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30 marzo 2025

IL CANTO POPOLARE ABRUZZESE NELLE TRADIZIONI DI IERI E DI OGGI – Parte IV – I Canti di Orsogna.


Il Gruppo folkloristico di Orsogna in sfilata a Firenze nel 1930

IL CANTO POPOLARE ABRUZZESE NELLE TRADIZIONI DI IERI E DI OGGI – Parte IV – I Canti di Orsogna

di Angelo Iocco

La cittadina di Orsogna è da considerarsi tra i paesi abruzzesi, dove la vocalità e la tradizione della canzone abruzzese si conserva con freschezza e rispetto della tradizione. Centro devoto a Maria, per la presenza della tradizionale Sagra dei Talami, che affonda le radici a quei riti propiziatori popolari, e alle rappresentazioni Sacre bibliche del XVI secolo introdotte dai Padri Paolotti nella distrutta chiesa della Madonna del Rifugio, Orsogna sin dai primi saggi studiosi del canto e delle tradizioni abruzzesi, apparsi nel secondo Ottocento, è stata al centro dell’attenzione, risaltando per i suoi abiti tradizionali variopinti, per i magnifici gioielli, per le “sciacquajje d’ore” (gli orecchini pendenti), e specialmente per il canto.

Orsogna, la Fonte con il faccione disegnato da Taddeo Salvini, prima della guerra. Donne in abito tipico.


Non oscure sono anche le testimonianze registrate, ad esempio dall’Istituto Luce, quando negli anni ’20 il Cav. Vincenzo Melocchi di Pizzoferrato andava con la Teatina film andava riprendendo ciò che di meglio si conservava in Abruzzo[1]. Tra questi, Orosgna appare in una rappresentazione del matrimonio abruzzese, con la sfilata di un corteo dalla Torre Di Bene, e con un successivo ballo della saltarella. In un alto filmato sonoro si esegue il canto popolare Mo ve’…mo va’…, in un altro ancora dal titolo Vespro abruzzese, appare il Convento dell’Annunziata di Orsogna, meta di pellegrinaggi il giorno dell’Annunciazione a Maria e il Lunedì in albis, in un altro ancora, muto, la Sagra dei Talami. I canti della tradizione orsognese che avremo modo di vedere, attingono a fonti comuni, e sono oggi abbastanza noti in tutto Abruzzo. Ma è il timbro vocale, e la tonalità tipica ascendente delle popolazioni affacciata sull’Adriatico che rendono queste esecuzioni uniche. Essi sono il citato Mo ve…mo va…, La jerve a lu cannete, Maria Nicola, Ti li so’ ditte, Tutte le funtanelle, e infine il cosiddetto inno orsognese: Aria marine, aria di muntagne (Bbone Ursogne).

Questi canti costituiscono il repertorio della Corale “La figlia di Jorio” di Orsogna, la prima corale folkloristica abruzzese a essere ufficialmente nata all’alba delle Maggiolate abruzzesi di Ortona. La sua storia è stata tracciata da Plinio Silverii (1926-2002) nel suo volumetto Orsogna in costume, tip. Brandolini 1981. Il Coro nasce nel ’20, precedentemente si pensava fosse nato nel 1929 insieme alla Corale di Poggiofiorito, tanto che ci fu anche un’importante manifestazione al teatro comunale nel 1979 per festeggiare i 50 anni. Pare che la prima esibizione fu in una festa paesana di S. Antonio di Padova a contrada La Roma di Casoli, poi immediatamente la Corale prese il volo per le manifestazioni, alla Settimana abruzzese di Pescara del 1923, a Firenze nel 1930, nello stesso anno a Roma al Quirinale insieme a un Talamo realizzato per le nozze del Principe Umberto II, a Napoli in piazza Plebiscito, al Museo Belliniano di Catania, alla Rassegna dei Cori di Roma a piazza Siena nel 1938 per la visita di Hitler, al Vittoriale di Gardone Riviera nel 1950. Nella commemorazione del 1979 vi tenne al teatro un convegno con i proff. Ernesto Giammarco, Benito Lanci, Giuseppino Mincione, Franco Potenza, Padre Donato (Giuseppe) Di Pasquale OFM, successivamente si rappresenta una commedia di Plinio Silverii, e infine il canto orsognese Bbone Ursogne.

Lu Canarie, commedia abruzzese di Luigi Morgione, 1983.

27 marzo 2025

Storie di brigantaggio, Furci, 1864.

