Comune, proprietario dell'immobile,
che la Curia Vescovile che lo tiene in uso gratuito, si trovano
nell'impossibilità di far fronte alla spesa».
Fonte d’Amore
La fontana che caratterizza la località risale
ad un lontano passato, anche se nel retro della struttura sono ora visibili una
lapide con la scritta “1919 Fontana della Vittoria” ed un mattone di pietra con
data 1833. Tutta la zona era famosa per le acque fresche e limpide tanto che la
tradizione popolare, smentita poi dagli scavi archeologici, la riteneva luogo
della villa del poeta Ovidio (Sulmona 20/3/43 a.C. – Tomi 17 d.C.), che aveva
descritto la città con i famosi versi: Sulmo
mihi patria est, gelidis uberrimus undis (“Tristia”, libro IV, elegia X:
“Sulmona mi è patria, ricchissima di fresche acque”), Pars me Sulmo tenet Paeligni tertia ruris/ parva sed inriguis ora
salubris aquis (“Amores”, libro II, 16, 1-2; “Sulmona, terza parte della
campagna peligna, mi trattiene, piccola terra ma salubre per le acque
irrigue”). Rileggendo le parole di John Verney, artista e scrittore inglese
ex-prigioniero di guerra del Campo 78, non si può non condividere la sua
osservazione, contenuta nel libro “A
Dinner of Herbs” (“Un pranzo di erbe”): “Leggenda di Ovidio, eremo di
Sant'Onofrio, Badia di Santo Spirito... Esempi di tenace paganesimo e di
spirito ascetico, comuni in Abruzzo. Tuttavia,
nessun altro luogo al mondo può vantare testimonianze così importanti in
un'area così ristretta”.
Purtroppo l’area
morronese è stata sempre considerata come appendice della città di Sulmona,
lasciata a se stessa e all’ignoranza della gente del luogo che raccontava degli
“scavi della villa di Ovidio”, mentre si trattava del santuario di Ercole
Curino. Luoghi da leggenda, come scrive il poeta dialettale bugnarese, Vittorio
Clemente nel poemetto dal titolo “Nu
fatte allu Murrone”. di cui nel 1942 aveva scritto l’articolo “Cola Di Rienzo nella leggenda e nella
tradizione d’Abruzzo”, oggi reperibile nell’Archivio Storico Capitolino.
Abbazia di S. Spirito (Basso medioevo/età moderna)
L’Abbazia è
un fabbricato a pianta rettangolare
(m.119x140). Al tempo di fra’ Pietro da Morrone c’era forse una cappella
dedicata a S. Maria del Morrone che fu ampliata da lui e dai seguaci. Verso la
fine del XIII secolo fu costruita una
chiesa dedicata allo Spirito Santo, con convento annesso. Nel settembre 1293 si
tenne un Capitolo generale che dichiarò il monastero sede dell’abate supremo
dell’Ordine Celestino. Nel 1299, tre anni dopo la morte di Celestino V, Carlo
II d’Angiò ricostruì il convento, abbellito nel 1500, restaurato dopo il
terremoto del 1706.
L’Ordine dei Celestini fu soppresso nel
1807 e l’edificio ebbe varie
destinazioni, fino a diventare carcere penitenziario. Dopo la
costruzione d’una nuova casa penale nelle vicinanze, l’Abbazia fu lasciata
vuota, finché nel 1997 iniziarono i
lavori di ristrutturazione. Il complesso architettonico rappresenta uno dei
monumenti più vasti e importanti dell’Italia Centrale.
La vita
Nel 1246 fra’
Pietro da Morrone, con alcuni monaci, si stabilisce all’eremo di
Sant’Onofrio. Si chiamava Pietro
Angelerio, nato nel Molise ed entrato nell’Ordine di San Benedetto. Aveva
lasciato il monastero per farsi eremita: per tre anni sul monte Palleno
(Porrara). Poi si era recato a Roma per studiare e nel 1239 era stato ordinato
sacerdote. Il 21 marzo 1274, recandosi a Lione dove papa Gregorio X era
arrivato per il Concilio Ecumenico, ottiene la Bolla di confermazione
dell’Ordine dei monaci morronesi di Santo Spirito. Al ritorno, nel luglio 1274,
a L’Aquila, fa costruire un Santuario dedicato alla Madonna (Santa Maria di
Collemaggio), consacrato il 25 agosto 1288. Nel 1292 alla morte del papa
Niccolò IV, al conclave riunito a Perugia, le due fazioni contrapposte dei
cardinali (Orsini e Colonna), non riescono ad
eleggere il nuovo papa. Vi si reca il re di Napoli Carlo II d’Angiò con
suo figlio Carlo Martello per metterli d’accordo. Ma non ottiene nulla.
Lasciando Perugia, Carlo II e il figlio Carlo Martello, vengono a Sulmona. Il 6 aprile 1294 salgono a S.
Onofrio e incontrano fra’ Pietro, suggerendogli di scrivere una lettera ai
cardinali riuniti in conclave. La lettera fa effetto e il 5 luglio 1294 Pietro
da Morrone viene eletto papa, all’età forse di 79 anni. L’11 luglio i delegati si avviano verso Sulmona.
Anche Carlo II col figlio si avvia verso Badia di Sulmona, ma stanco per il
lungo viaggio, lascia che all’eremo salga suo figlio Carlo Martello insieme ai
legati. Giunti all’eremo nella tarda mattinata, l’arcivescovo di Lione, Bernard
(Beraldo) De Gouth, si inginocchia davanti a fra’ Pietro e gli consegna il
decreto di nomina. Pietro si ritira in preghiera e in lacrime. Poi, dichiara di
accettare la nomina. Il 25 luglio il corteo parte per L’Aquila: Pietro su un
asino e ai fianchi Carlo d’Angiò e Carlo Martello. Arriva a L’Aquila il 27
luglio, dove rimane per la consacrazione episcopale e per l’incoronazione
papale che avviene domenica 29 agosto 1294 alla presenza di tutti i cardinali.
Prende il nome di Celestino, forse per commemorare Celestino IV morto dopo
diciassette giorni dalla nomina, ma più verosimilmente come Celestino III che
aveva approvato l’Ordine di Gioacchino da Fiore (25 agosto 1196) perché ne condivideva le idee, avendo dato
appoggio ad Abelardo e ad Arnaldo da Brescia.
“Da cardinale (Giacinto Bobo), scrive Bernard McGinn,
riuniva in sé un po’ del teologo e dell’apocalittico”. Il 6 ottobre 1294: il corteo di papa e re parte dall’Aquila per
andare a Napoli; 7 ottobre: arrivo a Sulmona; il 9 ottobre: consacrazione
dell’altare maggiore della Chiesa di
Badia di Sulmona; 10 ottobre: salita a S. Onofrio e incontro con fra’ Roberto
di Salle; 5 novembre: arrivo a Napoli.
13 dicembre:
dimissioni da pontefice; 19 maggio 1296: morte al castello di Fumone in
provincia di Frosinone.
