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27 marzo 2021

Sulmona, Morrone: 22 secoli di storia, di Mario Setta.


 Sulmona, Morrone: 22 secoli di storia

di Mario Setta

Premessa: Succede che un luogo diventi parte importante della propria vita. Personalmente arrivai a Badia di Sulmona il primo ottobre 1970, nominato parroco, proveniente da Roma, dove, in qualità di cappellano del lavoro, mi occupavo dei lavoratori dell’edilizia, soprattutto pendolari abruzzesi, tanto che uno degli obiettivi assistenziali fu la creazione per loro di una casa di ospitalità durante la settimana. Ci riuscimmo, con gli stessi lavoratori, ed è durata venti anni. Giunto alla casa parrocchiale di Badia di Sulmona, aprii le porte e cercai di accogliere gli operai pendolari che lavoravano alla nuova fabbrica della Fiat. La casa divenne “centro di comunità”. Di sera, usavamo i locali come scuola per operai di preparazione alla terza media. Fu uno sconvolgimento per la gente delle frazioni (Fonte d’Amore, Badia, Case Lupi, San Pietro, Bagnaturo), anche se io studiavo sociologia alla Gregoriana, per acquisire strumenti scientifici nei rapporti con la gente. Capirono a fatica, ma con gioia, che cercavo di creare una comunità di fratelli. Vi rimasi nove anni, sempre in tensione con l’autorità ecclesiastica, sempre contraria ad ogni novità pastorale. Ero convinto e determinato per ciò che facevo. Incrementai con altri preti la linea di rinnovamento, sopprimendo le tariffe della Messa e dei sacramenti. Organizzammo un convegno di oltre settanta preti, laici e religiosi, alla casa parrocchiale, appellandoci all’esempio di Celestino V, tanto che alcuni salirono all’eremo, e tra loro un famoso gesuita insegnante all’Università Gregoriana, che tenne una conferenza in città. Sono rimasto fino al 7 aprile 1979.

Ho raccontato le mie vicende personali, e non solo, nel libro autobiografico “Il volto scoperto”, esprimendo la mia critica nei confronti dei dogmi ecclesiali, primo fra tutti quello del peccato originale, pubblicando “HOMO, Elogio di Eva”, un piccolo libro poetico-teologico.

Per essere sincero, e lo sono ancora, dopo la cacciata dalla casa parrocchiale di Badia, a me è andata benissimo, avendo cercato di superare le difficoltà. Ho insegnato storia e filosofia al Liceo Scientifico, abbiamo realizzato la manifestazione internazionale “Il sentiero della Libertà/Freedom Trail”, abbiamo pubblicato le testimonianze dei prigionieri del Campo 78, abbiamo ottenuto e pubblicato il diario del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, della sua traversata a piedi il 24 marzo 1944 da Sulmona a Casoli. Abbiamo creato l’associazione culturale “Il Sentiero Della Libertà/ Freedom Trail  e realizzate diciannove edizioni della Marcia.

Spero e mi auguro che queste storie diventino lezione di vita per ciascuno.

  

La Memoria del Morrone:

Lo Spazio-Il Tempo-Gli Uomini

Sul monte Morrone, contrafforte della Maiella, che domina la Valle Peligna, nello SPAZIO di pochi chilometri di perimetro, si conserva la memoria d’un TEMPO più che bimillenario: dall’era pre-cristiana del santuario di Ercole Curino al medioevo dell’Eremo di Pier da Morrone-Celestino V e l’Abbazia di Santo Spirito fino alle due guerre mondiali con il Campo di concentramento di Fonte d’Amore. Un territorio che unisce spiritualità religiosa e solidarietà umana.  “Epopea”, “Resistenza Umanitaria” è stata definita dagli storici la solidarietà dimostrata dalla gente  peligna ai prigionieri di guerra, che ricordano the Sulmona’s spirit, lo spirito di Sulmona” (cfr. AA.VV. (a cura di Rosalba Borri, Maria Luisa Fabiilli, Mario Setta, E si divisero il pane che non c’era, ed. Labor, Sulmona 1995: II  ed. Qualevita, Torre dei Nolfi  2009)

 

Santuario di Ercole Curino

Sul monte, luogo sacro già dai tempi precedenti alla nascita di Cristo, esisteva un santuario dedicato ad Ercole. Era il nome latinizzato dell’eroe greco Eracle, con l’appellativo di Curino o Quirino, “culto nazionale dei Peligni” e di cui si ammirava la straordinaria forza, avendo superato le famose 12 fatiche, ottenendo l’immortalità.  Il complesso monumentale si compone di due grandi terrazze addossate al pendio della montagna. L’accesso avveniva mediante scalinate. Sulla terrazza superiore, si trova un piccolo ambiente quadrato, di carattere cultuale, con pavimento a mosaico. In esso furono rinvenute due immagini votive di Ercole, l’una in bronzo, l’altra in marmo, rappresentante l’eroe sdraiato. Il santuario risale al primo secolo a.C. e sembra documentato che all’epoca delle guerre sociali (91 a.C.)  fungesse da  centro religioso della lega tra i popoli italici che nell’ 87 a.C. ottennero la cittadinanza romana. La festa nel santuario di Ercole Curino avveniva il 13 agosto (“Idi di agosto”), mediante un rito che prevedeva l’offerta, la purificazione nell’acqua, l’accesso al “Sancta sanctorum”, ed anche l’“incubatio”, cioè il pernottamento all’interno del luogo sacro per ottenere qualche grazia. Notevole, dal punto di vista architettonico, l’ Opus reticulatum. (Per informazioni più dettagliate: cfr.  Alessandro Bencivenga, “Luoghi, tempi e modi del culto di Ercole tra i Paeligni”)

 

Oratorio di S. Onofrio  (Alto medioevo)

L’oratorio, dedicato a S. Onofrio, risale ad un’epoca di passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Vari furono i santuari dedicati a  santi eremiti della Tebaide, in particolare a S. Antonio Abate e a S. Onofrio.  Di S.Onofrio si sa ben poco. Anch’egli, probabilmente, era un eremita, vissuto  nei primi secoli del Cristianesimo. Una raffigurazione di S. Onofrio, nella Yilanli Kilise di Goreme, in Cappadocia (Turchia) lo presenta con lineamenti femminili, sulla base di una leggenda che ne parlava come di donna convertita e consacratasi alla vita eremitica. Anche qualche immagine e statua conservate nel santuario lo presenta con capelli lunghi  fino ai piedi,  quasi a nascondere i suoi lineamenti. Il monachesimo benedettino, nato in Occidente, tenderà a modificare lo stile di vita eremitica sintetizzandolo nel  motto “Ora et Labora” .

 

Eremo di Pietro da Morrone  (Basso medioevo)

Accanto alla chiesetta di S. Onofrio, raccogliendo e ravvivando lo spirito dell’anacoretismo, si stabilirà fra’ Pietro da Morrone, divenuto in seguito  papa Celestino V. Ignazio Silone, nel proemio al dramma dal titolo  L’avventura d’un povero cristiano, racconta la sua ascensione verso l’Eremo: «Una tenera luce verde dorata bagna i campi gli alberi i paesetti pedemontani, il grandioso scenario della Maiella e dà una proporzione armoniosa a ogni minimo oggetto. Benché nato e cresciuto in una valle attigua, da cui la Maiella è invisibile, nessuna montagna mi tocca come questa. Elementi emotivi assai complessi si aggiungono all’ammirazione naturalistica. La Maiella è il Libano di noi abruzzesi». 

Nella Bibbia il Libano è simbolo di maestosità e di potenza, tanto che Mosè chiese a Dio di vederlo e non fu esaudito (Deut. 3,25-26).  Ma anche di gioia e di bellezza, come  viene  spesso descritto nel Cantico dei Cantici. Non solo il Morrrone e la Majella, ma in generale le montagne abruzzesi erano considerate luoghi di nascondiglio e di difesa dalle persecuzioni dei tiranni.  Angoli di speranza e di libertà. Gioacchino Volpe, famoso storico abruzzese, nel volume “Movimenti religiosi e sette ereticali”,  riferisce di una bolla di Bonifacio VIII  “contro quei bizochi o altrimenti chiamati che, ricoveratisi nei monti dell’Abruzzo, in abiti ovini, ma veri vampiri, spargevano eresia tra i semplici uomini”. Nella seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre, i tedeschi che occuparono il campo di prigionia di Fonte d’Amore, vi posero un cannone e distrussero l’eremo, ritenendo che vi fossero rifugiati i prigionieri alleati. Nel dopoguerra l’eremo fu ricostruito con la collaborazione dei cittadini delle frazioni morronesi.

