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6 marzo 2025

Lucia Servadio (1900-2006) è stata la prima donna medico ebrea d’Italia laureata in chirurgia e ostetricia, visse per alcuni anni a Vasto dove il marito Nino Bedarida era primario.

Matrimonio Lucia Servadio, Vittorio Nino Bedarida, Torino 1923. 

Voci della memoria: Un’ebrea italiana nel Novecento italiano


Abstract
La legislazione razziale del 1938 spezzò molte vite, dando inizio a quel processo di discriminazione legalizzata che raggiunse poi il suo culmine nelle deportazioni nazifasciste del 1943. Con l’applicazione delle leggi razziali gli ebrei venivano allontanati da tutti i settori pubblici e privati, cancellando la loro presenza nella vita nazionale italiana. Tra questi emarginati ci furono anche molte donne, scienziate, professoresse, intellettuali, la cui vita e storia rimane ancora poco conosciuta. Un libro pubblicato da Raffaela Simili, Sotto falso nome. Scienziate italiane ebree (1938-1945) nel 2010, è l’unico ad oggi che raccoglie, seppur schematicamente e sinteticamente, le storie di alcune di queste donne ed il contributo che diedero alla scienza, alla medicina e alla cultura italiana. Tra queste donne ancora invisibili figura, come illustrerò in questo scritto, Lucia Bedarida Servadio (1900-2006), prima donna in Italia ad essersi laureata nel 1922 in Medicina a soli 22 anni nonché prima donna ebrea ed italiana a lavorare sin dal 1939 in un Paese musulmano come il Marocco.

