Incisioni all'acquaforte di costumi delle seguenti località (all’epoca tutte) d’Abruzzo: Cappadocia, Casalbordino e Lecce dei Marsi, Castiglion Messere Raimondo, Chieti, Fraine, Gioia dei Marsi, Mascioni di Campotosto, Mozzagrogna, Pettorano sul Gizio e lago del Fucino, Pietraferrazzana, Pietransieri, Preta di Amatrice (RI), Roccaspinalveti, Scanno, Schiavi d’Abruzzo, Vasto, Villa Pianezza di Leonessa (RI).
Nella letteratura abruzzese la cesura tra l’attività letteraria colta in lingua, e gli albori della letteratura schietta dialettale, è rappresentata da Romualdo Parente (1737-1831), una figura sui generis, nel panorama del genere epico-pastorale. Scrisse inni e poesie in lingua, per lo più religiosi, dedicati alle feste della sua patria Scanno (AQ), ma ciò che interesse è la sua opera in lingua dialettale.
I due poemetti in dialetto sono: Zu Matrimonio azz’uso e La Figlianna di Mariella (ossia in italiano “Il matrimonio secondo l’usanza – Il parto di Mariella”). Il primo poema, in 46 ottave, ha per tema il matrimonio tra Nanno e Mariella celebrato secondo la tradizione di Scanno, che oggi viene rievocato attraverso la rappresentazione del “catenaccio”, una sfilata di donne e uomini abbigliati con l’antico costume scannese. Il poema, che si apre con un canto di invocazione alla Musa poverella, ripercorre la giornata dello sposalizio, dalla preparazione e vestizione della sposa alla celebrazione religiosa, al banchetto nuziale ed infine al ballo.
L’opera, ricordano Morelli e Giammarco, fu realizzata nel 1765, ma mancante di alcune parti, e scritta in un impasto linguistico dialettale alquanto confuso, assai lontano dalla parlata schietta scannese, sicché una nuova versione fu scritta nel 1780. Alfonso Colarossi Mancini nel 1916 pubblicò l’opera, con una prefazione accurata in cui metteva a confronto i due esemplari, e in cui argomentava le sue scelte di edizione, criteri già messi in discussione più avanti dal glottologo Ernesto Giammarco, e più avanti da Giorgio Morelli, che corressero degli strafalcioni e degli errori di trascrizione fatti dal Colarossi Mancini, cui comunque è dovuta la riconoscenza di essere stato il primo ad aver realizzato un approccio critico filologico al testo di Parente, specialmente per il ricco apparato critico di note, con citazioni sulla storia e la cultura di Scanno sulla base di saggi di storia come Del Re, il Tanturri, lo stesso Mancini, e di scritti antropologici come quelli di Lear, De Nino, Pansa, Finamore.
La grandiosità del
poemetto di Parente sta nell’aver assimilato un sostrato culturale delle genti
della valle del Sagittario, cioè quella passione dei contadini pastori
transumanti che nei momenti di pausa dalla dura fatica, leggevano e cantavano
le gesta degli eroi mitologici del ciclo bretone o arturiano, o anche del ciclo
della mitologia classica, conoscendo a memoria Omero, Virgilio, Boiardo,
l’Ariosto, il Pulci e il Tasso, siamo nel Settecento, ma appena un secolo dopo
fioriranno in Abruzzo le geniali menti dei poeti pastori Cesidio Gentile da Pescasseroli e Francesco Giuliani (Cicche
ru cuaprare) da Castel del Monte, i quali rielaboreranno in lingua italiana
semicolta le gesta dei Paladini di Carlo Magno o dei cavalieri di Lancillotto,
adattando tuttavia la materia al loro contesto di viaggi della transumanza
dall’Abruzzo alla Puglia. Tornando a Parente, già dall’invocazione ti omerica
memoria alla Musa contadina O
Mèusa, teu che stié sott' a zu Monte, / scuòste a zù jacce de zu Garapòre, lascia intendere, come un Livio
Andronico di noialtri, come l’attività della traduzione della materia classica
nel suo progetto avvenga in due maniere, la prima adattando il linguaggio
metrico dell’italiano al dialetto scannese, lavorando anche per arcaismi
voluti, come ricorderà anche il menestrello Giuseppillo Gavita (si ricordi
l’uso dell’articolo determinativo maschile “zu” al posto di “ju”), la seconda
inserendo come fece Andronico per l’Odissea caratteristiche e peculiarità
tipiche della terra di Scanno nella storia, in questo caso il Garapore, che è
un monte di quelle gole. Ma gli esempi sono disparati, ancor più interessanti i
richiami e le descrizioni, quasi come un catalogo delle navi dell’Iliade, del
corredo nuziale e dei doni della posa fatte dalle comari, che in fila indiana,
una alla volta, portano un regalo speciale a Mariella per l’uso domestico; da
non dimenticare soprattutto la descrizione delle posate in argento, dei
calderoni, tutto insomma l’occorrente per la casa; sotto l’occhio vigile della
comare maggiore e della madre. Il poema dunque ha la grande importanza di far
conoscere per la prima volta, quasi fosse un saggio di etnoantropologia ante
litteram, il costume tradizionale delle donne di Scanno, tanto decantato e
troppo facilmente banalizzato in articoli da guida turistica, che spesso