Una questione aperta resta quella della proprietà. In un articolo su “Rivista Abruzzese” (Anno LXXI - 2018 - N. 1 Gennaio-Marzo), Roberto Carrozzo, responsabile dell’Archivio di Stato di Sulmona dal titolo  L’Eremo di S. Onofrio al Morrone, un monumento in cerca di proprietario” espone una ricerca precisa e documentata  sulla questione, concludendo: “A conclusione di questa breve esposizione si può ritenere che il Comune abbia continuato a detenere in proprietà l'edificio, così come dovrebbe detenerlo a tutt'oggi (salvo documenti che ne attestino il contrario, di cui si dubita però l'esistenza), mentre la gestione del culto religioso rimase affidata alla Diocesi. Infatti, questo giustificherebbe pienamente la lettera inviata nel 1986 dall'allora sindaco della città, La Civita, con la quale fece richiesta alla Cassa di Risparmio della Provincia dell'Aquila di un contributo speciale per la esecuzione di lavori di pronto intervento all'eremo per la sua salvaguardia, specificando che «sia questo Comune, proprietario dell'immobile, che la Curia Vescovile che lo tiene in uso gratuito, si trovano nell'impossibilità di far fronte alla spesa».

 

Fonte d’Amore

 La fontana che caratterizza la località risale ad un lontano passato, anche se nel retro della struttura sono ora visibili una lapide con la scritta “1919 Fontana della Vittoria” ed un mattone di pietra con data 1833. Tutta la zona era famosa per le acque fresche e limpide tanto che la tradizione popolare, smentita poi dagli scavi archeologici, la riteneva luogo della villa del poeta Ovidio (Sulmona 20/3/43 a.C. – Tomi 17 d.C.), che aveva descritto la città con i famosi versi: Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis (“Tristia”, libro IV, elegia X: “Sulmona mi è patria, ricchissima di fresche acque”), Pars me Sulmo tenet Paeligni tertia ruris/ parva sed inriguis ora salubris aquis (“Amores”, libro II, 16, 1-2; “Sulmona, terza parte della campagna peligna, mi trattiene, piccola terra ma salubre per le acque irrigue”). Rileggendo le parole di John Verney, artista e scrittore inglese ex-prigioniero di guerra del Campo 78, non si può non condividere la sua osservazione, contenuta nel libro “A Dinner of Herbs” (“Un pranzo di erbe”): “Leggenda di Ovidio, eremo di Sant'Onofrio, Badia di Santo Spirito... Esempi di tenace paganesimo e di spirito ascetico, comuni in Abruzzo. Tuttavia,  nessun altro luogo al mondo può vantare testimonianze così importanti in un'area così ristretta”. 

Purtroppo l’area morronese è stata sempre considerata come appendice della città di Sulmona, lasciata a se stessa e all’ignoranza della gente del luogo che raccontava degli “scavi della villa di Ovidio”, mentre si trattava del santuario di Ercole Curino. Luoghi da leggenda, come scrive il poeta dialettale bugnarese, Vittorio Clemente nel poemetto dal titolo “Nu fatte allu Murrone”. di cui nel 1942 aveva scritto l’articolo “Cola Di Rienzo nella leggenda e nella tradizione d’Abruzzo”, oggi reperibile nell’Archivio Storico Capitolino.

 

Abbazia di S. Spirito  (Basso medioevo/età moderna)

L’Abbazia è un  fabbricato a pianta rettangolare (m.119x140). Al tempo di fra’ Pietro da Morrone c’era forse una cappella dedicata a S. Maria del Morrone che fu ampliata da lui e dai seguaci. Verso la fine del XIII  secolo fu costruita una chiesa dedicata allo Spirito Santo, con convento annesso. Nel settembre 1293 si tenne un Capitolo generale che dichiarò il monastero sede dell’abate supremo dell’Ordine Celestino. Nel 1299, tre anni dopo la morte di Celestino V, Carlo II d’Angiò ricostruì il convento, abbellito nel 1500, restaurato dopo il terremoto del 1706.

L’Ordine dei Celestini fu soppresso nel 1807 e l’edificio ebbe varie  destinazioni, fino a diventare carcere penitenziario. Dopo la costruzione d’una nuova casa penale nelle vicinanze, l’Abbazia fu lasciata vuota, finché nel 1997 iniziarono  i lavori di ristrutturazione. Il complesso architettonico rappresenta uno dei monumenti più vasti e importanti dell’Italia Centrale.  

 

La vita 

Nel 1246 fra’ Pietro da Morrone, con alcuni monaci, si stabilisce all’eremo di Sant’Onofrio.  Si chiamava Pietro Angelerio, nato nel Molise ed entrato nell’Ordine di San Benedetto. Aveva lasciato il monastero per farsi eremita: per tre anni sul monte Palleno (Porrara). Poi si era recato a Roma per studiare e nel 1239 era stato ordinato sacerdote. Il 21 marzo 1274, recandosi a Lione dove papa Gregorio X era arrivato per il Concilio Ecumenico, ottiene la Bolla di confermazione dell’Ordine dei monaci morronesi di Santo Spirito. Al ritorno, nel luglio 1274, a L’Aquila, fa costruire un Santuario dedicato alla Madonna (Santa Maria di Collemaggio), consacrato il 25 agosto 1288. Nel 1292 alla morte del papa Niccolò IV, al conclave riunito a Perugia, le due fazioni contrapposte dei cardinali (Orsini e Colonna), non riescono ad  eleggere il nuovo papa. Vi si reca il re di Napoli Carlo II d’Angiò con suo figlio Carlo Martello per metterli d’accordo. Ma non ottiene nulla. Lasciando Perugia, Carlo II e il figlio Carlo Martello, vengono  a Sulmona. Il 6 aprile 1294 salgono a S. Onofrio e incontrano fra’ Pietro, suggerendogli di scrivere una lettera ai cardinali riuniti in conclave. La lettera fa effetto e il 5 luglio 1294 Pietro da Morrone viene eletto papa, all’età forse di 79 anni. L’11 luglio i delegati si avviano verso Sulmona. Anche Carlo II col figlio si avvia verso Badia di Sulmona, ma stanco per il lungo viaggio, lascia che all’eremo salga suo figlio Carlo Martello insieme ai legati. Giunti all’eremo nella tarda mattinata, l’arcivescovo di Lione, Bernard (Beraldo) De Gouth, si inginocchia davanti a fra’ Pietro e gli consegna il decreto di nomina. Pietro si ritira in preghiera e in lacrime. Poi, dichiara di accettare la nomina. Il 25 luglio il corteo parte per L’Aquila: Pietro su un asino e ai fianchi Carlo d’Angiò e Carlo Martello. Arriva a L’Aquila il 27 luglio, dove rimane per la consacrazione episcopale e per l’incoronazione papale che avviene domenica 29 agosto 1294 alla presenza di tutti i cardinali. Prende il nome di Celestino, forse per commemorare Celestino IV morto dopo diciassette giorni dalla nomina, ma più verosimilmente come Celestino III che aveva approvato l’Ordine di Gioacchino da Fiore (25 agosto 1196)  perché ne condivideva le idee, avendo dato appoggio ad Abelardo e ad Arnaldo da Brescia.

“Da cardinale  (Giacinto Bobo), scrive Bernard McGinn, riuniva in sé un po’ del teologo e dell’apocalittico”. Il 6 ottobre 1294:  il corteo di papa e re parte dall’Aquila per andare a Napoli; 7 ottobre: arrivo a Sulmona; il 9 ottobre: consacrazione dell’altare maggiore della Chiesa  di Badia di Sulmona; 10 ottobre: salita a S. Onofrio e incontro con fra’ Roberto di Salle; 5 novembre: arrivo a Napoli.

13 dicembre: dimissioni da pontefice; 19 maggio 1296: morte al castello di Fumone in provincia di Frosinone.

 

I 107 giorni, dal 29 agosto al 13 dicembre 1294, rappresentano il tempo di riflessione, di sofferenza, di espiazione per aver accettato la nomina a pontefice. Un tempo trascorso nel ricordare i luoghi del suo eremitaggio. Desiderio che cercherà di realizzare in tutti i modi, chiedendo direttamente al nuovo papa di tornare all’eremo di S. Onofrio. Richiesta che Bonifacio nega, dicendogli: “Non voglio che tu torni all’eremo, ma voglio che mi segua in Campania”, come riferisce Tommaso da Sulmona. Ma, al seguito di Bonifacio, giunti al convento di  Piedimonte San Germano, la piccola Montecassino, confida la sua idea di fuggire ad un sacerdote amico, che gli mette a disposizione una bestia da soma  e può così raggiungere il Morrone. La gente di Sulmona, appresa la notizia, sale a salutarlo. Rimane sul Morrone alcuni mesi, nella primavera del 1295. Sarà il periodo delle sue fughe quotidiane per evitare le guardie papali che lo vanno cercando. Al disgelo, quando il Morrone e le falde della Maiella si liberano dell’alta coltre di neve, intraprende con un compagno il cammino verso il Gargano e la Foresta Umbra. Ma, braccato anche in quei luoghi,  progetta di oltrepassare il mare per recarsi in Grecia, tanto che alcuni marinai di Rodi Garganico si rendono  disponibili ad aiutarlo e predispongono l’imbarcazìone. Riescono a partire, ma vengono riportati dal vento sulla costa vicino Vieste.