Introduzione
Lucia Bedarida Servadio fu una donna unica, estremamente moderna per gli anni in cui visse. La sua lunghissima vita ha attraversato l’intero novecento, passando attraverso due guerre mondiali, la discriminazione prima e la deportazione nazifascista dopo, l’esilio e l’uccisione della madre e della nonna ad Auschwitz. Lucia non si diede mai per vinta, dedicando tutta la sua vita ad aiutare gli altri ed i più bisognosi, come nel caso delle donne beduine e arabe del Marocco, paese che l’accolse quando fu costretta a scappare dall’Italia nel 1939. Lucia nacque ad Ancona nel 1900 da una famiglia della media borghesia ebraica di origine sefardita1, la famiglia era completamente integrata alla città, sin dai tempi dell’emancipazione ebraica. Come la maggior parte degli ebrei italiani, i Servadio erano ferventi patrioti e nazionalisti2. Non a caso, proprio in onore di uno dei fautori del nascente Stato italiano, Camillo Benso conte di Cavour, il nonno di Lucia chiamerà suo figlio, padre di Lucia: Cavour, e la figlia (zia di Lucia): Italia. Dare questi nomi nazionalistici era molto comune tra gli ebrei in quegli anni, che grazie allo Statuto Albertino, potevano ora sentirsi liberi ed essere legalmente de facto cittadini a tutti gli effetti del nuovo Stato unitario.
Lucia non conobbe i propri nonni paterni, che morirono quando il padre era ancora giovane, pertanto non ci sono testimonianze a riguardo. Si sa però che il padre e la zia furono cresciuti da una zia paterna e da suo marito, i quali continuarono ad instillare nei due giovani ragazzi quegli stessi valori patriottici che avevano distinto i loro defunti genitori. Una volta cresciuto, Cavour divenne un uomo d’affari e nel 1899 sposò la torinese Gemma Vitale. Gemma era nata a Torino nel 1878 da una famiglia della buona borghesia ebraica. Figlia di Giuseppe (Pippo) Vitale e di Sara (Nina) Levi Vitale, ebbe un’infanzia ed adolescenza tranquilla, privilegiata. Non c’è notizia su quali studi abbia fatto esattamente, ma, come ricorda la nipote Mirella Bedarida Shapiro,
Era una donna colta. Sapeva leggere molto bene, e leggeva in continuazione un po’ di tutto. Parlava un perfetto italiano (cosa non comune all’epoca in quanto anche nelle classi agiate era consuetudine parlare il dialetto, specie in casa, con le domestiche o al mercato) e francese. Prese lezioni anche di lingua inglese. Era una brava pianista, amava in particolare suonare Brahms e Chopin, ed organizzava spesso a casa serate musicali. Amava anche dipingere, in particolare tele ad olio, un po’ alla macchiaiola. (Bedarida Shapiro, 2010)
Una grande dame, come scriverà nella sua autobiografia la scrittrice giornalista Gaia Servadio, altra nipote di Gemma: “Che si annoiava vivere ad Ancona, che paragonata alla sua Torino savoiarda e francesizzante era una cittadina di provincia e gretta. Portava cappelli molto eleganti, ventagli e guanti; con nonno Cavour andavano in carrozza e, quand’erano in campagna, in calesse” (Servadio, 2014: 28).
Gemma ebbe cinque figli: la primogenita Lucia e a seguire quattro maschi: Luciano, Lucio, Luxardo, Luchino. Tutti i nomi dei figli avevano la stessa iniziale, ossia la lettera L, incipit della parola luce, a simboleggiare e rimarcare il coinvolgimento ma anche la speranza di Cavour e Gemma verso gli ideali di giustizia e libertà che gli ebrei italiani, una volta emancipati, avevano ricevuto e interiorizzato a partire dalla metà del XIX secolo. Come testimonia Lucia nei suoi scritti e da ciò che emerge dalle lunghe conversazioni che ebbi nel corso degli anni con Mirella Bedarida Shapiro, una delle sue tre figlie e depositaria di tutti i documenti riguardanti la madre, l’infanzia di Lucia fu bella, agiata e senza preoccupazioni. Come lei dirà in una delle sue ultime conferenze americane ad inizio degli anni ‘90:
Risiedevamo ad Ancona, ma la mamma era torinese, quindi molto frequenti erano le nostre visite ai nonni materni che risiedevano a Torino. Anzi essendo noi numerosi e le cinque nascite susseguitesi a brevissima distanza di tempo, la casa dei nonni rappresentava un sollievo per mia madre oberata da tanta rapida prolificità, ed un rifugio per quello che di noi rappresentava qualche problema. Difficoltà scolastiche, malattie etc. Rivedo un soggiorno di mesi a Torino perché affetta da tosse convulsa separatami dai miei fratellini per paura di contagio. Non dovevo avere più di cinque anni perché non andavo ancora a scuola. Rivedo le frequenti e prolungate sedute al Gasometro con il nonno e le più divertenti gite in funicolare a Superga, perché respirare il gas e l’aria di montagna erano le sole cose conosciute. Suprema gioia le merende al Valentino. Qualche visita al Museo di Storia Naturale e a quello Egiziano, con scarso interesse da parte mia, tanto che a mio desiderio, non sono più andata a visitarli nei miei soggiorni torinesi. (Bedarida Servadio: 1990)
Lucia frequentò la scuola pubblica come tutti i fratelli conducendo una vita borghese, rallegrata da frequenti gite in campagna, nella quale non mancavano lezioni di pianoforte e lo studio della lingua francese. Decisiva nella sua formazione fu la presenza amorevole del padre, che si prese cura di tutti i bisogni dei figli, dallo studio alle attività sportive. Un padre che, come soleva dire sempre Lucia, “in un’epoca in cui le femmine erano relegate in casa a ricamare, a suonare il piano e ad aspettare un marito”, decise che la sua unica figlia femmina dovesse continuare gli studi, dando così anche un buon esempio ai suoi quattro fratelli più piccoli.
Lucia si diplomò giovanissima, a soli sedici anni, pare infatti fosse molto intelligente e bravissima a scuola. Ciononostante, come lei scrisse in una lettera indirizzata all’amica Laura Malvano, non riusciva a capire la scelta di suo padre e perché lei dovesse continuare gli studi, visto che nessuna delle sue amiche lo faceva.: “Ero molto immatura, avevo 17 anni e non vedevo gli studi e la laurea in funzione di un mio futuro. Problema che non mi preoccupava, perché non ne avevo” (Bedarida Servadio, 1990). La sua vita era quella di una ragazza della buona borghesia, simile a quella di molte altre sue coetanee appartenenti allo stesso stato sociale. L’essere ebrea rappresentava infatti un surplus che non modificava i tratti fondamentali della quotidianità di Lucia, del tutto simile a quella delle sue amiche cattoliche. La sua era una famiglia completamente integrata, laica, dove l’ebraismo non si manifestava oltre la pratica di alcuni aspetti formali del culto. Sua mamma Gemma e sua nonna Sara (Nina) Vitale erano state: “Ebree tradizionali di stile italiano. Non c’era cibo kosher a casa, ma nessuno mangiava maiale. Andavano in sinagoga solo per le feste principali. Entrambe leggevano le preghiere in ebraico, probabilmente senza capire cosa stessero leggendo, visto che non sapevano la lingua ebraica” (Bedarida Shapiro, 2010).
Questo aspetto della laicità della maggior parte degli ebrei italiani è riscontrabile in molte autobiografie, memorie ed anche testimonianze di ebrei italiani nati nel primo novecento.3 Dan Vittorio Segre ad esempio, ricordando i suoi familiari li descrive allo stesso modo. Ebrei:
Ferocemente fedeli a casa Savoia per via di quello Statuto Albertino che nel 1848 aveva sancito l’uguaglianza degli ebrei con il resto dei piemontesi. In trent’anni avevano scordato, assieme alle ansie e alle passioni politiche collegate alla creazione dell’Italia, i valori e la fede ancestrali. Solo rimaneva l’osservanza formale e saltuaria dei riti: già i miei nonni ignoravano l’ebraico che nella generazione precedente quasi tutti gli ebrei piemontesi leggevano e scrivevano ancora più o meno correntemente. Solo mia nonna paterna usava leggere mattina e pomeriggio le preghiere di rito, in forma accorciata e senza capirne il significato. Per settanta anni aveva recitato in ebraico anche la benedizione mattutina con cui si ringrazia l’Eterno di “avermi fatto nascere uomo”. (Segre, 1985: 39)
In una intervista rilasciata a Marcello Pezzetti nel 1995, la dottoressa Luciana Nissim Momigliano4 definirà i suoi rapporti con l’ebraismo durante la sua infanzia ed adolescenza, come limitati e sporadici:
Forse circolava in casa qualche parola di giudeo piemontese, ad esempio la cameriera si chiamava chaverta. Però la mia famiglia era completamente assimilata. Mio papà aveva fatto la Grande Guerra, mio zio era morto capitano di artiglieria in Guerra. C’era questa piccola debolezza di essere ebrei, che non si capiva bene che cosa fosse. Tutti sapevano a Biella chi fossero gli ebrei, ma l’appartenenza religiosa non sembra fosse importante per la comunità. A Biella c’era una piccola sinagoga che veniva aperta solo per le grandi ricorrenze. Nessuno a Biella praticava la Kasherut, non c’era una macelleria rituale; ma a casa nostra non entrava il maiale. Non osservavamo il sabato, facevamo però il Seder a Pasqua e a Rosh Ha Shana, e a Kippur andavamo tutti assieme in sinagoga. (Chiappano, 2010: 21)
Ero una bambina come tante altre, scriverà nel suo libro autobiografico Liliana Segre: “Di famiglia ebraica laica ed agnostica: non avevo ricevuto alcun insegnamento religioso a casa. Non avevo mai sentito parlare di ebraismo” (Segre, 2011: 17). Le stesse parole più o meno sono presenti nelle memorie di Carla Pekelis:
Quand’ero bambina, essere ebrea non significava niente. Era più una questione di cose che non si potevano fare di quello che si poteva fare. Non c’era in famiglia nessuna osservanza dei rituali o delle feste. La mia era una famiglia completamente agnostica. I miei genitori facevano del loro agnosticismo, un punto di grande orgoglio, come per la maggior parte a quell’epoca degli italiani, dove il motto era ancora “libera Chiesa in un libero Stato. (Pekelis, 2005: 6)
Fino alla Pubblicazione della Difesa della Razza5 (1938), scriverà Primo Levi nella sua autobiografia Il Sistema Periodico, pubblicato nel 1975:
Non mi era importato molto di essere ebreo: dentro di me, e nei contatti con i miei amici cristiani, avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto o le lentiggini, un ebreo è uno che a Natale non fa l’albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po’ di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato. (Levi, 1975: 37)
Come osserva Amos Luzzatto, Primo Levi era: “Un ebreo fortemente italianizzato… che ha incontrato il mondo ebraico e la sua stessa ebraicità proprio all’interno di quella tragedia (la Shoah e la sua prigionia ad Auschwitz). È là che lui ha conosciuto quel ricchissimo mondo ebraico dell’Europa orientale, ricco per tradizioni, per cultura, per creatività ebraica, proprio nel momento che stava venendo distrutto” (Luzzatto, 2006: XI). L’interesse di Levi per l’ebraismo era più di ordine culturale ed intellettuale che religioso. Pur avendo una grande cultura biblica, come lo dimostrano diversi passi dei suoi scritti, basti pensare alla rivisitazione dello Shema’ Israel (tr. Ascolta Israel, una delle preghiere ebraiche quotidiane più importanti) nell’introduzione a Se questo é un uomo (Levi, 1958: 9), questa era per lui meno importante e lo incuriosiva meno. Fu il suo universo concentrazionario a fare di lui uno scrittore culturalmente ebreo, in particolare quando venne a contatto con quella cultura (ebraica askenazita dell’Europa orientale) che Levi “scoprii con meraviglia che loro erano ebrei a tempo pieno, mentre io ero appena un ebreo anagrafico o di complemento. Era stato l’antisemitisimo a segnare diversamente i miei correligionari, di là e di qua. In Italia, l’istituzione del pogrom non é mai stata conosciuta, né il fattore linguistico ha mai rappresentato un diaframma” (Goria, 1982: 5).
Gli ebrei italiani quindi, e tra questi i più grandi scrittori ebrei del novecento italiano, come il già citato Primo Levi, ma anche Carlo levi, Natalia Ginzburg e Giorgio Bassani, come Lucia annoterà in uno dei suoi diari:
Politicamente e culturalmente erano completamente integrati alla vita degli altri italiani. Religiosamente formavano un gruppo a parte, non eccessivamente fervente e rispettoso di tutte le pratiche ed impegni igienici culinari imposti dalla tradizione, anche se rispettosi ed ubbidienti alla Torah, i cui comandamenti stabiliscono i principi fondamentali della morale della vita ebraica: io e i miei fratelli abbiamo frequentato scuole pubbliche dalle classi primarie alle universitarie e mai abbiamo sentito ne sofferto una parola ed un gesto di scherno e d’insofferenza perché eravamo ebrei. I nostri amici e quelli dei nostri genitori erano indifferentemente ebrei e non ebrei e la scelta era dettata dalle nostre simpatie ed interessi in comune.(Bedarida Servadio, 1993)
È significativa la definizione di Lucia sugli ebrei italiani, specialmente per quanto riguarda l’uso del termine integrazione piuttosto di assimilazione. Per anni, diversi storici hanno descritto gli ebrei italiani come un gruppo completamente assimilato allo Stato italiano, specialmente nel periodo che va dall’Emancipazione alle Leggi Razziali del 1938. Il motivo di questa erronea definizione è dato da una visione del gruppo ebraico alquanto riduttiva e limitata per lo più alla sola analisi del contributo che gli ebrei italiani diedero al Risorgimento italiano, alla loro attiva partecipazione alla vita pubblica, sociale, politica e culturale italiana sin dalla loro emancipazione. L’ebraismo italiano, specie in quegli anni (metà 1800 inizio primo novecento), ha invece più nuances e sfaccettature. Pertanto, la chiave di lettura dovrebbe essere un’altra e diversi studi, specie quelli che riguardano l’aspetto identitario e i concetti assimilazionistici andrebbero ulteriormente approfonditi e chiariti. In primis, il termine stesso di assimilazione. Per assimilazione intendo un processo nel quale un gruppo minoritario, nel nostro caso quello ebraico, viene assorbito o (anche volontariamente) si fa assorbire da un gruppo maggioritario, rinunciando così completamente alla propria identità, sia religiosa che culturale. Questo non si può dire del gruppo ebraico italiano, che sarebbe più corretto definire come integrato, piuttosto che assimilato (Bettin, 2007).
Uso il termine integrazione per indicare un processo di adattamento, di accettazione dell’altro, un voler adattarsi ai valori etici e sociali della società circostante ma sempre continuando a mantenere la propria identità, o perlomeno una parte di essa. Certamente, se la si guarda solo dal punto di vista religioso, la storia ebraica italiana, specie nel periodo post emancipatorio, potrebbe essere vista come assimilatoria, ma la realtà come ho scritto è molto più complessa. Se da una parte, come scrive Attilio Milano, “L’ingresso degli ebrei in una vita italiana completamente parificata ebbe un’influenza decisiva nella formazione di un nuovo tipo di ebreo, nel quale andavano sempre più affievolendosi sia qualche sua atavica caratteristica personale sia i suoi rapporti con i fratelli di fede” (Milano, 1963: 371). E’ anche vero che dall’altra si assiste, in particolare nel primo novecento, ad una rinascita dell’ebraismo italiano, come testimonia la creazione di numerosi circoli culturali ebraici, associazioni, movimenti giovanili, l’organizzazione di congressi, il cui fine era quello di mantenere vivo l’ebraismo nella forma di una identità particolare. Nota bene Mario Toscano quando afferma che gli ebrei “Pur mantenendo a lungo relazioni sociali “interne”, acquisivano (grazie all’emancipazione ricevuta) come base della propria identità la nascente tradizione dello stato unitario” (Toscano, 2003: 48).