Storie di brigantaggio, Furci, 1864

Questa storia accaduta nel 1864 merita di essere raccontata …
Un articolo apparso su “L’Italiano - Gazzetta del Popolo”, del 18 settembre del 1864, ci introduce alla storia: “Dagli Abruzzi riceviamo sempre cattive notizie sulle condizioni del brigantaggio. … ora sentiamo che nelle terre di Furci va formandosi una comitiva piuttosto numerosa, la quale ha già dato segni non dubbii della sua natura feroce. Questa comitiva non sembra aver nelle sue file che una quindicina di malfattori i quali sono mal vestiti e pessimamente armati. Il loro capo non si conosce; ma sembra essere un ex-gendarme borbonico. Nella prima settimana del corrente mese quella bordaglia recavasi alla cascina di un tal Pasquale Di Santo. Costui viveva insieme alla nuora e non s’aspettava in quel momento una visita tanto poco gradita. La nuora chiamavasi Filomena Galese (in realtà Filomena Angela Gallese), donna di buoni costumi e educata alle nuove idee. Forse questa sarà stata la cagione che i briganti assassinarono quei due malcapitati facendone uno scempio che non vogliamo narrare, perché stanchi di registrar tali avvenimenti “. Cosa era realmente accaduto? Arriviamo alla ore 23 del 30 agosto del 1864. La casa di Pasquale Di Santo viene accerchiata dai “briganti”. Perché? Due furono le tesi: la prima, accreditata dalla forze dell’ordine, fu quella che volessero solo rapinarli (ma è davvero difficile crederlo vista la situazione economica di estrema umiltà della famiglia); la seconda, da testimonianze di “briganti” arrestati, “per spionaggio in favore della forza pubblica” o come altri dissero “perché spie piemontiste”(Le generose taglie, la speranza di veder emendate le proprie colpe o anche il semplice desiderio di vendetta alimentarono le moltissime delazioni). Sta di fatto che la resistenza di Pasquale Di Santo non ebbe successo. I “briganti” riuscirono, ben presto, ad entrare nell’abitazione. Pasquale venne subito finito a colpi di fucile. La giovane nuora venne prima brutalmente violentata e poi uccisa. Secondo alcuni riscontri delle forze dell’ordine “con successivo taglio delle orecchie per entrambi”. Come in molte vicende dell’epoca solo nomi e pochissimo altro. Oggi noi aggiungiamo qualche dato sulle due vittime: 1) Pasquale Di Santo (all’epoca sessantaduenne “contadino” era figlio di Luigi e Caterina e vedovo di Celeste Argentieri); 2) Filomena Angela Gallese (ventiduenne “contadina” era figlia di Angelo e Rosa Argentieri – aveva spostato Antonio Di Sante, di due anni più grande di lei, il 19 gennaio del 1861 – il 27 dicembre del 1862 nacque dal matrimonio una bimba a cui fu dato il nome di Celeste – quando Filomena Angela fu assassinata era probabilmente incinta).
Gli atti di morte furono ratificati dall'allora Sindaco di Furci Scipione Ciancaglini con la scritta "ucciso/uccisa dai briganti".
Va ricordato che inaudite violenze vennero perpetrate da tutte le parti in campo.
Scipione Ciancaglini, 1850, coll. Francesco Amorosi

26 marzo 2025

Fiabe abruzzesi e molisane, da Le Fiabe italiane raccolte e trascritte di Italo Calvino.