Bonifacio VIII non si dà pace e cerca di rintracciarlo, rivolgendosi alle Autorità per farlo arrestare e condurlo da lui. È così che una delegazione con il patriarca di Gerusalemme e un priore dei Templari riesce a scovarlo e ad accompagnarlo in Campania, dove Bonifacio aveva inviato il vescovo Teodorico Ranieri che, di notte, senza che nessuno se ne accorgesse, conduce Celestino ad Anagni, al palazzo dei Caetani.

Al mattino, l’incontro di Bonifacio con Celestino. Bonifacio lo rimprovera per la fuga da San Germano e per aver  disobbedito. Celestino chiede perdono e implora nuovamente di poter tornare sul Morrone. Bonifacio lo trattiene ad Anagni per due mesi. Parecchi cardinali erano del parere di lasciarlo  in pace, ma Bonifacio aveva trovato la soluzione: rinchiuderlo in una cella del castello di Fumone. Vi rimane dall’estate 1295 al 19 maggio 1296. Il giorno della sua morte.

Celestino, dunque, non è imprigionabile nelle stanze del potere, di ogni potere, anche di quello ecclesiastico, simboleggiato dalla tiara, il copricapo che con Bonifacio VIII diventerà “triregno”, a significare il potere temporale del papato. Questo simbolo venne eliminato da Paolo VI e venduto per ricavarne denaro da destinare ai popoli del Terzo Mondo. La salma di Celestino, lasciata prima a Ferentino, da alcuni monaci Celestini fu proditoriamente trafugata nel 1327 e traslate a L’Aquila. Nel frattempo c’era stata la prima canonizzazione di san Pietro del Morrone, come confessore, avvenuta nel 1313 ad opera di Clemente V ad Avignone, dove lo stesso pontefice aveva trasferito la sede apostolica. Bisogna attendere il 1668 per la seconda canonizzazione come pontefice, diventando così san Pietro Celestino. Oggi le spoglie di Celestino V sono custodite nella Basilica di Collemaggio, nello cinquecentesco mausoleo realizzato dallo scultore Girolamo da Vicenza, raccolte in un’urna di cristallo e argento sbalzato. Probabilmente Celestino non immaginava né voleva che le sue spoglie mortali fossero rivestite dei paramenti pontificali, esposte alla venerazione dei fedeli. Più verosimilmente avrebbe preferito indossare, da morto, il saio della povertà e rimanere nella grotta del Morrone, col suo stile di vita umile e modesto.

Paolo VI si recò al castello di Fumone, il 1° settembre 1966, alla fine del Concilio Vaticano II,  in visita alla cella dove era morto Celestino, per pregare e avere ispirazione sul tema delle dimissioni. Addirittura si parlò di sue dimissioni ed eventuale eremitaggio sul Morrone, sulle orme di Celestino. In quella occasione Papa Paolo VI tra l’altro disse: «[…] Ed ecco rifulgere la santità sulle manchevolezze umane: il Papa (Celestino V, ndr), come per dovere aveva accettato il Pontificato supremo, così, per dovere, vi rinuncia; non per viltà, come Dante scrisse - se le sue parole si riferiscono veramente a Celestino - ma per eroismo di virtù, per sentimento di dovere. E morì qui, segregato, perché altri non potesse profittare ancora della sua semplicità ed umiltà, e la morte non fu per lui la fine, ma il principio della gloria, oltre che nel paradiso, anche sulla terra. […]». La normativa che obbliga i vescovi a rassegnare le dimissioni all’età di 75 anni è stata ribadita recentemente anche da Papa Francesco. La regola delle dimissioni apre una strada nuova, meravigliosa, non solo per la Chiesa, ma per l'umanità. È la strada della critica al potere che deve trasformarsi in servizio. Una critica che assume i caratteri dell’auto-critica.

 

L’attività

La sua è stata una continua “conversione” interiore (metànoia). Ne è testimonianza la proclamazione della Perdonanza, nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila. Ogni anno, il 29 agosto, martirio di San Giovanni Battista. Un perdono che non è un normale anno giubilare, come quello  proposto nel 1300 dal successore,  Bonifacio VIII. Per Celestino, un giorno normale. Una frattura. Un diaframma,  che  infrange il ritmo del  tempo,  la routine della vita. Con il rito della Perdonanza, Celestino intendeva proporre alla Cristianità Universale lo stile di vita evangelica: la conversione interiore. Era la realizzazione dell’Amore per Dio e per gli uomini, che fra Pietro aveva imparato e vissuto durante la sua permanenza sul Morrone, a contatto con la natura, con la gente semplice e povera della zona. Ma se si analizza la fine penosa, cui è andata incontro la “Perdonanza”, c’è da rimanere esterrefatti. La Perdonanza sembra essere diventata lo scempio di Celestino. Il tradimento più spettacolare dei profondi valori evangelici. Le forme plateali stimolano  interesse e partecipazione popolare, ma riducono Celestino a personaggio da pantomima. E la corsa sfrenata alla processione di figuranti è segno di banalizzazione della vita e del messaggio celestiniano.   Che senso ha teatralizzare la consegna del Decreto di nomina pontificia avvenuta il 18 luglio 1294, piuttosto che l’atto di dimissioni avvenuto il 13 dicembre 1294? È come se si volesse porre l’accento sulla tiara, simbolo del potere temporale, piuttosto che sulla chierica, simbolo della povertà e della donazione a Cristo. E, purtroppo, storicamente così è avvenuto: le immagini di Celestino tendono a presentarlo sempre con le insegne papali, piuttosto che con quelle povere di frate col saio.

 

Il messaggio

Una chiesa dedicata allo Spirito Santo, con convento annesso, fu costruita nella seconda metà del secolo XIII, sulla base dello stretto rapporto che fra’ Pietro aveva stabilito con la teoria di Gioacchino da Fiore  (1130-1202). Per Gioacchino la storia degli uomini si basa sul modello della Trinità, scandito in tre tappe: età del Padre (predominio della legge e della schiavitù); età del Figlio (predominio della servitù filiale e della grazia); età dello Spirito Santo (predominio della libertà, della plus-grazia, della Pace, dello spirito di povertà con l’avvento del “Papa Angelico,  il successore di Pietro che si eleverà in sublimi altezze”, al quale “sarà data piena libertà per rinnovare la religione cristiana e per predicare il Verbo di Dio…  la gente non sguainerà la spada contro i propri simili e nessuno si addestrerà alla battaglia”.

Nell’abbazia sono visibili diverse rappresentazioni pittoriche della colomba, simbolo dello Spirito Santo. L’interesse e la condivisione di Pietro da Morrone nei confronti della teologia gioachimita pongono in chiara evidenza  le sue capacità intellettuali e la profondità della sua  ricerca interiore, anche se San Tommaso d’Aquino (1225-1274), contemporaneo di Pietro da Morrone, ritiene Gioacchino da Fiore, “rudis” nelle questioni dogmatiche.

Se si pensa che la teoria gioachimita viene condannata nel 1263, risulta evidente che,  focalizzando su di essa l’attenzione, Pietro da Morrone ne vede l’importanza e la condivide: “l’abate calabrese supponeva che dopo un certo numero di tribolazioni, la storia avrebbe conosciuto un’epoca di beatitudine spirituale e di libertà” (Mircea Eliade).

