Particolare del quadro votivo offerto dalle parrocchie di Perloz e Lillianes, 1685 |
Tradizioni popolari d’Abruzzo: il giorno di Ognissanti, oggi noto come Halloween
di Angelo Iocco
Se qualcuno legge la novella aprente della raccolta Trecce Nere di
Domenico Ciampoli, con l’identico titolo del volumetto, Tip. Treves, Milano,
1891, potrà piacevolmente ammirare le suggestioni dello storico atessano, nel
riportare un’antica tradizione di Canzano nel teramano la notte di Ognissanti,
quando nell’aia di una stalla i paesani banchettano insieme in onore dei Morti,
aspettando che i defunti passino a far visita nel mondo dei vivi. Una
suggestione premonitrice per la triste fine della ragazza protagonista,
leggiamo insieme uno stralcio:
“C’era
il pranzo de’ morti e la fiaccolata. Secondo il costume, la mamma e Mariuccia
si dettero un gran da fare per imbandire in mezzo alla casa una gran mensa: di
quella notte le anime de’ parenti vengono a visitarci e per ognuno dev’essere
un posto a tavola: a dritta le femmine, a mancina i maschi, a capo i nonni, in
fondo i bambini; e come tutto è pronto, si spegne il fuoco, versando dell’acqua
sui tizzoni e sulla brace: forse pensano che al mondo di là qualcuno può averne
troppo, di fuoco. Poi si recitano le preghiere pe’ morti. A mezzanotte s’ode
uno scampanio improvviso, un urlio terribile: tutte le finestre delle case
illuminate, per le vie buie una turba di gente che grida, va picchiando gli
usci, e porta in mano tante fiaccole strane: sono canne o pali in capo a’ quali
è un teschio vuoto, dalle cui occhiaie esce la luce d’una candeletta; teschio,
per così dire, ma in verità è una zucca bucata che ne fa le veci.”
Suggestioni che il Ciampoli in prima persona, nelle sue contrade, dovette vedere, e di cui si servì, sulla scorta degli studi dei suoi amici etnologi De Nino e Finamore. Si tratta di una delle più antiche testimonianze letterarie scritte sul Culto dei Morti in Abruzzo.
Halloween non è altro che la semplificazione di "All Hallows' Eve" = la vigilia di Tutti i Santi.
Molte delle nostre feste o ricorrenze (anche quelle religiose come Natale,
Pasqua) sono incardinate a riti e tradizioni di origine pagana.
Il 25 dicembre, per esempio, è in realtà la antichissima festa del Sol
Invictus, collegata al culto del dio Mitra.
Le nostre più belle Chiese sono state costruite su antichi templi pagani.
Gli aspetti di natura commerciale hanno abbondantemente condizionato tutte
le nostre feste, comprese quelle considerate religiose.
La Festa di Halloween è una della celebrazioni più sentite e diffuse in
tutto il mondo.
Per curiosità culturale, questa è la storia delle manifestazioni della
notte di Ognissanti, con riti presenti da secoli anche sul territorio italiano.
Alcune ricerche in proposito raccontano che in varie regioni viene
celebrata dalla notte dei tempi.
Nel celebrare la commemorazione dei defunti, una tradizione vuole che i
primi Cristiani, vagabondassero per i villaggi chiedendo un dolce chiamato
“pane d’anima”, più dolci ricevevano e maggiori erano le preghiere rivolte ai
defunti del donatore.
A Massafra in provincia di Taranto gli anziani raccontano che il 31 ottobre
i morti di notte escono dal cimitero in processione e percorrono le vie del
paese vecchio con il dito acceso a mo’ di candela. Se incontrano un passante
che va al mattino presto a lavorare lo uccidono e lo portano con sé. Queste
anime del purgatorio entrano nelle chiese per celebrare messa. Una leggenda
narra che una volta un vivo entrò in chiesa e quando il prete si girò per la
benedizione verso la navata, il vivo si accorse che non aveva il naso e solo
allora fu sopraffatto dagli altri morti.
Le anime del purgatorio erano molto rispettate nelle case dei nonni. Oltre
ad un’apposita preghiera pronunciata ogni giorno durante il Rosario, veniva
loro riservato tutto l’anno un coperto vuoto a tavola, con tanto di sedia,
forchetta o cucchiaio e tovagliolo. Le anime del purgatorio ritornano nel
cimitero la notte dell’Epifania.
Vittorio Monaco, per quanto riguarda l’area Peligna e la Valle di Sulmona, raccolse diverse usanze, ispirandosi anche a quanto già scritto dal suo predecessore Antonio De Nino negli Usi e costumi abruzzesi, in Capetièmpe – Capodanni d’Abruzzo, Textus, L’Aquila 2011. Il volume in forma ciclica ripercorre le tradizioni dell’avvio di un periodo dell’anno, partendo dal Capetiempe dell’Ognissanti, arrivando all’Avvento di Natale, al Capodanno e all’Epifania, per concludere con Sant’Antonio abate e i riti della Santa Pasqua.