Ma è importante sottolineare che l’identità nazionale era una “aggiunta” alla loro identità ebraica, affievolitasi negli anni, ma mai persa completamente. Gli ebrei italiani hanno sempre mantenuto un filo diretto con la loro ebraicità. Non hanno mai smesso di sentirsi ebrei, o rinunciato ad esserlo (salvo alcune eccezioni), nemmeno nei periodi più bui dell’ebraismo italiano.6 La paura dell’assimilazione rappresentò sempre un tema sentito all’interno del gruppo ebraico, la questione veniva dibattuta molto sui giornali ebraici dell’epoca, specialmente dopo l’ottenuta emancipazione. Proprio la tanto desiderata emancipazione, infatti, rappresentava, specie per i più osservanti, un serio problema. L’apertura dei ghetti aveva portato ad una mobilitazione ebraica verso altri quartieri cittadini ed anche città diverse, allontanando fisicamente molti ebrei dalla comunità di appartenenza, con il risultato che molte sinagoghe a malapena raggiungevano il quorum per officiare i vari riti. Ciononostante bisogna tener conto che questo allontanamento dalle pratiche religiose era dato da un processo di secolarizzazione in atto in tutta la società italiana. Nel nascente Stato italiano liberale, laico, non c’era posto per la religione e qualora vi fosse stato questo era solo marginale. Altri erano i valori, in primo luogo quello di Patria, che gli ebrei italiani come il resto della popolazione accettò e fece suo, come testimonia la loro intensa partecipazione nelle varie guerre d’indipendenza prima, e mondiali dopo. Ciononostante, pur acquisendo questi nuovi valori e tradizioni, tanto da definirsi sempre, come si legge in molte memorie dell’epoca, italiani ebrei, piuttosto che ebrei italiani, mettendo quindi la loro appartenenza alla nazione italica prima della loro ebraicità (cosa non casuale ma che indica quanto contasse per loro l’appartenenza alla società italiana prima ancora che alla loro comunità religiosa), non rinunciarono mai a sentirsi ebrei. I fermenti culturali ebraici italiani del primo novecento ne sono la prova, in quanto indice di un qualcosa e di un desiderio di mantenere e vivere queste tradizioni ancestrali, come nel caso dei campeggi ebraici, creati da Angelo Da Fano nel 1922, con l’intento di far vivere ai giovani ebrei italiani un’atmosfera completamente ebraica e sionistica (Bettin, 2005: 332). Lucia non partecipò mai a questi campeggi, né tantomeno fece parte di una di queste associazioni giovanili, in quanto assorbita completamente dalla sua vita di studentessa di medicina, dal lavoro e dalla famiglia. Cionostante era a conoscenza del nascente movimento sionistico italiano e ne era anche attratta, come si legge in una lettera mandata alla famiglia di Enzo Sereni il 13 marzo 1946, dopo aver saputo della morte di quest’ultimo a Dachau: “Ricordo Enzo Sereni nella primavera del 1922 sulle rovine del Tuscolo, aprire la mente di noi amici, imbevuti del fascismo della civiltà e della cultura romana, alla conoscenza dell’ebraismo e del sionismo. Compresi allora quanto quell’essere eletto avrebbe potuto dare all’umanità e deploro che la sua energia sia stata così crudelmente e prematuramente stroncata” (Bedarida Servadio, 1946).
Solamente durante gli anni universitari Lucia sentì parlare di Sionismo: “Da qualche compagno di corso, ho sentito parlare di Sionismo, di Theodor Herzl, di necessità di un focolare ebraico dove potessero trovare rifugio i perseguitati dei paesi dell’Europa orientale (Bedarida Servadio, 1993).
La visione che Lucia aveva in quegli anni del Sionismo rispecchiava il pensiero di molti ebrei italiani, che concepivano il movimento più per un certo tipo di ebreo, quello appunto perseguitato, che per loro. Il Sionismo era visto più in chiave filantropica che ideologica. Ciò spiega perché molti ebrei italiani durante il primo ventennio del novecento non aderirono al movimento sionista, pur riconoscendone l’importanza ed il valore. Lucia, non si sentiva allora una perseguitata, né tantomeno discriminata: “In Italia non c’era antisemitismo, neppure nei primi anni del governo fascista. Mussolini anzi aveva assunto un’attitudine di protezione verso i giovani ebrei del paese (diciamo nell’insieme). Anche aprendo loro l’accesso agli studi universitari, in condizioni anzi di favore rispetto agli studenti italiani e facendo anche dichiarazioni a favore degli israeliti - come si chiamavano allora gli ebrei” (Bedarida Servadio, 1993). Questo però accadeva nel 1920-1922, prima che il Fascismo adottasse la sua politica razziale discriminatoria e poi persecutoria. Come scriverà Lucia in uno dei suoi diari:
La vita degli italiani ebrei durante il primo quarto del ventesimo secolo, non presentava nulla di rilievo. I pochi ebrei che c’erano in Italia, si sentivano cittadini a pieno diritto, e, secondo i loro meriti e le loro conoscenze, potevano aspirare posizioni di alto livello in ogni campo di attività e di funzione. Nel 1922 nella Facoltà di Medicina di Torino, c’erano diversi professori ebrei, e tutti trovavano la cosa normale, perché si trattava di persone che avevano raggiunto per i loro meriti i posti che degnamente ricoprivano. (Bedarida Servadio, 1993)
Ciononostante, sebbene l’istruzione sia sempre stata un fattore preponderante nella vita ebraica, anche quando gli ebrei erano relegati nei ghetti7, e diverse fossero le donne ebree istruite e laureate, solo poche di loro riuscirono a fare carriera universitaria e a diventare professore ordinario o ad occupare posizioni di rilievo. Probabilmente questo era dovuto alla tipologia stessa del mondo accademico italiano abbastanza chiuso nei confronti delle donne e con pochi margini per chi di loro volesse fare carriera universitaria. Inoltre, bisogna tenere anche in considerazione il periodo storico: “in quegli anni, non era “comune” che una ragazza di buona famiglia lavorasse, o che andasse a vivere da sola in una grande città per studiare” (Bedarida Servadio, 1990). Ciò spiega perché Lucia fu mandata a studiare a Torino, dove vivevano i nonni materni. Inizialmente Lucia non sapeva cosa avrebbe studiato o a quale facoltà iscriversi, come lei scrisse in uno dei suoi diari: era stata una studentessa liceale brillante, con ottimi risultati in tutte le materie, pertanto ogni professore cercava di convincerla a proseguire la disciplina del suo insegnamento. Suo padre avrebbe voluto che lei si iscrivesse alla facoltà di Ingegneria, così lei avrebbe potuto, una volta finita l’università, aiutarlo nel suo lavoro. Lucia però decise di iscriversi a Medicina. Il motivo di questa scelta, come lei stessa dirà più volte nel corso della sua vita, fu dovuto a una “chiamata” e da una “rivelazione”. Una chiamata, giustificata da lei come una missione, dove avrebbe potuto aiutare gli altri e sentirsi utile. Influenzata e colpita dalle storie che sua madre, che era stata infermiera volontaria all’ospedale militare durante la prima Guerra mondiale, le raccontava sin da adolescente, decise che anche lei avrebbe dato il suo contributo: “Ho sentito come una rivelazione che lo studio della medicina era la strada su cui dovevo mettermi” (Fincato, 2007: 29). Una scelta che, a distanza di quasi 70 anni, Lucia non rimpianse mai, anzi, come disse nell’ultima intervista che rilasciò nel 2006:
Debbo dire che non mi sono mai pentita di aver studiato medicina e di aver lavorato come medico, anzi, ancora oggi affermo che, se ci fosse una vita futura ed io ritrovassi tutte le mie facoltà di corpo ed intelletto, tornerei alla medicina. Questo richiamo che io ho sentito, quest’influenza sullo spirito femminile di curare chi soffre, deve essere stato forte in quel momento perché tante giovani vite venivano spezzate e molte altre erano sottoposte a sofferenze incredibili. (Fincato, 2007: 29)
La conferma che aveva scelto la strada giusta le fu data sin dalle prime lezioni che tenne nel laboratorio di anatomia dell’Università di Torino, dove durante un esame istologico al microscopio capì ulteriormente l’importanza della ricerca medica. Inoltre, Lucia credeva fortemente che in quanto donna, anzi, proprio l’essere donna, le avrebbe dato la possibilità di essere un ottimo medico. In una lettera di tributo scritta per onorare la memoria della sua collega ed amica Gemma Barzilai8 si legge: “Le donne hanno sempre avuto una marcia in più, e un istinto naturale per aiutare i loro uomini, padre, figli, mariti, nonostante le difficoltà e gli orrori della Guerra (Bedarida Servadio). Pertanto, studiare medicina e diventare medico fu per Lucia una scelta normale.
I. Gli anni universitari
Il primo anno universitario a Torino fu molto difficile per Lucia. La rattristava molto essersi allontanata dai propri genitori, fratelli, amici e città natale: “Si era in piena Guerra, annata scolastica 1916-1917, le frequenze ai corsi erano scarsissime perché i giovani erano al servizio militare. Tristezza e preoccupazione in casa perché due fratelli di mamma erano al fronte, uno anche in aviazione, allora agli albori, e, quanto mai rischiosa. Io seguivo i corsi regolarmente, studiavo ma non ero felice e mi consolavo mangiando una grande quantità di paste, che mi hanno fatto guadagnare rapidamente molti, troppi chili” (Bedarida Servadio, 1990).
Per questo, una volta tornata a casa dalle vacanze estive, Lucia comunicò ai propri genitori che non voleva più studiare a Torino. L’ambiente era troppo rigido e triste per lei. Il padre capì il punto di vista della giovane figlia e anche per una serie di altre circostanze (scosse di terremoto avvenute nell’Anconetano nel 1917, disfatta di Caporetto, che porto’ un’affluenza di profughi verso il centro sud, compresa Ancona, causando molti disagi ai locali), decise di trasferire tutta la famiglia a Roma dove Lucia avrebbe potuto continuare i suoi studi universitari.
Nel settembre del 1917, Lucia si iscrisse al secondo anno di medicina all’Università di Roma, dove già erano iscritte 13 donne. Pur essendo l’iscrizione universitaria femminile non comune in quegli anni, Lucia ricorda di non essere mai stata discriminata in quanto donna: “La frequentazione femminile ai corsi, era vista ed accettata come cosa normale dai professori, assistenti e studenti maschi. Non siamo mai state escluse dalle lezioni, laboratori o turni in ospedale. Tutti noi avevamo gli stessi obblighi e doveri. Vivevamo in perfetto cameratismo ed amicizia, senza gelosia o animosità, diventando anche amici e frequentandoci dopo i corsi” (Bedarida Servadio, 1990).
I suoi anni universitari romani furono belli, spensierati. Il 17 luglio del 1922 a soli 22 anni e giorno del suo compleanno, Lucia si laureò a pieni voti con lode, diventando la più giovane dottoressa italiana. Dopo la sua laurea Lucia voleva andare a Londra per specializzarsi in Chirurgia infantile, che in quegli anni non si studiava ancora in Italia. Il padre però glielo proibì, suggerendole che avrebbe dovuto pensare a sposarsi. Lucia invece, decise di prendersi una vacanza ed andò a Torino per un po’ di tempo dai nonni materni, dove durante una visita in un ospedale torinese conobbe quello che sarebbe diventato poi il suo compagno di una vita, il dottor Nino Vittorio Bedarida, che sposò alla Sinagoga di Roma il 12 Aprile del 1923. I due giovani sposi si trasferirono presto a Torino dove Nino lavorava come medico chirurgo all’Ospedale San Giovanni. Ed è proprio a Torino che inizia la terza fase torinese della vita di Lucia, ricordata da lei stessa come:
La più bella e la più lieta, rallegrata dalla nascita di due delle mie tre figliuole. Vivevamo essenzialmente nell’ambiente ebraico torinese; sono entrata come 45 cugina nella famiglia, di cui facevano parte molti membri che sono stati i promotori e gli iniziatori dell’industria Torinese. Mio suocero per il ferro smaltato, i Tedeschi per i cavi elettrici. Quasi tutti intelligenti, attivi, colti e più che benestanti. Di conseguenza belle case, bei vestiti, frequenti e festose riunioni familiari per celebrare qualche lieto evento, quali nascite, matrimoni, bar mitzvah, opere, concerti, teatro. (Bedarida Servadio, 1990)
In quegli anni Lucia non lavorava ancora per conto suo come medico, bensì aiutava il marito nella sua pratica di chirurgo e nella sua attività scientifica, passando molte ore in laboratorio ed in biblioteca: “Era lui, e non io, che doveva riuscire nella carriera e quindi io lo aiutavo negli esperimenti di laboratorio, nelle ricerche in biblioteca, nell’esecuzione degli atti chirurgici” (Fincato, 2007: 30). Cionostante, pur avendo una vita molto piena e già due figlie, Paola nata nel 1924 e Mirella nel 1927, Lucia decide di continuare i suoi studi e di specializzarsi in radiologia a Roma, dove vivrà per circa un anno, lasciando temporaneamente il marito e le figlie. Lucia si considerò sempre molto privilegiata per questo. Come dirà più volte, l’appoggio del marito e della famiglia le fu fondamentale per proseguire i suoi studi. Come si evince dai suoi scritti e dalle informazioni raccolte, Lucia era molto legata alla sua famiglia di origine, ma anche a quella del marito:
La mia vita era divisa tra la mia famiglia, quella di mia madre che rimasta vedova nel 1924 si era trasferita a Torino con i due figli più giovani che non avevano ancora finito gli studi, mentre i due maggiori vi risiedevano e vi lavoravano già, e la mamma di mio marito, che aveva fatto della sua casa un centro di incontri familiari ed a ragione ci reclamava. Pertanto, avevamo una riunione settimanale di cui facevano parte diverse amiche. I temi di conversazione non erano dei più elevati ne’ molto interessanti, non si parlava di politica. (Bedarida Servadio, 1990)
E’ curioso come dai vari scritti, pur essendo passati molti anni, i ricordi di Lucia per quanto riguarda le persone ed i fatti avvenuti siano chiari e freschi, mentre per quanto riguarda la città di Torino questi siano sbiaditi, forse perché, come lei scrisse, non amava particolarmente quella città che le dava “L’impressione di essere triste, grigia, senza entusiasmi, forse perché ero nata e cresciuta sul mare ed avevo trascorso gli anni della mia formazione medica nell’atmosfera luminosa ed esaltante di Roma. Pertanto, ho vissuto lietamente a Torino solo con la famiglia e gli amici, per la famiglia e gli amici” (Bedarida Servadio, 1990).