I 107 giorni,
dal 29 agosto al 13 dicembre 1294, rappresentano il tempo di riflessione, di
sofferenza, di espiazione per aver accettato la nomina a pontefice. Un tempo
trascorso nel ricordare i luoghi del suo eremitaggio. Desiderio che cercherà di
realizzare in tutti i modi, chiedendo direttamente al nuovo papa di tornare all’eremo di S. Onofrio. Richiesta che Bonifacio
nega, dicendogli: “Non voglio che tu torni all’eremo, ma voglio che mi segua in
Campania”, come riferisce Tommaso da Sulmona. Ma, al seguito di Bonifacio,
giunti al convento di Piedimonte San
Germano, la piccola Montecassino, confida la sua idea di fuggire ad un
sacerdote amico, che gli mette a disposizione una bestia da soma e può così raggiungere il Morrone. La gente
di Sulmona, appresa la notizia, sale a salutarlo. Rimane sul Morrone alcuni
mesi, nella primavera del 1295. Sarà il periodo delle
sue fughe quotidiane per evitare le guardie papali che lo vanno cercando. Al
disgelo, quando il Morrone e le falde della Maiella si liberano dell’alta
coltre di neve, intraprende con un compagno il cammino verso il Gargano e la
Foresta Umbra. Ma, braccato anche in quei luoghi, progetta di oltrepassare il mare per recarsi
in Grecia, tanto che alcuni marinai di Rodi Garganico si rendono disponibili ad aiutarlo e predispongono
l’imbarcazìone. Riescono a partire, ma vengono riportati dal vento sulla costa
vicino Vieste.
Bonifacio VIII
non si dà pace e cerca di rintracciarlo, rivolgendosi alle Autorità per farlo
arrestare e condurlo da lui. È così che una delegazione con il patriarca di
Gerusalemme e un priore dei Templari riesce a scovarlo e ad accompagnarlo in
Campania, dove Bonifacio aveva inviato il vescovo Teodorico Ranieri che, di
notte, senza che nessuno se ne accorgesse, conduce Celestino ad Anagni, al
palazzo dei Caetani.
Al mattino, l’incontro di Bonifacio con Celestino.
Bonifacio lo rimprovera per la fuga da San Germano e per aver disobbedito. Celestino chiede perdono e
implora nuovamente di poter tornare sul Morrone. Bonifacio lo trattiene ad
Anagni per due mesi. Parecchi cardinali erano del parere di lasciarlo in pace, ma Bonifacio aveva trovato la
soluzione: rinchiuderlo in una cella del castello di Fumone. Vi rimane
dall’estate 1295 al 19 maggio 1296. Il giorno della sua morte.
Celestino, dunque, non è
imprigionabile nelle stanze del potere, di ogni potere, anche di quello
ecclesiastico, simboleggiato dalla tiara, il copricapo che
con Bonifacio VIII diventerà
“triregno”, a significare il potere temporale del papato. Questo simbolo
venne eliminato da Paolo VI e
venduto per ricavarne denaro da destinare ai popoli del Terzo Mondo. La salma di Celestino, lasciata prima a Ferentino, da alcuni monaci Celestini
fu proditoriamente trafugata nel 1327 e traslate a L’Aquila. Nel frattempo c’era stata la prima canonizzazione di san
Pietro del Morrone, come confessore, avvenuta nel 1313 ad opera di Clemente V ad Avignone, dove lo stesso pontefice
aveva trasferito la sede apostolica. Bisogna attendere il 1668 per la seconda
canonizzazione come pontefice, diventando così san Pietro Celestino. Oggi le spoglie di Celestino V sono
custodite nella Basilica di
Collemaggio, nello cinquecentesco mausoleo realizzato dallo
scultore Girolamo da Vicenza,
raccolte in un’urna di cristallo e argento sbalzato. Probabilmente Celestino non
immaginava né voleva che le sue spoglie mortali fossero rivestite dei paramenti
pontificali, esposte alla venerazione dei fedeli. Più verosimilmente avrebbe
preferito indossare, da morto, il saio della povertà e rimanere nella grotta
del Morrone, col suo stile di vita umile e modesto.
Paolo VI si recò al castello di Fumone, il 1° settembre 1966, alla fine del Concilio
Vaticano II, in visita alla cella dove
era morto Celestino, per
pregare e avere ispirazione sul tema delle dimissioni. Addirittura si parlò di
sue dimissioni ed eventuale eremitaggio sul Morrone, sulle orme di Celestino.
In quella occasione Papa Paolo VI tra
l’altro disse: «[…] Ed ecco rifulgere la santità sulle manchevolezze
umane: il Papa (Celestino V, ndr), come per dovere aveva accettato il
Pontificato supremo, così, per dovere, vi rinuncia; non per viltà, come Dante
scrisse - se le sue parole si riferiscono veramente a Celestino - ma per eroismo di virtù, per sentimento di
dovere. E morì qui, segregato, perché altri non potesse profittare
ancora della sua semplicità ed umiltà, e la morte non fu per lui la
fine, ma il principio della gloria, oltre che nel paradiso, anche sulla terra. […]». La normativa che obbliga
i vescovi a rassegnare le dimissioni all’età di 75 anni è stata ribadita
recentemente anche da Papa
Francesco. La regola delle dimissioni apre una strada nuova,
meravigliosa, non solo per la Chiesa, ma per l'umanità. È la strada della
critica al potere che deve trasformarsi in servizio. Una critica che assume i
caratteri dell’auto-critica.
L’attività
La sua è
stata una continua “conversione” interiore (metànoia).
Ne è testimonianza la proclamazione della Perdonanza, nella Basilica di Santa
Maria di Collemaggio a L’Aquila. Ogni anno, il 29 agosto, martirio di San
Giovanni Battista. Un perdono che non è un normale anno giubilare, come quello proposto nel 1300 dal successore, Bonifacio VIII. Per Celestino, un giorno
normale. Una frattura. Un diaframma,
che infrange il ritmo del tempo,
la routine della vita. Con il
rito della Perdonanza, Celestino intendeva proporre alla Cristianità Universale
lo stile di vita evangelica: la conversione interiore. Era la realizzazione
dell’Amore per Dio e per gli uomini, che fra Pietro aveva imparato e vissuto
durante la sua permanenza sul Morrone, a contatto con la natura, con la gente
semplice e povera della zona. Ma se si analizza la fine penosa, cui è andata
incontro la “Perdonanza”, c’è da rimanere esterrefatti. La Perdonanza sembra
essere diventata lo scempio di Celestino. Il tradimento più spettacolare dei
profondi valori evangelici. Le forme plateali stimolano interesse e partecipazione popolare, ma
riducono Celestino a personaggio da pantomima. E la corsa sfrenata alla
processione di figuranti è segno di banalizzazione della vita e del messaggio
celestiniano. Che senso ha teatralizzare
la consegna del Decreto di nomina pontificia avvenuta il 18 luglio 1294,
piuttosto che l’atto di dimissioni avvenuto il 13 dicembre 1294? È come se si
volesse porre l’accento sulla tiara, simbolo del potere temporale, piuttosto
che sulla chierica, simbolo della povertà e della donazione a Cristo. E,
purtroppo, storicamente così è avvenuto: le immagini di Celestino tendono a
presentarlo sempre con le insegne papali, piuttosto che con quelle povere di
frate col saio.
Il messaggio
Una chiesa dedicata allo Spirito Santo,
con convento annesso, fu costruita nella seconda metà del secolo XIII, sulla
base dello stretto rapporto che fra’ Pietro aveva stabilito con la teoria di
Gioacchino da Fiore (1130-1202). Per Gioacchino la storia
degli uomini si basa sul modello della Trinità, scandito in tre tappe: età del
Padre (predominio della legge e della schiavitù); età del Figlio (predominio
della servitù filiale e della grazia); età dello Spirito Santo (predominio
della libertà, della plus-grazia, della Pace, dello spirito di povertà con
l’avvento del “Papa Angelico, il successore di Pietro che si eleverà in
sublimi altezze”, al quale “sarà data piena libertà per rinnovare la religione
cristiana e per predicare il Verbo di Dio…
la gente non sguainerà la spada contro i propri simili e nessuno si addestrerà
alla battaglia”.
Nell’abbazia sono visibili diverse
rappresentazioni pittoriche della colomba, simbolo dello Spirito Santo.