Gioacchino da Fiore ha affascinato i grandi autori della letteratura moderna: da George Sand a James Joyce, da Yeats a Bloch. Una visione teologica della storia. Un’utopia cristiana,  ripresa dopo secoli da Teilhard de Chardin, paleontologo e teologo gesuita,

Che la figura e il messaggio  di Pier da Morrone-Celestino V spirino sulla montagna del Morrone è assolutamente incontrovertibile. Sul piano della pastorale  devozionale appare strano, anzi contraddittorio, che la fiaccolata per la Perdonanza  parta dal Morrone per giungere a L’Aquila, mentre dovrebbe essere il contrario. L’immagine della fiaccola che deve illuminare e non restare sotto il moggio fa parte del Discorso della Montagna (Mt. 5), la Carta Costituzionale del Cristianesimo ed è l’esempio che dà Pier da Morrone-Celestino V, rinunciando e dimettendosi da papa, o meglio da quel modo istituzionalizzato e poco cristiano di fare il papa.  Le due vie, quella verso il pontificato (la via verso L’Aquila, metafora della domenica delle Palme in cui Cristo entra trionfalmente a Gerusalemme)  e quella verso la fuga dal pontificato (la via verso il ritorno sul Morrone, metafora della Via Crucis, quando Cristo sale sul Calvario per morire), raffigurano un Celestino bifronte, segno di contraddizione. Come Cristo. La lotta  tra Potere e Servizio, tra Satana e Dio, tra Male e Bene.  La linea di demarcazione, come aveva ben intuito Silone ne “L’avventura d’un povero cristiano”, è ancora oggi quella di sette secoli fa: o con Celestino o con Bonifacio. O col Vangelo o col Potere. 

 

Lo spirito

L’area morronese presenta, anche plasticamente, l’idea dello spirito. Un’idea, oggi, particolarmente dibattuta  in varie pubblicazioni, (cfr. Richard Wilkinson e Kate Pickett, The Spirit Level, “La misura dell’anima” o il famoso libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, considerato da Krugman, Stiglitz e altri specialisti come il più importante di questi tempi. Perfino Zygmunt Bauman, uno dei più grandi e famosi teorici della società contemporanea, affronta il tema in una conferenza dal titolo “Lo spirito e il clic”. Ma ciò che colpisce sono le parole degli ex-prigionieri di guerra del Campo 78, tornati a Sulmona per ringraziare la gente che li aveva nascosti, sfamati, aiutati: «fra carestie brutte, quello che avevamo era diviso comunemente uno per l'altro [...] Le nostre lettere divenivano di proprietà comune, venivano lette ad alta voce; problemi di cibo, vestiario, freddo, malattia, melanconia venivano risolti tutti quanti da quello che noi chiamiamo lo spirito di Sulmona, “the Sulmona's spirit”, quello spirito stesso che ci coltivava, che ci respirava, che ci tirava in avanti, quello spirito che ancora ci spinge e ci guida.  Stasera andremo nelle nostre case, ovunque disperse nell'Isola Britannica  e vi giuro che ognuno di noi porterà sempre nel suo cuore un affetto ardente per questa adorata città».

L’eremo di Santo Spirito a Majella, nel comune di Roccamorice, dopo l’eremo di S. Onofrio,  sul Morrone, diventa una seconda abitazione per Celestino. Un luogo  impervio, ma in grado di ispirare riflessioni di alto valore spirituale. Durante la seconda guerra mondiale divenne abitazione e rifugio per molti prigionieri di guerra alleati, fuggiti dal Campo 78/bis di Acquafredda, in particolare neozelandesi che hanno lasciato tracce della loro presenza. John Broad lo ha raccontato nel  libro “Poor People Poor Us” (Povero popolo, poveri noi).

Sullo spirito di povertà Gioacchino da Fiore aveva espresso parole forti, “una denunzia del rischio di mondanizzazione della Chiesa, affermandone il valore, che deve distinguere gli ecclesiastici, a cominciare dalle sfere più alte” (Francesco D’Elia, Gioacchino da Fiore, un maestro della civiltà europea” ). Lo stesso Gioacchino aveva scritto: “…la Chiesa di Dio è diventata casa di traffici” (ibidem). Su queste linee evangeliche, è evidente che Celestino  non è imprigionabile nelle stanze del potere. La linea di demarcazione è ancora oggi quella di sette secoli fa: o con Celestino o con Bonifacio. È la  dialettica  tra lo Spirito e la Lettera, tra la Profezia e l’Istituzione.

 

Il testimone

C’è un concetto, semplice e profondo, eloquente e terribile, esposto in poche righe nella Lettera di San Paolo ai Filippesi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (2.6-8).

È la “kenosi”, parola derivante dal verbo greco “ekénosen”, che significa appunto “spogliarsi, svuotarsi, privarsi”. Forse nessun passo della Scrittura è così sconvolgente come questo. In poche parole viene focalizzata la figura di Cristo-Dio, nella sua eccezionalità: rinuncia all’ “onnipotenza” divina e scelta della “debolezza” umana. Su questa via, segnata dal sangue del Fondatore, si sono incamminati e continuano ad incamminarsi anche oggi i poveri cristiani come Celestino.

In linea con tale esempio, la vita e la morte di Celestino V, diventano copia della vita e della morte di Cristo. Morto il 19 maggio 1296, imprigionato in una minuscola cella del Castello di Fumone, è il simbolo più eloquente della libertà del cristiano, anche se purtroppo,  ancora oggi, gli uomini del Potere ne hanno imprigionato la salma in un’urna d’oro, nella Basilica di Collemaggio.  Celestino non immaginava minimamente che le sue spoglie mortali sarebbero state rivestite dei paramenti pontificali per essere esposte alla venerazione dei fedeli. Più verosimilmente avrebbe preferito indossare, da morto, il saio della povertà  e rimanere nella grotta del Morrone, col suo stile di vita  umile e modesto

 

Il giudizio storico

“Il giudizio di Dante pesa sulla santità di Celestino come un macigno e ha fatto tanto discutere gli storici e gli studiosi danteschi” scrive Paolo Golinelli nel libro “Il papa contadino”. Il problema dell’interpretazione dei versi al canto III dell’Inferno

 “vidi e conobbi l’ombra di colui

che fece per viltade il gran rifiuto”

resta sempre aperto.

 

Resta il fatto che Dante parli di “ombra”, anche se allora facilmente individuabile. La motivazione dell’attacco di Dante, sempre che si riferisca a Celestino, sembra avere valore politico personale. Così scrivono Bianca Garavelli e Maria Corti: “È possibile, anzi plausibile che Dante si accanisse contro l’eremita molisano perché con la sua rinuncia al papato permise indirettamente l’ascesa del Caetani, spietato fautore del potere temporale del papato, esponente di un modo secondo Dante eccessivamente politico e aggressivo di interpretare il ruolo della Chiesa, e suo nemico personale”.

Qualcuno li mette in relazione al verso 104 dell’Inferno per sostenere che si tratta proprio di Celestino V. In contrasto, Dante colloca nel Paradiso (XII, 139-141) Gioacchino da Fiore  descrivendolo:

....., e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato
.

Petrarca, nel “De vita solitaria” in cui esclama “Oh fossi vissuto con lui!”, scrive: “Persone che lo videro mi raccontarono che fuggì, con tanto giubilo, mostrando tali segni di letizia negli occhi e nella fronte quando si allontanò dal concistoro, libero di sé, come se avesse liberato il collo non da un peso lieve, ma da crudeli mannaie, tanto che gli sfolgorava in viso qualche cosa d’angelico”.

Era la risposta alle parole di Jacopone da Todi, al momento della elezione:

“Que farai, Pier da Morrone?

 Èi venuto al paragone. Vederimo êl lavorato…”;

Che farai, Pietro da Morrone? Sei giunto al momento della prova. Vedremo cosa farai… Tutto il mondo pone la sua mira verso di te, come un bersaglio per la freccia... Se sei fatto di oro, ferro o rame, lo proverai in quest’esame.

Sembra di vederlo, questo vecchietto ultraottantenne, che fugge come un bambino felice: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini…” (Mt 18.3). E libero, come una colomba. “Siate semplici come le colombe” (Mt 10.16). Le parole pronunciate per le dimissioni il 13 dicembre 1294 provocano ancora oggi uno choc. Come allora si rimane frastornati.

«Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis, infirmitate personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem; sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et Dignitati, oneri, et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore.»

«Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della Plebe [di questa città], al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta».

 

Nel testo latino si dice anche: “defectu scientiae”, non tradotto in italiano. Sarebbe opportuno ritrovare il testo originale, per conoscere se la frase non sia stata inserita successivamente per manipolazione.  D’altronde non può che essere strano che Celestino riconosca per sé il “defectu scientiae”, se, invece, in quei tempi il grado di istruzione era a livelli estremamente bassi e gran parte del clero viveva nell’ignoranza e nell’isolamento. Ha lasciato una lunga serie di documenti scritti, dalla regola alle autobiografie ed ha dimostrato di avere informazioni, conoscenze, contatti di carattere culturale, come il rapporto con le teorie di Gioacchino da Fiore.

Per quanto riguarda il recupero della tranquillità perduta, la realtà sarà profondamente triste. Il successore, Bonifacio VIII, eletto la vigilia di Natale del 1294, lo perseguiterà fino a relegarlo in una cella del castello di Fumone, dove Celestino morirà il 19 maggio 1296.