A SULMONA, si svolgeva il 2 novembre l’ufficio funebre più singolare, durato fino alla fine del 1800, il BANCHETTO FUNEBRE che ricordava la tradizione celtica e anche romana. La città seguiva “la processione” fino al cimitero dove si celebrava la messa e poi la baldoria. Questo rientrava in quella concezione secondo cui il defunto potesse godere ancora dei piaceri della vita sprigionati accanto a lui. I giovani, durante la notte, scarabocchiavano tibie e teschi con gesso bianco sulle porte delle case per dire che i morti erano stati lì quella notte, come riporta De Nino nel I vol. degli Usi abruzzesi, 1879, con un rito simile all’Halloween che oggi conosciamo, anche se il motivo era differente da quello goliardico e consumistico. Le antiche usanze sono riportate in una bellissima e lunga poesia di Francesco Simonetti: Sulmona nei riti religiosi, Angeletti, Sulmona, 1901, ritrascritta in Sulmona Città d’arte e di poeti, a cura di E. Mattiocco, G. Papponetti, Carsa, Pescara, 1996.
Fino agli anni ‘40 a PRATOLA PELIGNA, nella sera di Ognissanti, i ragazzi con il volto imbiancato
di farina bussavano alle porte delle case.
A PETTORANO si usava mascherarsi da scheletri “con la faccia impiastricciata di cenere e farina”, nella metà dell’800 invece i giovani contadini con la chitarra andavano di casa in casa intonando “la canzone dei questuandi”, in cambio di frutta, ciambelle, identificandosi con le anime dei morti”.
A PACENTRO, nella settimana dei morti, venivano celebrate le messe in tutte le chiese fino alla festa di San Carlo (prima domenica dopo Ognissanti). Racconta De Nino che il banchetto funebre alla vigilia del 2 novembre era preparato dalle famiglie agiate proprio per i morti, per poi devolvere tutto ai poveri la mattina seguente.
A INTRODACQUA si immaginava l’ordine di successione
delle anime in corteo con una candela in mano: davanti i nati morti (senza
muovere i passi avanzano come spinti da un soffio di vento), seguiti dai
deceduti subito dopo il battesimo, poi le giovani, infine adulti e anziani.
Questa tradizione viene riportata anche dal Finamore, come vedremo, per alcuni
paesi del chietino. La processione era chiamata la “Scornacchiera” (da
cornacchia, per la quale, diversamente dal corvo, prevalgono aspetti positivi,
sempre secondo le credenze popolari ) ed era scandita da una filastrocca “tiri
tiri tera e mo’ passa la scornacchiera”. Ancora oggi nelle finestre delle case
introdacquesi vengono accesi lumini.
Filastrocca di Pettorano sul Gizio per Ognissanti,
trascritta da Pietro de Stephanis per Il Regno delle Due Sicilie descritto e
illustrato, Napoli, 1865, anche in V. Monaco, Capetiempe ecc., cit.,
2011
Il Monaco nel suo testo riporta degli studi
sull’antico Capodanno celtico, cioè la necessità di continuare a far “brillare
il sole” con delle fiaccole e dei lumi, per questo la tradizione anche in
Abruzzo di accendere i lumini il dì di Ognissanti, poi per San Martino,
continuando con i fuochi delle contrade il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata
Concezione, nonché il giorno stesso dell’8 dicembre (anche se solitamente oggi
in Abruzzo i fuochi si accendono nelle contrade il 7 dicembre, e l’8 nelle
piazze dei comuni). Un proverbio di Pacentro recitava: “N’abbaste a rengrazià
lu Paradise,, c’hanne messe la bona parole pure l’aneme de lu Purgatorie! Il
Finamore nelle sue Credenze abruzzesi nell’Archivio delle Tradizioni Popolari,
ricorda che la sera dell’Ognissanti le botteghe e le case solevano esporre
lumicini accesi, e le campane delle chiese suonavano a morto. Questa usanze
delle campane oggi è desueta, se non in qualche contrada la cui tradizione
ancora resiste al progresso. Si usava, anticamente, anche riesumare le ossa dei
defunti nei cimitero per riutilizzare la terra per i nuovi morti. I lumini
ovviamente erano accesi anche nelle chiese, insieme ai ceri, i paesi, dice
Monaco, sembravano essere dei piccoli paesi con lucignoli che rischiaravano
magicamente la notte oscura
Sulle antiche usanze abruzzesi ci aiuta Gennaro Finamore nelle sue Credenze, usi e costumi abruzzesi, Palermo, 1890, al capitolo “Tutti i santi”. Tradizioni oggi purtroppo sono irrimediabile corrotte da contaminazioni “American-folk” di Halloween e sciocchezze varie, più per solleticare e soddisfare il gusto della massa, i cui organizzatori cercando di spacciare questi loro eventi per “vere tradizioni popolari”! Il tutto condito sul web da articoli pubblicati senza verifica di fonti, che aggiungono danni e invenzioni tout-court a tradizioni già di per sé corrotte da almeno un ventennio in Abruzzo, dove si parla del “vero Halloween abruzzese popolare”, et similia! Oltre al Finamore, noi ci siamo documentati sui ricordi e le testimonianze dei più anziani, che hanno parlato delle loro usanze, nell’immediato dopo-guerra, per festeggiare il giorno dei Morti e di Tutti i Santi ovvero Ognissanti.