L’interesse e la condivisione di Pietro da Morrone nei confronti della teologia
gioachimita pongono in chiara evidenza
le sue capacità intellettuali e la profondità della sua ricerca interiore, anche se San Tommaso
d’Aquino (1225-1274), contemporaneo di Pietro da Morrone, ritiene Gioacchino da
Fiore, “rudis” nelle questioni
dogmatiche.
Se si pensa che la teoria gioachimita viene
condannata nel 1263, risulta evidente che,
focalizzando su di essa l’attenzione, Pietro da Morrone ne vede
l’importanza e la condivide: “l’abate calabrese supponeva che dopo un certo
numero di tribolazioni, la storia avrebbe conosciuto un’epoca di beatitudine
spirituale e di libertà” (Mircea Eliade).
Gioacchino da Fiore ha affascinato i
grandi autori della letteratura moderna: da George Sand a James Joyce, da Yeats
a Bloch. Una visione teologica della storia. Un’utopia cristiana, ripresa dopo secoli da Teilhard de Chardin,
paleontologo e teologo gesuita,
Che la figura e il messaggio di Pier da Morrone-Celestino V spirino sulla
montagna del Morrone è assolutamente incontrovertibile. Sul piano della
pastorale devozionale appare strano,
anzi contraddittorio, che la fiaccolata per la Perdonanza parta dal Morrone per giungere a L’Aquila,
mentre dovrebbe essere il contrario. L’immagine della fiaccola che deve
illuminare e non restare sotto il moggio fa parte del Discorso della Montagna
(Mt. 5), la Carta Costituzionale del Cristianesimo ed è l’esempio che dà Pier
da Morrone-Celestino V, rinunciando e dimettendosi da papa, o meglio da quel
modo istituzionalizzato e poco cristiano di fare il papa. Le due vie, quella verso il pontificato (la
via verso L’Aquila, metafora della domenica delle Palme in cui Cristo entra
trionfalmente a Gerusalemme) e quella
verso la fuga dal pontificato (la via verso il ritorno sul Morrone, metafora
della Via Crucis, quando Cristo sale sul Calvario per morire), raffigurano un Celestino
bifronte, segno di contraddizione. Come Cristo. La lotta tra Potere e Servizio, tra Satana e Dio, tra
Male e Bene. La linea di demarcazione,
come aveva ben intuito Silone ne “L’avventura
d’un povero cristiano”, è ancora oggi quella di sette secoli fa: o con
Celestino o con Bonifacio. O col Vangelo o col Potere.
Lo spirito
L’area morronese presenta, anche
plasticamente, l’idea dello spirito. Un’idea, oggi, particolarmente
dibattuta in varie pubblicazioni, (cfr.
Richard Wilkinson e Kate Pickett, The
Spirit Level, “La misura dell’anima” o il famoso libro di Thomas Piketty, Il
capitale nel XXI secolo, considerato da Krugman, Stiglitz e altri
specialisti come il più importante di questi tempi. Perfino Zygmunt Bauman, uno
dei più grandi e famosi teorici della società contemporanea, affronta il tema
in una conferenza dal titolo “Lo spirito e il clic”. Ma ciò che colpisce sono
le parole degli ex-prigionieri di guerra del Campo 78, tornati a Sulmona per
ringraziare la gente che li aveva nascosti, sfamati, aiutati: «fra carestie
brutte, quello che avevamo era diviso comunemente uno per l'altro [...] Le
nostre lettere divenivano di proprietà comune, venivano lette ad alta voce;
problemi di cibo, vestiario, freddo, malattia, melanconia venivano risolti
tutti quanti da quello che noi chiamiamo lo spirito di Sulmona, “the Sulmona's spirit”, quello spirito
stesso che ci coltivava, che ci respirava, che ci tirava in avanti, quello
spirito che ancora ci spinge e ci guida.
Stasera andremo nelle nostre case, ovunque disperse nell'Isola
Britannica e vi giuro che ognuno di noi
porterà sempre nel suo cuore un affetto ardente per questa adorata città».
L’eremo di Santo Spirito a Majella, nel
comune di Roccamorice, dopo l’eremo di S. Onofrio, sul Morrone, diventa una seconda abitazione
per Celestino. Un luogo impervio, ma in
grado di ispirare riflessioni di alto valore spirituale. Durante la seconda
guerra mondiale divenne abitazione e rifugio per molti prigionieri di guerra
alleati, fuggiti dal Campo 78/bis di Acquafredda, in particolare neozelandesi
che hanno lasciato tracce della loro presenza. John Broad lo ha raccontato
nel libro “Poor People Poor Us” (Povero popolo, poveri noi).
Sullo spirito di povertà Gioacchino da
Fiore aveva espresso parole forti, “una denunzia del rischio di mondanizzazione
della Chiesa, affermandone il valore, che deve distinguere gli ecclesiastici, a
cominciare dalle sfere più alte” (Francesco D’Elia, Gioacchino da Fiore, un maestro della civiltà europea” ). Lo stesso
Gioacchino aveva scritto: “…la Chiesa di Dio è diventata casa di traffici”
(ibidem). Su queste
linee evangeliche, è evidente che Celestino
non è imprigionabile nelle stanze del potere. La linea di demarcazione è
ancora oggi quella di sette secoli fa: o con Celestino o con Bonifacio. È
la dialettica tra lo Spirito e la Lettera, tra la Profezia
e l’Istituzione.
Il testimone
C’è un
concetto, semplice e profondo, eloquente e terribile, esposto in poche righe
nella Lettera di San Paolo ai Filippesi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura
divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò
se stesso, assumendo la condizione di servo” (2.6-8).
È la “kenosi”, parola derivante dal verbo
greco “ekénosen”, che significa
appunto “spogliarsi, svuotarsi, privarsi”. Forse nessun passo della Scrittura è
così sconvolgente come questo. In poche parole viene focalizzata la figura di
Cristo-Dio, nella sua eccezionalità: rinuncia all’ “onnipotenza” divina e
scelta della “debolezza” umana. Su questa via, segnata dal sangue del
Fondatore, si sono incamminati e continuano ad incamminarsi anche oggi i poveri
cristiani come Celestino.
In linea con tale
esempio, la vita e la morte di Celestino V, diventano copia della vita e della
morte di Cristo. Morto il 19 maggio 1296, imprigionato in una minuscola cella
del Castello di Fumone, è il simbolo più eloquente della libertà del cristiano,
anche se purtroppo, ancora oggi, gli
uomini del Potere ne hanno imprigionato la salma in un’urna d’oro, nella
Basilica di Collemaggio. Celestino non
immaginava minimamente che le sue spoglie mortali sarebbero state rivestite dei
paramenti pontificali per essere esposte alla venerazione dei fedeli. Più
verosimilmente avrebbe preferito indossare, da morto, il saio della
povertà e rimanere nella grotta del
Morrone, col suo stile di vita umile e
modesto
Il giudizio storico
“Il giudizio di
Dante pesa sulla santità di Celestino come un macigno e ha fatto tanto
discutere gli storici e gli studiosi danteschi” scrive Paolo Golinelli nel
libro “Il papa contadino”. Il
problema dell’interpretazione dei versi al canto III dell’Inferno
“vidi e
conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto”
resta sempre
aperto.
Resta il fatto che Dante parli di
“ombra”, anche se allora facilmente individuabile. La motivazione dell’attacco
di Dante, sempre che si riferisca a Celestino, sembra avere valore politico
personale. Così scrivono Bianca
Garavelli e Maria
Corti: “È possibile, anzi plausibile che Dante si accanisse contro
l’eremita molisano perché con la sua rinuncia al papato permise indirettamente
l’ascesa del Caetani, spietato fautore del potere temporale del papato,
esponente di un modo secondo Dante eccessivamente politico e aggressivo di
interpretare il ruolo della Chiesa, e suo nemico personale”.