107. L'amore delle tre melagrane (Abruzzo) Un figlio di Re mangiava a tavola. Tagliando la ricotta, si ferì un dito e una goccia di sangue andò sulla ricotta. Disse a sua madre: - Mammà, vorrei una donna bianca come il latte e rossa come il sangue. - Eh, figlio mio, chi è bianca non è rossa, e chi è rossa non è bianca. Ma cerca pure se la trovi. Il figlio si mise in cammino. Cammina cammina, incontrò una donna: - Giovanotto, dove vai? - Eh sì, lo dirò proprio a te che sei donna! Cammina cammina, incontrò un vecchierello. - Giovanotto, dove vai? - A te sì che lo dirò, zi' vecchio, che ne saprai certo più di me. Cerco una donna bianca come il latte e rossa come il sangue. E il vecchierello: - Figlio mio, chi è bianca non è rossa e chi è rossa non è bianca. Però, tieni queste tre melagrane. Aprile e vedi cosa ne vien fuori. Ma fallo solo vicino alla fontana. Il giovane aperse una melagrana e saltò fuori una bellissima ragazza bianca come il latte e rossa come il sangue, che subito gridò: Giovanottino dalle labbra d'oro / Dammi da bere, se no io mi moro. Il figlio del Re prese l'acqua nel cavo della mano e gliela porse, ma non fece in tempo. La bella morì. Aperse un'altra melagrana e saltò fuori un'altra bella ragazza dicendo: Giovanottino dalle labbra d'oro / Dammi da bere, se no io mi moro. Le portò l'acqua ma era già morta. Aperse la terza melagrana e saltò fuori una ragazza più bella ancora delle altre due. Il giovane le gettò l'acqua in viso, e lei visse. Era ignuda come l'aveva fatta sua madre e il giovane le mise addosso il suo cappotto e le disse: - Arrampicati su questo albero, che io vado a prendere delle vesti per coprirti e la carrozza per portarti a Palazzo. La ragazza restò sull'albero, vicino alla fontana. A quella fontana, ogni giorno, andava a prender l'acqua la Brutta Saracina. Prendendo l'acqua con la conca, vide riflesso nell'acqua il viso della ragazza sull'albero. E dovrò io, che sono tanto bella, / Andar per acqua con la concherella? E senza starci a pensar su, gettò la conca per terra e la mandò in cocci. Tornò a casa, e la padrona: - Brutta Saracina! Come ti permetti di tornare a casa senz'acqua e senza brocca! - Lei prese un'altra brocca e tornò alla fontana. Alla fontana rivide quell'immagine nell'acqua. "Ah! sono proprio bella!", si disse. E dovrò io, che sono tanto bella, / Andar per acqua con la concherella? E ributtò per terra la brocca. La padrona tornò a sgridarla, lei tornò alla fontana, ruppe ancora un'altra brocca, e la ragazza sull'albero che fin allora era stata a guardare, non poté più trattenere una risata. La Brutta Saracina alzò gli occhi e la vide. - Ah, voi siete? E m'avete fatto rompere tre brocche? Però siete bella davvero! Aspettate, che vi voglio pettinare. La ragazza non voleva scendere dall'albero, ma la Brutta Saracina insistette: - Lasciatevi pettinare che sarete ancor più bella. La fece scendere, le sciolse i capelli, vide che aveva in capo uno spillone. Prese lo spillone e glielo ficcò in un'orecchia. Alla ragazza cadde una goccia di sangue, e poi morì. Ma la goccia di sangue, appena toccata terra, si trasformò in una palombella, e la palombella volò via. La Brutta Saracina s'andò ad appollaiare sull'albero. Tornò il figlio del Re con la carrozza, e come la vide, disse: - Eri bianca come il latte e rossa come il sangue; come mai sei diventata così nera? E la Brutta Saracina rispose: È venuto fuori il sole, / M'ha cambiata di colore. E il figlio del Re: - Ma come mai hai cambiato voce? E lei: È venuto fuori il vento, / M'ha cambiato parlamento. E il figlio del Re: - Ma eri così bella e ora sei così brutta! E lei: È venuta anche la brezza, / M'ha cambiato la bellezza. Basta, lui la prese in carrozza e la portò a casa. Da quando la Brutta Saracina s'installò a Palazzo, come sposa del figlio del Re, la palombella tutte le mattine si posava sulla finestra della cucina e chiedeva al cuoco: O cuoco, cuoco della mala cucina, / Che fa il Re con la Brutta Saracina? - Mangia, beve e dorme, - diceva il cuoco. E la palombella: Zuppettella a me, / Penne d'oro a te. Il cuoco le diede un piatto di zuppetta e la palombella si diede una scrollatina e le cadevano penne d'oro. Poi volava via. La mattina dopo tornava: O cuoco, cuoco della mala cucina, / Che fa il Re con la Brutta Saracina? - Mangia, beve e dorme, - rispondeva il cuoco. Zuppettella a me, / Penne d'oro a te. Lei si mangiava la zuppettella e il cuoco si prendeva le penne d'oro. Dopo un po' di tempo, il cuoco pensò di andare dal figlio del Re a dirgli tutto. Il figlio del Re stette a sentire e disse: - Domani che tornerà la palombella, acchiappala e portamela, che la voglio tenere con me. La Brutta Saracina, che di nascosto aveva sentito tutto, pensò che quella palombella non prometteva nulla di buono; e quando l'indomani tornò a posarsi sulla finestra della cucina, la Brutta Saracina fece più svelta del cuoco, la trafisse con uno spiedo e l'ammazzò. La palombella morì. Ma una goccia di sangue cadde nel giardino, e in quel punto nacque subito un albero di melograno. Quest'albero aveva la virtù che chi stava per morire, mangiava una delle sue melagrane e guariva. E c'era sempre una gran fila di gente che andava a chiedere alla Brutta Saracina la carità di una melagrana. Alla fine sull'albero ci rimase una sola melagrana, la più grossa di tutte, e la Brutta Saracina disse: - Questa me la voglio tenere per me. Venne una vecchia e le chiese: - Mi date quella melagrana? Ho mio marito che sta per morire. - Me ne resta solo una, e la voglio tenere per bellezza, - disse la Brutta Saracina, ma intervenne il figlio del Re a dire: - Poverina, suo marito muore, gliela dovete dare. E così la vecchia tornò a casa con la melagrana. Tornò a casa e trovò che suo marito era già morto. "Vuol dire che la melagrana la terrò per bellezza", si disse. Tutte le mattine, la vecchia andava alla Messa. E mentr'era alla Messa, dalla melagrana usciva la ragazza. Accendeva il fuoco, scopava la casa, faceva da cucina e preparava la tavola; e poi tornava dentro la melagrana. E la vecchia rincasando trovava tutto preparato e non capiva. Una mattina andò a confessarsi e raccontò tutto al confessore. Lui le disse: - Sapete cosa dovete fare? Domani fate finta d'andare alla Messa e invece nascondetevi in casa. Così vedrete chi è che vi fa da cucina. La vecchia, la mattina dopo, fece finta di chiudere la casa, e invece si nascose dietro la porta. La ragazza uscì dalla melagrana, e cominciò a far le pulizie e da cucina. La vecchia rincasò e la ragazza non fece a tempo e rientrare nella melagrana. - Da dove vieni? - le chiese la vecchia. E lei: - Sii benedetta, nonnina, non m'ammazzare, non m'ammazzare. - Non t'ammazzo, ma voglio sapere da dove vieni. - Io sto dentro alla melagrana... - e le raccontò la sua storia. La vecchia la vestì da contadina come era vestita anche lei (perché la ragazza era sempre nuda come mamma l'aveva fatta) e la domenica la portò con sé a Messa. Anche il figlio del Re era a Messa e la vide. "O Gesù! Quella mi pare la giovane che trovai alla fontana!", e il figlio del Re appostò la vecchia per strada. - Dimmi da dove è venuta quella giovane! - Non m'uccidere! - piagnucolò la vecchia. - Non aver paura. Voglio solo sapere da dove viene. - Viene dalla melagrana che voi mi deste. - Anche lei in una melagrana! - esclamò il figlio del Re, e chiese alla giovane: - Come mai eravate dentro una melagrana? - e lei gli raccontò tutto. Lui tornò a Palazzo insieme alla ragazza, e le fece raccontare di nuovo tutto davanti alla Brutta Saracina. - Hai sentito? - disse il figlio del Re alla Brutta Saracina, quando la ragazza ebbe finito il suo racconto. - Non voglio essere io a condannarti a morte. Condannati da te stessa. E la Brutta Saracina, visto che non c'era più scampo, disse: - Fammi fare una camicia di pece e bruciami in mezzo alla piazza. Così fu fatto. E il figlio del Re sposò la giovane.

Vasto: Costa Vastese, 1792.


 
Costa Vastese, 1792

Basilio Cascella, Donna con orecchini (sciacquajje).

Basilio Cascella (Pescara,1860 – Roma, 1950), Donna con orecchini.

Autobus Torricella Peligna - Casoli - Scalo.

Autobus Torricella Peligna - Casoli - Scalo. Inizio Novecento

25 marzo 2025

Lorenzo Trovato, Il Comento analitico alla Commedia di Gabriele Rossetti: tra allegoria e immedesimazione.