Come scrive il Finamore
a p. 180, la tradizione concorda con i ricordi degli anziani da noi
intervistati: Luciano Flamminio, Antonio Falconio, Vincenzo Coccione, Raffaele
Filippone, Antonio D’Ercole, Vittorio Pace, Nino Berardi, Peppe Candeloro.
Ossia: all’inizio della sera del 31 ottobre, sui davanzali delle botteghe e
delle finestre, si accendono dei lumi (Finamore non parla di zucche, che
giungeranno più avanti), e a volte qualcuno depone anche dei fichi secchi o
altre vivande umili “pe’ l’alme de li murte”, cioè per le anime dei morti, che
in quell’occasione si risvegliano, e vagano per le strade; in sostanza per
onorare i propri cari defunti.
Le campane suonano a
morto per lunghi minuti, il parroco non riceve offerte in denaro, ma derrate
per i poveri. A Gessopalena si ritiene che i morti vadano a far visita alle
case dei cari, a Campli le candele sulle finestre si tengono accese tutta la
notte per uso dei morti; la stessa cosa a Vasto, dove le candele si tengono
accese sopra le conche; quanto al rito del cibo per i morti, Finamore prende
una testimonianza da Chieti: il pane e altre vivande si tengono con
accompagnamento di candela accesa, per tutta la notte, sulla tavola, per uso
dei morti. L’indomani il pane si distribuisce ai poveri. I poveri hanno un
valore simbolico in questa tradizione, ricevendo la carità del cibo “mangiato”
dai morti la notte del giorno precedente, in occasione della “festa di Tutti i
Santi”, intercessori delle anime per poter arrivare alla contemplazione divina.
Come si possono vedere
i morti? Finamore, da una testimonianza chietina, dice che occorre andare a un
crocicchio, ossia a un Capocroce fuori il paese, e mettersi col mento su una
forca, e vede passare le anime belle, poi le anime brutte uccise dai dannati.
Sempre per il concetto che al vivente non è concesso stare a contatto diretto
coi defunti, la fantasia popolare, riportata dal Finamore dice che, le anime
belle consigliano a chi le vede di andare a casa, altrimenti, per la troppa
curiosità, al momento della sfilata delle anime brutte, si muore di paura.
Questa tradizione è frequente anche a Lanciano: Luciano Di Corinto racconta che
nel quartiere Lancianovecchia, a notte fonda, si usava prendere delle piccole
canne, spaccarle in due nel punto mediano del fusto, aprirlo, e guardarci oltre
con un occhio. Si sarebbero potute vedere le anime, e parlarci, per sapere del
proprio destino.
Raffaele Filippone,
classe 1946, racconta invece che, da piccolo, dunque anni ’50, nello stesso
quartiere, in onore dei morti, per ricevere qualcosa dalle famiglie, delle
compagnie di ragazzi andavano girando di casa in casa, con fascine di
carta-velina con sopra una specie di fiaccola, canticchiando: “L’alme de li
murte ta-ta-fù!”, ossia una filastrocca di richiesta di qualche vivanda in
onore dei morti. Questa usanza era frequente ancora negli anni ’60 nei
quartieri popolari della città. La testimonianza lancianese deriva sicuramente
da altre testimonianze più antiche, registrate dal Finamore, nel suo saggio,
cioè i metodi popolari per poter entrare in contatto con i morti, o almeno
vederli. Egli riporta altre testimonianze di Fara Filiorum Petri: si deve stare
sotto la piletta dell’acqua santa, e appoggiare il mento a una forca per
vederli, ma siccome al vivo non è concesso starci in contatto, non lo ha mai
fatto nessuno; oppure il morto che va in sogno, chiedendo una camicia per il
freddo, il vivo mette la camicia nel buco per fargliela trovare di notte: nella
versione di Chieti la camicia viene rubata e il moro se ne lamenta col vivo,
nella versione vastese il morto ne fa uso per andare in giro di notte, ma
riporta la camicia sporca perché di notte ha piovuto. Un finale dal sapore
comico, di schietto gusto popolare!