 

Linee di intervento turistico-pastorale 

Per valorizzare la vita, il messaggio, la morte di Celestino V è necessario prendere coscienza dell’importanza culturale e sociale della sua storia. Oggi, alla luce della vita che si svolge sulla terra, sempre più problematica, l’esigenza di una spiritualità umana, di una visione trascendentale e libera dell’umanità  appare come la soluzione concreta e ideale del cammino dell’uomo.

L’obiettivo di una pastorale che intenda presentare il personaggio e lo spirito di Celestino V non può non approfondirne la vita e il messaggio, rimuovendo i pregiudizi o i soliti schemi mentali. Per questo è necessario creare un progetto di ricerca, individuale e di gruppo, aperto ad ogni contributo che provenga da analisi storicamente valide e documentate. La promozione di incontri e conferenze specifiche sarebbe assolutamente auspicabile, per indirizzare la ricerca e per ampliare  la conoscenza del  personaggio e del  messaggio che gli è strettamente connesso. Sarebbe auspicabile creare  una biblioteca specifica, che raccolga libri, materiale e che dia vita ad un sistema di collegamento Internet.

Sarebbe possibile, nell’ambito del contesto architettonico-amministrativo, adibire la casa parrocchiale di Badia di Sulmona, situata di fronte al portone dell’Abbazia, di proprietà della diocesi, come centro culturale specifico per la conoscenza e la ricerca delineate nel progetto.

In linea con l’associazione “Per una fondazione Morrone”, creata alcuni anni fa, con la partecipazione di centinaia di iscritti che hanno offerto 100 Euro l’uno, si potrebbe promuovere  una “Fondazione Celestino V”, con la partecipazione di vescovo, preti, insegnanti, gente comune, con un’offerta in denaro per sostenere le spese.

Sarebbe auspicabile un cosiddetto “Cammino di Celestino e/o Sentiero  di Celestino” da Sulmona all’eremo il giorno 19 maggio.

Nel lanciare questo progetto, inteso come work in progress,  discusso e approvato a livello diocesano e comunale. si potrebbe indire un incontro-manifestazione, per renderlo pubblico e per ricevere eventuali critiche o positive osservazioni.

 

SULMONA FONTE D’AMORE: Il Campo di Concentramento fu costruito per i prigionieri della prima guerra mondiale (1915-1918). Vi furono sistemati i prigionieri di nazionalità austro-ungarica,  adibiti ad operazioni di rimboschimento, lavori agricoli e artigianali. L’epidemia, la “spagnola”, provocò la morte di oltre 400 persone, sepolte in seguito al sacrario di guerra austro-ungarico nel cimitero comunale di Sulmona 

Durante la seconda guerra mondiale (1940-1945), al Campo fu assegnato il n. 78 e divenne luogo di detenzione dei prigionieri alleati anglo-americani, catturati prevalentemente nella campagna d'Africa. Secondo una mappa del settembre 1943 pubblicata da The Red Cross and St. John War Organization i prigionieri di guerra (POW, Prisoner Of War), detenuti nei campi di concentramento italiani erano più di centomila. Lo storico inglese Roger Absalom, il maggiore esperto sui prigionieri di guerra alleati in Italia,  parla di circa 80.000 prigionieri alleati in Italia. Al Campo 78 ve n’erano oltre tremila.

 

John Esmond Fox,  Spaghetti and Barbed Wire tradotto in italiano con il titolo Spaghetti e filo spinato, (ed. Qualevita, Torre dei Nolfi, 2002).  

«Come arrivammo intravidi il campo che stava ai piedi della montagna, in aspro contrasto con la ricca campagna della valle. Non avevo mai visto un campo, in precedenza, e avevo trovato difficile anche immaginarlo... La facciata del campo era quella tipica di ogni caserma, con posti di guardia e uffici. […] Ora eravamo veramente chiusi da alte mura e da alte montagne, controllati da guardie armate sulle torri di controllo. Avvertivamo una sensazione di ineluttabilità e la maggior parte di noi sembrava rassegnata al fatto di dover restare lì per tutta la durata della guerra. Il luogo appariva uggioso, senza colore, senza il canto degli uccelli e il cinguettio monotono dei passeri; mi chiedevo quanto si potesse durare con una esistenza così opprimente. […] L’interno della baracca era un labirinto di letti a due piani, alti circa due metri, disposti così vicini che andare da una parte all’altra richiedeva una grande destrezza… […] E’ strano rilevare come uomini di varia estrazione sociale, diversi per lingua e costumi, credo e razza, imprigionati insieme per qualche crudele capriccio del fato, dominati con la forza, privati e spogliati della propria individualità e ridotti al solo comune denominatore di esseri umani, siano capaci di gettar via l’orgoglio e il pregiudizio per un legame di amicizia, trovando uno scopo di vita e lottando contro un comune nemico. Penso che questo sia uno degli aspetti della vita che può essere soltanto sperimentato, sfortunatamente, in circostanze infelici come queste. Che miracolo sarebbe se un simile cameratismo o spirito di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse nella vita di tutti i giorni. Il mondo allora davvero sarebbe ad un passo dall’estrema utopia dei nostri sogni più cari. »

* Fox riuscirà a fuggire dal campo, rifugiandosi presso la famiglia Silvestri, nella frazione di Cantone e da qui, nel gennaio 1944, oltrepassando il Guado di Coccia, innevato, raggiungerà Casoli, dove si trovavano gli Alleati.

 

Donald Jones, Escape from Sulmona, tradotto in italiano con il titolo Fuga da Sulmona (ed. Qualevita, Torre dei Nolfi 2002)

Per altri prigionieri, la scena appare meno lugubre. Anzi, l'ambiente e il clima culturale della classicità latina servono ad alleviare le sofferenze della prigionia. In  quest'ottica, infatti, Donald Jones  sembra quasi aggrapparsi ad Ovidio per farne un modello ed un maestro di vita: 

« Ovidio scrisse nelle “Metamorfosi”:  Tempus edax rerum = il tempo tutto divora; egli nacque a Sulmona nel 43 a.C., eppure le sue parole risuonavano vere nel 1943 nel campo dei prigionieri di guerra di Sulmona.... Il campo di prigionia, o per dare la sua denominazione precisa, Campo dei prigionieri di guerra n.78, era situato a circa 5 miglia  da Sulmona, in un piccolo villaggio chiamato Fonte d'Amore. Che nome per un campo di prigionia! […] Lo stesso campo era di forma rettangolare, circondato da un alto muro di pietra e, come se questo non fosse stato sufficiente, le autorità italiane avevano cementato cocci di vetro rotto in cima al muro e avevano aggiunto due alti recinti di filo spinato lungo il perimetro... Il campo era diviso in cinque reparti: uno per gli ufficiali, uno per i sergenti... gli altri tre per gli altri ranghi... Grazie al regolare invio dei pacchi della Croce Rossa, che si aggiungevano alle insufficienti razioni italiane, sopravvivemmo nel periodo tra l'ottobre del 1942 e il settembre 1943 a Sulmona ed eravamo in buona salute. » 

* Jones fugge dal campo e dopo vari mesi di peregrinazioni riuscirà a tornare nell’esercito alleato.

 

John Furman, Be not fearful,  in italiano Non aver paura,  (Garzanti, Milano  1962).

Trasferito a Sulmona dal Campo n. 21 di Chieti, scrive:

« Partii con un convoglio il pomeriggio del 23 settembre; e circa due ore dopo arrivai in un campo, cinque miglia a nord di Sulmona. Lì ci ritrovammo con gli amici partiti coi convogli precedenti, e ci affrettammo a farci descrivere tutti i particolari delle fortificazioni del campo, che erano riusciti a osservare. Un certo numero di ufficiali  - compreso all’incirca fra dieci e cinquanta -  aveva  messo in atto un piano di fuga la notte precedente. Alcuni erano stati catturati mentre tentavano di evadere. Di conseguenza, i tedeschi avevano passato la giornata a rafforzare difese e fortificazioni. E avevano aumentato le sentinelle, piazzate le mitragliatrici, messi a fuoco i riflettori. […] Dopo un’ispezione generale, ci rendemmo conto che andarcene stava diventando un affare tutt’altro che semplice. Tutto quanto il territorio entro il quale eravamo tenuti prigionieri era circondato da un doppio recinto di filo spinato. Le sentinelle vi facevano la guardia, armate di torce e di altri mezzi anche più offensivi. Al di là del recinto esterno, erano piazzate le mitragliatrici con un buon campo di tiro. »

 * Furman fugge dal Campo 78, andando a nascondersi per alcuni mesi al Borgo Pacentrano, a Sulmona. In seguito, con altri compagni, guidati da Iride Imperoli Colaprete, raggiungerà Roma, sarà catturato e riuscirà  di nuovo a fuggire, assistendo alla liberazione di Roma il 4 giugno 1944.