Il Comento analitico alla Commedia di Gabriele Rossetti:
tra allegoria e immedesimazione




Leonzio Compassino da Penne e i pittori Giovanni e Francesco Ragazzini in Abruzzo - Pittura manierista abruzzese.

Leonzio Compassino, Martirio di Santa Rufina, chiesa di San Giovanni Battista, Castelli 

Leonzio Compassino da Penne e i pittori Giovanni e Francesco Ragazzini in Abruzzo - Pittura manierista abruzzese.

di Angelo Iocco

Da uno studio di Marco Vaccaro dal titolo Oltre la ceramica: pittura a Castelli tra XVII e XVIII secolo, 2021, Castelli. Quaderno del Museo delle ceramiche - n. 10, ci siamo interessati di questi pittori poco conosciuti, attivi tra Marche e Abruzzo. Di Leonzio Compassino da Penne, vissuto tra la seconda metà del ‘500 e la prima del ‘600, attivo almeno fino al 1620, ebbe tra i primi recensori il prof. Francesco Verlengia, che in una delle schede per la Soprintendenza ai Beni Architettonici e Artistici d’Abruzzo per la provincia di Chieti, nel 1935, riportava con una cattiva lettura il nome di “Teonzio Compassino” come autore di un celebre e antico quadro nella chiesa parrocchiale dell’Immacolata Concezione a San Vito Chietino. La tela è firmata, attraverso dei restauri si è meglio compresa la lettera iniziale. Tale quadro faceva parte dell’antica chiesetta di San Vito martire, che affiancava il torrione circolare con la porta di accesso all’antico paese, provenendo dalla strada grande oggi corso Matteotti.

Essa dunque affacciava sulla piazza Garibaldi, incassata tra la fortificazione del castello e altre abitazioni, come è stato studiato nel lavoro di Vito Sbrocchi La Regia Chiesa parrocchiale di San Vito, Rivista abruzzese, 1997, e andò completamente demolita poco prima del 1850, nonostante dei progetti di ammodernamento e recupero, affinché fosse costruita la nuova chiesa oltre il perimetro murario. Il quadro del Compassino illustra al centro San Vito nelle vesti di martire, con i cani al guinzaglio, simbolo del martirio, tra San Modesto di Lucania e San Crescenzo, martirizzati tutti e tre sotto Diocleziano[1].

Filippo Sargiacomo, progetto di ampliamento della chiesa madre di San Vito Chietino, Archivio storico comunale di Lanciano, Fondo Sargiacomo.


La raffigurazione è scenografica, abbiamo sullo sfondo un edificio caratterizzato al centro da un monumentale arco in marmo a tutto sesto, e accanto rispettivamente a destra e sinistra, un ordine di colonne a capitello dorico. Il dipinto dimostra chiaramente di rimontare all’arte della Grande Maniera di Raffaello o del Veronese (il di cui nipote Luigi Benfatto in Abruzzo, dipinse per la chiesa di Santa Maria Maggiore di Vasto una tela raffigurante Sant’Agostino), tuttavia vi sono alcune stonature poiché la prospettica scenografia sembra quasi essere scavalcata dalla mole dei tre personaggi illustrati.

Leonzio Compassino, San Vito martire con San Modesto e San Crescenzo, Chiesa parrocchiale dell’Immacolata Concezione, San Vito Chietino.

Nostra ipotesi è che altri pittori legati al Compassino o alla scuola emiliana, potessero essere scesi nella ricca Lanciano, famosa per le Fiere e commerci, dei quali qualcuno venne chiamato a realizzare una tela di scarso valore stilistico, che raffigura Sant’Agostino tra Santa Rita e un Santo, oggi presso la cappella di Santa Croce, dove si conserva un frammento del Miracolo della Ricciarella.

24 marzo 2025

Basilio Cascella, Il Santuario di Casalbordino, 1896.

Basilio Cascella, Il Santuario di Casalbordino, 
1896, olio su tela, Museo Costantino Barbella, Chieti.


Basilio Cascella, (Pescara, 2 ottobre 1860 – Roma, 24 luglio 1950)

"Il Santuario di Casalbordino" (per Il Trionfo della Morte di Gabriele d'Annunzio), 1896
Olio su tela
Museo Costantino Barbella, Chieti.

Simonluca Perfetto, L'utopia della zecca del Vasto e la prospettiva monetaria dei Guevara nel panorama feudale 'vastese' (secc. XV-XVIII), Vasto, Vastophil, 2014.









Da: Academia.edu

La tragedia nera a Bois du Cazier, Marcinelle, Belgio - di 'Nduccio ed Elia Iezzi.

22 marzo 2025

Primo Levi, Abruzzo forte e gentile: impressioni d'occhio e di cuore, 1883.

copertina di F.P. Michetti, 1882 c.
***

“Abruzzo Forte e Gentile”

Chi inventò il famoso detto che identifica la nostra terra?

«V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, semplicità ed efficacia, una parola consacrata dalla intenzione degli onesti a designare molte cose buone, molte cose necessarie: è la parola Forza
Epperò, s’è detto e si dice il forte Abruzzo.
V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, comprensiva eleganza, una parola che vale a comprendere definendole, tutte le bellezze, tutte le nobiltà è la parola Gentilezza
Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, dico io: Abruzzo Forte e Gentile.» (1, Ave).

Questo è l’inizio di un racconto, o meglio ancora, una raccolta di appunti di viaggio messi insieme da un giornalista e diplomatico ferrarese il cui nome è Primo Levi.

Primo Levi
Primo Levi

Badate bene a non confonderlo con il chimico partigiano nato esattamente due anni dopo la morte del primo. Per essere ancora più precisi, noi stiamo parlando dell’intellettuale che nel 1883, reduce da un viaggio in Abruzzo, pubblicò un libretto dal titolo “Abruzzo forte e gentileimpressioni di occhio e di cuore”.