L’Aneme de li Muorte a Serramonacesca
A Poggiofiorito, Vincenzo Coccione classe 1937 ricorda che nei primi anni del ‘900, fino alla sua gioventù negli anni ’50, per un po’ di cibo, i ragazzi andavano in giro per le vie del paese e per le compagne, cantando filastrocche con delle torce accese, mentre qualcuno esponeva delle zucche tagliate e accomodate alla finestra, con un lume in mezzo. Quando era ragazzo iniziò anche a Poggio a radicarsi la tradizione di intagliare zucche con aspetti grotteschi; solitamente si sceglievano le zucche verticali a forma di pera, in modo da sembrare ancora più spaventose, entro cui adagiarci un lumino, e da porre agli ingressi dei recinti delle masserie, per impedire che i morti venissero a disturbare il sonno dei vivi. Questa usanza di preferire zucche “a pera” ancora oggi è pratico assai nelle contrade di Guardiagrele, specialmente tra Piano Fonti e Villa San Vincenzo.
A Castel Frentano,
ricorda Corrado D’Angelo, classe 1951, ricorda che nel centro storico si usava
adagiare dei lumicini alle finestre, ed erano chiamati “cirògge”, cioè “poco
lume”, quel lume fioco, appena visibile con flebilità, necessario per
illuminare il cammino dei morti che sarebbero ritornati per le strade quella
notte “magica”; allo stesso modo nella vicina Guardiagrele, dice D’Angelo, per
indicare un lucignolo, si dice “lu ciròtte”; ricorda altresì che da ragazzini,
si preparavano insieme con scatolone e carta velina le zucche, canterellando
“L’aneme de li murte! Ta-ta-tà!”, filastrocca simile a quella lancianese
ricordata dal Di Corinto. Perché si preparavano queste zucche? Per spauracchio
verso i morti? Per onorare i morti in quella notte che sarebbero ritornati? O
semplicemente per diletto infantile?
Nino Berardi classe
1946 ricorda che a Ortona si cantava il ritornello: “L’aneme de li muorte”.
C’era la tradizione dei dolci, si facevano i taralli e le fave: “le fave de li
muorte, li taralle de li muorte”. Al momento non siamo riusciti a trovare
tradizioni antiche “non contaminate” a Pescara, città giovane troppo
contaminata, a partire dagli anni ’80 dal fenomeno di ritorno dell’Halloween
americano. Anche a Guardiagrele, come testimonia Lucio Taraborrelli da parte di
una sua ava, fino ai primi del ‘900 si usava in alcune contrade lasciare la
tavola imbandita con delle pietanze perché gli antenati defunti se ne
servissero nella notte. E guai a provare a vederli!
In Abruzzo, nel piccolo paese di Serramonacesca si celebra
"L’aneme delli muorte", con zucche e candele: i bambini bussano alle
porte e al “Chi siete?“ rispondono "L’aneme de le morte”. Da oltre
vent’anni questa manifestazione viene riproposta nel paese, con stand
gastronomici, e addobbo delle vie e vicoli storici del paese con zucche
caratteristiche, illuminate, di tutte le varietà e aspetti grotteschi. Infatti
c’è proprio una gara tra i vari paesani nel realizzare la zucca più spaventosa,
che alla fine vince un premio, il 31 ottobre. Tuttavia questa antica costumanza
di andare in giro in compagnia per le case, è andata scomparendo, per lasciare
posto all’evento “folk” di massa, con i detti stand, gli immancabili
chioschetti del vino, della birra, delle castagne, e spettacoli di
intrattenimento che poco hanno a che vedere con l’antico rito.
Nell’area marrucina tra Orsogna e
Poggiofiorito, ugualmente c’è la tradizione di realizzare una zucca. Scrive
l’artista orsognese Antonio D’Ercole, sulla base di testimonianze del maestro e
poeta orsognese Plinio Silverii:
"LA VERACIRA"
L' usanza del tutto scomparsa era la sfilata, la sera del primo novembre,
di bambini e ragazzi che recavano in mano piccole fiaccole e candeline accese,
in suffragio dei defunti.
Procedevano essi a due a due. I più piccoli reggevano a penzoloni
lampioncini veneziani con candeline accese, detti a Orsogna, << li
veracire >>, termine misterioso e nell' etimologia e nella sematica.
I più grandicelli portavano in mano
<<li cocce di morte>> (le teste di morto): scatole di cartone
vuote, con un teschio disegnato e ritagliato su una facciata foderata di carta
velina rossa. Una candela accesa all' interno dava risalto al teschio, dandogli
una certa animazione. Altri teschi, costruiti con la stessa tecnica, ma senza
la carta velina erano fatti con delle grosse zucche :
(<< li chicocce >>), vuotate dei semi e di gran parte della
polpa, facendone restare la corteccia. Su questa si praticavano due fori per
gli occhi, una fessura per la bocca e una per il naso.