mettono in risalto il copricapo a turbante (lu fasciatore), senza tener conto
delle diverse tonalità di colore delle gonne o dei corpetti, che variano in
base all’uso quotidiano dell’abito, all’uso del lutto, o della festa per il
matrimonio, un battesimo, la festa patronale. Mi piace poi ricordare il passo,
sempre appositamente scelto da Parente, proprio per sottolineare nel
sincretismo le tradizioni radicate della sua Scanno, Filippo che batte l’ora
alla campana della torre civica (oggi scomparsa, situata nella piazzetta
accanto la chiesa di San Rocco), per segnalare il momento del riposo. Insomma
nel poema la materia colta, i rimandi alle figure retoriche, alle metafore,
agli epiteti formulari omerici e ariosteschi ora solenni, ora burleschi
specialmente nella seconda parte della descrizione della festa in casa dello
sposo, del ballo di gruppo, del dolore al piede di Mariella causato dalla
maldestria di una compagna di ballo troppo gaudente, si fondono con la cultura
popolare delle tradizioni, suggellate dal dialetto. E l’ilarità arriva al suo
culmine quando si scatena la disputa tra colti e ignoranti, tra i compari della
festa che credono di essere esperti di medicamenti, e il dottore venuto dal
paese accanto per visitare l’inferma, che si esprime in perfetto italiano. Ma
infine sarà il conforto della madre di Mariella verso i due sposini a ricucire
lo strappo che rischiava di rovinare per sempre la festa nuziale; anche qui
sembra che Parente voglia rimarcare il ruolo sempre dominante, matriarcale,
della donna che sa distribuire consigli e amorevoli rimproveri e cure ai due
giovanetti ancora inesperti della vita, come farebbe qualsiasi nostra nonna o
madre abruzzese verace.
E i consigli materni
saranno così tanti nel poemetto a seguire, da diventare un vero e proprio
trattato di antropologia circa lo sgravamento dei bambini. Non a caso Antonio
De Nino nel II libro degli Usi e costumi abruzzesi, sembra fare una
esatta parafrasi di quanto scritto da Parente!
La figlianna di
Mariella, in 16 ottave, quindi una storia più breve, è il
seguito del matrimonio e riguarda un argomento delicato, il parto di Mariella.
Il poema descrive il parto dal momento dei dolori fino alla nascita del
primogenito della coppia Nanno e Mariella. In questo caso i personaggi sono
tutti al femminile, c’è la descrizione a mo’ di catalogo omerico di tutte le
pratiche che vanno eseguite, i rituali, gli scongiuri, le raccomandazioni ai
santi, l’uso delle erbe medicamentose, la preparazione della “scianna” (la
culla), fino a quando in un crescendo di suspence, esattamente come nel primo
poema, Mariella dà alla luce la creatura, sotto il giubilo delle comari
presenti e della onnipresente madre. Queste due opere, secondo l’opinione del
critico Giorgio Morelli, dovevano essere legate ad una terza, Il Lamento
della vedova (la famosa canzone Scuramaje o Maremaje), in modo da
formare una trilogia sul ciclo dell’uomo: nascita, matrimonio e morte, tuttavia
studi differenti, come quelli del Lomax, di Lupinetti, e dello Stoppa, hanno
ipotizzato che questo possa trattarsi di un canto parodia della tragedia
familiare della morte del marito, oppure di una pantomima inscenata dalla moglie
del Re Carnevale dopo il processo e la sua uccisione simbolica.
*Romualdo Parente, “Zu
Matrimonio azz’uso e La Figlianna (e il Lamento della vedova a lui
attribuibile)”, Edizione critica a cura di Giorgio Morelli, Pescara, Editrice
“Nova Italica”, 1992.
*Rino Panza, Una vedova chiacchierata, Excursus sulla “Scura màie, in “Abruzzo”, anno XL, gennaio-dicembre, volume secondo, pp. 145-178, Pescara, Sigraf Editrice, con un’ampia bibliografia specifica, 2002.
Da dove proviene la leggenda popolare di Carlo Magno con l'esercito dei
Paladini, all'assalto della rocca di Scanno, distrutto dalla cascata di pietre
infuocate per mezzo della Maga Angelica? E degli amori del mago Pietro Bailardo
per la stessa, che si riparò con l'ombrello magico, e che dopo la morte di lei,
la vallata di Scanno si riempì con un lago che divenne la sua tomba?
Giovanni Pansa ne parlava nei suoi “Miti,
leggende e superstizioni abruzzesi”, è un poemetto, ancora più antico de “Zu mtremuonie azz'uso” di Romualdo
Parente, e rappresenta uno dei più bei prodotti della letteratura popolare
scannese, l'Antifor di Barosia, di autore anonimo.
Il volumetto, un poema in ottave, di 43 canti, descrive le varie imprese del cavaliere Orlando, paladino di
Carlo Magno, celebrato dall'Ariosto e dal Boiardo, e tratta di vicende
concernenti altri Paladini, come il cavaliere Antifolo di Beroso, che assaltò
nella valle del Sagittario l'imprendibile Scanno controllata dalla maga
Angelica, alla cui morte la vallata piangendo si riempì d'acqua, formando il
famoso lago tra Scanno e Villalago.