Il libro, non dato più alle ristampe, si compone di ventidue capitoli all’interno dei quali sono contenuti un indice delle persone incontrate durante il viaggio ed un altro delle località visitate o menzionate nel racconto. Una sorta di diario di viaggio la cui illustrazione in copertina è firmata da Francesco Paolo Michetti, pittore e fotografo abruzzese, nato a Tocco da Casauria (PE).

Primo Levi, autore di “Abruzzo forte e gentile, era figlio di una famiglia di commercianti di origine ebraica, e distintosi per la sua arguta penna e il suo grande ingegno, portò avanti l’attività di fervente giornalista.

Amico di Crispi, che gli garantì una gran carriera al Ministero degli Esteri da affiancare a quella giornalistica, si circondò di alcuni tra i maggiori intellettuali della sua epoca, tra cui molti abruzzesi come Gabriele d’Annunzio, Teofilo Patini e il già citato Francesco Paolo Michetti.

Copertina del libro di Primo Levi
“Abruzzo forte e gentile, impressioni di occhio e di cuore”

Il suo è un sapiente esempio di reportage destinato a presentare una chiara immagine della regione Abruzzo di ieri, un’immagine legata ad un motto che ancora oggi ci identifica.

La gentilezza, dunque, che si mischia alla forza, dove per forza si intende la resilienza, la capacità di resistere ai destini avversi. Alla base di questa forza c’è la tenacia, unita a qualcosa che sa muovere oltre le tacite forme di rassegnazione, ovvero il coraggio. È così che Primo Levi ci ha descritti ed è così che noi abruzzesi ci definiamo tutt’oggi. Conservare questa espressione nella nostra memoria non è un ritorno al passato o una forma di esasperato campanilismo, ma è uno dei più autentici modi che abbiamo per continuare a far vivere quanto di più onesto e vero resiste ancora nella nostra terra, nei nostri paesi, tra le nostre strade e in mezzo alla nostra gente, forte e gentile.

Francesca Liberatore

16 marzo 2025

Vasto. Nella chiesa dell’Addolorata tutto è storia: l’arte e il mistero della tomba del marchese.

Da: Chiaro quotidiano 

La Madonna Regina Coeli a Villa Celiera (PE).


LA MADONNA REGINA COELI A VILLA CELIERA (PE)
di Antonio Mezzanotte

SI DICE E SI RACCONTA che un tempo la Madonna abitava in una chiesarella al centro della Celiera, ma, non potendo più sopportare le bestemmie, le urla e gli strepiti dei paesani, decise di andarsene fuori dall’abitato, in contrada Pretara, sostando dapprima su una grossa pietra ma, siccome sentiva ancora il vociare degli abitanti del paese, poi si allontanò più in là, dov’era soltanto pace e silenzio. La pietà e la devozione dei celieroti, pentiti per la dipartenza della Madonna, infine, le costruirono una nuova dimora, che è la chiesa della Regina del Cielo ancora oggi esistente.
Ma non finisce qui. In omaggio alla Beata Vergine Maria fu realizzata una statua in terracotta talmente bella che alcuni abitanti di Castel del Monte, paese posto all’altro versante della montagna, decisero di impossessarsene e nottetempo la spedizione furtiva riuscì a trafugare la Madonna. Accadde, tuttavia, che, mentre i mariuoli se ne tornavano in paese salendo per i sentieri di montagna, la statua diventava sempre più pesante, sebbene, quando il sentiero svoltava in direzione della Celiera, la Madonna si alleggeriva. In prossimità della Cima delle Scalate non ce la fecero più, la statua divenne pesante come il piombo e decisero, così, di riportarla a valle. Appena rientrò in chiesa, la Madonna tornò del peso solito. I castellani, però, erano duri di comprendonio e di cuore, allora cercarono ancora di trafugare la bella statua della Madonna della Celiera, stavolta portandosi appresso un carro trainato da due buoi. Ancora una volta, però, non avevano fatto i conti con la volontà della Beata Vergine di restare in quella chiesa, che fu tosto circondata da un profondo lago, che impediva a chiunque di accedere o di uscire dall’edificio. Allora, essi si pentirono del gesto sacrilego e riposero la statua nella nicchia e, così com’era sorto, d’improvviso il lago sparì.
Questa storia mi venne raccontata dalla buon’anima di Don Vincenzo Diodati, che fu parroco di Villa Celiera agli inizi degli anni Duemila e che si prodigò per il recupero della chiesa insieme agli abitanti del luogo.
La chiesa della Madonna Regina Coeli, collocata in aperta campagna in contrada Pretara di Villa Celiera, è fatta risalire intorno all’800, ma se ne hanno notizie certe a partire dal 1500. Essa presenta facciata a capanna, in pietra e laterizio a vista, con due finestrelle basse a uso dei pellegrini ai lati del portale. In alto, al di sopra di una finestra a tutto sesto, sovrasta il timpano fornito di un semplice oculo. Il campanile a vela, oggi in corrispondenza della parete absidale, si ergeva in origine sul lato anteriore della chiesa. L’interno è a navata unica, preceduta da una cantoria sorretta da colonne, e le murature sono in laterizio a vista, con quattro campate scandite da arcate a tutto sesto.
In alto sull’altare campeggia la nicchia nella quale è riposta la statua in terracotta policroma della Madonna Regina del Cielo, seduta e orante, con il Bambino sdraiato in grembo. Si tratta di un manufatto di sobria eleganza, restaurato nel 2010, e proprio nel corso del restauro curato dalla dott.ssa Cornelia Dittmar è venuta in luce la firma dello scultore, “Troianus de Giptiis de Castro Montis”, con la data 1532. La scoperta è di rilevante interesse per conoscere meglio l’attività di un artista prolifico, scultore e pittore, vissuto nel XVI secolo (e, ricollegandoci al racconto iniziale, per sottolineare i legami storici tra la terra di Casanova e Castel del Monte).
La firma incisa va letta come una sorta di manifesto pubblicitario, giacché l’autore va a operare in territori ben lontani da quelli natii e, non a caso, ritroviamo il nome di Troiano de Giptiis anche sulla statua della Madonna della Neve a Pianella del 1531 e sul San Rocco di Santa Maria Arabona a Manoppello del 1530. Non ricordo in verità se anche la statua della Madonna nella chiesa di Santa Maria d’Aragona ad Arsita, pure del 1531, rechi il nome dello scultore ovvero se gli è soltanto attribuita.
Di certo, altre sculture e pitture sono a lui riconducibili, sia nei paesi del circondario vestino (per esempio un affresco nella parrocchiale di San Pietro a Loreto Aprutino), nel teramano (però lì era molto attiva la scuola di terracotte policrome presso la località Nocella di Campli, avviata, per quanto riguarda la statuaria, nientemeno che da Silvestro dell'Aquila, il maggior scultore del rinascimento abruzzese; penso che non sia semplice discernere quale opera possa essere del nostro scultore castellano e, infatti, per lungo tempo la Madonna della Celiera è stata attribuita proprio alla scuola di Nocella), sia, ovviamente, nelle terre dell’aquilano.
La chiesa della Madonna Regina Coeli a Villa Celiera, immersa nel verde alle pendici dei monti Bertona e Morrone, diventa allora non solo sede di speciale fede e devozione mariana, ma anche custode di un pregevole tesoro dell’arte, di talchè essa può a buon diritto essere annoverata tra i preziosi luoghi dello spirito nelle campagne dell’Abruzzo vestino.