II. Vasto
Nell’estate del 1930, Lucia si trasferisce con le due figlie ed il marito a Vasto in Abruzzo, dove a Nino era stato offerto il posto di chirurgo primario all’Ospedale Civile dal professor Paolucci in persona, allora clinico chirurgo a Bologna ed anche capo del Partito Nazionalista italiano, abruzzese di origine e politicamente molto influente nella zona. “Paolucci pregò Nino di prendere quel primariato, perché voleva dare al paese un elemento di valore” (Bedarida Servadio, 1992). Per Nino questa era un’ottima opportunità, in quanto grazie a questo nuovo lavoro ed all’appoggio di Paolucci avrebbe potuto in futuro avere la possibilità di diventare primario in una città più importante. In quegli anni non c’era ancora sentore di quello che sarebbe successo in seguito agli ebrei, ossia nessun ebreo italiano avrebbe mai pensato di essere deportato e sterminato dai nazifascisti alcuni anni dopo. Nonostante alcune avvisaglie precedenti alle leggi razziali del 1938, come articoli antisemiti sui maggiori quotidiani italiani, il verificarsi di alcuni episodi squadristi, ed a mio avviso, i Patti Lateranensi del 1929 che riconoscevano il Cattolicesimo come unica religione di Stato, discriminando quindi tutte le altre religioni, gli ebrei italiani si consideravano al sicuro e, seppur molti fossero antifascisti, mai avrebbero pensato che Mussolini e sopratutto casa Savoia potessero arrivare a tanto. Per questo le leggi razziali furono per gli ebrei italiani uno shock tremendo, un colpo improvviso, inatteso e doloroso, in quanto si sentirono in primis traditi da quello Stato che consideravano il loro e per il quale tanto avevano fatto, assieme agli altri italiani, per contribuire a crearlo. A Vasto i Bedarida erano gli unici ebrei. “Siamo stati accolti bene”, scriverà Lucia, “Da una parte della popolazione, meno da un’altra parte che ci consideravano “foresti” in quanto provenienti dal Nord Italia”. Una diffidenza data, quindi, dalla diversa provenienza geografica ma non perché la famiglia non fosse cattolica. “Il nostro non partecipare alle cerimonie religiose cattoliche è stato naturalmente notato, ma noi non avevamo nessuna ragione per nascondere la nostra appartenenza alla religione ebraica. Abbiamo fatto conoscenze, amicizie, contatti con i medici dei paesi vicini che hanno subito avuto stima e simpatia per Nino e che hanno cominciato a portare i loro pazienti bisognosi di interventi chirurgici” (Bedarida Servadio, 1992).
Questi rapporti con gli abitanti del paese, le dinamiche di diffidenza iniziale e di accettazione completa poi, la possiamo trovare anche in Cristo si e’ fermato ad Eboli (1945) di Carlo Levi, che scrisse questo suo diario quando, come antifascista, fu mandato al confino a Gagliano nel 1935. Anche in questa autobiografia, come in altre sopra citate, si capisce che l’essere ebreo non era affatto un problema o un fattore discriminante. Lo stesso Levi nel suo diario non fa mai menzione della sua fede mosaica o di avere avuto dei problemi con gli abitanti del villaggio. Si può affermare che uno dei motivi fosse dovuto anche a una certa ignoranza riguardo all’ebraismo e a chi fossero gli ebrei, specie in un mondo contadino del sud Italia, dove sin dai tempi dell’inquisizione non esistevano più comunità ebraiche, ma sopratutto alla tipologia stessa dell’ebraismo italiano. A differenza degli ebrei provenienti dall’Europa dell’est, la maggior parte degli ebrei italiani erano in quegli anni laici e, contrariamente agli ebrei ortodossi osservanti, non vestivano in modo diverso e non parlavano Yiddish. Non c’era nessun segno che li distinguesse dal resto della popolazione non ebraica. Di conseguenza, venivano visti e più che altro accolti, come fu nel caso di Lucia e Nino, tranquillamente.
Contrariamente alle tesi di alcuni storici che vedono le leggi razziali del 1938 come la continuazione di una discriminazione e di un antisemitismo che sarebbe sempre stato presente nella società italiana9 sin dall’emancipazione stessa, la maggior parte degli italiani in quegli anni non era antisemita o, perlomeno, non vedeva l’ebreo come l’altro. I rapporti tra cattolici e gentili erano paritari ed amichevoli. Tutte le fonti a disposizione, testimonianze, memorie ed autobiografie scritte da ebrei vissuti nel primo ventennio del novecento, lo confermano. Diverso invece è il discorso per quanto riguarda lo Stato e la posizione della Chiesa cattolica, dove è possibile rilevare tendenze anti-semite in diversi giornali cattolici sin da metà ottocento10. Sull’antisemitismo di matrice cattolica e di stereotipi verso gli ebrei nell’Italia liberale e negli anni del fascismo, ci sono molti studi, un po’ meno invece per quanto concerne le relazioni sociali tra ebrei ed il resto della popolazione italiana. Le uniche fonti che si hanno sono i diari scritti o testimonianze rilasciate nel corso degli anni di ebrei nati e cresciuti nel primo novecento. L’uso della memoria come fonte storica è stata sempre messa in discussione da parte di alcuni storici (Nidan Orvieto, 2005) in quanto mancherebbe di una certa imparzialità, ossia il ricordo riportato negli anni potrebbe essere rivisto ed adattato (magari inconsciamente) al discorso presente e solamente a ciò che si vuole ricordare o credere, manipolando quindi una certa realtà.
Se da una parte, dal punto di vista storico scientifico, può essere vero, ossia il ricordo rivissuto può lasciare posto ad una certa soggettività e rivisitazione dei fatti realmente accaduti, è anche vero che non si può negare l’importanza e l’uso che si può fare di questo materiale per una maggiore comprensione della nostra ricerca. Nel caso di Lucia, per esempio, i suoi diari, lettere e documenti (questi ancora inediti) sono le uniche informazioni che si hanno a disposizione. Alcune cose scritte da lei possono essere confutate o meno attraverso ricerche archivistiche, come ho fatto in questo studio, ma è vero anche che ciò che lei ha scritto era la sua vita o visione di questa, compresi i rapporti che ebbe con le persone, le istituzioni fasciste e i vari governi. La vita di ogni persona è soggettiva ed unica, ma è anche vero che attraverso lo studio di una vita, quindi di una microstoria, si può capire molto, completando così una ricerca squisitamente oggettiva e scientifica che a volte lascia poco spazio alla considerazione dei rapporti interpersonali, focalizzandosi prevalentemente sui rapporti istituzionali, sulle politiche governative o meno, quindi su una macrostoria, e non tenendo abbastanza conto del fatto che la macro viene capita maggiormente se si prende anche in maggiore considerazione la micro. In questo caso, l’esperienza della gente comune e la realtà della vita quotidiana.
Sin dalla metà degli anni ottanta ad oggi c’è stata una rivisitazione storiografica ma anche politica dell’antisemitismo nel ventennio fascista, sull’origine del razzismo nell’Italia fascista, sul mito degli “Italiani brava gente”11, sul non riconoscimento collettivo italiano della sua adesione al fascismo e nazifascismo e di conseguenza a tutto ciò che questo ha comportato (Levis Sullam, 2015). Studi importanti che hanno contribuito ed arricchito la storia dell’ebraismo italiano. Ciononostante, le “voci” di ebrei che hanno vissuto il contesto storico preso in esame sono ancora poco considerate, o perlomeno si ha l’impressione che non lo siano abbastanza. Non tenendo quindi in dovuta considerazione che l’esperienza dei singoli, attraverso l’uso di interviste, lettere, diari e memorie, può anche dare il senso della realtà dell’epoca. Per quanto non si debba generalizzare, in quanto ogni autobiografia e memoria è unica, si possono riscontrare in quasi tutte le autobiografie ed interviste12 degli aspetti in comune dati dalle storiche vicende che queste persone hanno condiviso, dall’intrecciarsi delle loro vite sia come legami familiari che amichevoli, dallo stesso tipo di educazione (se appartenenti alla stessa classe sociale) ed anche dai rapporti che hanno avuto con la popolazione non ebraica (Bettin, 2010). Come molti studi hanno dimostrato, c’erano ebrei fascisti ma anche antifascisti (Sarfatti, 2000), ed il loro aderire o meno a certi partiti era dato più dalla loro condizione socioeconomica che dall’appartenenza o meno all’ebraismo. L’atteggiamento degli ebrei fu in tutto e per tutto simile a quello degli altri italiani: “In taluni casi di consenso e adesione convinta, in altri di partecipazione per necessità, opportunismo e quieto vivere, in altri ancora di opposizione. In Italia non esisteva una questione ebraica e l’antisemitismo, nei primi quindici anni del regime mussoliniano, era rimasto confinato all’interno di cerchie ristrette di intellettuali e gruppi di pressione di interesse” (Avagliano e Palmieri, 2011: XIV-XV).
Ed è proprio per quieto vivere che i coniugi Bedarida si iscrissero al Fascio, cosa che era in quel tempo (fino a che non fu reso obbligatoro nel 1938) auspicabile se si voleva continuare a lavorare. Una volta iscritto al Fascio, Nino, che era stato decorato e capitano medico durante la Prima Guerra Mondiale, (dove si arruolò volontariamente) fu subito nominato Maggiore Medico della Milizia, Lucia invece fu nominata segretaria del Fascio Femminile. Come segretaria del Fascio Femminile, Lucia si propose l’obbiettivo di dare a questo un nuovo slancio, nel coinvolgere le donne locali in svariate attività; nell’organizzare raduni femminili, come quello a Roma per l’esibizione davanti al Duce di donne abruzzesi nei loro costumi tradizionali; nell’accogliere le varie personalità fasciste in visita al paese di Vasto o nell’ospitare a casa propria l’amante, con madre a seguito, di Starace, allora segretario del partito fascista. Lucia iniziò, inoltre, a lavorare con il marito in ospedale come assistente in sala operatoria e come radiologa. L’ospedale era vecchio, scomodo, ma le suore (che allora lavoravano come infermiere nell’ospedale) erano simpatiche ed accoglienti. Nino diventò anche medico delle Ferrovie con il gran vantaggio di poter viaggiare, anche con la famiglia, gratis. Così i Bedarida tra il 1930 ed il 1939 andarono spesso a Torino ed in giro per l’Italia, specie a Bologna dove Nino insegnava Patologia Chirurgica all’università. A Torino nasce nel 1933 anche la terza figlia, Adria. Lucia era felice di viaggiare, di andare a convegni e ritornare a Torino per vedere la famiglia e fare un tuffo di vita intellettuale, e prendere contatto con i vecchi amici. Rifornirsi di vestiario o andare o tornare dalle vacanze sui monti, dato che vivevano al mare.
figlie a Vasto 1935
Nel frattempo i Bedarida si erano trasferiti a Pescara, anche se continuavano a lavorare a Vasto per permettere alle figlie di studiare al Liceo. Nel 1938 però la loro vita venne completamente sconvolta:
La comparsa delle leggi razziali, sono state un fulmine a ciel sereno, assai meno per gli antifascisti tra cui si trovavano molti ebrei. La macchina amministrativa era stata messa subito in movimento ed eseguita pedissequamente, per cui, nel corso di due mesi la mia famiglia, mio marito chirurgo, io medico, tre figliole rispettivamente di 14, 11 e cinque anni, ci siamo trovati mio marito fuori dall’ospedale di cui era primario, quindi nell’impossibilità di eseguire interventi chirurgici; io potevo ancora fare visite a domicilio e fare prescrizioni mediche. Le ragazze fuori dalla scuola, e, poiché vivevamo in un centro dove eravamo la sola famiglia ebrea, non esistevano scuole ebraiche, quindi impossibilitate a studiare. Non potevo avere più un aiuto domestico in casa, cosa che da sempre ero abituata ad avere. Esclusi da club e centri culturali, ci avevano ritirato tutte le tessere, anche se mio marito era stato inizialmente discriminato, termine e condizione creata per quanti si erano resi benemeriti durante la prima guerra mondiale. Il quadro che do di noi può rendere facilmente che subbuglio psicologico queste leggi, anche se non ancora cariche di minaccia hanno portato nella nostra famiglia. (Bedarida Servadio, 1993)