 

William Simpson, A Vatican Lifeline ’44, tradotto in italiano col titolo La guerra in casa 1943-1944. La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, presentazione di Roger Absalom, (ed. Qualevita Torre dei Nolfi, 2004)

Simpson non metterà piede nel campo di Fonte d’Amore, perché poco prima di arrivare, salta dal camion che proveniva da Chieti e si dà alla fuga. Racconta:

« Quando svoltammo dalla strada principale… Afferrai una barra sopra la testa, saltai sul sedile, poggiai il piede sinistro sulla coscia del londinese e mi accucciai. Da quel lato c’era una siepe alta. Il cuore mi batteva. Le marce grattavano. Il camion incominciò ad accelerare. Gelai. Era un suicidio. Il londinese, sforzandosi di tenere ferma la sua coscia, mi vide barcollare. “Vai, salta!” urlò. Mi lanciai fuori, oltre la siepe. Il pensiero del mitra della guardia attutì il mio impatto con il suolo. Rotolando, mi ricordai delle guardie sulle motociclette. C’era un fossato poco profondo oltre la siepe. Vi scivolai dentro, con la faccia a terra. I sidecar stridettero, abbordando la curva e rimbombarono mentre mi passavano accanto a distanza di pochi piedi. Il rumore svanì. Piegai un braccio, una gamba; si muovevano. Alzandomi, tolsi la terra e la paglia dalla mia uniforme inglese e dai pantaloncini color kaki, più adatti per il deserto. In quel piccolo campo il fieno era stato appena tagliato. »

* William Simpson incontrerà  Mario Scocco e Roberto Cicerone che lo aiuteranno a nascondersi al Borgo Pacentrano. Si recherà a Roma, dove sarà ricatturato e incarcerato a Regina Coeli. Le sue peripezie sono narrate nel libro citato. Nel dopoguerra Simpson diventa responsabile dell’Allied Screening Commission, la commissione creata per ricompensare gli italiani che avevano aiutato i prigionieri. Il giorno 18 maggio 1946,  nell'aula comunale di Sulmona, Simpson afferma: “Sulmona è stato uno dei pochi centri  italiani che si siano veramente distinti  in questa opera di solidarietà e di carità cristiana: questa simpatica cittadina, che mi ha ospitato gentilmente sia da prigioniero che da uomo libero, la considero come la mia seconda patria. Sulmona ha salvato  dagli artigli germanici ben settemila prigionieri alleati. Difficilmente potremo dimenticarlo" .

 

Sam Derry,   Linea di fuga 1943-1944, Sulmona-Roma-Città del Vaticano, Qualevita, Torre dei Nolfi 2011, traduzione italiana a cura degli studenti del Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di Roma, tit.orig. The Rome Escape Line,

Sam Derry, dopo il suo audace salto dal treno che lo sta conducendo da Sulmona a Roma e da qui in Germania, si nasconde in un pagliaio nelle vicinanze di Roma, a Salone. In seguito, nascosto su un carretto, sotto un cumulo di cavoli,  raggiunge Roma e incontra Mons. O’Flaherty, che lo ospita prima al Collegio Teutonico e poi nella Città del Vaticano. Qui, con la collaborazione  di Furman e Simpson, organizza la più grande operazione di salvezza di prigionieri fuggiaschi, ebrei, perseguitati politici. Le vicende narrate nel libro si svolgono proprio fra Roma e Sulmona: la fuga verso Roma parte dal campo di prigionia di Sulmona  dopo l’8 settembre 1943 e segna l’inizio della sua azione nella capitale, insieme a Mons. O’Flaherty, la cosiddetta “primula rossa del Vaticano”, realizzando la British Organization, il cui scopo era offrire una rete di protezione ai numerosi ex prigionieri del Commonwealth in attesa dell’arrivo degli alleati.

 

Jack Goody, Oltre i  muri. La mia prigionia in Italia, (Il mondo 3 edizioni, Roma 1997), saltando dal treno, diretto a Roma, scrive:

.« Il convoglio si era fermato nel campo di calcio che era stato scavato sul versante della collina; il gruppo che era arrivato da Chieti nei giorni precedenti era assembrato in un angolo guardato a vista dalle sentinelle. I nuovi arrivati a Sulmona scaricarono i bagagli, si trascinarono lungo il pendio e si raggrupparono in ordine sparso mentre i tedeschi cercavano di contarli. Una guardia urlò a squarciagola puntando il mitra per tenere separati i gruppi. Quando la confusione cominciò a placarsi, alcuni del vecchio contingente si avvicinarono e diedero il benvenuto ai nuovi arrivati di là dallo spazio di transito. “Che posto schifoso”. “E di male in peggio: in Germania” […] L’area degli alloggi sembrava un alveare diviso in tante sezioni da muri che ora erano crollati in più punti. Il settore più in alto era ciò che era rimasto di quello che doveva essere il reparto ufficiali; questi alloggi sembravano comunque molto più comodi di quelli di Chieti, avevano piccole camere, letti singoli e mobili resistenti. […] Cibo o non cibo, l’idea della fuga era presente alla mente di molti e stava prendendo la forma di una vera e propria mania. »

* Jack Goody, antropologo di fama mondiale, docente a Cambridge, fuggiasco sulle montagne della Valle del Sagittario, dopo essere saltato dal treno che lo portava in Germania. In una conferenza all’università di Teramo ha detto: « Non ho passato molto tempo in Abruzzo, ma il tempo che vi ho passato è stato molto intenso e mi ha segnato per sempre.» Nel maggio 1998 è tornato in Abruzzo, a visitare il Campo di concentramento n. 78 di Fonte d’Amore, a Sulmona. Da uomo libero, dopo più di mezzo secolo, Goody si è avvicinato alla baracca che l’aveva visto prigioniero ed è rimasto solo, pensoso, profondamente emozionato.

 

Uys Krige, è uno dei più grandi scrittori sudafricani, autore di  poesie, racconti, opere teatrali. Amico di Ignazio Silone, che parla di lui nella prefazione al dramma “L’avventura di un povero cristiano”,  scrive un’opera dal titolo “The way out”, tradotta in italiano con il titolo “Libertà sulla Maiella”(ed. Vallecchi, Firenze 1965),  nella quale narra dettagliatamente la sua prigionia al Campo ’78 e la sua fuga, accolto dai contadini di Villa Giovina a Bagnaturo, dai pastori alla “casa delle vacche”, e in seguito a Campo di Giove, a Palena, a Gamberale fino al Molise, dove si ricongiungerà con gli alleati. Nel Campo di prigionia di Fonte d’Amore, il 15 gennaio 1942,  Krige scrive una poesia dal titolo “Midwinter”, “Pieno inverno”.

            

 

John Verney, col suo libro  Un pranzo di erbe, a cura dell’Associazione culturale “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail”, (Qualevita, Torre dei Nolfi 2014), ha scritto una lettera d’amore per i contadini che li avevano sfamati, aiutati, amati.

«Quasi tutto quello che è stato importante per la mia vita lo devo alla guerra. Stavo per aggiungere: all’Abruzzo.» (Almost everything in my life that has really mattered goes back somehow to the war. I was about to ad: Goes back to the Abruzzi).  Non ha confessato solo i suoi sentimenti, ma ha dimostrato che amare significa conoscere la storia, rivivere l’ambiente, condividere fatiche e speranze. Ha espresso profonda gratitudine per aver imparato, in quei mesi di fame e di rischi, tra grotte di montagna e nascondigli nelle case, che vivere e aiutare gli altri a vivere è l’unico scopo che valga la pena di raggiungere. Una testimonianza straordinaria, quella di Verney. Forse la più coinvolgente e la più bella delle opere scritte dagli ex-prigionieri di guerra in Abruzzo. Artistica nella forma e profonda di contenuto. Solo un innamorato poteva esprimere parole indimenticabili. Verney era ed è rimasto un artista, anche dopo la tragedia della guerra. Quando, più volte, è tornato in Abruzzo, vi è tornato con la voglia di conservare e ravvivare quello spirito di innocenza o, come la chiama, nostalgie de la boue (nostalgia della genuinità), che l’affascinava63. «Sono venuto per riprendermi qualcosa. L’interesse per la vita, si potrebbe dire, o il gusto per le cose essenziali, come pane.