12 marzo 2025

Vasto: Giuseppe (Peppino) Nasci

Vasto: Giuseppe (Peppino) Nasci

Maurizio Ciccarone, PALAZZO DE NARDIS-CICCARONE TRA STORIA E RICORDI DI FAMIGLIA.

Facciata di Palazzo Ciccarone, 1929.
 

PALAZZO DE NARDIS-CICCARONE TRA STORIA E RICORDI DI FAMIGLIA

di Maurizio Ciccarone

Il Palazzo “de Nardis-Ciccarone è ubicato in corso del Plebiscito 34. Il nome della strada fu cambiato dopo l'unità d'Italia, essendosi svolte in questa via, in un basso edificio non più esistente di fronte al Palazzo,  le operazioni di voto per l'annessione  del Regno delle Due Sicilie al Regno d' Italia. Il vecchio nome della strada e del quartiere adiacente era via San Giovanni, da una chiesa di tale nome, che si trovava nei paraggi, nei pressi dell’incrocio con l’attuale corso Dante, più o meno dove fino ad alcuni decenni fa, come ricordano i vastesi diversamente giovani, esisteva una farmacia che era originariamente Farmacia d’Ettorre, essendo stata stata successivamente, dopo la morte del titolare, acquistata dal dottor Leone, venuto a Vasto dal Molise e più precisamente da Guglionesi,  era  diventata Farmacia Leone. In quella zona di Vasto vi erano allora vari luoghi di culto, specialmente conventi: vi era quello di Santo Spirito, ubicato dove si trovano attualmente il Teatro Gabriele Rossetti ed il nuovo parcheggio di via Aimone, che occupa quello che era il chiostro del monastero, il convento del Carmine, dove per un certo periodo operò un liceo, istituito per interessamento dei d'Avalos e tenuto dai Padri Lucchesi; esso fu chiuso poi con la soppressione degli ordini religiosi sotto Gioacchino Murat, il monastero dei frati ospitalieri di san Giovanni da Gerusalemme, ordine dedito alla cura dei malati ed all’accoglienza di eventuale pellegrini, passato poi ai domenicani, trasformato successivamente in Palazzo dai Rulli con l’annessa chiesa, dedicata attualmente a Santa Filomena, ma chiamata dai Vastesi Genova-Rulli, il convento di Sant' Antonio di cui fu Priore un de Nardis, componente della famiglia che costruì il palazzo de Nardis-Ciccarone; egli decorò la chiesa, unica parte del monastero ancora esistente, con dei riquadri in stucco che si possono tuttora osservare; il convento annesso, fu poi trasformato ed adibito  prima a Sottoprefettura, successivamente fu sede dell'Istituto Tecnico Commerciale, tale edificio occupava il sito dove si possono ora visitare le Terme Romane. Il quartiere occupa la parte centrale dell'antica Histonium; tipicamente romano è l'impianto urbanistico  con strade ampie e diritte gli incroci ortogonali delle strade, resti di “opus reticolatum” sono visibili verso la fine di via Anelli, posta a sinistra di chi osserva la facciata del palazzo ed in varie altre parti del quartiere. Di fronte al palazzo, al di là di alcuni bassi edifici, correvano le mura  della Vasto medievale, fatte costruite da Giacomo Caldora, allineate, verso Nord, lungo la linea che va dalla torre Damante a quella di Santo Spirito ed a Sud verso il castello.

Sotto il piano stradale di corso Plebiscito, davanti al palazzo e subito al di qua delle mura, vi erano dei magazzini dove veniva conservato il frumento  ed altri generi di prima necessità,  venivano per questo chiamate fosse del grano; queste furono adibite successivamente a cantine dai proprietari dei palazzi situati all’altro lato della strada. Quando il comune costruì la rete idrica, una semplice conduttura di piombo che passava al centro della strada sopra tali fosse, il tubo sospeso nel vuoto si ruppe, allagando tali locali ed imbibendo le fondamenta del palazzo, mettendo così a repentaglio la staticità dell’edificio che dovette essere puntellato. Successivamente il Comune, condannato per i danni provocati, si  accordò per pagare le spese per i lavori necessari a riparare lo stabile dai danni provocati.