Qualcuno li mette
in relazione al verso 104 dell’Inferno per sostenere che si tratta proprio di
Celestino V. In contrasto, Dante colloca nel Paradiso (XII, 139-141) Gioacchino
da Fiore descrivendolo:
....., e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.
Petrarca, nel “De vita solitaria” in cui esclama “Oh
fossi vissuto con lui!”, scrive: “Persone che lo videro mi raccontarono che
fuggì, con tanto giubilo, mostrando tali segni di letizia negli occhi e nella
fronte quando si allontanò dal concistoro, libero di sé, come se avesse
liberato il collo non da un peso lieve, ma da crudeli mannaie, tanto che gli
sfolgorava in viso qualche cosa d’angelico”.
Era la risposta alle parole di Jacopone da
Todi, al momento della elezione:
“Que farai, Pier da Morrone?
Èi venuto al paragone. Vederimo
êl lavorato…”;
Che farai, Pietro da Morrone? Sei giunto
al momento della prova. Vedremo cosa farai… Tutto il mondo pone la sua mira
verso di te, come un bersaglio per la freccia... Se sei fatto di oro, ferro o
rame, lo proverai in quest’esame.
Sembra di vederlo,
questo vecchietto ultraottantenne, che fugge come un bambino felice: “Se non vi
convertirete e non diventerete come bambini…” (Mt 18.3). E libero, come una
colomba. “Siate semplici come le colombe” (Mt 10.16). Le parole pronunciate per
le dimissioni il 13 dicembre 1294 provocano ancora oggi uno choc. Come allora
si rimane frastornati.
«Ego Caelestinus Papa Quintus motus
ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et
coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis,
infirmitate personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem;
sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et Dignitati, oneri,
et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem
eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore.»
«Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza
del mio corpo e la malignità della Plebe [di questa città], al fine di
recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta,
abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente
al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta».
Nel testo latino
si dice anche: “defectu scientiae”,
non tradotto in italiano. Sarebbe opportuno ritrovare il testo originale, per
conoscere se la frase non sia stata inserita successivamente per
manipolazione. D’altronde non può che
essere strano che Celestino riconosca per sé il “defectu scientiae”, se, invece, in quei tempi il grado di
istruzione era a livelli estremamente bassi e gran parte del clero viveva
nell’ignoranza e nell’isolamento. Ha lasciato una lunga serie di documenti
scritti, dalla regola alle autobiografie ed ha dimostrato di avere
informazioni, conoscenze, contatti di carattere culturale, come il rapporto con
le teorie di Gioacchino da Fiore.
Per quanto
riguarda il recupero della tranquillità perduta, la realtà sarà profondamente
triste. Il successore, Bonifacio VIII, eletto la vigilia di Natale del 1294, lo
perseguiterà fino a relegarlo in una cella del castello di Fumone, dove
Celestino morirà il 19 maggio 1296.
Linee di
intervento turistico-pastorale
Per
valorizzare la vita, il messaggio, la morte di Celestino V è necessario
prendere coscienza dell’importanza culturale e sociale della sua storia. Oggi,
alla luce della vita che si svolge sulla terra, sempre più problematica,
l’esigenza di una spiritualità umana, di una visione trascendentale e libera
dell’umanità appare come la soluzione
concreta e ideale del cammino dell’uomo.
L’obiettivo
di una pastorale che intenda presentare il personaggio e lo spirito di
Celestino V non può non approfondirne la vita e il messaggio, rimuovendo i
pregiudizi o i soliti schemi mentali. Per questo è necessario creare un
progetto di ricerca, individuale e di gruppo, aperto ad ogni contributo che
provenga da analisi storicamente valide e documentate. La promozione di
incontri e conferenze specifiche sarebbe assolutamente auspicabile, per indirizzare
la ricerca e per ampliare la conoscenza
del personaggio e del messaggio che gli è strettamente connesso.
Sarebbe auspicabile creare una
biblioteca specifica, che raccolga libri, materiale e che dia vita ad un
sistema di collegamento Internet.
Sarebbe
possibile, nell’ambito del contesto architettonico-amministrativo, adibire la
casa parrocchiale di Badia di Sulmona, situata di fronte al portone
dell’Abbazia, di proprietà della diocesi, come centro culturale specifico per
la conoscenza e la ricerca delineate nel progetto.
In linea con
l’associazione “Per una fondazione Morrone”, creata alcuni anni fa, con la
partecipazione di centinaia di iscritti che hanno offerto 100 Euro l’uno, si
potrebbe promuovere una “Fondazione
Celestino V”, con la partecipazione di vescovo, preti, insegnanti, gente
comune, con un’offerta in denaro per sostenere le spese.
Sarebbe
auspicabile un cosiddetto “Cammino di Celestino e/o Sentiero di Celestino” da Sulmona all’eremo il giorno
19 maggio.
Nel lanciare
questo progetto, inteso come work in
progress, discusso e approvato a
livello diocesano e comunale. si potrebbe indire un incontro-manifestazione,
per renderlo pubblico e per ricevere eventuali critiche o positive
osservazioni.
SULMONA FONTE D’AMORE: Il Campo di Concentramento fu costruito
per i prigionieri della prima guerra mondiale (1915-1918). Vi furono sistemati
i prigionieri di nazionalità austro-ungarica,
adibiti ad operazioni di rimboschimento, lavori agricoli e artigianali.
L’epidemia, la “spagnola”, provocò la morte di oltre 400 persone, sepolte in
seguito al sacrario di guerra austro-ungarico nel cimitero comunale di
Sulmona
Durante la seconda
guerra mondiale (1940-1945), al Campo fu assegnato il n. 78 e divenne luogo di
detenzione dei prigionieri alleati anglo-americani, catturati prevalentemente
nella campagna d'Africa. Secondo una mappa del settembre 1943 pubblicata da The Red Cross and St. John War Organization
i prigionieri di guerra (POW, Prisoner Of War), detenuti nei campi di
concentramento italiani erano più di centomila. Lo storico inglese Roger
Absalom, il maggiore esperto sui prigionieri di guerra alleati in Italia, parla di circa 80.000 prigionieri alleati in
Italia. Al Campo 78 ve n’erano oltre tremila.
John Esmond Fox, Spaghetti
and Barbed Wire tradotto in italiano con il titolo Spaghetti e filo
spinato, (ed. Qualevita, Torre
dei Nolfi, 2002).
«Come arrivammo
intravidi il campo che stava ai piedi della montagna, in aspro contrasto con la
ricca campagna della valle. Non avevo mai visto un campo, in precedenza, e
avevo trovato difficile anche immaginarlo... La facciata del campo era quella
tipica di ogni caserma, con posti di guardia e uffici. […] Ora eravamo
veramente chiusi da alte mura e da alte montagne, controllati da guardie armate
sulle torri di controllo. Avvertivamo una sensazione di ineluttabilità e la
maggior parte di noi sembrava rassegnata al fatto di dover restare lì per tutta
la durata della guerra. Il luogo appariva uggioso, senza colore, senza il canto
degli uccelli e il cinguettio monotono dei passeri; mi chiedevo quanto si
potesse durare con una esistenza così opprimente. […] L’interno della baracca
era un labirinto di letti a due piani, alti circa due metri, disposti così
vicini che andare da una parte all’altra richiedeva una grande destrezza… […]
E’ strano rilevare come uomini di varia estrazione sociale, diversi per lingua
e costumi, credo e razza, imprigionati insieme per qualche crudele capriccio
del fato, dominati con la forza, privati e spogliati della propria
individualità e ridotti al solo comune denominatore di esseri umani, siano
capaci di gettar via l’orgoglio e il pregiudizio per un legame di amicizia,
trovando uno scopo di vita e lottando contro un comune nemico. Penso che questo
sia uno degli aspetti della vita che può essere soltanto sperimentato,
sfortunatamente, in circostanze infelici come queste. Che miracolo sarebbe se
un simile cameratismo o spirito di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse
nella vita di tutti i giorni. Il mondo allora davvero sarebbe ad un passo
dall’estrema utopia dei nostri sogni più cari. »
* Fox riuscirà a
fuggire dal campo, rifugiandosi presso la famiglia Silvestri, nella frazione di
Cantone e da qui, nel gennaio 1944, oltrepassando il Guado di Coccia, innevato,
raggiungerà Casoli, dove si trovavano gli Alleati.