I Bedarida però ricevettero anche solidarietà ed aiuto dagli abitanti del posto. Quando le furono richieste le dimissioni da segretaria del Fascio Femminile, tutte le donne che avevano collaborato con lei si dimisero in massa con una lettera piena di elogi per il buon lavoro che aveva fatto, mentre il Comandante della Milizia fascista, loro buon conoscente, li aiutò ad esportare diverse apparecchiature mediche ed anche del denaro che consentirà ai coniugi Bedarida di poter esercitare la loro professione in un altro paese. Cionostante, come scriverà Lucia in un suo breve articolo, Reflections on an Italian Jewish Life, si sentiva rifiutata, sola, infelice (Bedarida Servadio, 2002: 354). Non riusciva infatti a capacitarsi del perché un piccolo nucleo familiare che si era fatto benvolere, che non nuotava certo nella ricchezza, che aveva curato e salvato tante persone subiva tutto questo, chiedendosi come il rapporto con la comunità potesse passare dalla stima e benevolenza all’odio ed al disprezzo: “Qual è il substrato di questo fenomeno? Razziale, religioso, sociale, economico?” (Bedarida Servadio, 1993). Domande e preoccupazioni che si ponevano tutti gli ebrei italiani, come traspare in molte lettere da loro scritte ed indirizzate a Mussolini ed anche al re Vittorio Emanuele III all’enunciazione della legislazione razziale antiebraica (Nidan Orvieto, 2005). “Per quanto prevedessi il peggio, non avrei creduto che in Italia, nella nostra Italia, cui ci legano tanti vincoli di cultura, di vita e di affetto, potesse così facilmente svilupparsi un antisemitismo a carattere razzista, ormai designato come teoria ufficiale del regime” (Cividalli, 2016),così scriverà nei suoi diari Gualtiero Cividalli, immigrato nella Palestina del Mandato Britannico nel 1939. Una delle conseguenze delle leggi razziali fu infatti l’immigrazione di diversi ebrei Italiani, non sono nella Palestina del Mandato Britannico, ma in tutto il mondo o perlomeno, per essere esatti, nei Paesi (pochi) che li vollero accogliere dopo il 1938 e all’inizio della seconda Guerra Mondiale. Secondo i dati del Dipartimento per la demografia e razza del Ministero dell’Interno, tra il 1938 ed il 28 ottobre 1941, furono 5966 gli ebrei italiani che lasciarono l’Italia (De Felice, 1961: 367). Tra questi, i coniugi Bedarida. Immigrare però non era cosa semplice, pur avendo disponibilità economiche era molto difficile ottenere un visto di emigrazione. Dopo avere cercato in tutti i consolati stranieri di Roma, i Bedarida riuscirono ad avere una promessa di visto dal Console dell’Ecuador, ottenuta grazie al regalo di una forte somma di denaro. Mirella, figlia di Lucia, ricorda ancora quei giorni : “Di grande agitazione in famiglia, si partiva finalmente, e per l’Ecuador, venti giorni di piroscafo. Che bellezza per noi bambine. Bauli da riempire, biglietti sul piroscafo già prenotati” (Bedarida Shapiro, 2010). Promessa però che non fu mai mantenuta dal Console che all’ultimo momento gli rinnegò il visto. Ricominciava pertanto per Lucia e famiglia un altro calvario. Lucia, ha sempre ricordato quei giorni come di grande preoccupazione e disperazione, in quanto non sapevano più a chi rivolgersi. Fortunatamente però un ex studente del marito, il dottor Shakin, le scrisse per dirle che forse a Tangeri ci sarebbe stata per lei e Nino una possibilità di lavoro. In quegli anni Tangeri era una zona internazionale, amministrata da sette nazioni13, tra cui l’Italia, ed era considerata un posto sicuro per i profughi che scappavano dall’Europa nazista. I rifugiati venivano assistiti dall’American Joint Distribution Committee (JDC), un’organizzazione ebraico-americana che sin dal 1938 aveva aperto un ufficio in città per aiutarli sia economicamente che burocraticamente ad inserirsi. Oltre al JDC erano attive in tutto il Marocco (sia francese che spagnolo), anche altre organizzazioni ebraiche come l’Alliance Israelite Universelle (AIU) the World Jewish Congress (WJC) and the American Jewish Committee (AJC). A Tangeri ogni nazione aveva la propria scuola ed ospedale. L’Italia aveva un suo ospedale, sin dal 1929. L’ospedale italiano non era molto grande, aveva solo 35 posti letto ed era gestito inizialmente da cinque suore della Congregazione Francescana del Cuore Immacolato di Maria. Vicino all’ospedale c’era anche una Scuola Italiana, elementare e di prima media, aperta nel 1927-28, a cui si era aggiunto nel 1929 anche l’Istituto Tecnico e nel 1930 il Liceo Scientifico. Tangeri, pertanto, poteva essere una buona opportunità per i Bedarida, dove non solo avrebbero potuto continuare a lavorare come medici, visto che non c’era bisogno di nessun visto e le lauree italiane venivano riconosciute, ma anche continuare a dare un’educazione italiana alle loro figlie. Nel 1939, Nino partì da solo per vedere quali fossero le possibilità di lavoro reale, e se avesse potuto aprire una piccola clinica privata. Nel frattempo Lucia, rimasta in Italia, si sarebbe preoccupata di vendere i due appartamenti che avevano e con i soldi comprare tutta l’attrezzatura medica chirurgica, compresi i permessi di esportazione. Non era facile, anzi era difficilissimo oltre che vietato per gli ebrei, esportare molti beni propri, specie denaro. In questo, però, Lucia fu aiutata da alcuni gerarchi fascisti che erano stati suoi pazienti e che le permisero di esportare tutto l’equipaggiamento medico per avviare una clinica chirurgica a Tangeri. Lucia, quindi, raggiunse il marito a Tangeri per aiutarlo ad avviare la clinica, mentre le tre figlie dovevano provvisoriamente stare con la mamma e la nonna di Lucia a Pescara. Dopo aver messo su la clinica ed affittato un appartamento per le famiglia, Lucia tornò in Italia per prendere le figlie e portarle a Tangeri. Rimase bloccata però in Italia perché nel frattempo era scoppiata la Guerra ed il suo volo di ritorno a Tangeri per il 10 giugno era stato cancellato. Il 18 ottobre 1940, dopo varie peripezie, Lucia riuscì a partire con le tre figlie con un aereo per Tangeri via Roma-Madrid. Certa di poter tornare presto in Italia, Lucia affittò l’appartamento di Pescara a degli amici, con l’idea che avrebbe ritrovato tutte le sue cose, mobili, tappeti e argenteria dopo pochi anni. Ma non fu così. In Italia nel frattempo erano rimaste la nonna e la mamma di Lucia, che si rifiutarono di partire, nonostante l’insistenza della figlia ed il permesso di espatrio che Lucia, attraverso i suoi conoscenti fascisti, era riuscita ad ottenere per la madre.
III. L’Esilio: Tangeri
Inizialmente la vita a Tangeri, specie per le figlie di Lucia, non era facile. Tutte e tre erano state iscritte alla Scuola Italiana, a quel tempo lontana dalla casa che avevano affittato. Le scuola italiana era aperta a tutti, sia ad italiani (figli di persone che lavoravano a Tangeri) che a marocchini, compresi diversi ebrei espatriati. La scuola italiana aveva un programma italiano, e come tale, essendo in piena epoca fascista, aveva la stessa struttura ed organizzazione delle scuole in Italia. Grande importanza venivano date a manifestazioni, parate, esercitazioni fisiche, fatte dagli allievi delle sezioni Balilla ed Avanguardisti. Questi programmi extrascolastici, come in Patria, erano finalizzati al miglioramento fisico della razza e a creare un nuovo tipo di Italiano. Come osserva giustamente Lorenzo Benadusi:
Il corpo ed il carattere degli italiani dovevano essere plasmati in base alle esigenze del nuovo Stato nazionale per il quale era un obbligo inderogabile la creazione di quel minimo di omogeneità antropologica che passava per norme morali comportamentali ed igieniche valide per tutti. Il legame tra corpo e nazione era inscindibile, la salute,l’esuberanza fisica, la virilità erano considerate valori morali indispensabili per gli individui, ma sopratutto necessari alla patria. (Benadusi, 2005: 13)
Di conseguenza, qualsiasi bambino e giovane italiano delle Colonie o dove ci fossero scuole italiane doveva attenersi a questo programma e sopratutto farne parte integrante. Cosa non facile, visto che gli ebrei espatriati lo erano in quanto erano stati discriminati perché tacciati di appartenere ad una razza diversa, non pura, non più italiana, ma solo: “Dei senza Patria, dei senza Dio, che ci sfruttano ed odiano” (Struttore, 2009: 405). Mirella, una delle figlie di Lucia, ricorda di essersi sentita in questa scuola italiana nuovamente discriminata ed a disagio: “Ho sentito antisemitismo. I miei compagni di classe erano italiani non ebrei, quindi amavano molto Mussolini ed erano molto fascisti. Dicevano sempre frasi anti-Semite e cantavano canzoni contro gli ebrei” (Bedarida Shapiro, 2010). Aspetto condiviso anche da un altro profugo ebreo italiano: “Quando entrai in classe il mio primo giorno di scuola, tutti, all’entrata del professore, si alzarono in piedi per fare il saluto romano. Io, che non volevo apparire diverso dagli altri miei compagni, feci a mia volta ripetutamente il gesto del saluto fascista, come si usava fare in quelle occasioni; in realtà non sapevo che cosa significasse. Tornato a casa chiesi a mia mamma perché se avevamo lasciato l’Italia per sfuggire al fascismo, mi avevano iscritto in una scuola dove tutti salutavano il Duce. Fu cosi’ che qualche giorno dopo venni cambiato di scuola ed iscritto a quella francese”.14 Mirella non cambiò scuola, ma fu protetta ed aiutata dal suo professore di Latino che le disse che la scuola era fascista, ma non tutti lo erano. Anche per Lucia ed il marito gli inizi furono difficilissimi, come lei scriverà nei suoi diari, c’era molta competizione. Molti rifugiati ebrei erano medici. Questi lavoravano negli ospedali delle loro nazioni, c’era anche un ospedale ebraico15. La popolazione araba era in quei tempi molto diffidente, verso questi “medici stranieri”, pian piano, però, i Bedarida riuscirono ad ottenere la loro fiducia ed a lavorare con loro. Specialmente lei, medico donna, a prescindere (come dirà in una conferenza) dalle sue abilità. Era una cosa completamente inusuale, per quei tempi ed in certe zone, vedere una donna medico, ma probabilmente fu proprio il suo essere donna che le permise di curare donne beduine ed arabe musulmane che mai erano state curate prima di allora da un medico. Donne religiose che per religione non potevano e volevano esporre il proprio corpo ad un medico uomo, ma a Lucia come donna sì. Fu così quindi che Lucia, oltre a lavorare per il Consolato Italiano e con pazienti italiani, divenne la Tubiba (“dottore” in lingua araba) e la shifa’ almarid (parola composta araba che sta a significare “colei che guarisce e cura”). Poco importava che Lucia fosse ebrea italiana, per le beduine del deserto ed arabe locali Lucia veniva vista come la sola ed unica tubiba. Ed è così che Lucia inizia la sua interazione con le donne del posto e tutte le sue vicissitudini. Come quando, con una gamba rotta, ingessata fino alla cintola e con grandi difficoltà a camminare, va nel mezzo della notte assieme ad un Sussi (gruppo etnico beduino originario dalla vallata del Sus) ad aiutare la moglie a partorire, senza capire una parola di quello che diceva, visto che i Sussi non parlavano l’arabo ma una lingua completamente diversa:
Parto con un Sussi, io ingessata, per una frattura. Trovo la donna sola, senza neanche nessun conoscente, distesa per terra in avanzato travaglio da parto, com’è la posizione della partoriente nel loro paese. Il marito rifiuta di portare la donna in ospedale ed anche di aiutarmi. Momenti di grande ansia agitazione ed suspense. Non ricordo che cosa ho fatto o che manovra ho usato, ma il bimbo è nato ed ha vissuto. (Bedarida Servadio, 1993)
Diversi sono i racconti che Lucia fa nei suoi Diari del soccorso da lei prestato agli abitanti della zona, in tutti i posti, anche lontani da Tangeri, a qualsiasi ora del giorno e della notte, perché dove veniva chiamata lei andava, a prescindere che lei stessa fosse una donna straniera, quindi soggetta ad eventuali rapimenti per estorsione di denaro. Situazioni e scelte a volte non facili, come quella di accettare nella sua clinica la moglie del Console tedesco, lei perseguitata ebrea, rifugiata in un paese straniero, conscia, pur non sapendo ancora dell’uccisione della madre e nonna ad Auschwitz, di quello che i nazisti avevano fatto e che avrebbero fatto anche in Marocco se gli americani non fossero sbarcati a Casablanca. Ma lei si sentì in dovere di curarla perché: “Un medico non può e non deve mai rifiutare il suo aiuto quando richiesto” (Bedarida Servadio, 1993). D’altronde, come soleva dire, non aveva mai considerato la medicina un mezzo per arricchirsi e far soldi. Quello che per lei contava veramente era curare chi ne aveva bisogno, continuando lei stessa a studiare in continuazione per migliorarsi. Questo spiega anche il motivo della sua proposta per la creazione di un’università internazionale a Tangeri, pubblicata nel Journal of the American Medical Women’s Association, nel 1948, anno in cui venne anche designata dalla Delegazione degli Stati Uniti d’America, Medical Advisor (consulente medico speciale). Nel 1957, Lucia diventò medico dell’Organizzazione francese Oeuvre de Secours aux Enfance (OSE) che prestava assistenza ai profughi ebrei scappati dall’Europa. Parallelamente iniziava anche la sua attività clandestina per i Servizi Segreti Israeliani (Mossad) che avevano bisogno in quegli anni di medici che potessero assistere gli ebrei marocchini che cercavano di far uscire per portarli in Israele.16 C’è molto poco nei suoi scritti riguardo all’aiuto che lei diede al Mossad. La cosa è comprensibile visto che si parla degli anni 1957-1958 e queste operazioni, oltre ad essere rischiose, erano completamente illegali. Pertanto si può capire perché Lucia di proposito non abbia mai voluto parlare di questa sua attività, nemmeno nell’ultimo libro intervista fotografico nel 2006, poco prima della sua scomparsa. Pur avendo lasciato il Marocco nel 1981, Lucia ritornò spesso a Tangeri a trovare gli amici che aveva lasciato e non voleva avere problemi con le autorità locali. Le uniche menzioni di questa sua attività si trovano in due pagine del suo diario, scritto il 27 dicembre 1993, ed anche qui Lucia non menziona mai il Mossad, bensì usa il termine “organizzazione”.
C’erano molti ebrei che abbandonavano illegalmente il Marocco per arrivare in Israele, ma dovevano raggiungere prima Gibilterra, dove un’organizzazione ebraica li faceva arrivare a destinazione. Tangeri era un punto dove si radunavano in attesa dell’occasione di attraversare lo stretto via mare…. Qualche volta l’attesa era lunga, il loro numero grande. Malattie, nascite, l’organizzazione voleva un medico per controllarli e curarli.… Tanti medici hanno rifiutato di aiutare l’organizzazione, temendo di mettersi contro le autorità marocchine che avevano proibito questo esodo. Io però ho subito accettato. Andavo tutti i giorni, dopo aver lavorato all’ospedale marocchino a visitarli nel locale che l’organizzazione aveva trovato per loro dove vivevano temporaneamente, cucinavano, mangiavano, dormivano…… Non conoscevo il nome dei dirigenti, non avevo un contatto, ne uno stipendio. Un’interposta persona mi aveva contattato. (Bedarida Servadio, 1993)
Meir Knafo, uno dei membri del Mossad ed all’epoca responsabile in Marocco dell’immigrazione clandestina, conferma e scrive in un libro ciò che Lucia ha scritto (Knafo, 2017). Ossia che tra i loro volontari c’erano medici che avevano il compito di assistere queste persone, a volte anche di falsificare documenti e certificati medici, come fece Lucia:
Gruppo di ragazzi in partenza per Israele, alloggiati in un discreto Hotel. C’è un’ epidemia di tifo,che bisognerebbe dichiarare all’ufficio di Igiene….Si necessita una forte quantità di cloramfenicolo che allora rispondeva molto bene a queste infezioni….ma non posso far denucia all’Ufficio di Igiene…Attraverso l’Istituto Pasteur di Tangieri, ancora in mano ai francesi, sono riuscita ad avere senza ricetta scritta la quantità necessaria di cloramfenicolo per curare i malati, e prevenire una contaminazione, così in pochi giorni i ragazzi erano in grado di partire. (Bedarida Servadio,1993)
Il Mossad infatti “gestiva” due Hotel in quegli anni a Tangeri, ed uno di quelli era il Lafayette dove Lucia prestava aiuto, menzionato (senza nome) nei suoi Diari. Da alcune frasi in un altro paragrafo dei suoi Diari è possibile dedurre che lei sapesse molto di più di quello che si limitò a scrivere:
Israele, attraverso le scuole dell’Alliance e diffuse in tutto il Marocco ed i suoi agenti che figuravano come maestri, aveva iniziato uno spostamento in massa di questi ebrei verso i centri, dove la comunità era più numerosa, e sopratutto dov’era più facile la possibilità di partenza…. Quindi Tangeri, che solo lo stretto separava da Gibilterra inglese, con un porto e molte spiagge da cui poter organizzare partenze di piccoli gruppi in imbarcazioni…… Le partenze non erano mai a data fissa, qualche volta andava bene…. altre volte le attese erano lunghe…. Le famiglie venivano accampate in un lungo capannone, con qualche tenda di separazione tra una famiglia e l’altra…. Non so chi pensava al vettovagliamento e a tutte le necessità di queste centinaia di persone, la cui presenza doveva essere ignorata dalle autorità. (Bedarida Servadio, 1993)
Non è mai stato riconosciuto ufficialmente o menzionato in nessun documento di archivio che il Mossad avesse insegnanti infiltrati nelle scuole dell’Alliance. Molte informazioni sono ancora riservate e non accessibili al pubblico. Come osserva lo storico Michal M Laskier, il fine delle scuole dell’Alliance aperte in Marocco17 sin dal 1946-47, era quello direttamente o indirettamente di preparare i giovani ebrei all’aliyah, com’è stato dimostrato anche dalla presenza sin dal 1953-54 di molti insegnanti israeliani nelle loro scuole (Laskier, 1989: 340). Pertanto, è più corretto dire che “potrebbe essere”, come potrebbe anche essere che l’affermazione di Lucia a riguardo fosse dovuta a una sua conoscenza diretta personale sia delle persone che delle scuole.18 Questi sono anni molto difficili ed intensi per Lucia. Il marito si ammala ed è costretto a cessare le sue attività chirurgiche, accettando un lavoro come esperto medico al tribunale. Lucia decide di sostituire il marito in clinica, curando i suoi pazienti. La clinica dove Lucia lavorerà come ginecologa ha pazienti completamente diversi. È dotata di strumenti chirurgici all’avanguardia per i tempi, le pazienti quindi sono donne ricche, straniere, non le beduine ed arabe a cui lei era abituata. Lei però non rinuncia alle “sue pazienti” e continua ad essere la tubiba di tutti, sino a diventare, grazie alla sua fama di brava dottoressa, consulente medico per il Ministero della Salute marocchino. I suoi riconoscimenti sono in ascesa: nel 1965 viene nominata medico per l’Aviazione Civile al Ministero Marocchino delle Comunicazioni e Trasporti, ed anche rappresentante per il Marocco dell’Organizzazione Mondale della Sanità e delle Nazioni Unite. Diviene corrispondente internazionale per il Marocco del Journal American Women’s Association e del Diario Espania (periodico pubblicato a Tangeri), dove si occupa di scienza e relazioni internazionali. Questo però è anche l’anno della morte di suo marito. Lucia rimane sola. Le tre figlie vivono oramai negli Stati Uniti e chi rimane della sua famiglia è lontano, alcuni in Italia, altri in diversi Paesi. Eccetto lo zio Adolfo Vitale,19 che sin dal 1940 si era rifugiato con la figlia Sighe’ a Tangeri e viveva nel suo stesso palazzo, Lucia non aveva più visto nessuno della sua famiglia. Nel 1943-44 le comunicazioni postali con l’Italia erano state interrotte e l’unica notizia che aveva della madre e della nonna era in un telegramma di sole 25 parole, scritte da Gemma al fratello Adolfo, che le aveva precedentemente cercate.20 Sul telegramma, una cartolina postale standard della Croce Rossa, scritto il 10 Marzo 1944, Gemma comunicava che stavano bene, anche se sole e tristi.21
Questo biglietto sarà l’ultimo che Lucia vedrà della madre. Il 24 Maggio 1944, una delazione rivelerà ai nazifascisti la presenza di Gemma e Nina, rispettivamente di 65 ed 89 anni, in casa loro a Torino. Le due donne saranno arrestate e deportate prima a Fossoli e poi ad Auschwitz Birkenau dove arriveranno quattro giorni dopo, per essere entrambe destinate subito alla camera a gas. Durante la permanenza a Fossoli, precisamente tra il 24 maggio ed il 6 giugno, Gemma scriverà otto biglietti e cartoline postali indirizzati a varie persone di sua conoscenza. Questi scritti furono consegnati dai destinatari a Lucio, fratello di Lucia, che a sua volta nel 1992 li diede a Mirella perché li potesse dare a sua madre Lucia, che viveva oramai con lei negli Stati Uniti. Dopo che Lucia lesse quegli scritti, che “Oltre al valore sentimentale per la famiglia, avevano un valore storico” (Bedarida Shapiro, 2013), decise di comune accordo con il fratello Lucio e Mirella, di mandarli al Museo dell’Olocausto di Washington22 ed anche a tutti i nipoti e familiari. Era importante per Lucia che questa memoria, oltre che ricordo dolorosissimo delle due donne, fosse tramandata, ma anche fosse messa a disposizione di ricercatori interessati, e che soprattutto: “Non si dimenticasse quanto fatto dalla ferocia nazista” (Bedarida Servadio, 2002: 355).
Seppure Lucia abbia pubblicato solo pochi scritti, alcuni oggi introvabili, la ricerca e lo studio furono per lei sempre un fattore importante e costante nella sua lunghissima vita. Nel 1967 scrisse un articolo molto interessante sulla Medicina araba antica e la sua influenza sul pensiero medico moderno, che presentò anche ad una conferenza alla Dante Alighieri di Tangeri, tenuta nello stesso anno. Questo fa capire molte cose su di lei e vale la pena riportarne alcuni passi:
Vivo da molti anni in un paese islamico (Tangeri) e ritengo utile mettere in evidenza quei punti di contatto tra Oriente ed Occidente che possano portare ad un riavvicinamento di questi due mondi che si vuole considerare separati e distinti dal punto di vista del pensiero e della formazione scientifica. Ecco perché mi è interessato cercare e studiare l’influenza della medicina araba dell’epoca d’oro dell’Islam sulla formazione del pensiero medico moderno dell’Occidente. La storia della medicina ci mostra, come ogni storia del resto, che in tutte le manifestazioni del pensiero umano non vi è mai un taglio netto, ma una continuazione, un’influenza reciproca. Così noi sappiamo che oggi la famosa scuola medica ippocrita non è stata fioritura spontanea all’epoca d’oro della Grecia, ma a formarla hanno contribuito le tradizioni indiane dei Veda, le tavole di Ninive, i papiri egiziani, le prescrizioni bibliche. (Fincato, 2007: 38)
Ciò che colpisce maggiormente nelle sue parole è la sua ricerca, o meglio un credo, che ci possa essere un punto di incontro tra i due mondi, e che sia possibile trovare un linguaggio in comune, perché i due mondi alla fine non sono così separati come sembrano o si crede che siano. Nel suo scritto c’è molta modernità di pensiero, ma anche mistica del mondo, che per Lucia era un unico, un uno. Un uno che si poteva riconciliare attraverso la scienza, la medicina, ma anche attraverso una rinnovata o diversa sensibilità, prendendo esempio magari dal mondo arabo:
Un altro grande contributo degli arabi all’esercizio della medicina è stata la fondazione degli ospedali. Le sale erano fornite di fontane perché il mormorio dell’acqua corrente addolcisse le sofferenze dei malati. Giorno e notte cinquanta cantori cantavano il Corano. Al tramonto, dei musicisti suonavano dolci melodie per portare l’oblio ai malati. Avicenna già allora aveva affermato : Inter omnia exercitia sanitatis cantare melius est. (Fincato, 2007: 38)
Lucia era una donna colta, laureata, parlava perfettamente cinque lingue, compreso lo spagnolo e l’arabo, che aveva studiato a Tangeri per poter “comunicare con tutti”. Era nata in una famiglia alto borghese, ciononostante, si trovava a suo agio a vivere a Tangeri ed in Marocco, che lei considerava un Paese bellissimo e generoso. Il Paese che l’aveva accolta senza discriminarla, un Paese dove lei si sentiva amata e benvoluta, specialmente dalle donne beduine ed arabe musulmane che nutrivano per lei una grandissima stima ed ammirazione. Probabilmente ciò era dovuto anche, al di là delle sue capacità professionali, alla sua umanità, al modo con il quale lei si poneva con gli altri, adattandosi ad ogni circostanza senza superiorità e senza far vedere le sue maggiori possibilità economiche ed anche culturali. Al contrario, lei voleva imparare da quello che invece, come nel caso delle donne beduine ed arabe, era così diverso dalla propria cultura. La diversità, quindi, diventava per lei fonte di conoscenza e ricchezza umana.
Lucia si sentiva profondamente ebrea. Per quanto non fosse osservante, celebrava le festività ebraiche, andava in sinagoga e cucinava anche piatti speciali durante le feste. Ciononostante, non si chiuse mai nel suo mondo ebraico, ingabbiandosi in una sola identità. Amava molto Israele, e riconosceva agli ebrei il diritto di avere un loro Stato, non a caso non esitò un solo istante a collaborare con il Mossad, anche se era molto pericoloso. Era anche interessata alle sorti degli ebrei italiani residenti in Israele, come lo prova una lettera da lei scritta nel 1946 all’Irgun Ole’ Italia (Associazione Immigrati Ebrei Italiani) per ricevere il loro bollettino e pubblicazioni, ma non prese mai in considerazione di andare a vivere in Israele, anche se le era stato offerta dal Ministero della Sanità israeliano un’ottima posizione dirigenziale, grazie alle sue capacità, oltre che all’aiuto che lei aveva dato al Paese.
Lucia aveva una personalità molto complessa ed affascinante, era un medico di successo, ma era anche una donna, una moglie ed una madre. Non pensò mai a non crearsi una famiglia in nome della scienza per essere più indipendente o libera. Al contrario, lei sosteneva che una donna intelligente e capace non dovrebbe mai rinunciare alla maternità in nome di una professione. La maternità per lei era stata un completamento, sia fisiologico che spirituale. Lucia amava profondamente le sue tre figlie, che non si sentirono mai abbandonate o trascurate. Capivano, specie Mirella, quanto fosse importante per lei la sua professione e ne erano fiere ed orgogliose. Dopo la morte del marito, uno dei fratelli di Lucia le propose di ritornare in Italia e di raggiungerlo a Roma, ma per Lucia questo era impensabile. A Tangeri aveva la sua vita, il suo lavoro, i suoi amici, i suoi teatri, concerti ed anche i viaggi. Per questo, quando dopo una serie di acciacchi vari ed un grave incidente ormai ottantunenne raggiunse le tre figlie in America, non lo fece a cuor leggero. Non si adattò mai completamente a quella “nuova vita Americana”, anche se ora era vicina ai suoi cari, alle figlie e ai nipoti, le mancava la sua Tangeri, il mare, il sole nord africano, la sua professione e sopratutto la sua indipendenza. Non si perse comunque d’animo e cercò nei limiti del possibile di continuare a viaggiare, andare a teatro, concerti, mostre, ed iniziando un assiduo rapporto epistolare con familiari ed amici sparsi per il mondo. All’età di cento anni decise di festeggiare il “suo” secolo organizzando una grande festa in Italia, invitando tutti i parenti ed amici e, cosa molto singolare, come poi riportarono anche i vari telegiornali italiani, lanciandosi con il parapendio da Chamois, un piccolo paese di montagna tra le Alpi. Lo stesso rifarà pochi mesi prima di morire, all’età di centocinque anni:
Ho sentito il bisogno fisico di liberarmi nell’aria. Ma è durato troppo poco. L’ho rifatto quest’anno per il mio centocinquesimo compleanno. Tutti volevano impedirmelo. Ho deciso di non dire nulla alle mie figlie, non volevo dare preoccupazioni, avrei raccontato tutto una volta tornata in America. Ho chiesto all’istruttore di allungare il mio tempo di volo dagli alpeggi della Magdeleine sino ad Antey nella bassa valle del Cervino. Anche quest’ultima volta avrei voluto stare di più in quota. Vorrei ritornare davanti al Cervino a festeggiare il prossimo compleanno. Mi porta bene. Mi piace la semplicità dei montanari e l’aria meravigliosa: invece delle vitamine inalo l’aria della valle. Un elisir di immortalità. (Fincato, 2007: 46)
Lucia non festeggiò quel compleanno, morì a Cornwall-On-Hudson, vicino a New York nell’aprile del 2006. Per sua scelta volle che la sua salma fosse riportata in Italia, nella tomba di famiglia al cimitero ebraico di Torino, dov’era stato sepolto precedentemente anche suo marito Nino. Come Lucia disse in un’intervista del 2000 per il suo centesimo compleanno: “Bisogna avere fede nella vita, perché la vita è più forte della morte. Ho avuto una vita ricca, molto interessante e sono felice di averla vissuta e di avere ottenuto le cose che ho avuto” (Bedarida Servadio, 2000: 1).
Indubbiamente la sua vita è stata molto intensa, unica ma sopratutto, aggiungerei, istruttiva. Nonostante le traversie ed i dolori, Lucia non solo non si è mai data per vinta, ma ha dimostrato anche che è possibile vivere senza odiare e che la diversità a volte è solo negli occhi di chi la vede. Forse lei non avrà dato un contributo alla ricerca scientifica o artistica, inventando nuove formule o altro, ma senza dubbio ha dato e dimostrato, in primo luogo attraverso la sua vita, quanto e come sia possibile aiutare ed amare il prossimo. Ricordare, conoscere e far parlare “queste voci” può essere uno strumento non solo di dovuta commemorazione, ma anche di costruzione, per chi rimane, di un diverso tipo di coscienza collettiva sociale, aiutandoci persino a creare questa coscienza.