La candelina accesa all' interno mostrava l' immagine del teschio.
Chiudevano la sfilata i ragazzi che portavano << li piparule rusce >>: i peperoni rossi, che privati dei semi e forati nelle parti superiori, si incappucciavano a mo' di abat-jour, su dei morsiconi di candele ed erano retti con la mano.
Tutti, camminando a passo di marcia, ripetevano: <<La veracire ! La
veracire/Lu piparole rosce/ E chi li cunosce e chi li cunosce ! >>
Il ritmo del verso, cadenzato, era accompagnato dal suono di bidoni, piatti
di latta, pentole ecc. e dal fischio degli zùfoli costruiti dagli stessi
ragazzi, e chiamati << li ciufìlle di canne >>.
La “veracìre”, ipotizza
Vittorio Pace, classe 1941, sarebbe la “vera cera”, cioè quella che si mostra
quando si esaurisce il lume della candela, a simboleggiare la fine della vita
all’esaurirsi della luce. “li piparuole rosce” sono invece un termine comico
per immaginare questi contenitori che col lume dentro diventavano rossi,
somigliando a dei peperoni, anche perché alcuni ragazzi per sembrare buffi, se
li adagiavano sulla testa. Peppe Candeloro di Casoli classe 1931, ricorda anche
lui il rito di accende i lumini che si mettevano ai davanzali delle finestre, o
sugli usci delle case, ricorda anche, però negli anni ’60, delle processioni di
ragazzi per le strade del paese, con delle fiaccole accese, e in qualche
davanzale si ponevano le consuete zucche abbellite.
Nella stessa area
dell’Aventino, Amelio Pezzetta, classe 1947, ricorda che a Lama dei Peligni si
usava accendere dei lumini nelle case, e imbandire con fichi secchi la tavola
per i cari che sarebbero tornati la notte dell’Ognissanti. Ricorda altresì che
agli inizi degli anni ‘80, con la carta velina e delle umili scatole di cartone
si creavano delle zucche spaventose, tagliando occhi e bocche, con cui i
ragazzini sarebbero andati in giro per le strade a chiedere qualcosa da
mangiare “per l’anima dei morti”. La tradizione straniera americana, iniziatasi
a radicare in questi anni nelle aree abruzzesi, come nel resto d’Italia, non
venni immediatamente recepita e compresa dagli anziani, tanto che, ricorda
Pezzetta con ilarità, un’anziana di Lama si spaventò a morte vedendo i
ragazzini mascherati che con le zucche dall’aspetto grottesco, illuminate
internamente da una candela, chiedevano da mangiare!
Abbiamo notato, alla
luce di queste testimonianze, una tradizione che si è profondamente modificata
dai tempi di Finamore, dunque alla fine dell’800, fino agli anni dell’immediato
dopoguerra. Solo il De Nino, il Finamore, il Giancristofaro e le testimonianze
orali, o scritte, di qualche storico locale che ha scritto di tradizioni nel
scolo scorso, oggi, possono dare uno spunto, una traccia per uno studio sulle
tradizioni abruzzesi di Ognissanti. Non dell’Halloween abruzzese! Per questo
motivo noi ci siamo fratti scrupolo di scrivere qualche notizia, di quelle
verificabili intendo, che permettano di avere un’idea di come erano queste
tradizioni. Tradizioni dal significato intimo, del legame della famiglia,
dell’onorare i morti, dell’accendere delle candele davanti ai ritratti dei
defunti nelle proprie case.
Si è passati, da queste
sparute testimonianze che abbiamo potuto raccogliere, di come fosse la
tradizione negli anni ’50-60, già con la presenza delle zucche addobbate (una
reminiscenza americana durante la loro presenza nel 1943-44, ipotizza
qualcuno?), al calo di importanza di questi riti, come diverse persone ci hanno
testimoniato, negli anni ’70 e ’80. Vogliamo dire: niente più processioni con
fiaccole, e né zucche addobbate sui davanzali, ma solo la consueta visita ai
parenti defunti il 1 novembre nel cimitero.