Donald Jones, Escape from Sulmona, tradotto in italiano con il titolo Fuga da
Sulmona (ed. Qualevita, Torre dei Nolfi 2002)
Per altri
prigionieri, la scena appare meno lugubre. Anzi, l'ambiente e il clima
culturale della classicità latina servono ad alleviare le sofferenze della
prigionia. In quest'ottica, infatti,
Donald Jones sembra quasi aggrapparsi ad
Ovidio per farne un modello ed un maestro di vita:
« Ovidio scrisse
nelle “Metamorfosi”: Tempus edax rerum = il tempo tutto divora; egli nacque a Sulmona nel 43 a.C., eppure le
sue parole risuonavano vere nel 1943 nel campo dei prigionieri di guerra di
Sulmona.... Il campo di prigionia, o per dare la sua denominazione precisa,
Campo dei prigionieri di guerra n.78, era situato a circa 5 miglia da Sulmona, in un piccolo villaggio chiamato
Fonte d'Amore. Che nome per un campo di prigionia! […] Lo stesso campo era di
forma rettangolare, circondato da un alto muro di pietra e, come se questo non
fosse stato sufficiente, le autorità italiane avevano cementato cocci di vetro
rotto in cima al muro e avevano aggiunto due alti recinti di filo spinato lungo
il perimetro... Il campo era diviso in cinque reparti: uno per gli ufficiali,
uno per i sergenti... gli altri tre per gli altri ranghi... Grazie al regolare
invio dei pacchi della Croce Rossa, che si aggiungevano alle insufficienti
razioni italiane, sopravvivemmo nel periodo tra l'ottobre del 1942 e il
settembre 1943 a Sulmona ed eravamo in buona salute. »
* Jones
fugge dal campo e dopo vari mesi di peregrinazioni riuscirà a tornare
nell’esercito alleato.
John Furman, Be not fearful, in italiano Non aver
paura, (Garzanti, Milano 1962).
Trasferito a Sulmona dal Campo n. 21 di Chieti, scrive:
« Partii con un convoglio il pomeriggio del 23
settembre; e circa due ore dopo arrivai in un campo, cinque miglia a nord di
Sulmona. Lì ci ritrovammo con gli amici partiti coi convogli precedenti, e ci
affrettammo a farci descrivere tutti i particolari delle fortificazioni del
campo, che erano riusciti a osservare. Un certo numero di ufficiali - compreso all’incirca fra dieci e cinquanta
- aveva
messo in atto un piano di fuga la notte precedente. Alcuni erano stati
catturati mentre tentavano di evadere. Di conseguenza, i tedeschi avevano
passato la giornata a rafforzare difese e fortificazioni. E avevano aumentato
le sentinelle, piazzate le mitragliatrici, messi a fuoco i riflettori. […] Dopo
un’ispezione generale, ci rendemmo conto che andarcene stava diventando un
affare tutt’altro che semplice. Tutto quanto il territorio entro il quale
eravamo tenuti prigionieri era circondato da un doppio recinto di filo spinato.
Le sentinelle vi facevano la guardia, armate di torce e di altri mezzi anche
più offensivi. Al di là del recinto esterno, erano piazzate le mitragliatrici
con un buon campo di tiro. »
* Furman fugge dal Campo 78,
andando a nascondersi per alcuni mesi al Borgo Pacentrano, a Sulmona. In
seguito, con altri compagni, guidati da Iride Imperoli Colaprete, raggiungerà
Roma, sarà catturato e riuscirà di nuovo
a fuggire, assistendo alla liberazione di Roma il 4 giugno 1944.
William
Simpson, A Vatican
Lifeline ’44, tradotto in italiano col titolo La guerra in casa 1943-1944. La
resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, presentazione di Roger Absalom, (ed.
Qualevita Torre dei Nolfi, 2004)
Simpson non metterà piede nel campo di Fonte d’Amore, perché poco prima
di arrivare, salta dal camion che proveniva da Chieti e si dà alla fuga.
Racconta:
« Quando svoltammo dalla
strada principale… Afferrai una barra sopra la testa, saltai sul sedile,
poggiai il piede sinistro sulla coscia del londinese e mi accucciai. Da quel
lato c’era una siepe alta. Il cuore mi batteva. Le marce grattavano. Il camion
incominciò ad accelerare. Gelai. Era un suicidio. Il londinese, sforzandosi di
tenere ferma la sua coscia, mi vide barcollare. “Vai, salta!” urlò. Mi lanciai
fuori, oltre la siepe. Il pensiero del mitra della guardia attutì il mio
impatto con il suolo. Rotolando, mi ricordai delle guardie sulle motociclette.
C’era un fossato poco profondo oltre la siepe. Vi scivolai dentro, con la faccia
a terra. I sidecar stridettero, abbordando la curva e rimbombarono mentre mi
passavano accanto a distanza di pochi piedi. Il rumore svanì. Piegai un
braccio, una gamba; si muovevano. Alzandomi, tolsi la terra e la paglia dalla
mia uniforme inglese e dai pantaloncini color kaki, più adatti per il deserto.
In quel piccolo campo il fieno era stato appena tagliato. »
* William Simpson incontrerà Mario Scocco e Roberto Cicerone che lo
aiuteranno a nascondersi al Borgo Pacentrano. Si recherà a Roma, dove sarà ricatturato
e incarcerato a Regina Coeli. Le sue peripezie sono narrate nel libro citato.
Nel dopoguerra Simpson diventa responsabile dell’Allied Screening Commission,
la commissione creata per ricompensare gli italiani che avevano aiutato i
prigionieri. Il giorno 18 maggio 1946,
nell'aula comunale di Sulmona, Simpson afferma: “Sulmona è stato uno dei pochi centri
italiani che si siano veramente distinti
in questa opera di solidarietà e di carità cristiana: questa simpatica
cittadina, che mi ha ospitato gentilmente sia da prigioniero che da uomo
libero, la considero come la mia seconda patria. Sulmona ha salvato dagli artigli germanici ben settemila
prigionieri alleati. Difficilmente potremo dimenticarlo" .
Sam Derry, Linea
di fuga 1943-1944, Sulmona-Roma-Città del Vaticano, Qualevita, Torre dei
Nolfi 2011, traduzione italiana a cura degli studenti del Convitto Nazionale
Vittorio Emanuele II di Roma, tit.orig. The
Rome Escape Line,
Sam Derry, dopo il
suo audace salto dal treno che lo sta conducendo da Sulmona a Roma e da qui in
Germania, si nasconde in un pagliaio nelle vicinanze di Roma, a Salone. In
seguito, nascosto su un carretto, sotto un cumulo di cavoli, raggiunge Roma e incontra Mons. O’Flaherty,
che lo ospita prima al Collegio Teutonico e poi nella Città del Vaticano. Qui,
con la collaborazione di Furman e
Simpson, organizza la più grande operazione di salvezza di prigionieri
fuggiaschi, ebrei, perseguitati politici. Le vicende narrate nel libro si
svolgono proprio fra Roma e Sulmona: la fuga verso Roma parte dal campo di
prigionia di Sulmona dopo l’8 settembre
1943 e segna l’inizio della sua azione nella capitale, insieme a Mons.