Note
1 Come molti ebrei italiani i Servadio erano di origine sefardita, probabilmente spagnola. I Servadio sono presenti in Sicilia sin dal XIV secolo, precisamente a Palermo già nel 1350. A seguito dell’espulsione degli ebrei nel Regno delle due Sicilie sotto la dominazione Borbonica, i Servadio si trasferirono nella penisola, chi in Toscana e chi nelle Marche. Il ramo Servadio di Lucia si trasferì ad Ancona, città portuale che contava già una fiorente comunità antica ebraica, che nei secoli aumentò. Nel diciannovesimo secolo c’erano più di 1900 ebrei che vivevano ad Ancona e diverse erano le sinagoghe.
2 Sin dal 29 Marzo 1848, anno in cui Carlo Alberto di Savoia firmò l’Editto di Emancipazione che estendeva tutti i diritti civili ai non Cattolici, includendo anche tutti gli ebrei del suo Regno, gli ebrei italiani parteciparono attivamente alle varie guerre di indipendenza prima e di unificazione dopo. Il Risorgimento italiano, vide infatti molti ebrei in prima linea, e molti furono anche gli ebrei volontari che si arruolarono durante la Prima Guerra Mondiale, per lo più ufficiali (Bettin, 2010: .30-31).


3 Vedi per esempio alcune autobiografie come quella di Pekelis C (2005) My Version of the FactsChiappano A (2010) Luciana Nissim Momigliano, Segre L (2005) Sopravvisuta ad Auschwitz, Fermi L (1954) Atoms in the Family, Sed F (2017) Biografia di una vita in piu’, Navarro A (2002) Siamo ancora vive, Finzi F (2006) A riveder le stelle, Servi Machlin E (1995) Child of the Ghetto. Coming of Age in Fascist Italy; 1926-1946, Spizzichino G (2013) La farfalla impazzita, Cantoni G (2000) From Milano to New YorkSegre DV (1985) Storia di un ebreo fortunato.