Naturalmente dagli anni
’90 in poi, fino ad oggi, il fenomeno di ritorno americano, con i film a tema
(si pensi alla saga di Halloween di Carpenter, Nightmare e Venerdì
13), c’è stata anche in Abruzzo l’esplosione dell’interesse per Halloween,
appunto l’Halloween delle ragnatele attaccate alle finestre, delle zucche, dei
fantasmini, dei pipistrelli, dei vampiri, dei diavoli rossi, dei dolci di
“dolcetto o scherzetto”, del mascherarsi da mummie, zombie, licantropi,
streghe, personaggi da Famiglia Addams, e via dicendo. Ma tutti sappiamo che
ciò non corrisponde, né alle tradizioni dell’Abruzzo, né suppongo alle antiche
tradizioni di qualsiasi paese d’Italia! Tra le ultime folli trovate di
Lanciano, ad esempio, per comprendere quanto alla deriva sia arrivato questo
fenomeno, basti pensare l’affitto di una cassa da morto a una ditta di pompe
funebri, esibita sui portici del Corso Trento e Trieste! Forse un riferimento goliardico
a esorcizzare la pausa per la morte, e a vivere gaiamente la propria vita? Il
gioco forse è sfuggito di mano. La cosa che purtroppo intristisce e rammarica,
perché devia le menti e le contorce, specialmente quelle giovani, è l’aver
capovolto e distrutta un’usanza che, come ribadito, ha a che fare con il
sentimento di intimità e di rispetto per i propri defunti. Con cui si poteva
entrare in contatto, stando alle testimonianze popolari, con lumi, o anche con
Messe in Suffragio il 31 ottobre e il 1 novembre. Un contatto silenzioso e
intimo reciso, profanato dal chiasso e dall’esibizione di costumi di un
Carnevale al contrario, quello di Halloween, di nipoti che ricordano i nonni
forse per le laute paghette che li somministravano, salvo poi ricordarsene 5
minuti, controvoglia, il 1 novembre, con un Paternoster recitato alla carlona,
dopo la nottata di festa!
Processione
dell’Ognissanti a Schiavi d’Abruzzo
IL GIORNO DI OGNISSANTI
Il 1 novembre c’è la
ricorrenza, comune ovunque nel mondo cattolico, di andar a far visita ai morti
nei cimiteri. È anche un modo per i familiari di rivedersi, e di commemorare
insieme, in silenzio, i propri defunti. Peccato che spesso accade che molte
famiglie si ricordino dei propri cari solo il 1-2 novembre, e tanto si
affaccendano nel compare i fiori più belli e costosi, i più vistosi, i più
profumati, crocifissi, lumicini e candele variopinte elettriche, oppure
cuoricini rossi, per andarli a depositare presso le cappelle o i loculi
destinati. Sembra come che la grave e lunga assenza debba essere ricompensata
dall’abbondanza, come se così facendo, il morto accolga le scuse del suo caro e
possa perdonarlo della mancanza delle visite durante l’anno! Superstizione popolare,
o semplice senso di colpa? Eppure, escludendo i parenti che davvero onorano la
ricorrenza festiva, recandosi anche a Messa, e che magari tornano dalle città
distanti o anche dall’estero nel cimitero dove riposano i propri antenati,
diverse persone sgomitano davanti i chioschetti dei fiorai, danno vita a
scenette degne da cabaret, solo “per farsi vedere”, con visoni, pellicce, borse
e stivaletti, per andare pieni “di doni” profumati a rendere omaggio ai morti,
biascicando nervosamente e velocemente un’Avemmaria e Eterno riposo, per poi
andare a sbrigare di corsa altre faccende.
Quanto alla processione
di Ognissanti di Sulmona, di vero interesse in Abruzzo, quanto a tradizione
unica del suo genere nella regione, riportiamo la poesia di F. Simonetti:
«Nella vigilia e nel giorno dei morti la celebrazione di messe a suffragio
dei defunti era comune. L'ufficio funebre più singolare, durato fino agli
ultimi decenni del 1800, si svolgeva a Sulmona il 2 novembre. Lo caratterizzava
una forte commistione di usi pagani e forme cultuali cristiane: “Fecondo di
granati, in questo giorno al sacro Campo dedicato ai Mani si riversava la
città, seguendo la rossa processione, ed ascoltata la messa dei defunti, in
sulle tombe chiassosamente a crapula sedeva. Anzi ab antico con maggior lutto
ed orgie ancor più grandi commemorati eran gli estinti ed una Vergine del
Suffragio, intorno a cui s'arrabattavan anime purganti tra fiamme (anime e
fiamme di cartone), in trionfo la Croce ivi portava, dico la Fratellanza della
Croce, dai funebri lucchetti e bianchi camici”. Processione, messa, sacra
rappresentazione figurata con la Madonna del Suffragio e le anime del
Purgatorio - e, nello stesso scenario, rerum concordia discors, crapula,
chiasso e bicchieri, per la regia della Confraternita della Croce in camici
bianchi.»