O’Flaherty, la cosiddetta “primula rossa del Vaticano”, realizzando la British Organization, il cui scopo era
offrire una rete di protezione ai numerosi ex prigionieri del Commonwealth in
attesa dell’arrivo degli alleati.
Jack Goody, Oltre i muri. La mia prigionia in Italia, (Il mondo 3 edizioni, Roma 1997),
saltando dal treno, diretto a Roma, scrive:
.« Il convoglio si era fermato nel campo di
calcio che era stato scavato sul versante della collina; il gruppo che era
arrivato da Chieti nei giorni precedenti era assembrato in un angolo guardato a
vista dalle sentinelle. I nuovi arrivati a Sulmona scaricarono i bagagli, si
trascinarono lungo il pendio e si raggrupparono in ordine sparso mentre i
tedeschi cercavano di contarli. Una guardia urlò a squarciagola puntando il
mitra per tenere separati i gruppi. Quando la confusione cominciò a placarsi,
alcuni del vecchio contingente si avvicinarono e diedero il benvenuto ai nuovi
arrivati di là dallo spazio di transito. “Che posto schifoso”. “E di male in
peggio: in Germania” […] L’area degli alloggi sembrava un alveare diviso in
tante sezioni da muri che ora erano crollati in più punti. Il settore più in
alto era ciò che era rimasto di quello che doveva essere il reparto ufficiali;
questi alloggi sembravano comunque molto più comodi di quelli di Chieti,
avevano piccole camere, letti singoli e mobili resistenti. […] Cibo o non cibo,
l’idea della fuga era presente alla mente di molti e stava prendendo la forma
di una vera e propria mania. »
* Jack
Goody, antropologo di fama mondiale, docente a Cambridge, fuggiasco sulle
montagne della Valle del Sagittario, dopo essere saltato dal treno che lo
portava in Germania. In una conferenza all’università di Teramo ha detto: « Non ho passato molto tempo in Abruzzo, ma
il tempo che vi ho passato è stato molto intenso e mi ha segnato per sempre.»
Nel maggio 1998 è tornato in Abruzzo, a visitare il Campo di concentramento n.
78 di Fonte d’Amore, a Sulmona. Da uomo libero, dopo più di mezzo secolo, Goody
si è avvicinato alla baracca che l’aveva visto prigioniero ed è rimasto solo,
pensoso, profondamente emozionato.
Uys Krige, è uno dei più grandi scrittori sudafricani,
autore di poesie, racconti, opere
teatrali. Amico di Ignazio Silone, che parla di lui nella prefazione al dramma
“L’avventura di un povero cristiano”,
scrive un’opera dal titolo “The way out”, tradotta in italiano
con il titolo “Libertà sulla Maiella”(ed. Vallecchi, Firenze 1965), nella quale narra dettagliatamente la sua
prigionia al Campo ’78 e la sua fuga, accolto dai contadini di Villa Giovina a
Bagnaturo, dai pastori alla “casa delle vacche”, e in seguito a Campo di Giove,
a Palena, a Gamberale fino al Molise, dove si ricongiungerà con gli alleati. Nel Campo di prigionia di Fonte d’Amore, il
15 gennaio 1942, Krige scrive una poesia
dal titolo “Midwinter”, “Pieno inverno”.
John Verney, col suo libro Un pranzo di erbe, a cura dell’Associazione culturale “Il Sentiero
della Libertà/Freedom Trail”, (Qualevita, Torre dei Nolfi 2014), ha scritto una
lettera d’amore per i contadini che li avevano sfamati, aiutati, amati.
«Quasi tutto
quello che è stato importante per la mia vita lo devo alla guerra. Stavo per aggiungere: all’Abruzzo.» (Almost
everything in my life that has really mattered goes back somehow to the war. I
was about to ad: Goes back to the Abruzzi).
Non ha confessato
solo i suoi sentimenti, ma ha dimostrato che amare significa conoscere la
storia, rivivere l’ambiente, condividere fatiche e speranze. Ha espresso profonda
gratitudine per aver imparato, in quei mesi di fame e di rischi, tra grotte di
montagna e nascondigli nelle case, che vivere e aiutare gli altri a vivere è
l’unico scopo che valga la pena di raggiungere. Una testimonianza
straordinaria, quella di Verney. Forse la più coinvolgente e la più bella delle
opere scritte dagli ex-prigionieri di guerra in Abruzzo. Artistica nella forma
e profonda di contenuto. Solo un innamorato poteva esprimere parole
indimenticabili. Verney era ed è rimasto un artista, anche dopo la tragedia
della guerra. Quando, più volte, è tornato in Abruzzo, vi è tornato con la
voglia di conservare e ravvivare quello spirito di innocenza o, come la chiama,
nostalgie de la boue (nostalgia della
genuinità), che l’affascinava63. «Sono venuto per riprendermi qualcosa.
L’interesse per la vita, si potrebbe dire, o il gusto per le cose essenziali,
come pane.
«Succede, spesso,
che da giovane leggi un libro che ti
colpisce e influenza la vita. Poi nella mezza età cerchi di rileggerlo… Sono
venuto qui per rivivere un’esperienza, ricordare l’importanza della gentilezza
disinteressata, apprendere di nuovo una lezione che ho imparato in Italia
durante la guerra...». «Questa valle... Non sapevo niente di essa, né della
gente, con la quale ero stato a contatto solo per un breve periodo e in momenti
fuori dalle normali circostanze. Non sapevo parlare bene la lingua. Eppure
stavo pensando di scrivere un libro proprio su questa gente. Un tardivo tributo
che significava riconoscerne l’importanza. Ma cosa dire? Che era stato il caso
a condurmi nella valle la prima volta? O che perfino questa mia nuova presenza
con Matthew potesse far parte di un modello di vita misterioso, anche se
rassicurante? Modello che sarebbe svanito, se avessi tentato di definirlo chiaramente».
Un pranzo di erbe è il titolo del libro, desunto da un
versetto biblico dei Proverbi (15.17):
“Un piatto di erbe
con amore è meglio di un bue grasso con odio”, che l’autore pone come epigrafe
del libro. La dedica: To Sinibaldo
Amatangelo, Antonio Crugnale and their kind (A Sinibaldo Amatangelo,
Antonio Crugnale e ai loro familiari). John Verney, autore di un precedente
volume di memorie di guerra dal titolo: Going
to the Wars, e di opere per ragazzi, ricorre in questo libro al tipico humour anglosassone. Verney scrive A Dinner of Herbs non come prosecuzione
del primo, ma come testimonianza della sua esperienza di prigioniero fuggiasco.
La narrazione procede secondo la tecnica del flashback. All’inizio, John Verney
si trova al campo di prigionia di Chieti. Poi, insieme ad altri, viene
trasferito al Campo di Fonte d’Amore, a Sulmona,
Al campo di
Chieti, un capitano chiamato Croce, è odiatissimo dai prigionieri per la sua
crudeltà. Ma c’è anche un professore di italiano che gli insegna la lingua e gli
rivela che “il vero Abruzzo è in quelle montagne tra Gran Sasso e Maiella”,
istruendolo sulla storia della regione, terra di stregoni, di maghi e di santi,
rimasta inalterata per duemila anni.
«Gli Abruzzesi
divennero famosi orafi, vasai, scalpellini e produttori di dolciumi.