 Il palazzo venne costruito nel Settecento dai De Nardis appartenenti ad una ricca famiglia, originaria di Barete nell’Aquilano, e si era qui trasferita assieme a dei loro parenti i Trecco, essi acquistarono anche verso l’Incoronata dei terreni nella contrada che da loro prende il nome di Villa De Nardis.

  Come scrive nelle sue memorie Francesco Ciccarone, la nostra famiglia e, specificatamente Francesco Paolo Ciccarone, sicuramente non si sarebbe mossa da da Scerni, se non ve lo avessero spinto dissapori familiari con alcuni cugini e tristi fatti che insanguinarono la sua casa, quando due suoi germani Cassiodoro e Giuseppe furono uccisi dai fratelli Prassede ed egli stesso corse tale rischio. Il duplice omicidio fu eseguito su commissione dei Marchesi d’Avalos, nel fallito tentativo di impossessarsi  di alcuni documenti inerenti una causa che li vedeva contrapposti al comune di Scerni per la proprietà di alcuni terreni. Questi fratelli avevano già trucidato il notaio Boschetti di Cupello, presso la cui abitazione in un primo momento pensavano si trovasse il documento. Questo in realtà era nelle mani della nostra famiglia e venne poi consegnato al prefetto di Chieti, cosìcchè la lite, che tanti lutti aveva provocato, si chiuse felicemente per il comune di Scerni. 

  L'intenzione  di non muoversi da Scerni  è avvalorata d’altro canto dalla decisione presa poco tempo prima di tali avvenimenti, da parte Francesco Paolo Ciccarone, di acquistare lì, proprio dai d’Avalos, il palazzo-castello marchesale ancora esistente e riconoscibile da una torre angolare con un bel balcone in ferro battuto; i marenghi necessari all'acquisto, avvolti in un rotolo, erano stati rinchiusi in cassaforte da don Cassiodoro prima di andare a dormire. Sentendo poi nella notte dal piano sottostante dei rumori , egli si mosse dalla camera da letto e si trovò così di fronte uno dei Prassede, che nascosto aveva osservato dal di fuori le mosse del sacerdote, il malvivente lo freddò; dopo averlo ucciso essi si impadronirono delle monete d'oro, ma non riuscirono a trovare le carte che cercavano.

  Trasferitosi  Francesco Paolo a Vasto, non ebbero fine le persecuzioni da parte dei  Prassede, che più volte cercarono di aggredirlo, una volta addirittura a Roma, dove uno di essi lo aveva seguito. Due dei fratelli furono alla fine arrestati e giustiziati a Chieti, dove erano stati rinchiusi: I parenti degli uccisi furono invitati all'esecuzione; al contrario della vedova del Boschetti che seguì il triste spettacolo da una finestra, il nostro trisavolo non volle andarvi.

  L'ultimo dei fratelli Prassede fu ucciso dal superstite fratello, Francesco Paolo che, informato del fatto che l'assassino si aggirava a Vasto nella zona di Santa Lucia, allora piena campagna, vi si avviò, accompagnato da  Isidoro Barbarotta, esimio cacciatore. Arrivarono verso il luogo dove l’assassino era stato avvistato, e si appostarono a poca distanza l'uno dall'altro. Avvistarono il Prassede, nascosto con la sua arma dietro un albero; partirono, quasi simultaneamente tre colpi, due dei quali andarono a segno, uccidendo l'assassino.

  Si stabilì quindi a Vasto, lasciando affidata la cura dei propri interessi a Scerni al fratello superstite Antonio Maria; Francesco Paolo, che aveva nel frattempo sposato Michelina Volpe di Calascio, prese casa dapprima a Palazzo d’Avalos nel mezzanino sopra l’attuale museo, occupato fino ad alcuni decenni fa dai Di Michele, successivamente vicino a piazza Caprioli al Palazzo Celano poi Pantini, successivamente a palazzo Barbarotta nell'omonima via. Vissero per un certo periodo anche in via Vittorio Veneto in un edificio all’angolo con via Giulia,  dove nel 1821 venne alla luce il primo Ciccarone nato a Vasto, mio bisnonno Silvio. Questa casa venne poi ceduta da nonno Francesco che vendette in seguito anche alcuni terreni lì intorno, lungo via delle Croci.

 Finalmente nel 1823 fu acquistata gran parte della casa in via Plebiscito da Antonia de Nardis, ultima componente di tale famiglia; l'edificio era allora molto diverso da come si presenta attualmente, il secondo piano era molto più basso; come ancora si può vedere in via San Francesco, non sopravanzava la linea di grondaia ancora visibile al di sopra della chiesa di San Teodoro; osservando attentamente la parete si scorge come accanto alle finestre del secondo piano il muro sia stato scalpellato per buttar giù la vecchia grondaia e sopraelevare il secondo piano; guardando da una certa distanza la facciata si può poi osservare come sopra la parte centrale ci sia un soppalco fatto eseguire da Francesco Paolo Ciccarone per costruire un grande salone con una volta molto più alta di quella delle altre camere. Tali lavori furono realizzati una ventina di anni dopo l’acquisto e furono completati con la sostituzione della scalinata, precedentemente più semplice e posta vicino al portone d’ingresso, con quella attuale più imponente e scenografica; tale modifica portò alla necessità di realizzare delle scale al di là dei portoncini di ingresso del primo piano ed il sacrificio degli stucchi che decoravano le volte. Tali lavori dovevano conferire all’edificio un aspetto di solennità che fosse un segno tangibile della posizione economico-sociale raggiunta dalla famiglia.