«Succede, spesso, che da giovane  leggi un libro che ti colpisce e influenza la vita. Poi nella mezza età cerchi di rileggerlo… Sono venuto qui per rivivere un’esperienza, ricordare l’importanza della gentilezza disinteressata, apprendere di nuovo una lezione che ho imparato in Italia durante la guerra...». «Questa valle... Non sapevo niente di essa, né della gente, con la quale ero stato a contatto solo per un breve periodo e in momenti fuori dalle normali circostanze. Non sapevo parlare bene la lingua. Eppure stavo pensando di scrivere un libro proprio su questa gente. Un tardivo tributo che significava riconoscerne l’importanza. Ma cosa dire? Che era stato il caso a condurmi nella valle la prima volta? O che perfino questa mia nuova presenza con Matthew potesse far parte di un modello di vita misterioso, anche se rassicurante? Modello che sarebbe svanito, se avessi tentato di definirlo chiaramente».

Un pranzo di erbe è il titolo del libro, desunto da un versetto biblico dei Proverbi (15.17):

“Un piatto di erbe con amore è meglio di un bue grasso con odio”, che l’autore pone come epigrafe del libro. La dedica: To Sinibaldo Amatangelo, Antonio Crugnale and their kind (A Sinibaldo Amatangelo, Antonio Crugnale e ai loro familiari). John Verney, autore di un precedente volume di memorie di guerra dal titolo: Going to the Wars, e di opere per ragazzi, ricorre in questo libro al tipico humour anglosassone. Verney scrive A Dinner of Herbs non come prosecuzione del primo, ma come testimonianza della sua esperienza di prigioniero fuggiasco. La narrazione procede secondo la tecnica del flashback. All’inizio, John Verney si trova al campo di prigionia di Chieti. Poi, insieme ad altri, viene trasferito al Campo di Fonte d’Amore, a Sulmona,

Al campo di Chieti, un capitano chiamato Croce, è odiatissimo dai prigionieri per la sua crudeltà. Ma c’è anche un professore di italiano che gli insegna la lingua e gli rivela che “il vero Abruzzo è in quelle montagne tra Gran Sasso e Maiella”, istruendolo sulla storia della regione, terra di stregoni, di maghi e di santi, rimasta inalterata per duemila anni.

«Gli Abruzzesi divennero famosi orafi, vasai, scalpellini e produttori di dolciumi. Ciononostante, gran parte della regione rimase per lungo tempo covo inaccessibile di lupi, orsi e montanari. Oggi i discendenti di lupi e orsi sono raccolti nel Parco Nazionale, tra Sulmona e Pescasseroli. Mentre i discendenti dei montanari si mescolarono con i discendenti degli invasori longobardi, franchi, svevi, spagnoli ed austriaci. Persistette tuttavia, e nessuno aveva più motivo di me per esserne grato, il loro atteggiamento ostile alle crudeltà commesse da stranieri. Il prodotto più bello dell’Abruzzo erano quei contadini forti, coraggiosi, indipendenti, industriosi e solitamente poveri. Vita dura, capace di sfociare nella poesia, nelle canzoni e nei fantasiosi costumi, che forse rappresentavano il folklore più ricco d’Italia. Emigrati a migliaia nelle Americhe, per forza di cose, ma quasi tutti tornati a casa per morire, non molto più ricchi di quando erano partiti. Il professore mi trasmise un amore per l’Abruzzo che presto l’esperienza avrebbe aumentato. E, come racconterò, da allora vi sono tornato occasionalmente, per motivi sentimentali, ma anche perché la regione mi attrae come uno dei pochi luoghi della penisola che non sono stati massacrati dall’incompetenza culturale».

Tornato a Sulmona, dopo la guerra, l’autore descrive la città con riferimenti precisi alla sua storia, a Ovidio, a Pietro da Morrone. Ricorda poi la sua fuga durante il trasferimento in Germania, saltando dal treno con altri due compagni, Amos e Mark. Fuggono verso le campagne tra Sulmona e Cocullo.

Alle falde del monte Genzana, incontrano dei giovanotti “armati fino ai denti”, che fanno incontrare i tre fuggitivi con altri quattro prigionieri in fuga, provenienti dall’Aquila, amorevolmente assistiti dalla popolazione. I giovanotti si vantano di aver fatto razzie a Introdacqua e di aver picchiato un carabiniere fascista. Il capo della banda è un tipo infido, spaccone e maligno. Lo chiamano “il maiale”. Gli inglesi stanno di malavoglia con loro.

Verney va a Introdacqua per ascoltare le notizie dalla radio. Ritrova il professore di Chieti, in casa del parroco. Un anziano di Introdacqua, Paolo si prende cura di loro, affidandoli prima a Gabriele e alla sua giovane moglie, e poi accompagnati dal giovane Dionino ad Antonio (Crugnale).

Le riflessioni di Verney esprimono ammirazione per l’aiuto dato dai poveri alla gente più povera. «Amos una volta disse, scherzando, che sperava ci considerassero un investimento. Sono quasi certo che per loro non era così. Persone profondamente semplici, sull’orlo della fame, che non sapevano quali erano i motivi della guerra. Un disastro, del quale non si sentivano responsabili. Colpa del governo. Noi eravamo tre stranieri portati dalla guerra. E ancora più poveri di loro. Indigenti. Per questo ci avevano aiutato. Solo per questo. Il pensiero di essere ripagati non passò loro neanche per la testa. C’era poca certezza che la guerra sarebbe finita e nessuna probabilità che avremmo potuto ripagarli. Naturalmente furono tutti abbastanza felici del denaro che ricevettero alla fine. Io mandai tutto ciò che potei. Così fece Mark, credo. E dal momento che si trovava in Italia riuscì a spillare dal governo il più possibile. Quando la volta scorsa venni a trovarli, mi dissero che erano stati trattati generosamente. Stavano un po’ meglio economicamente, o quella fu la mia impressione. Ciò che fecero per noi non si può assolutamente misurare in denaro... La situazione divenne impossibile nella valle. Quando ce ne andammo per vivere nella caverna, credevamo di restarci per una settimana. In realtà i tedeschi mantennero salde le posizioni con il famoso Winterstallung e la linea rimase bloccata per parecchi mesi. Fummo costretti a restare nella caverna.

Sam ed Antonio salivano ogni tre o quattro giorni con il cibo. Su e giù. Sei o sette ore da aggiungere al loro lavoro nei campi, a tutte le loro preoccupazioni. Nelle ultime tre settimane lo fecero sotto la neve. Una volta Sam portò una forma di scarpa di ferro da calzolaio sulle spalle per riparare i miei stivali. Due contadini semplici. Non sapevano niente della nostra esistenza fino a qualche settimana prima. Appartenevamo ad una nazione diversa, all’esercito invasore. Capirai meglio domani quando saliremo su quella montagna, se ci riusciremo. Non sono sicuro di farcela. Questa è la scoperta che sto facendo adesso, perché ho più o meno la stessa età che avevano loro allora». Nel frattempo c’è lo sfollamento di Pettorano e molte famiglie si rifugiano nelle grotte. Gli inglesi sono costretti a scendere e tornano da Sam, con l’intenzione di procurarsi gli scarponi e fuggire attraverso le montagne. Cambiano spesso rifugio.

Intanto Sam riesce a procurare solo due paia di scarponi. Li prendono Amos e John, mentre Mark preferisce restare. Attraversando le montagne fino ad Alfedena e oltre, Amos cadrà falciato da una mina e il suo corpo non sarà più ritrovato, mentre John riuscirà a raggiungere le linee alleate.

 

Stann Skinner, Sulmona and after  (Sulmona e dopo)

Stan Skinner nasce a Londra nel 1920, da famiglia medio borghese. Studia, con discreti risultati, alla Grammar School di Wallington, una delle migliori della Gran Bretagna. Ma la sua passione dominante è lo sport – soprattutto il cricket e il calcio – nel quale promette una brillante carriera. A soli 17 anni, assunto da una banca, lascia la scuola. La sua sarebbe stata una tranquilla vita dedita più allo sport che al lavoro, infatti le banche inglesi di prestigio, come la sua, avevano una loro squadra che attraverso i successi sportivi pubblicizzava la banca stessa. Ma a vent’anni, la guerra irrompe nella sua vita, come in quella di milioni di suoi coetanei, sconvolge ogni progetto, e gli fa conoscere infinite sofferenze. Dalla guerra guerreggiata al campo di concentramento di Sulmona, al terrificante bombardamento alla stazione de L’Aquila, dove viene gravemente ferito, ad una lunga degenza ospedaliera e ai suoi terribili postumi.