Ciononostante, gran parte della regione rimase per lungo tempo covo
inaccessibile di lupi, orsi e montanari. Oggi i discendenti di lupi e orsi sono
raccolti nel Parco Nazionale, tra Sulmona e Pescasseroli. Mentre i discendenti
dei montanari si mescolarono con i discendenti degli invasori longobardi,
franchi, svevi, spagnoli ed austriaci. Persistette tuttavia, e nessuno aveva
più motivo di me per esserne grato, il loro atteggiamento ostile alle crudeltà
commesse da stranieri. Il prodotto più bello dell’Abruzzo erano quei contadini
forti, coraggiosi, indipendenti, industriosi e solitamente poveri. Vita dura,
capace di sfociare nella poesia, nelle canzoni e nei fantasiosi costumi, che
forse rappresentavano il folklore più ricco d’Italia. Emigrati a migliaia nelle
Americhe, per forza di cose, ma quasi tutti tornati a casa per morire, non
molto più ricchi di quando erano partiti. Il professore mi trasmise un amore
per l’Abruzzo che presto l’esperienza avrebbe aumentato. E, come racconterò, da
allora vi sono tornato occasionalmente, per motivi sentimentali, ma anche
perché la regione mi attrae come uno dei pochi luoghi della penisola che non
sono stati massacrati dall’incompetenza culturale».
Tornato a Sulmona,
dopo la guerra, l’autore descrive la città con riferimenti precisi alla sua
storia, a Ovidio, a Pietro da Morrone. Ricorda poi la sua fuga durante il
trasferimento in Germania, saltando dal treno con altri due compagni, Amos e
Mark. Fuggono verso le campagne tra Sulmona e Cocullo.
Alle falde del
monte Genzana, incontrano dei giovanotti “armati fino ai denti”, che fanno
incontrare i tre fuggitivi con altri quattro prigionieri in fuga, provenienti
dall’Aquila, amorevolmente assistiti dalla popolazione. I giovanotti si vantano
di aver fatto razzie a Introdacqua e di aver picchiato un carabiniere fascista.
Il capo della banda è un tipo infido, spaccone e maligno. Lo chiamano “il
maiale”. Gli inglesi stanno di malavoglia con loro.
Verney va a
Introdacqua per ascoltare le notizie dalla radio. Ritrova il professore di
Chieti, in casa del parroco. Un anziano di Introdacqua, Paolo si prende cura di
loro, affidandoli prima a Gabriele e alla sua giovane moglie, e poi
accompagnati dal giovane Dionino ad Antonio (Crugnale).
Le riflessioni di
Verney esprimono ammirazione per l’aiuto dato dai poveri alla gente più povera.
«Amos una volta disse, scherzando, che sperava ci considerassero un
investimento. Sono quasi certo che per loro non era così. Persone profondamente
semplici, sull’orlo della fame, che non sapevano quali erano i motivi della
guerra. Un disastro, del quale non si sentivano responsabili. Colpa del
governo. Noi eravamo tre stranieri portati dalla guerra. E ancora più poveri di
loro. Indigenti. Per questo ci avevano aiutato. Solo per questo. Il pensiero di
essere ripagati non passò loro neanche per la testa. C’era poca certezza che la
guerra sarebbe finita e nessuna probabilità che avremmo potuto ripagarli.
Naturalmente furono tutti abbastanza felici del denaro che ricevettero alla
fine. Io mandai tutto ciò che potei. Così fece Mark, credo. E dal momento che
si trovava in Italia riuscì a spillare dal governo il più possibile. Quando la
volta scorsa venni a trovarli, mi dissero che erano stati trattati
generosamente. Stavano un po’ meglio economicamente, o quella fu la mia
impressione. Ciò che fecero per noi non si può assolutamente misurare in
denaro... La situazione divenne impossibile nella valle. Quando ce ne andammo
per vivere nella caverna, credevamo di restarci per una settimana. In realtà i
tedeschi mantennero salde le posizioni con il famoso Winterstallung e la linea rimase bloccata per parecchi mesi. Fummo
costretti a restare nella caverna.
Sam ed Antonio
salivano ogni tre o quattro giorni con il cibo. Su e giù. Sei o sette ore da aggiungere
al loro lavoro nei campi, a tutte le loro preoccupazioni. Nelle ultime tre
settimane lo fecero sotto la neve. Una volta Sam portò una forma di scarpa di
ferro da calzolaio sulle spalle per riparare i miei stivali. Due contadini
semplici. Non sapevano niente della nostra esistenza fino a qualche settimana
prima. Appartenevamo ad una nazione diversa, all’esercito invasore. Capirai
meglio domani quando saliremo su quella montagna, se ci riusciremo. Non sono
sicuro di farcela. Questa è la scoperta che sto facendo adesso, perché ho più o
meno la stessa età che avevano loro allora». Nel frattempo c’è lo sfollamento
di Pettorano e molte famiglie si rifugiano nelle grotte. Gli inglesi sono
costretti a scendere e tornano da Sam, con l’intenzione di procurarsi gli
scarponi e fuggire attraverso le montagne. Cambiano spesso rifugio.
Intanto Sam riesce
a procurare solo due paia di scarponi. Li prendono Amos e John, mentre Mark
preferisce restare. Attraversando le montagne fino ad Alfedena e oltre, Amos
cadrà falciato da una mina e il suo corpo non sarà più ritrovato, mentre John
riuscirà a raggiungere le linee alleate.
Stann Skinner, Sulmona and after
(Sulmona e dopo)
Stan
Skinner nasce a Londra nel 1920, da famiglia medio borghese. Studia, con
discreti risultati, alla Grammar School di Wallington, una delle migliori della
Gran Bretagna. Ma la sua passione dominante è lo sport – soprattutto il cricket
e il calcio – nel quale promette una brillante carriera. A soli 17 anni,
assunto da una banca, lascia la scuola. La sua sarebbe stata una tranquilla
vita dedita più allo sport che al lavoro, infatti le banche inglesi di
prestigio, come la sua, avevano una loro squadra che attraverso i successi
sportivi pubblicizzava la banca stessa. Ma a vent’anni, la guerra irrompe nella
sua vita, come in quella di milioni di suoi coetanei, sconvolge ogni progetto,
e gli fa conoscere infinite sofferenze. Dalla guerra guerreggiata al campo di
concentramento di Sulmona, al terrificante bombardamento alla stazione de
L’Aquila, dove viene gravemente ferito, ad una lunga degenza ospedaliera e ai
suoi terribili postumi.
Il
libro “Sulmona and after” (Sulmona e dopo), a cura di Ezio Pelino,
trad. di Giovanni Lapenna, edizione digitale: www.corrierepeligno.it ) di Stan Skinner è la narrazione di una
serie interminabile di terribili avventure dopo l’8 settembre e la fuga dal
campo 78 di Sulmona. Una vera odissea. A cominciare dalla disperata ricerca,
senza alcuna conoscenza dei luoghi, di un rifugio sul monte Morrone. Corrono
sempre più in alto, mentre dalle pendici del monte giunge il rabbioso crepitare
delle mitraglie tedesche. Valicano la montagna e scendono a valle.
Arrivano
a quello che appare un paradiso. Non c’era la guerra, non c’erano i tedeschi.
Era un paese sperduto, fuori del mondo. Roccacaramanico. Incontrano un anziano
contadino che parla inglese con accento americano. Un ex emigrante. Vengono
ospitati. Il paese, un Rio Bo, solo sette famiglie, una chiesa troppo grande e
un frate francescano.
Skinner
si incuriosisce per la gerarchia sociale di quel microcosmo. Le donne vestono
di nero. Sono trattate come cittadini di seconda classe. Gli uomini mangiano
per primi, “quello che veniva lasciato” è per le mogli e i bambini. Il venerdì,
ogni famiglia va al mercato, a Caramanico, a dieci chilometri, a vendere i
prodotti della terra. Il marito sull’asino, la moglie a fianco con una grossa
cesta sulla testa. Scrive Skinner: “Benché gli abitanti fossero tanto poveri,
erano la gentilezza personificata, ci accolsero molto bene nelle loro case e ci
nutrirono altrettanto bene… vivemmo davvero in un mondo di sogno per tre
settimane”.