  Francesco Paolo ospitò lì per vari anni il nipote Pompeo Conti Ciccarone, futuro sindaco di Vasto, rimasto orfano della madre Giustina Felicia, morta di parto, e del padre, un Conti originario di Carunchio; egli si addottorò all’Aquila e svolse poi la professione di avvocato.

  Nonno Francesco nelle sue memorie racconta  come, prima di tali lavori, quasi tutta la parte che occupa attualmente il secondo piano erano veri e propri soffitti, adibiti addirittura a pollaio e deposito di cose vecchie ed ingombranti, salvo una piccola parte dove esisteva anche una stanza, adibita attualmente a biblioteca, che costituiva la camera da letto dell'arcidiacono de Nardis. Si racconta che, nella notte che precedette la sua morte, queste camere, dove egli era rimasto solo, venissero svaligiate da alcuni vicini di casa che riuscirono a penetrare dai tetti.

 Francesco Paolo Ciccarone, noto carbonaro, che aveva partecipato anche agli ordini di Ettore Carafa, alla difesa della Repubblica Partenopea alla fortezza di Pescara, per le sue risapute idee liberali era tenuto d’occhio dalla Polizia borbonica che più volte visitò, in seguito alla delazione di personale di servizio, il Palazzo alla ricerca di documenti compromettenti, ivi custoditi,  che fortunatamente non furono mai ritrovati. Egli partecipava alle riunione segrete che si tenevano nella rivendita, come venivano chiamate le sedi  carbonare, che a Vasto era  ubicata nei vicoli di Santa Maria, alla presenza degli affiliati di Vasto e dintorni. Egli era stato anche condannato al confinio all’isola di Lipari, da cui lo salvò l’amnistia con cui Ferdinando II volle iniziare il proprio regno dopo la morte di Francesco I.

 La casa divenne in seguito con il figlio Silvio, iscritto alla Giovane Italia, una delle sedi dei convegni segreti dei patrioti della Provincia; di lì si mossero quei Vastesi che, alla notizia che Garibaldi si avviava a grandi passi verso Napoli, superando le esitazioni e le paure che frenavano i liberali degli altri centri della regione che non ritenevano  prudente muoversi, prima che la situazione non si fosse stabilizzata. Giunti alla sede della sottoprefettura essi la occuparono, abbatterono le insegne borboniche e chiamarono da Paglieta a dirigere la sottoprefettura Decoroso Sigismondi. Vasto fu cosi la prima città abruzzese ad insorgere nel nome di Vittorio Emanuele II e Garibaldi, Silvio Ciccarone venne nominato prodittatore, come venivano chiamati i rappresentanti di Garibaldi nei governi provvisori locali.

 Fu allora, con l’unità d’Italia che il Palazzo assunse a sede di molti dei più importanti avvenimenti della storia cittadina, accogliendo personalità protagoniste della politica nazionale. Tra i primi ci fu il marchese diVillamarina, plenipotenziario di Vittorio Emanuele II  per il Regno di Napoli, dove, nel Palazzo Reale rimase, per controllare la situazione durante i primi tempi dopo l’annessione, mantenendo i rapporti con Cavour e dirigendo la  vita politico-amministrativa nelle regioni occupate. Dovendo tornare a Napoli; dopo un abboccamento con il Re il Villamarina passò per Vasto, dove fu accolto in casa dalla mia bisnonna Maria Cardone e dalle sue cognate, essendo il marito assente, impegnato come maggiore della Guardia Nazionale negli scontri con le bande di briganti che, finanziate ed aiutate dai Borboni e da Pio IX infestavano, taglieggiando, compiendo stragi  e provocando disordini il Vastese, come tutto il Meridione. Nell’archivio di famiglia c’è una lettera di nonna Maria che racconta, in una lettera al marito, delle calorose accoglienze riservate all’illustre ospite e, di come il Villamarina, acclamato a gran voce dal pubblico raccolto davanti casa, si mostrò ad esso dal balcone sopra il portone per parlare alla folla lì raccolta; molti dei presenti portavano sui cappelli  la scritta SI, che era il simbolo che bisognava votare da parte di coloro che erano favorevoli all’annessione al Regno d’Italia. In quel periodo la casa divenne un importante punto d’incontro; vennero ospiti il generale Alfonso Lamarmora, comandante in più occasioni dell’esercito piemontese e presidente del consiglio prima del Regno di Sardegna e successivamente del Regno d’Italia, Ruggero Bonghi, parente della padrona di casa Maria Cardone, scrittore, giornalista e politico, autore della più conosciuta traduzione delle opere di Platone, professore universitario di Storia, Latino, Greco e di filosofia e futuro ministro della Pubblica Istruzione. La presenza più assidua comunque, fu senz’altro quella di Silvio Spaventa, amico fraterno di Silvio Ciccarone e venerato dal figlio Francesco  e da tutti i familiari. Sono raccolte nell’archivio di famiglia, e sono state più volte pubblicate, le numerose lettere che i due Silvi si scambiarono lungo un lungo arco di tempo, lettere nelle quali si parla, oltre che dei problemi politici di quel tempo, sia locali che nazionali, anche di tutti quegli argomenti di cui due amici comunemente discutono, come malanni,  preoccupazioni e vicende familiari.   Non essendo ancora a quel tempo i partiti organizzati con sedi ed organigrammi, le riunioni politiche si svolgevano nelle case dei personaggi più autorevoli, nel caso di Vasto e del vastese in casa nostra, dove i liberali locali erano orgogliosi fare la conoscenza e di  un personaggio del calibro di Silvio Spaventa per far posto al quale mio bisnonno aveva rinunciato a candidarsi di persona. 

Silvio Ciccarone