Francesco Simonetti, “Sulmona nei riti religiosi”, 1901
La Processione esce dalla chiesa dell’Arciconfraternita della Santissima Trinità su Corso Ovidio, con l’abito a mantellina rossa, il Tronco, ossia la Croce, preceduta da dei volontari che recano una corona da morto per i defunti di Sulmona, nonché dalla Banda civica che intona una marcia funebre, solitamente la celebre Una lacrima sulla tomba di mia madre di A. Vella, utilizzata anche come “introitus” alla Processione del Venerdì Santo. Mentre il campanone del campanile della Santissima Annunziata suona a distesa, una distesa particolare: il tipo di suonata a distesa è chiamato “Caule e pesce” (ossia “a cavoli e pesce”, cioè che il batacchio guizza da una parte e dall’altra con irregolarità) e suonerà ogni sera, fino alla Vigilia di Natale. Il campanone fa’ ascoltare il suo suono alle 19.30 e lo prolungherà per dieci minuti. “Caule e pesce” è un’antica tradizione sulmonese pare risalente ai primi anni del Novecento, citata anche dal poeta citato Simonetti. Il suono del campanone sembra riprodurre, in cantilena, le parole “caule e pesce”, cavoli e pesce, vale a dire il menù, consacrato dalla tradizione gastronomica sulmonese, servito in ogni casa per la cena della sera della Vigilia di Natale. Altri hanno ipotizzato che il campanone rintoccasse irregolarmente per imitare lo “struscio” dondolante dei Confratelli della Trinità durante la processione, altri ancora per ricordare il disastro che il terremoto del 24 novembre 1706 arrecò alla città di Sulmona, riproducendo il movimento ondulante della terra scossa.
Alcune storie da
Gennaro Finamore, con i morti per protagonisti
Nel volumetto edito da
A. Polla, sui Tesori e stregonerie Abruzzesi, elaborato dagli appunti
del Finamore, ci sono diverse storie che hanno a che fare col contatto tra i
vivi e i morti. Nel rione Civitanova di Lanciano, Menca moglie di falegname,
era tentata da uno spirito, che la induceva a prendere delle monete da un tesoro
nascosto, e lei si rifiutava sempre, prendendo delle bastonate e risvegliandosi
coi lividi, finché un giorno non venne ammazzata dai botte. Questo perché lo
spirito, che aveva peccato in vita, era stato punito a fare la guardia al
tesoro, che era invisibile ai vivi, tanto che nello scantinato dove la donna lo
vedeva ogni notte, non si ritrovò nulla. Sempre nel quartiere vi era una
grotta, sorvegliata da uno spirito multiforme, che tentava una donna per
prendere il denaro, che lei però rifiutò sempre. Finché, quando le morì, lasciò
una testimonianza, si andò a cercare nel luogo, ma si rinvenne una lapide con
sotto una conca piena di carbone.
Una leggenda popolare
sulla Possessione delle Streghe
Copertina di Trecce
Nere di D. Ciampoli
Questa tradizione è
riportata da Ciampoli nella sua novella La strega in Trecce nere,
1891, anche da Finamore nelle sue Novelle abruzzesi, da D’Annunzio in un
passo del suo romanzo Il trionfo della morte, 1894, nonché registrata
come testimonianza di un’anziana da E. Giancristofaro, in una sua visita ai
cimiteri, per la puntata delle Storie del silenzio: “Streghe vecchie e nuove
d’Abruzzo”. Anche Luciano Di Corinto, classe 1951 la riporta come testimonianza
orale, accaduta a un suo familiare negli anni ’40. La tradizione comune vuole
che la strega abbia il potere di succhiare l’anima nella notte, e che quindi il
marito deve fare la veglia delle sette notti, ammazzare un cane o un’altra
bestia domestica, e lasciare la carogna sull’uscio di casa, oppure adagiare una
scopa presso l’ingresso, così la strega avrebbe perso tempo a contare tutte le
setole, finché arrivato il giorno, avrebbe dovuto scappare, lasciando in pace
il povero bambino. Il racconto delle due anziane intervistate da Giancristofaro
e quello del Di Corinto coincide con la tradizione, si aggiungono altre prove
sulla veridicità di quanto assunto: un bambino era gravemente malato, non
accettava il latte materno, e smagriva sempre di più, sicché si pensava fosse
affatturato dalla strega. Venne portato in un eremo sulle montagne, e l’eremita
prese il bambino, lo immerse in una polla d’acqua gelida, facendogli un
“secondo battesimo”, lo riconsegnò ai genitori raccomandando delle pratiche da
seguire quella notte stessa: “Sgombrate la stanza da letto, e ponetevi tutti
voi, familiari compresi in cerchio attorno la culla, posizionata al centro
della stanza. Fate la veglia fino a mezzanotte, e per mantenervi svegli,
contate le setole della scopa! Se fate la veglia fino a mezzanotte, la strega
non potrà venire. Guai ad addormentarvi! A mezzanotte verrà la strega
sottoforma di animale nero, e cercherà di succhiare il bambino, allora dovrete
ucciderla, colpendola in mezzo agli occhi con la scopa, essa sparirà da sopra
la culla, e il bambino sarà salvo!”