Ricorda
con piacere la polenta, condita con sugo di pomodoro, scodellata sul tavolo di
legno su cui si mangiava tutti insieme. “Vivevamo – scrive – in un folle
paradiso, ogni giorno ci aggiravamo per la valle ad esplorarla”. Capita, in
quella terra di nessuno, di ritrovare qualche compagno del campo 78, che
prosegue il cammino verso il sud, al di là della Majella, incontro agli
Alleati, che per tutti stanno per arrivare, mentre rimangono bloccati sul
Sangro. Una mattina, il silenzio di quell’isola di pace viene rotto dal rumore
di un mezzo semicingolato. I tedeschi stanno venendo da Caramanico. Skinner e i
compagni, riforniti di viveri dagli abitanti, raccolgono le loro poche cose e
risalgono il Morrone, per riparare in una grotta. Ma gli abitanti non li
abbandonano!
Alle
prime luci dell’alba, quando i tedeschi non sono ancora in giro per la valle,
le donne risalgono la montagna e portano pane, formaggio e altre vivande. Un
giorno incontrano lo scrittore sudafricano, Uys Krige, loro compagno di prigionia, che a sua volta
scriverà un libro in proposito, pubblicato in Italia dalla Vallecchi, “The way out”, tradotto in “Libertà sulla Majella”. Vestito da
pastore, si era unito ai pastori che trasmigravano per le Puglie, e così
raggiungerà gli Alleati. La neve li costringe a scendere più in basso. Riparano
a Pacentro, ancora in una grotta. Ma un Giuda non manca mai. Un ignoto paesano
li vende ai tedeschi, non per trenta denari, ma per 1800 lire a prigioniero.
Scortati, marciano per le strade del paese, suscitando la commozione, fino alle
lacrime delle gentili donne di Pacentro. Dal campo di Sulmona vengono portati a
quello de L’Aquila.
Ma,
alla stazione del capoluogo si scatena l’inferno. Un bombardamento feroce
semina morte e distruzione. Il Nostro è ferito gravemente, ma riesce con un
carro di passaggio a raggiungere l’ospedale civile. Vi lavora un medico di
grande valore, che diventerà un Maestro della chirurgia, Paride Stefanini. Lo
opera e lo protegge dai tedeschi. La degenza è lunga, ma anche nell’ospedale
molti italiani fanno visita ai feriti inglesi cercando di soddisfare le loro
esigenze. I ricoverati inglesi devono, però, guardarsi dai fascisti in divisa –
delatori dei tedeschi – che abitualmente ispezionavano l’ospedale. Le peripezie
continuano fino all’arrivo delle truppe liberatrici.
Il
libro di Skinner sembra un racconto di avventure mentre è storia vissuta, di
stragi, di sofferenze, di infermità dovute ai bombardamenti e, finalmente, di
liberazione e di ritorno alla vita e al lavoro. Skinner non ha dimenticato
Sulmona, questa gente allora generosa. È tornato per i 40 anni dalla fine della
guerra e tante volte ancora, con Joe Drew, l’organizzatore dei nostalgici
raduni. Lui stesso fu l’organizzatore di uno di essi. Scrive: “Abbiamo fatto
amicizia e mantenuto questa amicizia con le autorità locali e con coloro che
hanno aiutato i prigionieri. Essi sono venuti a Londra e noi siamo ritornati a
Sulmona quattro volte”.
Ricorda,
per la splendida accoglienza, il sindaco, l’esercito e il capo della polizia
municipale Gianni Febbo. Una lapide, nel cortile del Comune, rammenta questo
rapporto di autentica amicizia fra italiani e inglesi. È “lo spirito di
Sulmona”, come è stato definito dagli stessi inglesi. Nell’ultima sua visita,
Skinner con i compagni torna a Roccacaramanico. Tanta era la nostalgia per
quell’isola di autentica umanità. Trovano, con meraviglia, una strada – prima
non c’era – che collega Pacentro al paesello. Il villaggio è abbandonato, le
strade lastricate sono piene di erbacce, le case in rovina, la chiesa con il
tetto sfondato. Li sorprende l’invito di una vecchia contadina. Li fa
accomodare a casa sua per offrire loro un caffè. È l’unica abitante. Sono tutti
emigrati per il Canada e l’Australia. È vedova, non ha figli, non ha avuto
questa benedizione, dice. La donna offre del vino dall’ultima bottiglia.
Racconta che va a fare la spesa una volta alla settimana a piedi a
Sant’Eufemia. Che i carabinieri insistono perché vada per l’inverno a
Sant’Eufemia, ma lei rifiuta. È nata a Roccacaramanico, ha vissuto tutta la sua
vita là e là vuole morire. La casa della vecchia contadina era la stessa dei
tempi della guerra. Nulla era cambiato. C’erano ancora il camino con il gancio
per appendere la pentola, il forno per cuocere il pane e gli animali che
razzolavano al pianoterra.
Bibliografia
-AA. VV. (a cura
di Rosalba Borri, Maria Luisa Fabiilli, Mario Setta), Liceo Scientifico Statale
Fermi di Sulmona, E si divisero il pane
che non c’era, nuova edizione a cura dell’Ass. Cult.“Il Sentiero della
Libertà/Freedom Trail”, Qualevita, Torre dei Nolfi 2009:
“Bellissimo
libro che hanno scritto gli alunni e gli insegnanti di una scuola di Sulmona e
che io conservo gelosamente” (CARLO
AZEGLIO CIAMPI, Presidente della Repubblica Italiana)
“Fascinating –
and moving – reading” (T.L. RICHARDSON,
Ambasciatore Britannico in Italia)
-Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, Il sentiero della libertà. Un libro della
memoria con Carlo Azeglio Ciampi, Laterza, Roma-Bari 2003:
“Un libro originale con intelligente impostazione,
in linea con lo spirito d’uno storico come F. Braudel. Il vero protagonista al centro
delle pagine è uno solo: il desiderio di libertà.” (GABRIELE DE ROSA)
“Una iniziativa nata nella scuola, un libro
abilmente montato. Il protagonista del libro, Carlo Azeglio Ciampi, sente
profondamente la responsabilità di non cedere, unificando i concetti di patria
e di libertà, con schiettezza e realismo.” (CLAUDIO PAVONE)
-Roger Absalom, A Strange Alliance, tradotto in italiano
col titolo L’alleanza inattesa: Mondo
contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia (1943-1945), a cura di
“Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation”, ed. Pendragon, Bologna 2011.
-John Esmond Fox, Spaghetti e filo spinato, Qualevita, Torre dei Nolfi 2002
-Donald Jones,, Fuga da Sulmona, Qualevita, Torre dei
Nolfi 2002
-William Simpson, La guerra in casa 1943-1944. La Resistenza
Umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, presentazione di Roger Absalom, Qualevita, Torre dei Nolfi
2004
-Salzano, Mario Giulio, Il
campo di concentramento per prigionieri di guerra di Fonte d'Amore e la
formazione della Legione cecoslovacca (1916-1918)". in: "Storia e
problemi contemporanei", n° 71/2016, Milano, Angeli editore, pp. 139-160.
-Sam Derry, Linea di fuga, Sulmona-Roma-Città del
Vaticano, Qualevita, Torre dei Nolfi 2011
-John Verney, Un pranzo di erbe, Qualevita, Torre dei
Nolfi 2014
-John Leeming, Sempre domani, Qualevita, Torre dei
Nolfi 2018
-Maria Rosaria La
Morgia e Mario Setta (a cura di), Terra di Libertà, storie di uomini e donne
nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale, edizioni Tracce-Fondazione
Pescarabruzzo 2014
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