4 Luciana Nissim Momigliano nata a Torino nel 1919 ma cresciuta a Biella dove la famiglia si era trasferita a via del lavoro del padre, commerciante di lana. Il 20 luglio del 1943 si laurea in medicina, il 23 febbraio del 1944 dopo un breve periodo nel campo di internamento di Fossoli, viene deportata assieme a Primo Levi, Vanda Maestro e Franco Sacerdoti nel campo di concentramento di Auschwitz. Ritorneranno solo lei e Primo Levi. Al suo ritorno nel 1946 la Nissim pubblicherà sulla sua terribile esperienza ad Auschwitz, Ricordi della casa dei morti (2008).


5 Rivista fascista che pubblicò il 5 agosto del 1938 Il Manifesto della Razza, firmato da 10 professori universitari, originariamente pubblicato in forma anonima dal Giornale d’Italia il 15 agosto 1938 con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza.


6 Durante il Fascismo e le deportazioni nazifasciste, specie dopo le leggi razziali del 1938, 5706 furono gli ebrei che si convertirono su una popolazione ebraica di 45.270.


7 L’alfabetismo ha sempre caratterizzato tutte le comunità ebraiche italiane (ad eccezione di quella del ghetto di Roma, che nei secoli governato dallo Stato Pontificio era stato quello più vessato e povero) ed era di gran lunga superiore a quello della popolazione italiana non ebraica. Scuole ebraiche erano presenti sin dai tempi dei primi ghetti, come a Venezia nel 1516. Generalmente le scuole erano adiacenti alla sinagoga ed aperte sia ai ragazzi che alle ragazze. Le scuole erano pubbliche ed i costi erano volontari. I bambini di famiglie povere ricevevano pasti e vestiti gratis, studiando completamente alle spese della comunità.


8 Gemma Barzilai era un’ebrea triestina che studiò a Roma con Lucia, specializzandosi in ginecologia. A seguito delle discriminazioni razziali si rifugiò negli Stati Uniti per poi ritornare volontariamente in Italia come ufficiale medico dell’esercito Americano durante la seconda Guerra mondiale.


9 Vedi Schachter E (2011) The Jews of Italy 1848-1915, Canepa A (1978) Cattolici ed Ebrei nell’Italia liberale (1870-1915), in Comunità 32, (179): 43-110 e Gunzberg L (1992) Strangers at Home.


10 Vedi la rivista gesuita La Civiltà Cattolica dove uno dei fondatori del giornale, Padre Giuseppe Oreglia, pubblicò tra il 1880 ed il 1883 più di 36 articoli antisemiti. Altri giornali cattolici antisemiti erano: L’Osservatore Romano, fondato a Roma nel 1861 e considerato il giornale ufficiale del Vaticano, ed anche L’Osservatore Cattolico, sorto a Milano nel 1864. Sul tema dell’antisemitismo di matrice clericale ci sono molti studi, come quelli di Kertzer D (2002) I papi contro gli ebrei e Canepa A (1978) Cattolici ed ebrei nell’Italia liberale.


11 Sul tema degli Italiani brava gente, vedi Bidussa D (1994) Il mito del bravo italiano, Del Boca A (2014) Gli italiani brava gente, Focardi F (2013)La memoria della Guerra ed il mito del bravo italiano in Italia Contemporanea, Schwartz G (2000) L’elaborazione del lutto. La classe dirigente ebraica e la memoria dello sterminio (1944-1948) in Sarfatti M (ed) Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda Guerra mondiale, pp. 167-180.


12 Interviste condotte dall’autore a molti ebrei italiani andati a vivere in Israele sia prima che dopo la seconda guerra mondiale. Dati autobiografici di ebrei immigrati nella Palestina Ebraica si possono trovare anche in Marzano A (2003) Una terra per rinascere, ed in Pezzana A (1997) Quest’anno a Gerusalemme. Oltre alle varie autobiografie scritte in questi ultimi anni da alcuni di questi immigrati italiani, come De Benedetti C (2001) I sogni non passano in eredità, e Diaro di Cividalli G (1938-1946) (2016).


13 Oltre all’Italia, Tangeri era amministrata dalla Francia, Spagna, Inghilterra, Portogallo, Belgio ed Olanda. Dal 1940 al 1945 Tangeri fu sotto Protettorato Spagnolo.


14 In L’Ecole Italienne hier, Il Palazzo Littorio e la Regia Scuola Italiana. Documento Archivi Consolato Generale di Casablanca. www.elisachimenti.org/ecole_hier.html.


15 The Haim Benchimol Hospital era un ospedale ebraico fondato da un ricco ebreo marocchino nel 1863, il primo ad ottenere la cittadinanza francese. L’ospedale era finanziato dalla comunità ebraica e da privati, era aperto a tutti gli abitanti di Tangeri, anche a stranieri che non avevano una rappresentanza diplomatica ed ai profughi. Il costo per i rifugiati era a carico del JDC.


16 L’immigrazione clandestina di ebrei marocchini iniziò ad essere organizzata nel 1947-48 ad opera dall’Agenzia Ebraica e specialmente dal Mossad Le’ aliyah Beth divenuto poi noto con il nome di Mossad all’inizio degli anni ‘50. Vedi il rapporto del 3 Aprile 1949, su Tangier ve ha Morocco Sefardit (Tangeri ed il Marocco Spagnolo, in ebraico). In Haganah Archive, Youth Aliya. Emigration to Israel, Geneva Files, Box 320b, n.77, 1951-52.


17 Le prime scuole dell’Alliance Israelite furono aperte a Tangeri nel 1864. Queste erano in un vecchio palazzo che apparteneva alla comunità ebraica tangerina. Gli insegnanti erano pagati dal Ministero della Pubblica Istruzione di Rabat, mentre gli insegnanti di ebraico venivano pagati dalla comunità ebraica di Tangeri. Nel 1949, veniva fondata da Jack Pinto e Abraham Laredo, l’Association d’Aide a l’Enseignament Professionall de la Jeunesse Israelite de Tanger, finanziata dal JDC (Cozes-Benatar, 1955: 456.


18 Uso il condizionale perchè nell’Archivio Militare Israeliano e delle Forze di Sicurezza (IDF), in quello del Ha Merkaz Malam le Moreshet Modiin (Intelligence) ed in quello dell’Haganah, non ho potuto confutare quanto scritto da Lucia riguardo alle scuole dell’Alliance ed altre attività particolari fatte da agenti del Mossad. Né ho trovato informazioni particolari su Lucia.


19 Adolfo Vitale era il fratello di Gemma, mamma di Lucia. Fu lui che scoprì l’uccisione della madre e sorella ad Auschwitz. Colonello, aveva combattuto con le truppe alleate nell’Africa del Nord. Una volta finita la guerra fu incaricato dall’Unione della Comunità Ebraica Italiana di creare e dirigere il Comitato ricerche deportati ebrei. Partecipò a diversi processi e si incontro con Hoess, capitano di Auschwitz, da lui definito un “piccolo uomo banale”. Di questa sua esperienza scriverà il manoscritto: Pellegrinaggio fra l’orroreIl processo Hoess a Varsavia. I campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau-Maidanek. Questo scritto venne letto da Vitale in molte conferenze, tenute a Roma e a Milano in varie associazioni, tra il 2 giugno 1947 ed il 16 luglio dello stesso anno.


20 Adolfo aveva mandato attraverso la Croce Rossa un telegramma alla madre e sorella nel settembre del 1943.


21 I quattro figli maschi di Gemma erano rifugiati chi tra le montagne chi in Svizzera. Lei era rimasta quindi da sola a Torino con l’anziana madre. Come si legge in alcune lettere di corrispondenza tra due figli di Gemma, ritrovate nel dopoguerra, Gemma e Nina si erano sempre rifiutate di lasciare Torino, anche dopo il loro primo arresto, avvenuto il 2 dicembre 1943. Le due donne, come si vede nei verbali di arresto, furono rilasciate l’11 dicembre. Ad oggi, le ragioni del rilascio e come furono arrestate non sono chiare. Un’ipotesi potrebbe essere data dall’amicizia o buona conoscenza che c’era tra uno dei figli di Gemma con un funzionario fascista di polizia. Ma questo non è ancora provato.

22 Nel 2016, queste lettere scritte da Gemma Vitale Servadio sono state raccolte in un saggio, I am Counting on You on Everyone, con introduzione di Mirella Bedarida Shapiro e Marco Coslovich, edito dal Centro Primo Levi di New York.

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