Così fanno, ma contando
le setole, intrecciandosi per il nervosismo dell’attesa della mezzanotte, tutti
sbagliavano, e si doveva ricominciare daccapo. Dopodiché, stanchi della veglia,
tutti si addormentano, arriva la mezzanotte, la madre mestamente apre un occhio
e si accorge che un gattone nero è sulla culla, con la zampa premuta sul petto
dell’infante e con la coda infilata nella sua bocca, nell’intendo di
soffocarlo! Urla disperata, il marito si sveglia dal torpore, afferra la scopa,
ma la gatta ha guizzi fulminei, scappa per tutta la stanza, e non si fa
prendere. Alla fine la donna, calcolando il percorso giusto verso la culla,
afferra il manico e lo scaravento contro la cervice della gatta, che scompare
all’istante! Il giorno dopo, affacciandosi la madre alla finestra, vede la cara
comare che passeggia sotto il vicolo, con la testa fasciata, le chiede: “cosa
ti è successo?”; e lei risponde: “Tu lo sai bene! Ma così facendo mi hai
salvato!”
Un antico affresco
nella cripta del Monte dei Morti di Castel Frentano
Le chiese abruzzesi
sono piene di dipinti e affreschi che hanno per tema l’Incontro dei Vivi e dei
Morti, come nel caso del Duomo di Atri, o dell’affresco perduto nella chiesa di
Santa Maria in Piano di Loreto Aprutino, o della chiesa del Monte dei Morti di
Pescocostanzo, ecc. Un antico affresco, oggi ignoto agli studi, si trova in
Castel Frentano, nella cripta vecchia della chiesa del Monte dei Morti, antico
cimitero del paese, che oggi funge da succorpo all’arco della “sala Santo
Stefano”, tamponato alla fine del XVIII secolo quando sopra vi venne costruita
la nuova chiesa parrocchiale. Un caso raro nella provincia di Chieti, ossia
quello dell’arco aperto, carrabile, collegato alle antiche mura di via
Torrione, simile all’arco di Via Cavalieri del Duomo di Guardiagrele.
L’affresco in questione della metà del XVII secolo, è quello del Cupo Mietitore
con la falce, e il libro con un passo dell’Apocalisse di Giovanni apostolo;
nella controfacciata ci sono altri lacerti di affreschi, gli alberi del
Giardino dell’Eden; e probabilmente le pareti che ne erano pienamente
rivestite, dovevano avere altre scene simboliche che avessero per tema il
Mistero della Morte, della Resurrezione, della Vita Eterna. Purtroppo, a causa
dell’incuria, e dell’uso della chiesa come ossario dei morti (sotto il
pavimento sono scavati due grandi cameroni pieni di terra e di ossa), questi
affreschi sono caduti, anche i lacerti rimasti del Cupo Mietitore sono in
cattivo stato, e rischiano di scomparire per sempre. La chiesa è a navata unica,
con volta a botte, e una cappella sulla destra, anticamente chiusa da due ante,
di cui sono visibili i cardini sugli stipiti, utilizzata per l’Ufficio dei
Morti. Nella metà dell’700 la nuova e più ampia chiesa venne eretta, inglobando
la vecchia e piccola cripta, che venne dimenticata.
La Chiesa del Sacro Monte dei Morti e del Purgatorio a Castel Frentano risale al XVI secolo. Censita tale Confraternita nel 1719, fu riconosciuta Regia Arciconfraternita nel 1802,. Aveva il compito di dare sepoltura cristiana ai Morti, nella chiesa del cimitero presso la parrocchia di Santo Stefano, e nelle altre chiese del paese. Una prima costruzione risale al 1663, chiesetta nata dopo la terribile epidemia di peste del 1656. Nel 1663 fu fondata con uno Statuto specifico. Procuratore fu nel 1719 don Berardino Di Lauro, nel 1745 fu procuratore Luigi Crognale.
Nella
nuova chiesa ottocentesca vediamo tre dipinti di Giuliano Crognale, pittore
locale, uno dedicato alla Madonna del Suffragio o del Purgatorio, in omaggio
alla Confraternita come quadro antico da esporre in occasione della ricorrenza
del Suffragio, un altro della Madonna tra le Anime purganti, avvolte dalle
fiamme, e un ultimo interessante che ha per tema la Morte: al centro vi è una
piramide, con appena visibile, una copia della Pietà di Michelangelo, ai lati
due angeli piangenti, uno dei quali ha una fiaccola capovolta, simbolo
massonico della vita che termina; in basso al centro il Teschio d’Adamo. E’ uno
dei pochi dipinti abruzzesi d’ispirazione massonica che hanno per tema la
Morte; insieme al bassorilievo del duchino M. Bassi d’Alanno nella chiesa di
San Giovanni dei Cappuccini di Chieti, che mostra un puttino alato piangente,
con una fiaccola capovolta, rivolto alla lapide sepolcrale con l’iscrizione.
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