Il libro “Sulmona and after” (Sulmona e dopo), a cura di Ezio Pelino, trad. di Giovanni Lapenna, edizione digitale: www.corrierepeligno.it ) di Stan Skinner è la narrazione di una serie interminabile di terribili avventure dopo l’8 settembre e la fuga dal campo 78 di Sulmona. Una vera odissea. A cominciare dalla disperata ricerca, senza alcuna conoscenza dei luoghi, di un rifugio sul monte Morrone. Corrono sempre più in alto, mentre dalle pendici del monte giunge il rabbioso crepitare delle mitraglie tedesche. Valicano la montagna e scendono a valle.

Arrivano a quello che appare un paradiso. Non c’era la guerra, non c’erano i tedeschi. Era un paese sperduto, fuori del mondo. Roccacaramanico. Incontrano un anziano contadino che parla inglese con accento americano. Un ex emigrante. Vengono ospitati. Il paese, un Rio Bo, solo sette famiglie, una chiesa troppo grande e un frate francescano.

Skinner si incuriosisce per la gerarchia sociale di quel microcosmo. Le donne vestono di nero. Sono trattate come cittadini di seconda classe. Gli uomini mangiano per primi, “quello che veniva lasciato” è per le mogli e i bambini. Il venerdì, ogni famiglia va al mercato, a Caramanico, a dieci chilometri, a vendere i prodotti della terra. Il marito sull’asino, la moglie a fianco con una grossa cesta sulla testa. Scrive Skinner: “Benché gli abitanti fossero tanto poveri, erano la gentilezza personificata, ci accolsero molto bene nelle loro case e ci nutrirono altrettanto bene… vivemmo davvero in un mondo di sogno per tre settimane”.

Ricorda con piacere la polenta, condita con sugo di pomodoro, scodellata sul tavolo di legno su cui si mangiava tutti insieme. “Vivevamo – scrive – in un folle paradiso, ogni giorno ci aggiravamo per la valle ad esplorarla”. Capita, in quella terra di nessuno, di ritrovare qualche compagno del campo 78, che prosegue il cammino verso il sud, al di là della Majella, incontro agli Alleati, che per tutti stanno per arrivare, mentre rimangono bloccati sul Sangro. Una mattina, il silenzio di quell’isola di pace viene rotto dal rumore di un mezzo semicingolato. I tedeschi stanno venendo da Caramanico. Skinner e i compagni, riforniti di viveri dagli abitanti, raccolgono le loro poche cose e risalgono il Morrone, per riparare in una grotta. Ma gli abitanti non li abbandonano!

Alle prime luci dell’alba, quando i tedeschi non sono ancora in giro per la valle, le donne risalgono la montagna e portano pane, formaggio e altre vivande. Un giorno incontrano lo scrittore sudafricano, Uys Krige,  loro compagno di prigionia, che a sua volta scriverà un libro in proposito, pubblicato in Italia dalla Vallecchi, “The way out”, tradotto in “Libertà sulla Majella”. Vestito da pastore, si era unito ai pastori che trasmigravano per le Puglie, e così raggiungerà gli Alleati. La neve li costringe a scendere più in basso. Riparano a Pacentro, ancora in una grotta. Ma un Giuda non manca mai. Un ignoto paesano li vende ai tedeschi, non per trenta denari, ma per 1800 lire a prigioniero. Scortati, marciano per le strade del paese, suscitando la commozione, fino alle lacrime delle gentili donne di Pacentro. Dal campo di Sulmona vengono portati a quello de L’Aquila.

Ma, alla stazione del capoluogo si scatena l’inferno. Un bombardamento feroce semina morte e distruzione. Il Nostro è ferito gravemente, ma riesce con un carro di passaggio a raggiungere l’ospedale civile. Vi lavora un medico di grande valore, che diventerà un Maestro della chirurgia, Paride Stefanini. Lo opera e lo protegge dai tedeschi. La degenza è lunga, ma anche nell’ospedale molti italiani fanno visita ai feriti inglesi cercando di soddisfare le loro esigenze. I ricoverati inglesi devono, però, guardarsi dai fascisti in divisa – delatori dei tedeschi – che abitualmente ispezionavano l’ospedale. Le peripezie continuano fino all’arrivo delle truppe liberatrici.

Il libro di Skinner sembra un racconto di avventure mentre è storia vissuta, di stragi, di sofferenze, di infermità dovute ai bombardamenti e, finalmente, di liberazione e di ritorno alla vita e al lavoro. Skinner non ha dimenticato Sulmona, questa gente allora generosa. È tornato per i 40 anni dalla fine della guerra e tante volte ancora, con Joe Drew, l’organizzatore dei nostalgici raduni. Lui stesso fu l’organizzatore di uno di essi. Scrive: “Abbiamo fatto amicizia e mantenuto questa amicizia con le autorità locali e con coloro che hanno aiutato i prigionieri. Essi sono venuti a Londra e noi siamo ritornati a Sulmona quattro volte”.

Ricorda, per la splendida accoglienza, il sindaco, l’esercito e il capo della polizia municipale Gianni Febbo. Una lapide, nel cortile del Comune, rammenta questo rapporto di autentica amicizia fra italiani e inglesi. È “lo spirito di Sulmona”, come è stato definito dagli stessi inglesi. Nell’ultima sua visita, Skinner con i compagni torna a Roccacaramanico. Tanta era la nostalgia per quell’isola di autentica umanità. Trovano, con meraviglia, una strada – prima non c’era – che collega Pacentro al paesello. Il villaggio è abbandonato, le strade lastricate sono piene di erbacce, le case in rovina, la chiesa con il tetto sfondato. Li sorprende l’invito di una vecchia contadina. Li fa accomodare a casa sua per offrire loro un caffè. È l’unica abitante. Sono tutti emigrati per il Canada e l’Australia. È vedova, non ha figli, non ha avuto questa benedizione, dice. La donna offre del vino dall’ultima bottiglia. Racconta che va a fare la spesa una volta alla settimana a piedi a Sant’Eufemia. Che i carabinieri insistono perché vada per l’inverno a Sant’Eufemia, ma lei rifiuta. È nata a Roccacaramanico, ha vissuto tutta la sua vita là e là vuole morire. La casa della vecchia contadina era la stessa dei tempi della guerra. Nulla era cambiato. C’erano ancora il camino con il gancio per appendere la pentola, il forno per cuocere il pane e gli animali che razzolavano al pianoterra.

 

 

Bibliografia

-AA. VV. (a cura di Rosalba Borri, Maria Luisa Fabiilli, Mario Setta), Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, E si divisero il pane che non c’era, nuova edizione a cura dell’Ass. Cult.“Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail”, Qualevita, Torre dei Nolfi 2009:

 “Bellissimo libro che hanno scritto gli alunni e gli insegnanti di una scuola di Sulmona e che  io conservo gelosamente” (CARLO AZEGLIO CIAMPI, Presidente della Repubblica Italiana)

“Fascinating – and  moving – reading” (T.L. RICHARDSON, Ambasciatore Britannico in Italia)

-Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, Il sentiero della libertà. Un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi, Laterza, Roma-Bari 2003:

“Un libro originale con intelligente impostazione, in linea con lo spirito d’uno storico come F. Braudel. Il vero protagonista al centro delle pagine è uno solo: il desiderio di libertà.” (GABRIELE DE ROSA)

“Una iniziativa nata nella scuola, un libro abilmente montato. Il protagonista del libro, Carlo Azeglio Ciampi, sente profondamente la responsabilità di non cedere, unificando i concetti di patria e di libertà, con schiettezza e realismo.” (CLAUDIO PAVONE)

 

-Roger Absalom,  A Strange Alliance, tradotto in italiano col titolo L’alleanza inattesa: Mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia (1943-1945), a cura di “Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation”, ed. Pendragon, Bologna 2011.

-John Esmond Fox, Spaghetti e filo spinato, Qualevita, Torre dei Nolfi  2002

-Donald Jones,, Fuga da Sulmona, Qualevita, Torre dei Nolfi 2002

-William Simpson, La guerra in casa 1943-1944. La Resistenza Umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano,  presentazione di  Roger Absalom, Qualevita, Torre dei Nolfi 2004

-Salzano, Mario Giulio, Il campo di concentramento per prigionieri di guerra di Fonte d'Amore e la formazione della Legione cecoslovacca (1916-1918)". in: "Storia e problemi contemporanei", n° 71/2016, Milano, Angeli editore, pp. 139-160.

-Sam Derry, Linea di fuga, Sulmona-Roma-Città del Vaticano, Qualevita, Torre dei Nolfi 2011

-John Verney, Un pranzo di erbe, Qualevita, Torre dei Nolfi 2014

-John Leeming, Sempre domani, Qualevita, Torre dei Nolfi 2018

-Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta (a cura di),  Terra di Libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale, edizioni Tracce-Fondazione Pescarabruzzo 2014

 

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